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4011“La scienza nasce polemica”: è questo ciò che si potrebbe dire alla luce della lettura del Galilei e la matematica della natura. Lo si potrebbe dire, senza timore di sbagliar troppo, perché il Galilei di Ferrarin è un uomo filosoficamente polemico, che prende continuamente posizione contro qualcuno o contro qualcosa. In primo luogo, ben lo si sa, Galilei si pone contro la tradizione. Non vi è alcuno spazio, nelle pagine di questo libro denso e breve, per un’impostazione anche solo latamente continuista; men che meno ve ne è per quelle tesi che desiderino tratteggiare un’immagine di Galilei come uomo essenzialmente premoderno, col fine malcelato di ridimensionare la portata della “rottura” all’origine della storia della scienza moderna. In una cornice di fondo che mi pare debba molto alla storiografia koyreana, Ferrarin dipinge il lavoro di Galilei proprio come punto di frattura – di coupure – tra due epoche. Una discontinuità che ridefinisce i rapporti tra il campo dell’esperienza e quello della teoria, che chiude definitivamente con certi schemi epistemologici e produce una nuova configurazione possibile dell’impresa della conoscenza. Per quanto infatti – anche sulla scorta di lavori di studiosi autorevoli come Stillman Drake – in molti abbiano manifestato la necessità di rivedere e complicare la tesi circa il platonismo di Galilei (avanzata tra gli altri proprio da Koyré), non è in ogni caso corretto, secondo Ferrarin, proporre l’immagine di un Galilei critico degli aristotelici e dell’aristotelismo di maniera ma, in fondo, genuino seguace di Aristotele, ben più fedele al Filosofo di quanto non lo fossero i peripatetici “ufficiali” delle Università. Galilei è certamente in polemica innanzitutto con tutti i Simplicio del proprio tempo ma, nota Ferrarin, lo stesso «Aristotele non viene risparmiato in niente; ed è ai suoi testi che si rivolge polemicamente per iniziare un nuovo sapere» (p. 22). La polemica di Galilei, dunque, è quella contro un modello di sapere antico quanto la filosofia; polemica contro un ideale di conoscenza piuttosto che contro un sistema; polemica contro un certo concetto dell’episteme, contro il suo statuto, contro la sua struttura. Se l’ipotesi di un Galilei platonico – ma anche pitagorico o archimedeo – deve essere rettificata e corretta, quantomeno specificando come il platonismo debba essere inteso, è nel nuovo ruolo del modello matematico nell’economia della conoscenza che deve essere ricercata la specificità della scienza galileiana e, per estensione, dell’intera impresa scientifica moderna. «Ogni filosofia», ci rammenta Ferrarin, «esprime un tratto essenziale del proprio tempo, e ogni filosofia si afferma come critica delle forme di pensiero precedenti» (p. 14). Viene allora in mente quell’immagine del pensiero come lotta e combattimento, avanzata da Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?, oppure, in maniera forse più pertinente a questo contesto, l’idea di Bachelard in La formazione dello spirito scientifico della storia della scienza come superamento di ostacoli epistemologici e come sforzo dello scienziato di superare l’immediatezza del senso comune. La scienza e la filosofia, insomma, condividono questo atteggiamento per cui ogni posizione realmente innovativa rappresenta una nuova costruzione che implica come proprio necessario antefatto un gesto distruttivo o decostruttivo. Questo è ciò che ci deve interessare del rapporto di Galilei con la tradizione e, in particolare con Aristotele: se è vero che il fondatore della fisica moderna si rivolge al testo aristotelico in maniera polemica, con il fine, criticandolo, di costruire una nuova configurazione epistemica per la conoscenza della natura, allora l’indagine sui punti di discontinuità e sugli obiettivi della critica ci potrà illuminare sulla natura e sui contorni di quella configurazione che ancora oggi chiamiamo «scienza moderna».

Ora, la consapevole novità introdotta da Galilei è l’inedito ruolo epistemologico assegnato alla modellizzazione matematica. Questo è il punto decisivo del gesto fondativo galileiano, il carattere fondamentale della frattura segnata dalla scienza moderna. La modellizzazione avviene, nella rivoluzione scientifica, non solo e non tanto attraverso il potenziamento della matematica pura in sé, ma mediante un inedito ruolo assunto dalle cosiddette «matematiche applicate» e, in particolare, dalla meccanica. Certo, ricorda Ferrarin, è «necessario ribadire, con Koyré, che la rivoluzione non è fatta né da tecnici né per tecnici. La figura dell’ingegnere – per esprimermi anacronisticamente: intendo l’artigiano, il fabbro, l’artista, l’architetto – non è né sufficiente né davvero adatta ad identificare il protagonista della rivoluzione scientifica» (p. 28). Nondimeno la scienza, per quanto non perda il carattere universale tipico della concezione classica del sapere, diviene un fare, una prassi (si pensi a Cartesio) e il mondo stesso ora appare come un artefatto, un’opera (Copernico, Keplero). In questa “prima” scienza moderna, lo sappiamo, tutto è macchina e dio è l’ingegnere o l’orologiaio supremo: «Come un architetto, Dio pensa un archetipo che poi pone in opera» (p. 30). Un tecnico, dunque, ma anche un architetto e, in un certo senso, un artista, almeno nella misura in cui l’opera che produce coinvolge certo la facoltà dell’immaginazione. Ma questa immaginazione produttiva non attinge alle risorse dell’irrazionale e dell’inconscio, ma è vincolata, al contrario, dalle regole pure della matematica. E infatti questa immaginazione è la stessa che entra in gioco nell’impresa della conoscenza scientifica della natura nella misura in cui, con Galilei, l’escogitare un esperimento materiale e l’invenzione di nuove macchine rappresentano momenti fondamentali della costruzione teorica. Ecco perché si assottiglia la differenza tra la conoscenza umana e quella divina: esse si distinguono ora per grado, ma vedono all’opera le medesime facoltà e gli stessi modelli epistemici.

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Oltre al nuovo ruolo assegnato alla modellizzazione matematica, l’altro grande elemento di scarto con la concezione aristotelica, riguarda il ruolo della percezione. La teoria della verità aristotelica, infatti, implica una certa passività originaria e un certo positivismo di fondo: in Aristotele vi è un senso di «verità come ‘lasciar che le cose ci parlino e si manifestino secondo la loro propria natura’. Il mondo si presenta a noi; e ci si offre unitario e ordinato» (p. 23). È questa concezione del mondo e della verità che comporta che la fisica sia, innanzitutto, lo studio di ciò che si dà nella nostra percezione e dei principi del sensibile (p. 35). Fisica allora, lo sappiamo, come studio delle cose e del loro movimento. Ma il movimento di cui si interessa la physis di Aristotele non è lo stesso di cui parla la fisica galileiana: è un movimento determinato dalla natura delle sostanze, che si differenzia in base ai luoghi cui le sostanze stesse appartengono. Il movimento della fisica, invece, è considerato in purezza, così come lo spazio in cui si manifesta: «Per Galilei, come per la fisica moderna dopo di lui, si prescinde dalle sostanze (dalla natura del mobile) per concentrarsi esclusivamente sulla descrizione del movimento nelle sue coordinate spazio-temporali, velocità e direzione» (p. 40). La scienza moderna si costruisce attraverso la sostituzione di tutto un apparato concettuale: «in una materia omogenea mossa da cause esterne, come al principio interno del movimento si sostituisce la causa esterna, così all’anima (principio di nature soltanto particolari) si sostituisce la forza» (pp. 40-41). Questo, secondo Ferrarin, comporta una nuova visione dell’oggetto, non più inteso come sostanza, ma come prodotto/effetto di cause esterne date come sue precondizioni. Il sorgere del fenomeno (e della sua genesi) rappresenta il tramonto dell’essenza. E lo sguardo “interno”, essenzialistico, è sostituito dallo sguardo esterno – formale – della geometria.

Proprio di sguardo, allora, è necessario parlare se vogliamo rendere conto, al di là delle interpretazioni ormai “classiche”, della novità della matematizzazione galileiana nella conoscenza del mondo sensibile. «Non è possibile comprendere l’importanza di Galilei», infatti, «senza considerare come nelle sue scoperte la razionalità matematica si intrecci con un nuovo modo di vedere» (p. 46). Con il cannocchiale, e con l’uso galileiano del cannocchiale, la tecnica entra nel mondo della percezione o, in altre parole, la percezione diviene consapevolmente oggetto dell’intervento tecnico matematicamente istituito. Quello del cannocchiale, ci dice Ferrarin, è un atto di produzione di fenomeni: per questa ragione l’uso del cannocchiale suscita sospetto, inquietudine, persino rabbia nei contemporanei di Galilei. In un senso ingenuo, il cannocchiale riduce (o elimina) una distanza ma, in un altro senso, introduce invece «una distanza ora essenziale, la relazione esterna ed astratta tra fenomeni e osservazione: se l’indagine dei fenomeni è omogenea e indifferente, i fenomeni tutti vanno ugualmente oggettivati, cioè tenuti fermi, a distanza» (p. 57). Gli oggetti, in altre parole, vanno analizzati, smembrati, in proprietà matematizzabili. Questo comporta l’apertura della questione del platonismo galileiano: sebbene, come nota Ferrarin, sia «indubbio che risulterebbe difficile seguire la traiettoria della rivoluzione in astronomia senza una sorta di intima certezza platonica nella razionalità matematica del cosmo» (pp. 60-61), allo stesso tempo occorre capire con precisione quale Platone sia effettivamente in gioco nell’idea di una lingua pura e matematica della cui scrittura il mondo sarebbe intessuto. Rispondere alla domanda «a quale Platone si riferisce Galilei?» implica allora una risposta anche alla domanda «quale ruolo ha la matematica in Platone?». Nei dialoghi platonici, infatti, il reale rimanda alla dimensione ideale, è vero, ma come nota Ferrarin si tratta di due mondi separati e «occorre ricordare che contro la separazione platonica degli enti matematici dal sensibile Aristotele aveva sollevato obiezioni decisive» (p. 63). Il Platone galileiano, dunque, non è il Platone storico; per Galilei esiste una fondamentale omogeneità della geometria, sulla cui base è riposta l’omogeneità del mondo fisico: non si tratta allora di fare scienza nonostante i fenomeni, ma di fare la scienza dei fenomeni, che ritrovano così nuova dignità come effettivo oggetto dell’impresa conoscitiva. Non si tratta di postulare una partecipazione o metessi del reale nei confronti dell’ideale, ma di riconoscere l’effettiva costituzione ideale della realtà.

Ciò che è importante comprendere, per evitare frettolosi fraintendimenti dell’opera galileiana, è però il significato più profondo dell’idea che il mondo sia scritto in lingua matematica. Quest’affermazione non implica infatti che chiunque possieda pienamente la chiave di lettura del testo eidetico del mondo, anzi; ogni lingua, infatti, presuppone un apprendimento, un esercizio nella lettura e nella comprensione. 478px-galileo_galilei_discorsi_e_dimostrazioni_matematiche_intorno_a_due_nuove_scienzeLo sguardo della geometria richiede un addestramento al “vedere” matematico: l’esperienza ingenua e l’immediatamente percepito sono esclusi dall’orizzonte della conoscenza, per essere sostituiti da un contenuto sensibile che è già, in sé, un’astrazione. L’ideale è già nel sensibile, ma è necessario imparare a coglierlo: «la scrittura geometrica rende possibile un’esattezza nella misurazione del sensibile che nessuna osservazione dei corpi attorno a noi potrà mai offrire» (p. 69). I sensi sono, platonicamente, inaffidabili ma non nel senso che dobbiamo abbandonare il contenuto sensibile in favore di logoi astratti e puri nella loro idealità: «è dell’esperienza che vogliamo dar conto. È che da soli i sensi non possono decidere casi in un tribunale» (p. 71). La sensibilità non è più recuperata, come in Aristotele, attraverso un atteggiamento passivo, che vorrebbe il mondo come “naturalmente” auto-offerentesi ai nostri sensi, ma attraverso un atteggiamento attivo, «di chi alla natura si accosta con domande precise e mezzi sufficienti per piegarla a risponderci» (p. 74). L’esperienza non è un punto di partenza assoluto, ma un costrutto, un dato risultato, che si innesta nella nostra dimostrazione per corroborarne le conclusioni. «Non si parte dal particolare – o meglio, non si può non considerarlo all’inizio, ma come uno scalino da buttare dopo che ci ha aperto una visione, perché il particolare nel frattempo è divenuto il caso di un concetto» (pp. 75-76). L’esperienza è momento fondamentale della scienza nella misura in cui, nell’idealità che essa contiene, ci permette un accesso all’universalità del concettuale: «come si vede, l’esperienza in senso galileiano – le “sensate esperienze” – è antiempirista» (p. 76).

Come sappiamo questo gesto epistemologico fondamentale di Galilei ha prodotto una serie di complesse conseguenze, che con Husserl potremmo esprimere come la sostituzione del mondo matematico-matematizzato al mondo della vita. Ferrarin riconosce che la storia di questo processo di progressiva sostituzione può essere narrata in modi diversi (tra questi Ferrarin tocca velocemente quelli di Cassirer, Mondolfo, Weyl, Jonas, Hegel, Husserl) e secondo le opposte prospettive dell’entusiasmo o dell’inquietudine per un mondo ormai poco qualitativo e poco umano. Al di là di queste prospettive di fondo resta però una domanda centrale: sostenere che il sensibile sia comprensibile nella sua dimensione quantitativa a prescindere da qualsiasi riferimento al suo senso (qualitativo, teleologico o soggettivo) non significa in fondo sottovalutare o addirittura sopprimere il problema del rapporto tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo nella conoscenza? Galilei non si limita a sdoppiare il sensibile per far emergere l’oggettività per differenza rispetto all’apparire, ma giunge a cancellare la traccia di questa differenza. Questo è il problema, secondo l’Autore, che si riproduce, con forza inedita, in Cartesio.

La novità dell’impresa cartesiana è data dalla riducibilità delle figure a simboli algebrici: l’essenza di un ente matematico non è più una figura, come in Euclide o in Galilei, ma una formula. In questo senso il concetto, per Cartesio, non deriva dall'intellezione o dall’astrazione del sensibile nell’ideale, ma dalla definizione. In questo senso la matematica non si occupa di imporre ordine e misura a un oggetto già dato in anticipo: «il nuovo metodo è ciò che si dà un oggetto nella forma di ordine e misura» (p. 90). Come si vede, tanto per Galilei quanto per Cartesio, sebbene in un senso diverso, l’apparenza del sensibile diviene un prodotto dell’attività del soggetto conoscente. E in questa attività, in entrambi i casi, assume un nuovo ruolo fondamentale l’immaginazione, in quanto facoltà in grado di presentarci un’esperienza vicaria dell’esperienza sensibile, che costituisce il punto di accesso all’idealità matematica.

È dunque l’immaginazione, tema che Ferrarin ha già esplorato in alcuni precedenti lavori, a divenire il punto di indagine di una ricerca che, da Galilei, si è ora allargata all’intera fondazione della scienza moderna. In Galilei, infatti, l’immaginazione permette un passo metodologico di importanza difficilmente sopravvalutabile, in quanto permette l’accesso a «un’esperienza possibile, che non soffre delle stesse limitazioni e approssimazioni dell’esperienza reale» (p. 93). Quasi come la variazione eidetica di Husserl, l’immaginazione galileiana «varia le circostanze date dall’osservazione fino a stabilire un nucleo invariate non più modificabile, che si imporrà come la vera e unicamente stringente necessità del fenomeno» (p. 93). L’immaginazione ha così un effetto propositivo (nella misura in cui amplia la nostra conoscenza possibile) e critica (perché può fornire elementi utili alla confutazione di un’esperienza limitata). Per contro, in Cartesio l’emergere dell’immaginazione scientifica si salda con la fine della coincidenza dell’ordine dell’intelletto con l’ordine della realtà. Il matematico moderno opera con una libertà inedita su simboli e segni ignorandone metodologicamente il significato: l’immagine non duplica la cosa stessa, ma vi rimanda come cifra o segno. E proprio per questo l’immaginazione assume un nuovo significato: «l’idea ora viene foggiata, sicché diventa importante concentrarsi sulla sua formazione e sulla sua relazione con un potere di sintesi e combinazione, l’immaginazione» (p. 103). Ma proprio in queste due concezioni dell’immaginazione emerge la differenza di fondo tra Galilei e Cartesio nella concezione dell’importanza della matematica rispetto all’esperienza: «In Cartesio la matematica fornisce un modello deduttivo rigoroso; in Galilei, la matematica è usata sì per definire lo statuto del sapere, ma nell’applicazione allo studio dei fenomeni» (p. 111). E proprio in questa differenza emerge il diverso modo dei due di recuperare l’eredità platonica e socratica. Per Galilei dubbio e ignoranza sono parte della scienza e questo ben si comprende nella distinzione tra conoscenza intensiva e conoscenza estensiva. In Cartesio, invece, non si dà possibilità di paragone tra la conoscenza umana e quella divina, che rimane totalmente altra rispetto a quella dello scienziato. Eppure, proprio questo assunto permette di eliminare qualsiasi dubbio sulla conoscibilità del reale, le cui leggi costitutive sono opera di un atto libero del Divino. Per Galilei ciò che importa della creazione è che il creatore abbia fatto ciò che è secondo una lingua a noi intelligibile, per Cartesio invece «la materia non è abbastanza ospitale per forme esatte» (p. 116), destinate a risiedere, invece, nella totale trascendenza della mente. Questo, ci dice Ferrarin, è «il diverso platonismo di Cartesio» (p. 116).

Lo sforzo di questo libro denso e breve è tanto teorico quanto storiografico. Ferrarin tenta la difficile impresa di voler, da un lato, evitare lo stereotipo storiografico, che accomuna lo Husserl de La crisi delle scienze europee con studi decisamente più recenti, di un “Galilei” utilizzato come etichetta o nome collettivo, utile a riassumere e semplificare una fase storica complessa e differenziata. D’altro canto, sempre sul piano storiografico, ciò che da queste pagine emerge è il tentativo di tratteggiare un Galilei figura eminente nel panorama della rivoluzione scientifica che, con Cartesio, opera una trasformazione radicale e netta, il cominciamento di un nuovo modello di sapere. Si tratta di provare a esprimere il significato trascendentale del gesto galileiano senza perdere di vista la concretezza della sua storicità effettiva, della sua testualità materiale. Questo è un problema che già Koyré e, più in generale, l’epistemologia storica hanno dovuto affrontare nel secolo scorso: quello del rapporto tra il livello di un’analisi trascendentale e quello della ricerca storiograficamente fondata. Hélène Metzger, importante storica della chimica e delle scienze della natura del secolo scorso, parlando del lavoro dello storico delle scienze, ebbe a dire che se questi «in premessa delle proprie ricerche, si lasciasse andare a discutere, com’è suo forte desiderio, le diverse opinioni che hanno corso sulla natura del sapere e dell’intelligenza umana, egli rischierebbe davvero di non poter mai cominciare il proprio lavoro»; ma subito si apprestava ad aggiungere: «oso credere che questo sarebbe un danno, e che il filosofo stesso se ne rammaricherebbe» (H. Metzger, La méthode philosophique en histoire des sciences. Textes 1914-1939, Fayard, Paris 1987, p. 42). D’altronde il lavoro dello storico delle scienze, se ben condotto, porta necessariamente alla posizione di questioni filosofiche ed epistemologiche di primo livello. È questo ciò che in effetti accade nel Galilei di Ferrarin, che da studio sulla figura dello scienziato pisano si muta sin dalle prime pagine in indagine genuinamente filosofica sul senso dell’esperienza, della teoria e dell’immaginazione nella conoscenza scientifica. Il rigoroso confronto con i testi e la profonda consapevolezza storiografica dell’autore non costituiscono qui un limite alla riflessione teorica e filosofica. Il volume, nella sua brevità, offre così un’ampia serie di spunti di ricerca tanto per lo studioso dell’età moderna quanto per il filosofo della scienza e l’epistemologo contemporanei. Si tratta infatti, a partire da Galilei e, in seconda battuta, da Cartesio, di porre le questioni del rapporto tra l’esperienza e la teoria, del rapporto tra il tratto eidetico e quello empirico nella conoscenza. Un compito arduo, che certo non può risolversi nell’indagine storica, ma che da questa può sicuramente prendere le mosse.

di Gabriele Vissio

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