“Tuuuuuu-tuh-tuh” è il rumore fastidioso e frequente di una stazione deserta nella periferia torinese. È il rumore fastidioso che si è sostituito al fischio dei treni. Esso proviene, invece, dai moderni altoparlanti, di quelli che danno le informazioni sulle partenze e gli arrivi. Questo suono, ripetendosi alla frequenza esatta di tre minuti e con un timbro studiato da un équipe skinneriana – molto simile allo schiocco che produce un cavo audio quando viene tranciato – impedisce a chiunque di riposarsi.
Nelle stazioni delle città, da che esistono, hanno dormito viaggiatori in attesa di una nuova direzione, ma soprattutto coloro che ogni notte ci hanno trovato un tetto e un riparo. Ma le stazioni non sono più quelle tettoie liberty che all’inizio del Novecento accoglievano statiche arrivi, partenze, o chi – con l’occhio dello theorein che ha alimentato il positivismo tecnologico – guardava meravigliato i mostri fumanti allontanarsi dalla metropoli.
Questo posto in cui siamo seduti, questa confezione sotterrata in cui siamo inscatolati, non ci fa capire dove siamo. Da queste viscere in acciaio, che qualcuno ha chiamato Stazione Rebaudengo Fossata, non si vede fuori e anche il treno sparisce veloce nel buio. All'occhio contemplante, la pia illusione del soggetto moderno si è sostituito questo ambiente, ultima avanguardia del comportamentismo dove lo stillicidio sonoro, quasi una tortura cinese, è complementare alle panchine, sezionate in seggiole singole tramite sbarre di ferro, di modo che nessuno riesca a sdraiarsi.
In pochi sono scesi, qualche pendolare della linea Pinerolo-Chivasso, ma tutti si allontanano veloci verso le uscite parlando al telefono. Verrebbe da pensare sia una conseguenza meccanica all'inquietudine emanata da questo posto, alla solitudine forzata di questi ambienti automatizzati. Qualcuno, però, ha interpretato diversamente le possibilità offerte da una struttura come questa, lasciata per ora al controllo remoto: tre ragazzetti si divertono scivolando lungo il passamano delle scale, facendo risuonare le risate catartiche del doposcuola insieme a quel suono metallico che non smette mai di ripetersi sopra le nostre teste. Uso “improprio” dello spazio direbbero i professionisti del controllo sociale. Per noi, invece, la prima boccata d'aria; un'esigenza indispensabile che aumenta nel percorso a ritroso verso l'uscita, segnato dal grigio delle pareti prefabbricate, dagli schermi e dalle telecamere, tante telecamere.
La stazione non è più il luogo delle masse. Dove all’arrivo della locomotiva seguiva il bagno di folla, l’oggetto perturbante di tutta la letteratura moderna. Questa stazione è un mero spazio di passaggio che, nell’attesa di un flusso di persone che lo attraversi, mostra nella sua nudità il dispositivo elettronico di sorveglianza. Ultimo baluardo in fatto di soggettivazione e atomizzazione, le telecamere sono sei per ogni scala mobile, quattro per entrata, a garantire che il nulla rimanga tale.
Raggiunta l’uscita si nota la costruzione esterna; ora appare come un'estranea tra i palazzoni popolari al confine tra Borgo Vittoria e Barriera di Milano, tra le cascine d'altri tempi e le vecchie officine. Ma non deve trarre in inganno il carattere transitorio della struttura, una via di mezzo tra un ponteggio e una rimessa; poiché quest’ultima in realtà è solo l’avamposto del cantiere più grande di Torino. Un complesso progetto di cui la stazione esistente sarà in futuro solo un'irrilevante uscita secondaria.
«Le prime costruzioni in ferro servivano a scopi transitori: mercati, stazioni, esposizioni. Il ferro pertanto si associa subito ai momenti funzionali della vita economica. Ma ciò che allora era funzionale e transitorio, comincia, nel mutato ritmo d'oggi, ad apparire formale e stabile».