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Nella metro berlinese si aggira uno spettro, che sussurra: Ich bin, was ich höre.

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Orecchiare. Alla ricerca di un corpo: le sirene
Orecchiare. Alla ricerca di un corpo: le sirene
Pubblicità di Audible Deutschland, 2009

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La fisiognomica della bambina ci illumina su quel che accade: «Sorriso autoprofetico, come tutti i segnali pubblicitari: sorridete, vi si sorriderà. Sorridete per mostrare la vostra trasparenza, il vostro candore. Sorridete se non avete niente da dire, soprattutto non nascondete il fatto che non avete niente da dire, o che gli altri vi sono indifferenti. Lasciate trasparire spontaneamente questo vuoto, questa indifferenza profonda nel vostro sorriso, fate dono agli altri di questo vuoto e di questa indifferenza, illuminate il vostro volto del grado zero della gioia e del piacere, sorridete, sorridete...» (J. Baudrillard, America)

Il grado zero di questa bambina è la sua insoddisfazione, da qui inizia il messaggio. Il suo vuoto prima di capire che ella può ambire a tanto – cioè a poco. Il suo sorriso ambiguo, leonardesco ci dice che lei sente di avere la possibilità di oltrepassare la sua accidia semplicemente mettendosi le cuffie. Ma il rapporto che lei ha con le sue cuffie non è solo, quindi, quello che un umano ha con la (sua) macchina. La macchina risponde esattamente al «sostentamento» della bambina, la macchina la ascolta – gli altri, le non-macchine, no. Io sono quello che ascolto perché quello che mi permette di ascoltare, a sua volta, è poroso. Io sono (anche) la macchina che mi isola – che suggella il mio isolamento e lo certifica ufficialmente. Tutti vedranno in tal modo che «io voglio isolarmi». Ma qui non è suggerito solo questo: il legame così forte che ha la musica con il sorriso, con l’emozione è, per l’appunto, qualcosa di talmente banale da risultare infantile. Date a vostra figlia le sue cuffie, lei sorriderà. In tal modo avrà la possibilità di ascoltare senza farsi ascoltare. Vi è un qualcosa di arcaico, di sinuoso, nel legame che si ha con la propria musica. Questo legame originario – che andremo ad investigare – va a cozzare contro la visualizzazione della sensazione musicale (sorridere per quello che si ascolta), con il tentativo di trasformare anche l’ineffabile musica in un dattiloscritto. La bambina sembra un contenitore, un vaso che viene riempito dalla musica. Cosa si aspetta? Lei aspetta di essere cantata.


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Peter Sloterdijk si è concentrato a lungo sul tema dell’ascolto e della costituzione della soggettività. Nel primo volume della sua microsferologia, Sloterdijk riprende le ricerche psicoacustiche di Alfred Tomatis. Se la ricerca di Sloterdijk è una genealogia della nozione di intimità, la chiave di volta è sicuramente il cosiddetto stadio delle sirene.

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Orecchiare. Alla ricerca di un corpo: le sirene

La storia occidentale potrebbe essere interpretata come un percorso verso la defascinazione.  Da quando Odisseo ha deciso di farsi legare dai suoi compagni per resistere al canto mortale delle sirene, si è costituita implicitamente un’equivalenza di carattere ontologico: solo chi resiste, chi sviluppa «una relazione non-commossa con le prestazioni retoriche e musicali che fanno appello al suo accordo” sarà degno della vita: «essere soggetto vuol dire soprattutto: poter, in primo luogo e più spesso, resistere alle immagini, ai testi, ai discorsi e alle musiche che si incontrano».

Nel condotto acustico si insinua il canto delle sirene. Qual è il legame tra questo suono e la morte? Come ricorda Sloterdijk, sembra strano che la questione del come si muoia ascoltando le sirene non sia mai stata discussa, come se fosse un dato di fatto il legame tra questo canto e la necessità di morire. Ciò che sconvolge l’equilibrio psico-fisico del viaggiatore è che le sirene non cantano qualcosa dal loro repertorio: esse si adattano perfettamente a quello che il viaggiatore vuole ascoltare. «Il loro segreto è di cantare esattamente i canti nei quali l’orecchio del viaggiatore in transito desidera precipitarsi. Ascoltare le sirene significa, di conseguenza, essere entrato nello spazio centrale di una tonalità che ci chiama internamente e, ormai, voler rimanere nella fonte emozionale di questo suono di cui non si può fare a meno».

Forse dovremmo immaginare il loro canto come un lento silenzio. Nel Silenzio delle sirene, Kafka ribalta completamente la descrizione di Omero. Addirittura, Kafka sembra commettere un errore grossolano nell’associare lo stratagemma della cera anche a Odisseo, che proprio alla cera ha rinunciato per poter ascoltare liberamente il canto delle sirene. Omero, d’altronde non si dilunga sul messaggio delle sirene. Come potrebbe, d’altronde, se nessun uomo gli è mai sopravvissuto? Le sirene sono un’entità metapoetica, sono più grandi di Omero, di Ulisse, della storia. Ecco allora che Kafka racconta che la verità è inenarrabile, che quello che deve essere veramente successo è un grande inganno, un’invenzione di Odisseo, un’escogitazione. 

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Di cosa vorrebbe sentire parlare un viaggiatore, che non sa ancora quando farà rientro a casa, se non del suo interminabile viaggio, delle sofferenze che lo hanno condotto fin là? Ogni uomo vuole diventare una canzone che abbia sé al centro. Sentire delle voci che ci cantano significa che la nostra vita è finalmente «diventata un argomento di conversazione alla tavola degli dei». Ecco spiegata l’inesorabilità delle sirene: esse sono quel dispositivo che ci isola in noi stessi. Il risultato è il tramortimento, l’essere imbevuto di sé. L’atto delle sirene è un richiamare l’animo all’intonazione, un accordarsi inconscio che non è possibile evitare poiché si tratta di un solco preesistente, un cammino percorribile perché già percorso in precedenza. Ma in che tempo si è svolta questa alleanza inconscia?


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Accordo, armonia: l’origine della musica ha una sfumatura politica, relazionale. Sin da Esiodo, il canto poetico si è posto tra l’uomo e il divino, e ogni aedo che desiderasse iniziare un racconto si riferiva alle Muse. Esse si invocano perché sono foriere di garanzia di verità. Non è pensabile un’arte della parola che abbia una certa rilevanza senza un accompagnamento musicale; in tal senso, anche il termine «accompagnamento» risulta inesatto: in quanto cantata, tutta la poesia greca del periodo arcaico e classico è fatta di musica.

«Risulta di qui che chi dice che dal movimento degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e questi suoni sono consonanti, dice certamente con singolare eleganza, ma non dice il vero. C’è infatti chi crede che, movendosi corpi così grandi, ne nasce un suono, perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che sono quaggiù, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può, dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta velocità. Così essi credono, e che i rapporti della velocità degli astri in relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò dicono che è armonico il suono degli astri rotanti. Poi a giustificare il fatto che questo suono noi non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò che esso c’è sempre dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e quindi non possiamo distinguerlo ché suono e silenzio si discernono appunto perché sono in contrasto […]». Aristotele, De Cælo.

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Il piacere, nell’ascoltarla, non è altro che l’indice della facilità con cui la musica penetra in noi, oltrepassando ogni sorta di difesa. Per questa ragione essa veicola, ed è la parola che si piega alla musica, che diviene ritmata per assecondarla. Unificazione, congiungimento: l’anima è in sé armonia, essa contiene già in sé la possibilità di un ricongiungimento con quello che è armonico fuori di lei. Il cosmo è armonico, come l’anima; l’anima partecipa dell’armonia del cosmo tramite la musica. Perciò la musica ha potere taumaturgico, essa rappacifica l’anima che finalmente si ricongiunge con il posto che le spetta.

Platone testimonia il terrore di una musica non accompagnante ma dominante, quando nella Repubblica (400d-e) propugna, per l’educazione dei giovani, solo quella musica che segua il buon discorso – poiché un buon discorso viene solo da una buona anima. «Tra filosofia e musica esiste un disaccordo antico», ma è anche vero che la musica più alta, per Platone, non ha niente da invidiare alla filosofia. Non è un caso che, nel Fedone, Socrate dica di essere stato visitato tante volte dallo stesso sogno, che gli suggeriva di comporre musica. Eppure, Platone si riferisce alla musica astratta, spogliata da ogni arbitrarietà e velleità – non quindi a quella realizzata praticamente dagli strumentisti. 

Il timore di Platone per una musica ricca di particolarità e casistiche, di una musica non prevedibile e incontrollata, - che è lo stesso timore che egli aveva verso la parola deformata dei/dai Sofisti – prende la forma delle ingannatrici Sirene; tramite esse, la musica paventa un lato sinistro e pericoloso, proprio in forza della sua pervasività. Poiché dopotutto, le Sirene sono onniscienti, proprio come le Muse, e promettono al viaggiatore una verità assoluta. Le Metamorfosi (v, 294-331; 662-678) narrano persino della vendetta delle Muse a discapito di nove fanciulle che avevano tentato di imitarle: queste vengono trasformate in gazze (le Sirene, secondo alcune mitologie, sono presentate anche come esseri alati). Orfeo, figlio di Calliope, riesce a sovrastare con la sua lira il suono del canto delle Sirene, salvando gli Argonauti (gli unici ad essere scampati, insieme ad Odisseo, al sortilegio). La dialettica tra Muse e Sirene, tra verità e illusione, pervade tutta la storia dell’uomo. Se vi era stato, a partire da Aristosseno, un tentativo costante di far collimare la musica al problema etico, era perché si scorgeva quella che era la voragine verso la quale il reale può scivolare. Se Platone ammonisce i poeti che «soggiacendo ai gusti della folla, divengono maestri di disordinate trasgressioni, ispirandosi, come baccanti, più del dovuto al piacere» (Leggi 700d) è perché questo dovuto non lo è per tutti.

Orecchiare. Alla ricerca di un corpo: le sirene

Le orecchie sono bersagli facili, e non offrono alcun riparo naturale all’uomo. Ecco che Cristo assume spesso proprio le forme di Orfeo, poiché le Sirene rimangono le devianti, quelle che l’uomo deve rifiutare categoricamente perché lo distolgono dal sentiero della virtù. La seduzione del demonio è rappresentata, nelle miniature medievali come un’invasione sonora. Poiché, «il demoniaco non esiste fuori di noi. Se esiste è in noi» (Enrico Castelli, 1952). Ancora una corrispondenza, dunque, tra ciò che è fuori e quello che risiede internamente. Dopotutto, «se il demoniaco fosse una sorpresa assoluta, sarebbe invincibile. L’urto travolgerebbe». Ma non lo è, esso fa leva sulla curiositas, su un deposito nell’animo, che va solo sospinto. 

Il male nella concezione medievale non è altro che la perdita di questa distinzione, poiché «l’impeto demoniaco ha scisso.” Il cerchio e la scissione: le Sirene portano alla circolarità originaria (Sloterdijk), ad un’orbita che ricongiunge (solo) a se stessi, ma è una circolarità fittizia, cosparsa di frammenti, di particolarità. Si perde l’unità poiché se ne perde il controllo. 

Così, io non sono quello che ascolto. Voglio, al contrario, che quello che ascolto sia l’io. Che quello che io ascolto, cioè, comprenda già quello che in me è celato, che mi aiuti a ricongiungermi con questa parte. Ecco che la bambina ci sorride ancora: 

«Specchio deformante, schermo mutevole di ogni possibile metamorfosi, folgorazione, esse parlano di morte ad una civiltà che non vuole parlarne […]. Perciò ogni loro fulminea comparsa sonora comporta una vaga premonizione, un sentore di minaccia, provocando in noi quell’emozione intramontabile e universale che fa liberare sostanze chimiche e accelerare i battiti del cuore. Reazione del cervello limbico e, forse, di quello rettiliano. Risposte del nostro proprio ibrido interno. Inquietudine sommersa, rivoli di insicurezza che si infiltrano, devastanti» (Meri Lao, 2000). Siamo ancora tra le Sirene. Il nostro mondo è essenzialmente uno spazio ritagliato tra le Sirene degli altri. Quelle che sanciscono la proprietà – la propria ietà– di ciascuno, che sanciscono i limiti e i confini che non riusciremmo ad indicare altrimenti.

di Artin Bassiri Tabrizi

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