‹‹Detto in maniera più critica, è tempo di mettere in discussione il tipo di civiltà in cui gli esseri umani vogliono vivere›› (p. 167): questo è uno dei periodi conclusivi de La sfida del cambiamento climatico. Globalizzazione e Antropocene, una raccolta di saggi e interviste di Dipesh Chakrabarty pubblicata da Ombre Corte (Febbraio 2021), con prefazione e curatela di Girolamo De Michele. Il volume comprende testi scritti e rilasciati tra il 2012 e del 2020, periodo in cui lo storico indiano ha dato un contributo fondamentale nel problematizzare la questione dell’Antropocene attraverso un una prospettiva originale che connette dati scientifici, aspetti storici e implicazioni filosofiche. Il valore dell’opera di Chakrabarty - fin dal capolavoro Provincializing Europe (2000), per arrivare al celebre articolo sul concetto di Antropocene The Climate of History del 2008 - consiste non solo nell’interdisciplinarietà della sua analisi, ma nella messa in evidenza di una commistione di fondo che soggiace ai fenomeni, naturali e sociali che siano, e alle loro cause. Tale mescolanza impossibilita, secondo Chakrabarty, l’incanalamento per vie epistemologiche univoche, conchiuse e che difendono la primalità della propria indagine a rispetto alle altre. Bisogna stare all’altezza del fenomeno, preservare la complessità di ciò che si intende analizzare. Nel caso specifico, secondo Chakrabarty, si tratta di non ridurre lo studio dell’Antropocene né a una mera critica del capitalismo, né di circoscrivere il problema in una dimensione puramente tecnico-scientifica. Attenzione, non si tratta di eludere questi due aspetti. Chakrabarty evidenzia spesso la rilevanza che queste prospettive possiedono nel tentativo di ricostruire un quadro complessivo e quanto più possibile esaustivo dell’Antropocene. Anzi, secondo Chakrabraty tutti i fenomeni che costellano il contemporaneo – dalla deforestazione, all’industrializzazione al consumo di combustibili fossili - appartengono, per esempio, alla storia del capitalismo. Non si può negare questo. Molto più semplicemente si tratta di non rivendicare nessun primato, nessuna assolutezza rispetto a quelli che possono essere altri contributi, appartenenti a prospettive e discipline differenti, che permettano di illuminare il fenomeno nella totalità delle sue sfaccettature e implicazioni. Quando si studiano eventi e fenomeni globali quali possono essere il cambiamento climatico o la globalizzazione, la settorializzazione delle discipline in ambiti circoscritti diventa un limite nonché un rischio. Conviene approfondire questo punto e mostrare come Chakrabarty motivi i suoi dubbi rispetto a certe tendenze delimitanti.
Esattamente all’interno di quest’ambito di delimitazione epistemologica si consuma il folto, talvolta esasperato, dibattito sul nome Antropocene. La ragione per cui si discuta tutt’oggi sulla validità o meno di tale denominazione deriva dal fatto che, alla base delle diverse articolazioni o dei diversi mutamenti del nome, soggiace un concetto di Antropocene completamente diverso, da prospettiva a prospettiva. Non sono pochi coloro che mettono in discussione il neologismo in virtù della sua derivazione dal nome greco anthropos, che da un lato indurrebbe a credere che ogni uomo, povero o ricco, sia responsabile dei disastri ambientali, dall’altro consoliderebbe un’ennesima prospettiva di antropocentrismo che non sarebbe in grado di tenere conto delle ripercussioni che l’Antropocene ha su altre forme di vita. D’altra parte, molti climatologici, afferma Chakrabarty, ritengono che il termine Antropocene si possa utilizzare unicamente in ambito tecnico e sconsigliano categoricamente il suo utilizzo all’interno delle scienze sociali. Il nucleo di questa richiesta di divieto consiste nella necessità di preservare un evento di natura strettamente geologica da un suo utilizzo e da un suo ri-maneggiamento a supporto delle finalità critiche più disparate. Contrapposti a tale filone, si collocano coloro che avvertono la necessità di estirpare l’Antropocene da una circoscrizione tecnico-scientifica manifestando l’urgenza di porlo al centro del dibattito pubblico e politico. All’interno di questa prospettiva, distanziare eccessivamente la questione Antropocene dalla comunità vivente dell’oggi rischia di portare ad un’atrofia politica che non può che ostacolare il germogliare di un senso comune, di un dialogo pubblico e quindi di una risposta politica globale, tutte dinamiche che richiedono di essere attivata al più presto. Prima di mostrare come Chakrabarty si posizionerà tra queste tendenze apparentemente opposte, è necessario integrare un altro approccio centrale nel dibattito in questione, quella di Jason Moore. La proposta di Moore (cfr. 2017) presenta come nucleo centrale un importante cambio di paradigma. Nella sua prospettiva, se si vuole rendere la riflessione antropocenica produttiva e consistente, non si può omettere la considerazione che la storia attraverso cui l’uomo sia diventato una forza geologica – cioè il percorso attraverso cui l’essere umano è diventato detentore di una consistente capacità di modificare e incidere sulla salute del pianeta – non sia altro che la storia del capitalismo. L’idea di Moore in realtà è più complessa, presenta degli spunti molto interessanti, tra cui l’idea che la natura, all’interno della storia del capitale, non sia considerabile come oggetto, come indipendente dal capitale stesso. Il capitalismo non è altro che una delle combinazioni dei possibili rapporti che sussistono tra umani e natura, è un dispositivo esperienziale e relazionale che si articola e dispiega storicamente secondo modalità differenti. Tuttavia, tutto questo non comporta mai, come nota De Michele nella prefazione, un livellamento totale del naturale al culturale. Questo tentativo di produzione, modificazione, sopraffazione della natura provoca uno schianto, uno scontro frontale con una dimensione che si rivela irriducibile e che rimane. Questo comporta un risultato inaspettato. Non è solo il capitalismo a modellare la natura, ma è anche la natura, in virtù della sua eccedenza e residualità, a rendere necessaria una trasformazione periodica del capitale. Sulla scorta di tutto ciò, si comprenderà meglio perché Moore al concetto di Antropocene preferisce quello di Capitolocene, da concepire attraverso ‹‹un ripensamento del capitalismo all’interno della rete della vita›› (Moore 2017, p. 31). I fattori antropocenici che hanno contribuito al riscaldamento globale sono tutti determinati dall’impeto capitalistico eurocentrico, che secondo Moore affonda le proprie radici nel 1500, in un’epoca pre-capitalistica in cui sono in gestazione ambizioni e politiche di industrializzazioni colonizzatrici. Fissare come punto di partenza l’anthropos, l’uomo neutro e indifferenziato in quanto specie, rischia di offuscare tutte le violenze, i rapporti di potere e produzione, le disuguaglianze che sono alla base della fondazione – e ora della distruzione – del mondo moderno. (Moore 2017, pp. 37-38).
Secondo Chakrabarty, il limite della prospettiva di Moore consiste nel fatto che, impostato così il problema, l’Antropocene possa essere ritenuto un fenomeno riducibile non solo a ciò che si è consumato negli ultimi cinquecento anni di storia ma, soprattutto, ciò vorrebbe dire che l’Antropocene sia un evento che riguarda, coinvolge, interessa solamente gli esseri umani. Bisogna difendere con fermezza l’idea che ‹‹la storia umana non può più essere raccontata dalla prospettiva dei soli cinquecento anni (al più) del capitalismo›› (p. 141), questo non significa assolutamente eliminare la storia del capitalismo ma, come si diceva pocanzi, tenere conto che ‹‹possiamo considerare noi stessi e la storia umana da molte prospettive contemporaneamente›› (p. 142). L’Antropocene costringe a un’apertura storica su scala geologica in cui è necessario ripensare la nozione e il ruolo dell’umano. Se l’uomo, a partire dalla fine del 18esimo secolo, ha assunto una portata sempre più massiccia nell’influenzare il clima del pianeta, ciò significa che egli è divenuto co-detentore di un potere che in passato apparteneva unicamente alle forze geologiche. Qui si instaura la possibilità di ripensare il ruolo che l’uomo ha all’interno della natura, di sviluppare un discorso ecologico e filosofico sulla statuto della soggettività e sui modelli di razionalità da adottare o rigettare.
Questa modalità di esistenza simile a una forza, non umana, dell’essere umano ci dice che non siamo semplicemente una forma di vita cui è stato donato un senso dell’ontologia. […] Ma nel diventare una forza geologica fisica nel pianeta, abbiamo anche sviluppato una forma di esistenza collettiva che non ha alcuna dimensione ontologica. Abbiamo bisogno di modi non ontologici di pensare l’umano. (p. 52)
Si noti la differenza con l’impostazione di Moore. L’Antropocene invece di essere riletto alla luce di un Capitolocene, è l’occasione – o meglio – pone l’urgenza di ri-mettere sul tavolo una delle questioni centrali dell’antropologia filosofica: il rapporto soggetto-oggetto e quindi di cultura-natura. L’uomo è diventato forza geologica ma la forza geologica, scrive Chakrabarty attraverso Latour (cfr. Latour 2008), ‹‹non è né un soggetto né un oggetto›› (p. 52). Il punto centrale è che, se si sostiene che gli esseri umani stiano fungendo da forza geofisica, si deve accettare di star paragonando ‹‹gli esseri umani a un agente non umano, non vivente›› (p. 50). L’umano si intinge di un’inedita contraddittorietà che lo scinde: ‹‹l’essere umano e l’umano non umano›› (ibidem). Le ripercussioni sono innumerevoli, una delle più evidenti consiste nella necessità di elaborare un nuovo tipo di storia. Se l’uomo è arrivato a esercitare un ruolo nella storia geologica del mondo, ciò significa che quella in cui siamo immersi ‹‹non è più né storia strettamente “naturale” né strettamente “umana”›› (p. 48). L’uomo è diventato protagonista della natura e questo non può che richiedere un ripensamento delle principali categorie con le quali si è tematizzato il suo rapporto con il mondo, una decostruzione critica della dicotomia tra storia naturale e storia umana è quanto mai necessaria.
La parete divisoria fra storia naturale e storia umana che era stata eretta nella prima età moderna e rinforzata nel diciannovesimo secolo, quando le scienze e le discipline degli esseri umani erano consolidate, si è incrinata in modo serio e permanente (p. 48).
La proposta di Chakrabarty consiste nel tentativo di tenere insieme due dimensioni dell’umano che troppo si tende a ritenere come inconciliabili: l’uomo in quanto homo (soggetto politico) e l’uomo in quanto anthropos (forza geologica). Solo attraverso l’accettazione di questo paradigma contradditorio si può evitare l’homocentrismo antropocenico, che consiste nel non tenere conto che l’Antropocene ha ripercussioni sul mondo inanimato, colpisce e riguarda le altre forme di vita, l’esistenza geologica del pianeta in quanto tale. Ecco perché non è un fenomeno unicamente riconducibile alla sfera politica, all’ambito di un’etica globale. Non c’è di mezzo solo l’uomo in quanto uomo, ma dell’uomo in quanto specie, in quanto non solo umano. Per questo motivo è necessario stare attenti, dice Chakrabarty, a fondare la coscienza epocale sulla ragione, come ha fatto Jaspers. Il rischio è quello di partire con mezzo piede nell’homocentrismo, rischiare di disperdere il punto di partenza del discorso: l’Antropocene non è semplicemente un capitolo della storia umana, coinvolge l’inumano. Non a caso lo storico indiano fa riferimento ai wicked problems, ovvero a una tipologia di problemi di varia natura disciplinare che possono essere determinati ma di cui non si può dare una soluzione univoca, completa ed esaustiva. In questo contesto Chakrabarty si avvale di Heidegger, autore che sembrerebbe distante anni luce dalla sua prospettiva. L’Analitica Esistenziale, lo statuto ontologico privilegiato in cui è situato l’Esserci, ostacola la possibilità di imbastire un dialogo autentico con il mondo naturale, in particolar modo con quello animale. Nonostante questo, il riferimento ad Heidegger c’è ed è centrale. La nozione di Grundstimmung, di uno stato d’animo che sta alla base, è ciò attraverso cui si può instaurare un nesso proficuo e sincero tra homocentrismo e zoecentrismo. Lo stare al mondo significa di per sé essere collocato in un Ci, in un luogo di per sé attinto da una connotazione emotiva; è recuperando il senso, la concretezza di tale stato d’animo che il mondo si dischiude più agevolmente e l’Esserci recupera il senso proprio Ci. Come nota Chakrabarty, la conoscenza per Heidegger non ha luogo, solamente lo stato emotivo coinvolge lo spazio (pp. 109-111). Nel Ci dell’Esserci risiede la fusione originaria tra l’appartenenza dell’uomo al mondo e la tonalità emotiva dell’esser-situato. Per consolidare un tale riconoscimento è necessario incentivare la maturazione di quello che De Michele definisce ‹‹sguardo strabico›› (p. 22), un dispositivo di visioni in grado di saper cogliere la differenza e la connessione tra umano e naturale, tentando da un lato di smuovere le tematizzazioni dicotomizzanti con le quali ci si è abitualmente relazionati alla natura, dall’altro mantenendo una rigida manutenzione dell’alterità naturale, di cui però dobbiamo riconoscere di far parte. Si tratta di interrompere ogni brama sintetizzante e di vivere nella contraddizione di questa condizione.
La possibilità di prelevare l’uomo dalla storia degli sviluppi geofisici è terminata. Se fino a pochi secoli fa gli eventi e i cambiamenti terrestri – come oggi la pandemia – erano pensati come uno sfondo, come anomalie separabili dal raggio d’azione umana, oggi ‹‹siamo diventati consapevoli che lo sfondo non è più solo uno sfondo›› (p. 105), ci siamo resi conto di essere diventati parte di qualcosa che abbiamo tradizionalmente concepito come un oggetto a noi esterno. Se oggi lo sviluppo della tecnologizzazione tende a essere definito come un prolungamento della natura e dei suoi limiti, bisognerà interrogarsi sulla rilevanza estensiva che esercita l’uomo nel mondo in quanto forza geologica. Non deve stupire che per Chakrabarty la pandemia COVID-19 ‹‹rappresenta anche un momento nella storia della vita biologica di questo pianeta in cui gli esseri umani hanno agito da amplificatori di un virus il cui serbatoio ospite potrebbero essere stato alcuni pipistrelli in Cina per milioni di anni›› (p. 165). Ogni fenomeno ambientale non è relegabile a una storia globale, questo è il punto. Rendendo necessaria l’introduzione di criteri, confronti e relazioni tra vita umana e inumana, tra vivente e mondo, tra storia naturale e storia umana, l’Antropocene richiede nuove modi di porsi domande, nuove modalità d’esperienza e di istituzione.
Ma al tempo stesso la crisi del cambiamento climatico, gettandoci nelle linee temporali della vita inumana e della geologia, ci sottrae anche all’homocentrismo che ci divide. […] Le nostre storie politiche continueranno a dividerci mentre ci facciamo strada attraverso questa crisi: ma dobbiamo pensare queste storie politiche divise non semplicemente nel contesto della storia del capitalismo, ma nel quadro molto più generale della storia evoluzionistica. Possiamo seguire Lovelock e chiederci: riusciranno gli esseri umani, anche dentro e attraverso i loro conflitti e le loro differenze, a riconoscere “i bisogni della Terra anche se il [loro] tempo di risposta è lento?” Questa rimane la questione critica per il futuro. (p. 112)
di Carlo Facente