Après Bergson. Portrait de groupe avec philosophe di Giuseppe Bianco (PUF, 2016) si presenta come un’appassionante narrazione “fantasmatica”: il protagonista del libro, infatti, non appare mai sulla scena, ma si manifesta attraverso i suoi effetti, come un’immagine – o, per meglio dire, un insieme di immagini ‒ che non ha mai smesso di inquietare il novecento filosofico francese. Se l’obiettivo esplicito dell’analisi di Bianco concerne la ricostruzione della stratificata e tortuosa ricezione della filosofia bergsoniana in Francia, il libro non risulta ipso facto etichettabile come un erudito volume di storia della filosofia, per almeno due ragioni, strettamente collegate: 1) lo stile narrativo che pervade il libro e che alleggerisce notevolmente il carico di informazioni, contribuendo a costruire una vera e propria narrazione corale, potremmo dire à la Altman, nella quale, a contare, più che le azioni dei singoli personaggi, è innanzitutto e perlopiù il contesto che li muove; 2) l’affascinante impronta sociologica dell’analisi, che considera la disciplina filosofica, nel suo concreto svolgersi, prima di tutto come una pratica relazionale, che vede impegnati uomini e donne, con il loro bagaglio di mitologie, convinzioni, simpatie e antipatie.
Bianco, prima di far partire la narrazione, pone una serie di indicazioni metodologiche (pp. 1-23) che incrociano parametri, variabili e paradigmi, con l’obiettivo esplicito di rendere intellegibili i percorsi che, unendosi, andranno a costituire un’autentica eredità culturale. Saranno proprio le variabili sintetizzate nelle due tabelle presenti nell’introduzione a essere concretamente mobilitate nel corso dello studio. Fare una vera e propria sociologia della filosofia significa allora evitare di dare la precedenza a una pretesa purezza nella circolazione delle idee, ma calare le posizioni teoriche degli attori all’interno di un contesto, come quello del primo novecento francese, in piena evoluzione. Non si comprenderebbe per esempio nulla della fama di Bergson, per lo meno nei primi trent’anni del novecento, se non si confrontasse la sua traiettoria intellettuale con la progressiva professionalizzazione del “mestiere di pensare” che modificherà in modo radicale il rapporto tra filosofi e grande pubblico o con l’irriducibile dialettica includente/escludente tra centro (Parigi) e periferia che ha da sempre orientato i destini della filosofia d’oltralpe.
Comprendiamo così che occuparsi dell’eredità di Bergson significa innanzitutto confrontarsi con una serie di immagini elaborate da contemporanei e successori, e in seguito assorbite o filtrate dalle operazioni degli allievi. I ritratti di Bergson occupano così uno spettro vastissimo, apparentemente auto-contraddittorio: da filosofo della scienza a anti-positivista, da umanista cattolico a filosofo dell’impersonale, da ideologo della borghesia a emancipatore. Bianco, attraverso un’imponente mole di dati, impreziosita da una ricca (e in parte divertente) aneddotica, ricostruisce le altalenanti ondate della ricezione bergsoniana, incrociandole con l’affermarsi progressivo delle tonalità dominanti del discorso filosofico francese (“spirito”, “esistenza” e “struttura”). Sempre presente nel dibattito, ma mai al suo centro, il bergsonismo scorre così sottotraccia per tutto il novecento, modificando progressivamente la propria identità. Molto schematicamente, si potrebbero isolarne tre immagini:
1) L’immagine, in fondo condivisa da entusiasti e detrattori, di una filosofia dell’interiorità, impegnata a sondare la temporalità della coscienza in opposizione a qualsiasi forma di positivismo o intellettualismo. Da un lato, infatti, la vulgata bergsoniana, vera e propria moda di inizio secolo, penetrerà nell’arte, nella letteratura, nella psicologia, sino a diventare vero e proprio sentire comune; dall’altro, come reazione a questo successo indiscriminato, emergeranno fin da subito una serie di posizioni critiche da parte dei principali concorrenti di Bergson, in primis Alain (al secolo Émile-Auguste Chartier) e Brunschvicg, che, a diverso titolo, faranno valere le ragioni di una tradizione filosofica francese e tedesca sostanzialmente alternativa ai sofismi bergsoniani (p. 61) e alle sue “pillole rosa” (p. 78). Non è difficile vedere come una tale immagine, unita alla progressiva canonizzazione del pensiero bergsoniano, sia in fondo quella ancora dominante, perlomeno nelle ricostruzioni manualistiche, che spesso inseriscono la riflessione bergsoniana nell’alveo dello spiritualismo francese.
2) L’immagine, emersa in particolare a partire dal primo dopoguerra, di un filosofo dell’inazione, compromesso e incapace di cogliere le contraddizioni della contemporaneità. La partecipazione di Bergson alla propaganda nazionalista in favore del conflitto mondiale segnerà una vera e propria condanna da parte della nuova generazione filosofica, attiva dagli anni ’20 del novecento e profondamente influenzata dall’ideologia marxista: Bergson diventerà il pensatore borghese per eccellenza. Prolungando l’onda delle critiche di Alain e Brunschvicg, pensatori come Bachelard e Canguilhem si impegneranno nello smantellamento delle nozioni di durata, slancio e intuizione. Sarà però soprattutto Georges Politzer, nel velenoso La fin d’une parade philosophique: le bergsonisme (1929), a tenere insieme tutte le critiche pre e postbelliche, liquidando Bergson ormai come un pensatore non soltanto astratto, “senza storia” e sorpassato, ma persino pericoloso da un punto di vista etico-politico.
3) L’immagine di un pensiero “anticipatore”, capace di porsi in relazione con la fenomenologia, l’esistenzialismo, ma anche con la scienza e, in particolare, con la biologia. Dalle seminali operazioni di Wahl (Verso il concreto) e Jankélévitch (Henri Bergson) al bergsonismo inconsapevole di Sartre, passando per la riscoperta di molte intuizioni bergsoniane da parte di Ruyer, Canguilhem e Merleau-Ponty e per le più recenti operazioni di Stengers e Prigogine, il pensiero di Bergson, nonostante i numerosi tentativi di sbarramento, non è mai uscito completamente di scena, ma ha continuato a inserirsi nei più disparati dibattiti filosofici.
È proprio a partire da questo complesso e stratificato orizzonte, caratterizzante i decenni centrali del novecento, che Gilles Deleuze, protagonista della parte finale del testo, “riceve” il pensiero bergsoniano. Come Bianco sottolinea più volte, il bergsonismo di Deleuze sarebbe impensabile senza tutta quella serie di operazioni che, tra gli anni ’30 e ’60 del novecento, ha impresso un’immagine ben precisa al pensiero bergsoniano: si tratta in particolare della questione del campo trascendentale impersonale che, a partire dal primo capitolo di Materia e memoria, percorre la filosofia di Sartre, Merleau-Ponty, Hyppolite e Simondon, prima di giungere, in una forma inedita nella riflessione deleuziana sul piano di immanenza. Nella ricostruzione dei debiti bergsoniani di Deleuze, si nota nel testo una certa verve teorica: l’influsso di Bergson su Deleuze non risulta infatti riconducibile, secondo Bianco, a una presunta comunità di intenti tra i due filosofi, ma è tutto interno all’esigenza deleuziana di indagare “una condizione genetica del reale che non gli rassomigli, sebbene gli sia immanente” (p. 340). È questa esigenza, prima ancora dell’evidente presenza, in Deleuze, di ulteriori influenze (Nietzsche, Spinoza, Leibniz, gli Stoici, etc.), a impedire uno spericolato appiattimento delle due figure in nome di un unico pensiero del divenire. Certo, Deleuze si richiamerà a Bergson nel corso di tutta la sua opera e, certo, l’idea di una logica immanente del senso manifesta un evidente debito nei confronti del bergsonismo: ciò non toglie, tuttavia, che i problemi a cui le due filosofie rispondono risultano eterogenei (p. 355). Deleuze, in particolare, rileva gli aspetti più ontologici della riflessione bergsoniana (il passato in sé, la virtualità, il concetto di differenza pura), trasformando di fatto Bergson in un filosofo postkantiano e impostando così, sulla scia dell’opera di Hyppolite, un implicito confronto con la dialettica hegeliana (pp. 281-305).
Al di là della presunta fedeltà al dettato bergsoniano, la traiettoria di Gilles Deleuze, unico della sua generazione a utilizzare in modo così sistematico il pensiero di Bergson, ha avuto il merito di riattivare l’interesse verso un pensatore che, ormai glorificato e insieme decomposto, sembrava avviarsi verso una tranquillizzante neutralizzazione storiografica. Deleuze ha così riaperto un varco nella ricezione bergsoniana, contribuendo inoltre, inconsapevolmente, al consolidamento di una narrazione di cui Bianco ricostruisce la filiazione, ovvero la percezione di una filosofia francese divisa in due metà, da un lato “cartesiana” e impegnata nella fondazione del sapere attraverso la razionalità del concetto, dall’altro mistico-vitalista e legata all’esperienza, alla sensibilità e al soggetto (p. 325-333). Se questo “grande racconto” interno alla filosofia francese ha proliferato, con differenti sfumature, nelle riflessioni di Hyppolite, Foucault, Derrida e Badiou, l’indagine di Bianco ci ricorda quanto questa bipartizione risulti schematica e non renda in fondo ragione dei sostanziali e costitutivi sfondamenti di campo (l’impossibilità di sistemare l’opera di Canguilhem all’interno di questa dicotomia risulterebbe qui emblematica).
Après Bergson ci fa insomma penetrare in un secolo di interpretazioni del pensiero di Bergson, mostrandoci l’eredità della sua opera attraverso un’invidiabile cura per i dettagli (tra i vari strumenti di lavoro, è presente un utile grafico delle relazioni tra i filosofi citati, nonché la lista degli anni in cui Bergson era presente nel programma dell’agrégation). Più defilato rispetto ad altre tradizioni pensiero, quali la fenomenologia, l’esistenzialismo o lo strutturalismo, il bergsonismo emerge dal testo come filosofia “carsica”, tanto plastica da fornire intuizioni in campi di riflessioni tra loro anche molto distanti. Come le infinite biforcazioni dello slancio vitale, l’influenza di Bergson si è ripartita su un intero secolo: ecco perché, allora, il prisma bergsoniano analizzato da Bianco riflette indirettamente l’atmosfera di un’epoca.
Nella terza puntata di #philosophers, abbiamo intervistato Rocco Ronchi, professore di filosofia teoretica presso l'Università degli Studi dell'Aquila. Abbiamo parlato di Deleuze, cinema, godimento e infinito attuale.
Perché un’altra monografia su Deleuze? E perché dedicare un lavoro a Deleuze in una collana che si chiama «Eredi» (diretta da Massimo Recalcati), quando si è cominciato il proprio cammino filosofico studiando Bergson? Ma, soprattutto, perché scegliere un sottotitolo, Credere nel Reale, per un saggio consacrato al re dei simulacri, a colui che ha rovesciato ogni credenza e ogni realtà, similmente a ogni credenza nella realtà?Il Deleuze di Rocco Ronchi (Feltrinelli, Milano 2015) non è l’ennesimo saggio dedicato al filosofo francese a cui Michel Foucault, con una lungimiranza prossima alla veggenza, legò le sorti della filosofia a venire. Non è l’ennesimo saggio però proprio perché lo è: è ennesimo e lo vuole essere.Questo è solo il primo dei tre paradossi con cui è possibile afferrare l’operazione che Ronchi fa col suo ultimo lavoro. Gli altri due sono veicolati rispettivamente dal rapporto che quest’ultimo intrattiene col titolo della collana («Eredi») e col suo stesso sottotitolo (Credere nel reale). A partire da questi tre interrogativi, solo apparentemente aporetici, è cioè possibile trattenere per qualche istante l’attenzione sulla nuova immagine che, di Deleuze, emerge dall’ultimo libro di Ronchi., non stupendosi però che sia proprio una via paradossale e lastricata da cattive intenzioni a permetterci di toccare il senso di questo breve ma calibratissimo saggio.
Deleuze è stato infatti il filosofo che più di tutti, almeno nel 900, ha fatto del paradosso l’agente provocatore della filosofia, il lampo scatenante il tuono del pensiero. A esso, ci insegna, siamo costretti da un trauma, da un incontro imprevisto e letale al quale non possiamo sottrarci. Un unico e intempestivo incontro che poi risuona e si distribuisce frattalmente in piccoli traumi che si ripetono come “piccoli limiti” (L’Anti Edipo, 1972), traumi e limiti che coincidono con i singolari arresti della doxa, con i suoi controsensi e i suoi inciampi.
È qui che si comincia a pensare, perché è in un controtempo che Deleuze rintraccia la possibilità di “generare l’atto di pensare nel pensiero” (Differenza e ripetizione, 1968). E prima di lui fu Platone a intercettare la stessa possibilità nel contraccolpo provocato dai ta parakalunta, oggetti capaci di scuotere il pensiero provocando “sensazioni nello stesso tempo contrarie” (Filebo 46 c e Repubblica VII, 523 b). Pensare non è nulla di ovvio, afferma Ronchi (p. 77) e i ta parakalunta sono proprio le pieghe in cui si sospende il dativo dell’“a me pare”, sono gli scogli su cui si frantuma bruscamente l’opinione, i luoghi in cui si contorce e storce il duplice filo del senso comune e del buon senso.
Al bucolico e troppo irenico thaumazein di aristotelica memoria, Deleuze ha del resto sempre preferito il traumatizestai, l’essere ferito, la violenza dell’urto, l’impatto col Reale e col Fuori che, solo, forza il pensiero costringendolo al movimento. Il traumatizestai è dunque questa spinta paradossale e quella situazione ottica pura in cui, soltanto, gli eventi fanno segno (p. 63).
Che sia una via paradossale a permetterci di cogliere il senso di questo libro è dunque forse il primo e più significativo segno che non si tratta di lettera morta. Per dire, per esplicitare il sottinteso di una filosofia, lo storico, così come il saggista e lo scrittore, deve d’altronde condividere con quel pensiero una “causa comune”, la medesima urgenza nascosta magari tra le pieghe del discorso. In altre parole, l’atto ermeneutico è sempre creativo, ma creativo perché critico e critico perché violento.
«Con questo saggio non pretendo di aggiungere una mia introduzione all’opera di Gilles Deleuze alle tante, validissime, che circolano. La mia intenzione è un’altra. Ciò che mi sono proposto è scrivere un capitolo di storia della filosofia contemporanea» (p. 9). Tutto sta, quindi, nell’intendersi su cosa sia la storia della filosofia contemporanea e su cosa significhi scriverne un capitolo. Deleuze al riguardo è piuttosto chiaro: «Il mio modo di cavarmela –scrive ‒ consisteva soprattutto nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso» (Pourparler, 1990).
L’immacolata concezione evocata da Deleuze è critica radicale all’immagine dogmatica e stereotipata della filosofia e della storia che se ne scrive. «Critica» nel senso in cui, provocando un “crollo centrale” del pensiero, obbligandolo a pensare questo crollo e questa impotenza che è sua propria, essa apre una crisi che mette in causa il modello trascendentale implicato dall’immagine dogmatica, ossia il modello della ricognizione mediata dall’esercizio concorde di tutte le facoltà e garantita dall’identità dell’Io per un soggetto supposto identico. Nella sua differenza la filosofia deve, per Deleuze, opporre all’immagine l’avventura dell’incontro senza affinità né predestinazione. Detto altrimenti, in gioco è una certa tensione, da sopportare e da cui lasciarsi attraversare. Per Deleuze infatti non è questione di giudicare ma di “far esistere” (Critica e clinica, 1993), di creare, spingendo il pensiero critico fino in fondo, ossia al di là del principio della quadruplice e organica ragione.
“Sua e mostruosa”, in una parola, perturbante, la nuova immagine del pensiero (a cui Deleuze dà il nome di empirismo trascendentale) non è perciò una semplice rappresentazione ma un’intuizione e questa non tanto come sguardo panottico e distaccato che tenta il sorvolo quanto, piuttosto, come esperienza diretta, intensiva e affettiva di forze che si dispiegano e che disfano ogni elemento di trascendenza, il soggetto come l’oggetto. Questa è l’avanguardia deleuziana: stazionare, fuggire fermi sul posto, perché divenienti infinite variazioni. E quale filosofo non si augurerebbe di produrre una immagine del pensiero che non dipenda più dalla buona volontà del pensatore e dalla sua decisione premeditata? Chi cioè non vorrebbe affrancarsi dal dogmatico atteggiamento trascendentale che questiona le condizioni dell’esperienza possibile per guadagnare quella genitalità che è genesi statica e intrinseca dell’esperienza reale?
La differenza dunque risiede nella concezione di storia della filosofia che si presuppone e che, nel caso di Ronchi lettore di Deleuze, è indubbiamente mutuata dal suo oggetto di studio. Nessun racconto lineare in cui la vicenda si è già tutta consumata e che, da qualche parte nella “mente” dell’autore che si accinge a esporla, attende solo di essere “rivelata”. Nessun monumentale e mortifero allestimento di fatti avvenuti, e perciò morti, in cui il tempo del racconto non fa nulla (p. 9). Da Deleuze viene tutta un’altra idea di storia della filosofia che, accettando il suggerimento di Ronchi, si può definire “problematica”, campo e insieme teatro di una battaglia di cui non si conosce anticipatamente né l’esito né lo scioglimento. Del resto, solo l’assenza di presupposti punta dritta alla creazione. E lo fa procedendo senza concetto: come l’intuizione di Kant e al modo della differenza di Deleuze.
Affermare che il testo di Ronchi non è l’ennesimo saggio su Deleuze proprio perché lo è significa, allora, affermare quest’assenza di presupposti, ribadire quel “senza concetto”. Così vicino al “senza tempo” dell’inconscio di Freud, al “senza senso” del Reale che ossessiona Lacan, ma anche e soprattutto, al “senza immagini” che Deleuze attribuisce al pensiero.
E tuttavia, se il saggio di Ronchi non è l’ennesimo lavoro consacrato a Deleuze è perché, anzitutto, esso consiste in quell’atto, del vivente prima che della matematica (o della matematica perché del vivente) che è l’elevazione alla n, la “messa in potenza”. La n come lettera, viva, della ripetizione cara a Deleuze, della buona ripetizione in cui a tornare è la differenza. N è la lettera del ritornello a cui la musica fa subire il “trattamento molto speciale della diagonale o della trasversale” (Millepiani, 1980) strappandolo così alla sua territorialità. Ennesima è cioè la ripetizione che sfugge al concetto perché preferisce crearlo, è la differenza come forza selettiva. N è il tema assunto come radiale e non come terminale per dirla con Glenn Gould; è il marchio di quella “superfetazione di un atomo intuitivo e indicibile” che è il filosofo secondo Henri Bergson. N è, infine, il segno di una nuova immagine del pensiero.
A partire da un singolare anacronismo si sostanzia la scelta di dedicare a Deleuze e non a Bergson un saggio in una collana che si chiama «Eredi». Se infatti il filosofo, come Deleuze ama ricordare, è l’artista del concetto, egli è tale, ossia lo diviene, solo dopo essere stato un umile ritrattista. Perché è nel servizio, nell’apprendistato e nell’esercizio con la E maiuscola che si prepara il terreno propizio alla creazione. Ronchi ha cominciato ritraendo Bergson e lo ha fatto mostrando che ogni volta che si rileggono davvero, ossia integralmente e senza pregiudizi, i testi di autori famosi, di filosofi e maestri da tempo assegnati e «sistemati» entro la tradizione storico-critica, si scopre, con immenso stupore, quanto quest’ultima sia spesso in difetto rispetto alla verità. E siccome ogni apprentissage è, nel tempo, un’avventura dell’involontario (Proust e i segni, 1964), accade che, après-coup, dopo i colpi della tecnica e dell’esercizio, improvvisamente s’incontri qualcuno per la prima volta pur avendo certezza che sia l’ennesima. Primultima direbbe Jankélevitch.
In una collana dedicata ai maestri di cui ci sente eredi, Ronchi sceglie Deleuze proprio perché ha cominciato con Bergson. Ritraendo il filosofo dell’élan vital (cose antiche), egli si è infatti imbattuto nell’empirismo trascendentale (cose meno antiche). Meglio: è riuscito a ritrarre Bergson come un filosofo dell’interpretazione solo perché, senza saperlo, era già interpretante dei segni deleuziani (cose antiche che vengono dopo cose meno antiche). Come ricorda Deleuze: «apprendere è qualcosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale e non di un sapere astratto […] Occorre essere predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla loro violenza» (Proust e i segni, 1964).
Dalle cinque sezioni-sfondo in cui si articola il volume, si staglia l’immagine di un Deleuze radicalmente monista, inaspettatamente platonico e sorprendentemente reale. Contro ogni lettura della filosofia deleuziana in termini di metamorfismo energetico, caleidoscopico e, però, eminentemente entropico, Ronchi insiste su quell’unico ritornello, su quell’unico evento colto da diverse date e rifrangentesi in quella “multiversità dello spettro filosofico” (P.A. Rovatti) che è la filosofia di Deleuze, il quale, come l’autore sottolinea più volte, dice, in fondo, sempre la stessa cosa. In secondo luogo, ribaltando la vulgata tradizionale – quella che allestisce l’immagine, forse la più stereotipata, di un Deleuze eroe del rovesciamento del platonismo, colui che cioè ha realizzato, nel senso di portare a compimento, il programma nietzscheano ‒ Ronchi piazza al centro del pensiero contemporaneo l’immagine di un Deleuze profondamente platonico, di un Deleuze classico e perciò davvero eversivo. Infine, alla lettura militante ma sclerotizzata che ha fornito le chiavi per aprire e utilizzare quello scrigno di parole-azione che è L’Anti Edipo, immagine sacrificata all’aut-aut tra simbolico e immaginario, Ronchi sostituisce quella di un Deleuze speculativo, filosofo rigoroso e singolarmente realista, nel duplice senso di colui che, con un unico atto di fede nel Reale, dichiara simultaneamente scacco matto al re e alla regina. Né simbolico né immaginario, al di là del padre e della madre, il Deleuze di Ronchi è infatti assolutamente reale, vera e propria intrusione del primum et tertium, puro e anedipico, che spezza il doppio vincolo tra legge repressiva e godimento illimitato. Facendo dell’intuizione un metodo e della diairesis agonistica il suo banco di prova, la lettura che Ronchi propone di Deleuze è militante perché atletica, in lotta per l’affermazione dell’infinita uguaglianza dell’essere in ogni ente contro ogni oscena e fascista visione di questa univocità.
Si tratta, per riprendere una battuta delle pagine iniziali del testo, di essere “veggenti più che attanti”, di provare a vedere nella luce più che con gli occhi e di indicare, poi, ciò che si è visto, piuttosto che sforzarsi a organizzarne fin da subito la traduzione simbolica. Il mistico infatti “fissa, intensifica e completa in azione” ma, soprattutto, crede. Crede intransitivamente perché veggente. L’atto di fede è questa forza neghentropica che approda a un’immagine diretta del tempo e/o dell’evento e che spinge in direzione contraria all’entropia del senso comune (p. 18). E l’evento in questione è il ’68. A quella data Deleuze associa l’intrusione del Reale puro, del Reale univoco che è processo morfogenetico, produzione incessante della forma risalente all’indietro la china dell’indifferenziato. Se il Deleuze di Ronchi non né simbolico né immaginario è perché è un’esperienza pura, un’intuizione come simultaneità delle due direzioni contrarie e una penetrazione insieme impossibile (per la rappresentazione) e necessaria (alla filosofia).
Solo nell’opportuna espressione, che è inevitabile esplicatio, di questa esperienza e complicatio riecheggia quell’unico ritornello che intona ciò che tutti vogliamo e siamo: unitas multiplex. Ed è questo rumore di fondo, che è quello del processo ‒ per dirla con Whitehead ‒, dell’atto in atto – per usare un lessico caro a Gentile ‒ e/o della molteplicità illimitata e mouvante di forme finite, che sono le immagini mobili di Bergson e le figure atletiche di Deleuze, che bisogna allenarsi a ascoltare trasformando l’occhio in orecchio. Si tratta di esercitarsi a stazionare presso questo brusio fino a fare tutt’uno con esso, fino a sentirsi divenire quel rumore e quel fondo. Solo così si è degni dell’istante pulsionale in cui Alfa cortocircuita Omega.
Se questo, come rimarca Ronchi, è il programma di ogni ontologia è perché è anzitutto il compito primo della filosofia, della philosophia perennis et bona: «arrivare alla formula magica che cerchiamo tutti. Pluralismo=monismo, passando per tutti i dualismi che sono il nemico, ma il nemico assolutamente necessario, il mobile che non cessiamo di spostare» (p.79). Millepiani = un piano: questo è il sesamo per una filosofia dell’immanenza assoluta.