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Nelle sei lezioni che compongono Il senso della possibilità, edito a gennaio per  Feltrinelli (2018), Salvatore Veca completa una trilogia di saggi  ̶  iniziata nel 1997 con Dell’incertezza e continuata nel 2011 con L’idea di incompletezza  ̶  che rappresenta uno dei più complessi itinerari teorici del panorama filosofico italiano degli ultimi vent’anni. Nello specifico, in questo terzo volume, Veca si impegna nella difficile impresa di delineare il senso della nozione di possibilità entro il quadro di un’interpretazione filosofica delle modalità che si dimostri in grado di dar conto della connessione tra l’impiego dei termini modali (attuale, possibile, necessario, contingente) e i nostri atteggiamenti proposizionali ordinari del reputare “come stanno le cose” nel mondo che ci circonda. In altre parole, l’autore muovendo da una prospettiva epistemica prova a far luce sui processi che generano le nostre descrizioni e prescrizioni e, in particolar modo, sulle ragioni del loro trasformarsi nel tempo, imputabili in vario modo ai mutamenti nell’ambito delle teorie e delle pratiche (p. 16).

A partire dalle precedenti ricerche sulle nozioni di incertezza e incompletezza, ritenute rispettivamente l’origine della tensione teoretica e il carattere proprio del risultato che ne scaturisce, Veca ci accompagna in un tortuoso itinerario lungo i limiti della pratica filosofica, fino al punto di rottura in cui il necessario diviene contingente e l’inaspettato si manifesta nella forma dello scacco. L’intento però non è soltanto porre l’accento sullo stato di crisi di fiducia o legittimità che investe ciclicamente l’impresa del senso ma di indagarne il ruolo epistemologico. Il ripetersi della crisi, manifestantesi attraverso l’esigenza di impegnarsi in manovre metateoriche, andrebbe interpretato piuttosto come un promemoria antiriduzionistico dovuto a una sorta di inesauribilità propria degli oggetti dell’indagine filosofica. La natura di tali oggetti stimolerebbe l’adozione di una molteplicità di punti di vista in una manovra intellettuale che fa “di necessità virtù” ma che nel contempo rappresenta la possibilità stessa di una relazione conoscitiva con “ciò che c’è”. Si pensi al senso di povertà e angustia che ci assale quando dimostriamo le ragioni irrevocabili di un unico punto di vista rispetto agli enigmi ricorrenti o inaspettati della filosofia, ci ricorda l’autore. Da queste considerazioni preliminari (oggetto della Prima lezione), seguendo una linea che dall’enciclopedia di Husserl porta ai giochi linguistici di Wittgenstein per giungere fino al paradigma della spiegazione di Nozick, Veca torna a chiedersi se «non dovremmo guardare all’attività filosofica come a un ventaglio di stili d’indagine e di scopi e obiettivi di ricerca differenti e alternativi» che, se prendiamo sul serio la storia, ci accorgiamo «persistere quasi nella forma di motivi musicali, nel repertorio o nell’archivio» (pp. 32-33). Ed è proprio qui, all’incrocio tra dimostrazione e spiegazione, che la nozione modale di possibilità diviene elemento cruciale per mettere a fuoco la stretta connessione tra contingenza e verità. Connessione che si manifesta in tre sensi del possibile: 1) reputare qualcosa possibile in senso ampio (epistemico); 2) immaginare e sperimentare mentalmente mondi possibili; 3) pensare se stessi nella durata e dunque nel proprio essere oggetto di trasformazione.

A fornire la struttura portante del saggio è la lunga riflessione rivolta al primo senso del possibile, che si svolge trasversalmente a tutte le sei lezioni ma che diviene protagonista, in particolare, della prima e della quarta. Qui, ripartendo dall’analisi delle categorie e dei giudizi modali svolta da Kant nella Critica della ragione pura, Veca osserva innanzitutto che quando reputiamo possibile, attuale o necessario qualcosa non facciamo riferimento al contenuto proposizionale degli enunciati «quanto piuttosto al tipo di relazione fra l’atteggiamento del soggetto che giudica e l’enunciato corrispondente». Le modalità hanno dunque a che vedere con i nostri atteggiamenti proposizionali, con «la posizione che noi specifichiamo, assegnando epistemicamente modalità alternative agli stessi stati di cose. x è p: possibile, attuale, necessario» (p. 41). Questo genera due problemi per la riflessione kantiana che si rivelano cruciali per l’indagine. In primo luogo, il fatto che le categorie modali risultano distinte nettamente dalle altre categorie in quanto tetiche: esse accompagnano le variazioni del “porre” dando conto del soggetto e non dei modi dell’oggetto. In secondo luogo, diviene centrale la categoria dell’attuale (wirklich) e il giudizio assertorio. Queste assumono un ruolo prioritario poiché chiamano in causa la posizione “in quanto tale” dell’oggetto nello spazio e nel tempo (absolute Setzung) mentre possibilità e necessità di un oggetto indicano soltanto rispettivamente l’accordo con la regola o la posizione secondo una regola. In questo senso l’attuale (nel senso della Wirklichkeit), implicando l’assegnazione di esistenza a qualcosa, «è immerso in un intorno in cui si danno ex ante possibilità e, ex post, necessità» (p. 42). In questo senso, secondo Veca, la priorità dell’attuale così come intesa da Kant indica l’unica via d’accesso per il soggetto al possibile e al necessario e nondimeno implica una gerarchia in cui l’orizzonte di partenza ineludibile è l’esperienza presente. Il problema che tuttavia permane nella prospettiva kantiana è il suo realismo empirico: perché l’esemplificazione esistenziale abbia successo è necessario soddisfare la condizione della percezione nello spazio e nel tempo di un oggetto. Tale componente del sistema kantiano è però inutilmente restrittiva e non tiene conto di una vasta gamma di modi con cui assegniamo esistenza a qualcosa nel nostro linguaggio ordinario. L’autore fa qui riferimento ai recenti sviluppi logici dei temi kantiani elaborati da Hintikka per mostrare come il nostro reputare vero o falso un qualsiasi stato di cose sia implicitamente legato a processi di comparazione tra una serie di stati di cose possibili al fine di classificare quelli che sono compatibili con ciò che viene percepito come stato attuale. Questo significa che quando esploriamo il mondo che ci circonda mettiamo in atto «giochi di ricerca e ritrovamento» sul modello dei giochi linguistici di Wittgenstein che però in questo caso si svolgono tra il ricercatore e la natura. Che qualcosa esista è l’esito riuscito di tale attività che, come sostenuto da Kant, si svolge nell’ambito delle nostre percezioni di oggetti. Gli oggetti nello stato attuale a loro volta vanno intesi come ciò cui possiamo riferirci alla luce dell’esito positivo dei nostri giochi di ricerca e ritrovamento, e fino a prova contraria (pp. 43-44).

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È bene precisare che l’idea guida di queste analisi non mira a negare l’importanza degli aspetti aletici o deontici al contrario vuole impegnarsi «a connettere l’impiego dei termini modali ai nostri atteggiamenti ordinari e, in particolare, ai nostri atteggiamenti proposizionali, ai nostri giudizi intuitivi di modalità, al nostro reputare» come stanno le cose in una varietà di domini. Questo significa impegnarsi nell’elaborazione di una versione del realismo che integri l’assunzione realistica elementare, secondo cui esiste un mondo là fuori indipendente da noi, e che tenga conto della rilevanza del fatto che all’attuale è possibile riferirsi in più di un modo. Sostenere infatti che qualcosa c’è non è affatto controverso, più complesso è rispondere alla domanda a proposito di ciò che diciamo che vi è (p. 44). In particolare nella quarta lezione, dal titolo Epistemologia, necessità e realismo, Veca si propone di mostrare come la progressiva trasformazione dell’immagine della scienza  ̶  dalla visione statica neopositivista della prima metà del secolo all’interesse per la dinamica dell’impresa scientifica dalla seconda metà in avanti  ̶  abbia determinato una profonda revisione, non soltanto della nostra concezione del rapporto tra teoria e realtà, ma anche dell’appropriato significato epistemico da attribuire all’operatore modale di necessità (p. 130). La svolta causata nel Circolo di Vienna dal falsificazionismo di Popper prima e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein dopo ha messo fuoco la dinamica storica che caratterizza il cambiamento concettuale dell’impresa scientifica, ponendo l’accento sulla sua dimensione pragmatica e in un secondo momento sociologica, chiudendo così i conti con le posizioni concernenti la plausibilità di isomorfismo strutturale fra proposizioni e stati di cose. In termini modali, secondo l’autore, questo ha generato l’esigenza di una riformulazione della nozione di necessità che, con le parole di Nozick, da «necessità incondizionata che resiste a qualsiasi controesempio a un tempo dato, connessa alla verità di qualcosa in tutti i mondi possibili» passa a «necessità condizionata […] sino a prova contraria» ovvero fino a che dimostri di resistere a tutti i controesempi concepibili nel tempo (p. 132-133). È facile dunque comprendere come dall’assunzione del carattere condizionato della necessità derivino gravi problemi sul piano ontologico e semantico per quelle prospettive filosofiche che aspirino a prendere sul serio le pratiche scientifiche come vincolo per qualsivoglia programma di ricostruzione concettuale. Qui emerge la tesi di Veca: il riconoscimento del carattere in ogni caso condizionato della necessità ha natura prettamente epistemica quindi «non c’è nulla che ci autorizzi a sostenere che non si diano o non siano definibili relazioni o proprietà necessarie che hanno a che vedere con come sono fatte o stanno le cose» semmai «non sappiamo che farcene di necessità metafisiche» (p. 136). Anche se la necessità dipende dalla serie di circostanze in cui quella relazione è inserita non significa che non sia per noi uno strumento efficace di accesso al mondo. Proprio come avviene per i designatori rigidi di Kripke quando definiamo qualcosa come necessario facciamo riferimento a un oggetto la cui interpretazione riteniamo stabile a un tempo dato e che lo definisce entro un qualche ordine o una qualche ontologia formale. Riconosciamo in esso una certa invarianza rispetto ad almeno alcuni gruppi di trasformazioni. Veca definisce questo tipo di oggetti saturi rispetto all’interpretazione, gli oggetti insaturi sono invece quegli oggetti per cui è disponibile una varietà di interpretazioni divergenti. Ora gli oggetti insaturi sono connessi in qualsivoglia spazio concettuale a oggetti saturi che svolgono il ruolo di limiti per la loro interpretazione, secondo un principio olistico della connessione delle nostre credenze (p. 139). Questo non significa che gli oggetti saturi siano speciali, come le necessità metafisiche: più semplicemente assumono un rilievo particolare a un tempo dato poiché accade che nel loro caso abbiamo una singola interpretazione a fissarne il riferimento. Come per i designatori rigidi, una volta fissato il riferimento «si è liberi di variare in modo puramente combinatorio le proprietà dell’oggetto designato, semplicemente considerandolo come al centro di un insieme di mondi possibili che ruotano intorno ad esso» (p. 143). In tal modo saremo in grado di pensare una varietà di mondi possibili ma tale libertà sarà limitata dalle proprietà essenziali dell’oggetto in quanto saturo. Siamo qui al confine tra epistemico e aletico ed è per questa ragione che «è sensato pensare un mondo possibile in cui Cesare non passa il Rubicone, mentre appare irragionevole pensare un mondo possibile in cui Cesare è un coccodrillo» (p. 143). L’attuale teoria scientifica sarebbe dunque il riferimento iniziale che stabilisce ciò che è saturo fino a prova contraria e in questo modo verrebbe meno la cogenza della celebre distinzione fregeana tra Sinn e Bedeutung: «se il senso di qualcosa attiene al modo con cui ci viene dato l’accesso al riferimento a qualcosa, questo ha luogo entro il dominio epistemico che è certo distinto ma non indipendente dal dominio aletico che ospita solo il riferimento a oggetti. Accettiamo il significato come riferimento, ma non rinunciamo dal punto di vista epistemico alla prospettiva del senso inteso come una tra le possibili vie del riferimento» (p. 145).

Veca giunge a proporre una forma di realismo scientifico dallo sfondo modale fondato sull’equilibrio riflessivo tra l’intuizione empiristica rappresentata dal riferimento fisso, cui pertiene il carattere aletico del significato, e l’intuizione costruttivista rappresentata dalle modalità epistemiche, che garantiscono la possibilità di definire differenti descrizioni nel tempo del medesimo oggetto. La varietà delle vie del riferimento coincide con la possibilità di essere aperti al mondo (con McDowell) nel senso della doppia esigenza di conservare un attrito con esso, in quanto limite per le nostre ragioni, e al contempo di mantenere una certa distanza al fine di rendere possibile quel gioco di ricerca e ritrovamento con un cui miriamo a descrivere la realtà. Tuttavia, come avverte Putnam, il mondo non ci si “rivela”: abbiamo bisogno di un grande lavoro concettuale per metterci nelle condizioni di accedervi. Questo però non equivale a costruire il mondo ma semplicemente a cercarlo nella pratica non epistemicamente ideale di esseri che fanno uso del termine vero (p. 150).

 

di Alberto Giustiniano

 

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