Abbandonando il parcheggio antistante la stazione e inoltrandoci lungo via Fossata, una strada secondaria che lambisce Parco Sempione, il nostro sguardo è subito attratto dalle recinzioni in lamiera che lo costeggiano. Sono alte e pitturate di verde come se si volesse mimetizzarle col prato allo scopo di tenere lontano gli sguardi indiscreti. L'effetto che in realtà suscitano in noi è quello contrario, cioè di accrescere la curiosità verso ciò che le recinzioni vorrebbero nascondere. Arrampicandoci su di esse possiamo scorgere un deserto popolato di polvere e ruspe, dove qualche sparuto operaio appare come una piccola formica all’orizzonte; nel mezzo di una pozzanghera si specchia qualche nube trasportata dal vento veloce. Una desolazione, questa, che scaturisce proprio dalla forza centrifuga emanata dalla stazione, suo epicentro.
Come la storia insegna sin dai tempi in cui Haussmann copriva i mastodontici cantieri dei boulevards parigini con enormi quinte teatrali, l'occlusione dello sguardo è uno strumento dalla tripla valenza: pratica, simbolica e epistemologica. Pratica perché impedisce l'accesso ai vari mezzi e beni di cui un cantiere è ricco; simbolica perché vela il lasso di tempo tra ciò che c'era e il nuovo, conferendo a quest'ultimo un carattere spettacolare; epistemologica perché cela di questo periodo i reali processi e orientamenti nella produzione dello spazio.
Ciò che invece è chiaro, ora, è che all’abituale frequentatore del parco non rimane che poter scegliere tra le tante panchine in fila che guardano il limitato orizzonte verde.
A ogni occlusione dello sguardo è correlata una privazione dello spazio, sia immaginifico che fisico. Del vasto parco di quartiere non rimane, infatti, che un modesto residuo tra Corso Grosseto e via Fossata, dove ancora qualcuno passa la domenica insieme a grigliare. Ma si può notare, un centinaio di metri più avanti, un perimetro recintato per l'ora d'aria dei cani, segno di una progressiva divisione per attività e tipi sociali degli spazi aperti. Solo in quest'area, infatti, è possibile tenere il proprio animale senza guinzaglio, diretta conseguenza della riduzione di spazi in città a cui ha accesso la popolazione. Ed è proprio il guinzaglio a essere il motivo scatenante di una lite tra una ragazza con il cane e un anziano signore che si accingeva ad accedere nell'area riservata.
«Scusi, leghi il cane che sto passando.»
«Ma qui è l'unico posto in cui posso lasciarlo andare tranquillo.»
«Sì, ma io ho paura perché tutti questi cani sono aggressivi!»
«E allora passi da un'altra parte, per favore...»
«Non ci penso neanche, non vede che giro lungo dovrei fare? Ho il diritto di passare qua o vuole che chiami la polizia? Perché sa, i cani aggressivi vanno tenuti al guinzaglio!»
«Ma quale polizia, io gliel'ho chiesto per favore visto che qua li stiamo addestrando!»
«Addestrarli? Ma cosa crede che i cani nascano cattivi? Siete voi padroni a farli diventare cattivi!»
«Ma guardi che questi cani sono del canile e noi li stiamo aiutando!»
Un confronto concitato sull'utilizzo possibile, legittimo o legale dello spazio urbano non può purtroppo essere circoscritto a un libero accordo interpersonale e questo dialogo ne è un buon esempio. Ogni frase richiama a una costrizione passata, presente o futura: i cani sono violenti perché vengono dal canile; le persone non possono attraversare liberamente gli spazi perché per ognuno è previsto un utilizzo regolamentato; i conflitti non si possono risolvere se non con la minaccia di un prossimo intervento della polizia.
La situazione da questo limitato punto di vista comprenderebbe lunghissime indagini sulla natura e sulla genealogia del male, sull’interpretazione del diritto civile in merito al conflitto tra legittimi interessi, sulla questione se la polizia sia garante della legge oppure con la sua presenza si trasformi in costante creatrice di essa. Sarebbe, nei confini recintati di questo parco devastato, impossibile decretare chi dei due abbia ragione.
Probabilmente il punto stesso di questa discussione, va ricercata nel senso di “cattività” che emana questo luogo. Una “cattività” feroce che, come le gabbie del canile, trasforma la natura in violenza. È forse questo il senso delle scritte che campeggiano sulle lamiere del cantiere?