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Esce in edizione italiana, a cura di Francesco Ferrari, Confessare – l’impossibile. “Ritorni”, pentimento e riconciliazione di Jacques Derrida (Cronopio, Napoli 2018), testo che segna uno dei primi e decisivi momenti della riaffermazione, nell’opera derridiana, delle proprie origini ebraiche e dell’eredità ebraico-cristiana. Il testo originale, Avouer – l’impossible. “Retours”, repentir, réconciliation, inizialmente pubblicato negli atti di un convegno del ’98, era stato riedito solo nel 2014 da Galilée trovando luogo editoriale adeguato in coppia con il più noto e recente testo Abramo, l’altro.

Per cogliere l’importanza e il ruolo specifico di Confessare – l’impossibile non solo nell’opera derridiana ma anche nel panorama dell’epoca, nonché per constatare quanto possa ancora interpellarci questo testo, a vent’anni di distanza, bisogna ricollocarlo tra gli altri testi derridiani in cui emerge il riferimento all’ebraicità, ricostruire la sede in cui vede la luce, e per finire accennare al dibattito etico, politico e giuridico in cui si inserisce.

Confessare – l’impossibileha come precedente fondamentale Circonfessione (1991), il primo testo in cui Derrida – che già in passato aveva disseminato riferimenti a temi e autori ebraici – parla in modo autobiografico della propria origine ebraica. Il cambiamento è dovuto a ragioni complesse e stratificate, biografiche e teoretiche, prima tra tutte l’approfondirsi della lettura di Lévinas. Il nostro testo segue, inoltre, Un temoignage donné (1996) intervista (ancora inedita in italiano) compresa in un volume interamente dedicato al rapporto di alcuni intellettuali francesi dell’epoca – di origine ebraica o meno – con l’ebraismo. Precede, infine, il già menzionato Abramo, l’altro (2000), intervento al convegno, Judéités. Questions à Jacques Derrida, ormai direttamente e interamente dedicato a interrogare la o le judéités di Derrida stesso. La riaffermazione di una certa eredità ebraica diventa da questo momento in poi regolarmente presente nell’opera derridiana, intrecciata ad ogni altro tema. Come giustamente afferma il curatore nella puntuale post-fazione, Confessare – l’impossibile costituisce dunque, insieme agli altri testi in cui Derrida parla del proprio rapporto con l’ebraismo, l’«estremo approdo di quella koiné d’intellettuali ebraici diasporici che nel secolo scorso si sono confrontati, su posizione talora antitetiche, con la Judenfrage» (p. 84).

Rispetto agli altri testi, però, la sede in cui vede la luce il nostro testo gli conferisce un’importanza specifica. Esso segna infatti il momento in cui per la prima volta Derrida accetta di prendere la parola pubblicamente da una posizione e in un contesto fino ad allora evitati: in quanto intellettuale ebreo, in un convegno organizzato dalla comunità ebraica, le cui questioni sono rivolte anzitutto al pensiero e alla tradizione ebraica. Si tratta più precisamente della 37esima edizione dei Colloques des intellectuels juifs de langue française, convegni fortemente caratterizzati in senso comunitario, cui, pertanto, molti non si aspettavano che Derrida potesse mai partecipare; lo ricorda egli stesso in apertura del proprio intervento, citando una biografia di Lévinas che ne escludeva a priori la possibilità (p. 19). L’organizzazione, fondata nel ’57 come ramo del World Jewish Congress, era nata per ricostruire dopo la Shoah la comunità ebraica di Francia ed era divenuta in seguito, sotto la direzione di André Néher e Jean Halpérin, un appuntamento prestigioso della scena intellettuale francese, grazie anche alla regolare partecipazione di filosofi come Jankélévitch, Wahl e Lévinas. Il tema scelto per il ’98 è “Come vivere insieme?”, questione che doveva venir affrontata, si legge nell’introduzione agli atti del convegno, attraverso una «dimensione ebraica», certo, ma non «isolata dal resto» (Comment vivre ensemble?, p. 9) in considerazione della portata universale delle questioni in gioco. La scelta di questo tema era sfociata non a caso, si dice ancora nell’introduzione, in un dibattito sul cinquantesimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo da parte delle Nazioni Unite a Parigi (ibidem).

Questo riferimento al contesto storico è da precisare ulteriormente in quanto «quello che accade ogginel mondo» (p. 46) spiega, a detta di Derrida stesso, ragioni e portata del proprio intervento, che prende posizione nel vivo di un dibattito capitale degli anni Novanta, ricostruito efficacemente nella postfazione (pp. 85-92). Da questo punto di vista, Confessare – l’impossibile va idealmente in coppia con Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, un testo pubblicato nel 2004 ma la cui redazione risale a seminari e conferenze tenute proprio nel ’97/’98, ove le medesime questioni sono ulteriormente sviluppate. Il cinquantenario dei diritti umani coincide infatti con un fatto nuovo e importante proprio per la loro storia: l’inaugurazione della Corte penale internazionale dell’Aja, luogo di competenza giuridica dei “crimini contro l’umanità”, nozione codificata dopo la Shoah dal Tribunale di Norimberga (pp. 48-49). Tale nozione indica crimini in cui la vittima è l’umanità intera, il cui ambito di giudizio è mondiale, sovrastatale e internazionale, e il cui tempo di validità è imprescrittibile, cioè infinito. Il nuovo principio giuridico crea le condizioni per inediti scenari che riarticolano il rapporto tra sovranità nazionale e internazionale, tra etica, politica e diritto: si assiste in quegli anni a una «teatralizzazione della confessione» (p. 46), a diverse scene pubbliche di pentimento e di richiesta di perdono a nome di capi di Stato, ministri, o della Chiesa, e non solo per la Shoah, ma anche per sofferenze inflitte ad altri popoli. Proprio qualche mese prima si conclude la Commissione Verità e Riconciliazione nel Sudafrica post-Apartheid, preceduta da istituzioni analoghe in Cile e in Argentina, in cui traumi nazionali compaiono davanti a un’istanza giuridica sovra-statale e in cui l’accertamento dei crimini non è disgiunto da un difficile processo di riconciliazione nazionale (pp. 50-51).

La scena di questo tribunale/confessionale mondiale costituisce, a detta di Derrida, un momento di «innegabile rottura nella storia del politico, del giuridico, dei rapporti tra le comunità, la società civile e lo Stato, tra gli Stati sovrani, il diritto internazionale e le organizzazioni non governative» (p. 46), un processo che va certamente salutato positivamente, come «progresso irreversibile» del diritto, e, di più, come «l’orizzonte di tutti i progressi a venire del diritto internazionale» (p. 52). Ma questo cambiamento rinvia ad una trasformazione più vasta, e più complessa, del rapporto tra diritto e religione, che Derrida ha altrove inscritto all’interno del «ritorno del religioso» e della «mondialatinizzazione» (Fede e sapere, 1995): ossia l’epoca in cui nozioni provenienti dalla tradizione ebraico-cristiana – la giustizia, la confessione, il perdono – si trovano senza particolare consapevolezza riutilizzate dalla politica e dalla legge, richiedendo dunque un’analisi specifica per coglierne senso, deviazioni, limiti, eventuali manipolazioni.

È dunque a fronte di una tale urgenza teoretica, politica e giuridica, che Derrida sceglie di parlare per la prima volta da intellettuale ebreo franco-algerino, proprio nel contesto dei Colloques, e appunto a proposito del tema di come“vivere insieme”. L’eredità ebraica è convocata anche da lui, dunque, per interrogare il “vivere insieme”, più precisamente alla luce di tale inedita configurazione etico-politico-giuridica. Ecco pertanto che il titolo scelto, Avouer – l’impossible richiama con una variazione significativa quelli di Circonfession e di Un temoignage donné: se confesser rinvia alla confessione religiosa della colpa, e temoignage può indicare l’atto di testimoniare in ambito religioso, etico come in sede processuale, avouer traduce l’ammettere un crimine in sede giuridica (p. 9, cf. anche la nota 1 N.d.C.). Si annuncia quindi l’ambito specifico – etico-politico e giuridico – di tale intervento rispetto ai precedenti testi sull’ebraicità.

La questione è affrontata in un senso più generale, relativo al “vivere insieme”, e poi applicata al dibattito contingente, alla trasformazione in corso nel diritto. Per quanto riguarda il primo punto, la tradizione ebraica è convocata perché, in effetti, il «vivere insieme», il «vivere insieme bene» o «all’insegna del bene» (nota 6 N.d.C., p. 21), è obiettivo che non può essere raggiunto solo in virtù dell’aderenza a un dato di natura, né attraverso i soli strumenti coercitivi e punitivi delle leggi. Solo una Legge al di sopra delle leggi, un’esigenza di giustizia e di pace sovra-giuridica, permette di immaginare come vivere bene insieme. La questione è allora cosa sia questa Legge, e se proprio la tradizione ebraica possa o meno essere la fonte per pensare una tale Legge del vivere insieme bene, se cioè «può un dichiararsi ebreo in qualunque modo esso sia (e ce ne sono tanti), dare un accesso privilegiato a quella giustizia, a quella legge al di là delle leggi» (p. 34).

La risposta alla domanda per Derrida è duplice: da un lato sì, la tradizione ebraica, in effetti è il custode eletto di una Legge al di là delle leggi, che è promessa del bene, della pace, del perdono e della giustizia. «Insieme con tanti ebrei nel mondo, questa cura innocente di compassione (modo fondamentale, ai miei occhi, del vivere insieme), di questa compassione di giustizia e equità (Rahmamin, forse), la rivendicherei se non come l’essenza dell’ebraismo», almeno con qualcosa di «inseparabile» dalla propria memoria ebraica (p. 43). Il riferimento è soprattutto all’ebraismo identificato con la giustizia verso l’altro, lo straniero, da Lévinas, di cui cita un brano di Envers autrui, pronunciato proprio nella medesima sede anni prima (p. 39).

Tuttavia, per Derrida, per poter essere all’altezza di ciò che tale Legge/Giustizia al di là delle leggi impone di pensare, è necessario riaffermare l’ebraicità in un senso paradossale, rifiutando qualsiasi identificazione con l’esser-ebreo e ogni appartenenza alla comunità ebraica. L’«ipotesi» è «che questa dissociazione con sé lo renda al tempo stesso tanto meno ebreo quanto più ebreo» (p. 17): esser-ebreo, rispondere alla Legge, vorrebbe dire rompere l’identità, l’identico, e solo così poter essere aperti all’altro e alla differenza. L’esser ebreo in tal senso contesta ogni Insieme, inteso come sostantivo che indica l’Uno o la Com-unità, e rende possibile il vivere-insieme, inteso come avverbio (p. 15). L’accesso privilegiato a questa ebraicità si rivela essere proprio l’esperienza originaria di un bambino algerino, nato ebreo, cresciuto francofono in un paese arabo-musulmano occupato da cristiani, privo di un’identità semplice, non appartenente a nessuna comunità: ecco la ragione della scelta di presentarsi adesso come «marrano paradossale» o «l’ultimo degli ebrei» (p. 37).

Tornando alla necessità di riaffermare l’eredità ebraica per analizzare le sfide contemporanee del “vivere insieme”, si tratta allora di cercare di capire se il progresso del giuridico di cui si è detto corrisponda o meno all’imperativo di questa Legge custodita dall’ebraismo. Può l’eredità ebraica così intesa contribuire a restare lucidi sui meriti, e gli eventuali limiti, di una tale trasformazione etico-politico-giuridica in corso?

In effetti, la fedeltà all’imperativo ebraico deve condurre a operare una distinzione tra quel che accade in ambito giuridico-politico e quel che accade in ambito mediatico-politico, per giungere a isolare ed ad analizzare la logica etica delle domande pubbliche, e televisive, di perdono e di riconciliazione, che ai processi per crimini contro l’umanità si affiancano o si sovrappongono. Tali “scene” di riconciliazione finiscono infatti, secondo Derrida, con il semplificare una questione etica estremamente più complessa, e cioè con l’identificare l’idea del perdono tout courtcon quella del perdono condizionato e domandato. «L’etica del perdono», invece, è «profondamente divisa da due motivi eterogenei all’interno della tradizione abramitica, ebraica, cristiana e islamica che l’ha tramandata» (p. 58), e non può che esserne lacerata. Una contraddizione indecidibile, un’aporia la definisce e non può essere risolta: da un lato, è giusto che il perdono sia accordato solo a condizione che ci sia confessione di colpa, pentimento e domanda di perdono; dall’altro, la logica “iperbolica” del perdono, con termine di Jankélévitch, vuole che esso venga donato appunto per-dono, cioè in modo assoluto e incondizionato, a prescindere anche dal pentimento dell’altro.

L’eredità ebraica, allora – ma dovremmo dire in realtà abramitica, ebraico-cristiano-islamica – consiste in questo: nel restare vigilanti nei confronti della «profonda cristianizzazione – “hegeliana” in verità – che segna il linguaggio di questa mondializzazione della confessione» (p. 58), in nome di un’idea iperbolica del perdono «che resta eterogeneo nella sua incondizionalità a tutti questi ordini (etico, politico, giuridico) e alle intenzioni di riconciliazione» (p. 61) e che deve rimanere sempre in tensione con ciò che del perdono fenomenicamente può apparire, il perdono condizionato. Per quanto sembri contraddittorio, l’idea incondizionata di perdono va slegata da ogni progetto di riconciliazione: il riferimento, ebraico anch’esso a suo modo, è a Walter Benjamin e al suo accenno ellittico ad un «perdono senza riconciliazione» (p. 65), una tempesta del perdono divino che spira fino alla fine dei tempi, senza confondersi mai con la riconciliazione.

Proprio per questo, l’eredità abramitica consiste infine nel riconoscere nell’enormità del male che attraversa il Novecento una paradossale opportunità di restare fedeli al comandamento incondizionato del bene. Proprio la nozione di imprescrittibile, legata ai crimini contro l’umanità, può essere infatti all’altezza della logica iperbolica del perdono: l’imprescrittibile è l’equivalente giuridico di una riconciliazione impossibile, e sembra dunque apparentemente il corrispettivo dell’imperdonabile tout court.  Mentre è proprio il contrario, almeno per Derrida – e se l’affermazione è certamente disturbante e contestabile, è difficile tuttavia non riconoscerne la pertinenza. Seguendo la logica folle, l’eccesso, lo scandalo del comandamento del perdono, è solo l’imperdonabile ad esserne all’altezza: «Al di là del suo codice giuridico e dei suoi limiti penali, il concetto di imprescrittibilità accenna a un Giudizio universale: fino alla fine dei tempi, il criminale (dittatore, torturatore, Stato nazione colpevole di crimini contro l’umanità) dovrà comparire a giudizio e rendere conto. La responsabilità che il colpevole dovrebbe assumere non ha più fine. Per sempre. È di questo impossibile che avrei volute parlarvi come della sola opportunità di perdono» (p. 65).

 

di Silvia Geraci

 

Bibliografia

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