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Niklas Luhmann. Comunicazione ecologica
Longform / Ottobre 2021[Pubblichiamo, su gentile concessione dell'editore Franco Angeli, l'Introduzione e la Nota del traduttore al saggio di Niklas Luhmann, Comunicazione ecologica. Può la società moderna affrontare le minacce ecologiche? recentemente ripubblicato con una nuova traduzione. Oltre all'editore ringraziamo Riccardo Prandini e Alberto Cevolini per aver messo a disposizione i loro testi.]
Non c’è davvero miglior tema di quello trattato da questo libro – che ritraduciamo per il lettore italiano – per dare il senso della Collana che lo contiene. Senza correre il rischio d’esagerare, lo indichiamo come l’iper-problema (un problema di problemi) che accompagnerà l’evoluzione socioculturale fino alla prossima catastrofe (qui intesa in termini neutrali come: insorgere subitaneo di un nuovo ordine). È il problema della società (dei suoi sottosistemi e organizzazioni) che, operando sull’ambiente (in specifico quello “esterno”: condizioni e processi fisici, chimici, biologici, ma anche psichici, etc.) mette in pericolo sé stessa, la sua autopoiesi. Questo iper-problema è ormai di moda e attira attenzione, dopo un ventennio abbondante d’incubazione intellettuale: le news ne parlano, i libri si vendono, nascono serie televisive, così come corsi di laurea e Ministeri. La tesi di Luhmann, in anticipo sui tempi (il libro è del 1986, sospinto dall’ondata dei movimenti politici “verdi” e dall’incidente nucleare di Chernobyl) è che attraverso la questione ecologica, la società non giunge tanto a conoscere meglio la “Natura” (magari per “preservarla” o per “migliorarla”: o in casi estremi “abolirla”), quanto a capire che non conosce sé stessa. La radicalità della tesi non è stata colta più di tanto (e certamente non dalla sociologia), mentre hanno guadagnato la ribalta due altri filoni di ricerca: il primo tende a spegnersi nei dibattiti scientifici specialistici e nei forum globali per élite politiche con idee generiche di bene comune e con soluzioni corrispondentemente inadeguate; il secondo, invece, tende ad accendersi nei dibattiti dell’opinione pubblica e nei “social”, per poi spegnersi senza portare a nulla.
Il primo va sotto il nome di “Sostenibilità”. L’Enciclopedia Treccani ne dà la seguente definizione: «Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Basterebbe chiedersi chi e come, oggi, possa conoscere quali saranno i “bisogni da non compromettere” delle generazioni future, per farsi venire qualche dubbio sul senso del tema. Per rispondere, però, basta sapere che esso è stato introdotto nel 1987 con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland dove «venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso». In pratica qui a parlare e ad auto-attribuirsi capacità prognostiche è (l’auto-descrizione de) il sistema politico globalizzato (e i tecnici che gli suggeriscono cosa deve sapere) che si proclama “Centro e vertice” del tutto. Ne consegue una bibliografia infinita di ricerche, Report, Linee guida, Libri Bianchi, etc. – specialmente a trazione economico-giuridica, ma ora anche con l’inserimento delle scienze “dure” e della AI – che scelgono obiettivi e indicatori di sostenibilità, operazionalizzati in variabili e schematizzati in modelli teorici “causa/effetto”, “input/output”. Da questo profluvio di dati (diventati nel frattempo “Big”) apprendiamo, infine, che ogni causa è causata da altro (ed ha concause); così come ogni effetto ha altri effetti (previsti e imprevisti); che gli effetti retroagiscono sulle cause e che queste diventano nuovi effetti; che ogni tentativo di creare la “grande Mappa dell’ecosistema” fallisce, non solo perché gli effetti emergenti delle relazioni tra fatti lo impediscono, ma soprattutto perché ogni ecosistema deve avere un ambiente e nessuna chiusura “totalizzante” è mai possibile: l’equilibrio è una Chimera. A questo punto subentra il mantra del supercalcolo, del machine learning e della tecnologia che curerà la natura (magari sostituendola del tutto, come piano definitivo: il gemello digitale della realtà).
Il secondo filone di ricerca, più recente, prende il nome molto catching di “Antropocene”. Sempre per citare la Treccani, qui si tratta «dell’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera». L’Antropocene è un tema a trazione filosofica, antropologica, climatologica, geopolitica, etc., insomma attira maggiormente gli spiriti forti perché dà la possibilità di fare prognosi sul futuro lontanissimo, previsioni che somigliano molto a visioni, finanche a proiezioni oniriche. Inoltre, permette con grande facilità di identificare il colpevole – l’uomo (in prevalenza maschio) – moralizzando la comunicazione e agevolando la richiesta di risarcimenti e/o compensazioni (in pochi, ma interessanti, casi anche di “scuse” al Creato, o a Gaia). Ma anche qui, a parte l’accordo sul colpevole, sembra che la festa sia finita. Siamo nell’Antropocene, baby! e dobbiamo o uscirne (ma come? e dopo così poco tempo? e dopo che solo alcuni ne hanno approfittato); oppure dobbiamo ridurre l’impatto delle attività (decrescendo? crescendo meglio? smettendo di pensare alla crescita?). Entrambi i filoni sono accumunati dal ridurre il rapporto tra sistema e ambiente a un grande sistema in equilibrio – il famoso eco-sistema – quindi elidendo paradossalmente un polo della distinzione. Un terzo filone sta prendendo ora piede, ed è senz’altro il più intrigante dal punto di vista dell’infotainment. Quello che vede la soluzione nel sostituire la natura con la tecnologia, così da togliere di mezzo il problema stesso: macchine che vivono tra macchine. Rimarrebbe però il duplice problema della produzione d’energia e della comunicazione sensata tra macchine (la famosa gerarchia cibernetica di Parsons!) a rovinare il sogno post-umano e quindi post-sociale. In alternativa rimane solo la retorica dell’homo viator: se siamo destinati dall’inizio a viaggiare sulla navicella “Pianeta Terra”, allora tanto vale proseguire il viaggio colonizzando altri ecosistemi marziani. Fine dell’ecologia terrestre.
Luhmann, per nostra fortuna, prende una direzione diversa. Il problema non è la “cura” del Pianeta Terra (o “della Natura” come la si voglia definire) in sé. Planet Earth sembra cavarsela bene, auto-sostenendosi da circa 4,5 miliardi di anni (gli ominidi, per termine di paragone, datano 21 milioni di anni, sembra) e potendo continuare a farlo anche senza uomini e società, in futuro. E neppure lo è che la società degli umani possa autodistruggersi per così dire dall’interno. L’unica vera possibilità è stata data dall’uso della bomba atomica, ma questo implicherebbe una condizione di guerra globale e perdite settoriali. Perciò il vero tema è che gli effetti del rapporto con la Natura (anche umana) generati dalla società, ri-entrano nella società, cambiando in modo decisivo le sue condizioni di (im)possibilità. La società si mette in pericolo da sé, agendo sul suo ambiente. La prestazione intellettuale del sociologo tedesco è qui duplice: 1) spiegare perché solo la società Moderna si mette in pericolo da sé stessa; 2) individuare un principio di razionalità adatto al problema. Alla base della sua riflessione sta una triplice consapevolezza: che noi “i Moderni” non conosciamo la società in cui viviamo; che dobbiamo abituarci a questa social condition che non prevede alcuna salvezza-soluzione definitiva; che dobbiamo porci domande più sensate alla luce di una teoria sociologica adeguata al questa società.
In estrema sintesi Luhmann mostra come il problema ecologico dipenda solo dalla modalità di “risonanza” della società e dei suoi sottosistemi: gli eventi ambientali (qualsiasi cosa siano) entrano in risonanza con il sistema solo in base alle sue strutture che, a loro volta, dipendono dalla forma di differenziazione sociale. Da questa tesi dipende tutto il resto. Prima conseguenza. Non esiste nessun “Ecosistema” che sintetizzi la società (sistema) e la natura (ambiente), bensì solo e sempre singoli sottosistemi sociali che ricostruiscono – uno alla volta e ognuno in modo diverso – l’ambiente come loro totalità specifica. Seconda conseguenza: la società e i suoi sottosistemi risuonano solo attraverso un filtro estremamente limitato e limitante: la comunicazione. Ciò che non può essere comunicato (o, in seconda battuta, che è comunicato male, genericamente, in modo del tutto inadeguato alla attenzione di audiences sempre più disattente) non diventa “sociale” e quindi non può allarmare la società. Come nel racconto Il silenzio di Don De Lillo, se un blackout colpisse il pianeta, ce ne accorgeremmo, ma non potremmo comunicarlo attraverso i mass-media rimanendo nel silenzio o nel chiacchiericcio dell’interazione casuale. Da questo limite, la assoluta e crescente necessità (oltre che a dover disporre sempre d’energia elettrica!) di poter disporre di “allarmi” in forma di movimenti di protesta (Friday for Future), news, ricerca scientifica, talk politici, Encicliche. Terza conseguenza. A fare la differenza è la forma moderna di differenziazione sociale, in specifico quella di tipo funzionale. Essa caratterizza le strutture e le funzioni dei sottosistemi sociali, generando una società a cui “non riusciamo ad abituarci”. Strutture e processi che non comprendendo, ci impediscono di identificare le condizioni (sempre più improbabili) della nostra vita sociale. Tra queste ne segnaliamo alcune: i) ogni sottosistema (diritto, politica, sanità, formazione, economia, arte, famiglia, mass-media, etc.) può leggere gli eventi ambientali solo mediante il suo codice (diritto/torto, governo/opposizione, salute/malattia, conoscenza/ignoranza, solvenza/insolvenza, bello/brutto, amore/non amore, informazione/non informazione, etc.) senza poterne utilizzare altri (nessun valore “terzo” può intervenire a modificare questa limitazione); ii) oltre ai codici vengono predisposti programmi che servono a decidere i comportamenti sistemici adeguati e che devono, a differenza dei codici, mutare molto velocemente senza poter attendere di coordinarsi con altri programmi (in altri sottosistemi); iii) ogni sottosistema è auto-sostitutivo e nessun altro può venirgli in aiuto dall’esterno: iv) questa autonomia sistemica crea, simultaneamente, maggiore interdipendenza e integrazione (come limitazione di libertà) tra sistemi senza però generare alcuna automatica capacità di coordinarsi per il “bene comune”; v) l’aumento di performance dei sottosistemi – specialmente quello scientifico ed economico – dovuta alla loro funzionalizzazione, è anche una delle maggiori cause degli effetti ecologici negativi; vi) la tecnologia rende possibile realizzare sempre più progetti di cui conosciamo già la pericolosità e che quindi dobbiamo impossibilitare; vii) non è più possibile che alcun “centro e vertice sociale” possa governare gli altri sottosistemi; viii) ogni evento ambientale che risuona in un sottosistema in modo lieve (o pesante), può avere ripercussioni pesanti (o lievi) in un altro sottosistema cosicché si danno simultaneamente troppa o troppo poca risonanza; ix) rispetto a tutte queste comunicazioni funzionalmente codificate, si generano comunicazioni di commento, critica, giudizio che quasi sempre portano a una atmosfera di profonda delusione e pessimismo o di esaltazione e ottimismo. Luhmann, sulla base di questa iper-problematicità, aveva ipotizzato la nascita di una specifica forma comunicativa, basata sulla “paura” che avrebbe sovrascritto le altre comunicazioni, come un tempo faceva la morale. Ma come la morale porta a conflitti d’attribuzione di colpe, così la paura genera il problema della spirale della paura (fear itself) da cui è poi molto difficile uscire. In realtà sembra che questa escalation di paura sia stata evitata dalla “lontananza” del problema, dalla sua scomposizione in sotto problemi e dalla fortissima tendenza che gli attori sociali hanno di attribuire in modo divergente e non allineabile rischi e pericoli.
L’unico sapere, alla fine, evidenzia che le società possono evolvere in modo altamente inadatto al loro ambiente, almeno finché sono in grado di proseguire la loro riproduzione. Non è una buona notizia, anche perché mancano del tutto “soglie” d’allarme: almeno però si guadagna tempo, ma poi non si sa cosa farsene. Con quale forma di razionalità si possa affrontare questo pastiche, se lo si può affrontare, lo lasciamo scoprire al lettore che, tra le righe, apprenderà anche cosa significa vivere in questa società.
di Riccardo Prandini
NOTA DEL TRADUTTORE
Tradurre Luhmann, com’è noto, è difficile. Ma non impossibile. Bisogna senz’altro conoscere bene la lingua tedesca, ma soprattutto bisogna conoscere bene la teoria sociologica che Luhmann ha sviluppato con il titolo programmatico “Teoria della società”, ovvero “Teoria dei sistemi sociali”.[1] Quella che qui si presenta al lettore italiano è la seconda traduzione del libro Ökologische Kommunikation. La prima era apparsa sempre per i tipi di Franco Angeli nel 1989 (2a ediz. 1990; 3a ediz. 1992). Una nuova traduzione si è resa indispensabile essenzialmente per due motivi.
Prima di tutto, perché i diritti d’autore stavano per scadere e già da qualche tempo si era manifestato nel contesto italiano un rinnovato interesse accademico nei confronti di una pubblicazione che era stata ormai dimenticata. Una certa sensibilità “di ritorno” sul piano dell’opinione pubblica per i temi dell’ecologia – penso per esempio ai Fridays for Future o alla così detta “green economy” – hanno senza dubbio contribuito a spostare di nuovo il tema dell’ambiente nelle posizioni più alte dell’agenda dei mass media. Si potrebbe osservare che tutto questo lo si era già visto più di quarant’anni fa, che non ci sia dopo tutto granché di nuovo, e che l’opinione pubblica si lasci facilmente sedurre da atti eclatanti senza vedere i paradossi che spesso si nascondono dietro, come succede quando per raggiungere New York anziché prendere l’aereo ci si imbarca su uno yacht di ultimissima generazione, a basso impatto ambientale e ovviamente estremamente costoso, per mostrare così come si dovrebbero comportare tutti gli amanti dell’ambiente facendo, allo stesso tempo, quello che nessuno può permettersi concretamente.[2] Ma questo è già un tema che richiede una certa preparazione sociologica, e l’idea era appunto quella di rendere di nuovo disponibile al pubblico italiano un testo che su questo ha ancora molto da dire.
Per fare in fretta, si sarebbe potuto semplicemente ristampare la versione precedente, ma un rapido esame ha reso subito evidente che la prima traduzione non poteva essere riproposta. Troppo spesso infatti il senso del testo tradotto era (non solo in confronto all’originale) un vero e proprio non senso. Qualche esempio solo per capirsi. La frase abbastanza semplice «[...] weshalb unserer Gesellschaft es trotz, und gerade wegen, ihrer zahlreichen Funktionssysteme so schwerfällt [...]» diventa in italiano «perché la nostra società lo sfidi [lo sfidi?!], e proprio a causa dei suoi molteplici sistemi funzionali, riesca così difficile [...]» anziché «perché per la nostra società sia così difficile [...] nonostante, anzi proprio a causa, dei suoi molteplici sistemi di funzione».[3] La frase «[...] wenn man den Teilnehmern Turing-Qualitäten à la “kein Bock” durchgehen lassen will» diventa in italiano «se non si vuole permettere ai partecipanti qualità di Turing», anziché «se si accetta che i partecipanti possiedano qualità previste dal test di Turing del tipo “Non ne ho voglia”». Qui, come altrove, non solo la frase viene amputata, ma il senso viene rovesciato: se si trattano gli studenti come “macchine non triviali”, bisogna ammettere come valide anche risposte del tipo: “Non mi va” (mentre da una macchina del caffè una risposta del genere sarebbe impossibile).[4]
Casi del genere si ritrovano pressoché in ogni paragrafo, quindi a dozzine in ogni capitolo, e questo in tutti i capitoli del libro. Non ci vuole molta immaginazione per capire quale effetto una tale traduzione possa aver fatto sul lettore italiano. Si potrebbe anche dire tranquillamente: un effetto contrario a quello che l’edizione originale del libro ha avuto sul pubblico tedesco. Se infatti la precedente versione di questo libro ha contribuito a diffondere in Italia l’immagine di Niklas Luhmann come di un sociologo criptico, ingarbugliato e proprio per questo piuttosto fastidioso, in Germania lo stesso libro riusciva a suscitare negli anni ’80 un ampio dibattito anche in virtù del fatto che di tutti i contributi del sociologo di Bielefeld quello presente è senza dubbio uno dei più immediatamente accessibili anche per chi non avesse molta familiarità con la teoria dei sistemi sociali.[5]
Peggio comunque di una pessima traduzione c’è solo il fatto che essa venga pubblicata. E qui bisogna ammettere che la traduttrice non ha colpe. Poiché la prima edizione italiana era introdotta da un lungo saggio di un noto (e influente) sociologo di Bologna, è plausibile ipotizzare che la traduzione fosse stata eseguita su commissione. Più che dedurre conclusioni sulle competenze della traduttrice, quindi, la traduzione consente di dedurre conclusioni su chi ha messo a disposizione del pubblico italiano una parte dell’opera di Luhmann alla fine degli anni ’80. Ciò potrebbe costituire il punto di partenza per una ricerca sulla ricezione del lavoro teorico di Luhmann in Italia che, per quanto ne so, manca ancora. Si tratterebbe, in un senso più ampio, di una ricerca sociologica sull’uso e la diffusione della teoria sociologica nella società.
L’auspicio di questa seconda traduzione – che non sarà perfetta poiché ogni traduzione è per definizione migliorabile – è che essa possa essere quanto meno più fedele al senso originario e più intelligibile per il lettore italiano. Seguire Luhmann nelle sue riflessioni, cioè osservare la società dal punto di vista di quel particolare sistema di osservazione che è la teoria dei sistemi sociali, resta un compito faticoso. Più che altro perché bisogna sforzarsi di assumere una prospettiva insolita che non asseconda il senso comune e tanto meno la morale. Mettendo a disposizione del pubblico italiano una nuova traduzione di Comunicazione ecologica, la speranza è che essa riesca a suscitare se non proprio entusiasmo, quanto meno un po’ di interesse nei confronti di quella che resta comunque una delle proposte più originali che la teoria sociologica abbia prodotto nell’ultimo secolo.
[1] Dico “programmatico” perché Luhmann ha sempre considerato il suo lavoro teorico come “provvisoriamente definitivo”. A dimostrazione di questo si veda anche solo la versione di una teoria generale della società pubblicata di recente con il titolo Systemtheorie der Gesellschaft, Berlin, 2017 che rappresenta soltanto uno dei quattro manoscritti poi maturati nell’opera monumentale Die Gesellschaft der Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1997. Il manoscritto in questione risale ai primi anni ’70.
[2] Il riferimento è ovviamente alla traversata dimostrativa dell’Atlantico di Greta Thunberg nell’estate del 2019.
[3] Cito dalla 3a ediz. di Niklas Luhmann, Comunicazione ecologica. Può la società moderna adattarsi alle minacce ecologiche?, Milano, 1992, p. 94.
[4] Luhmann, Comunicazione ecologica, op. cit., p. 194.
[5] Non a caso Luhmann ha aggiunto in fondo al libro un glossario dei principali termini tecnici impiegati – un unicum nella vastissima produzione del sociologo tedesco.
di Alberto Cevolini
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Aut aut 383 – L’Inland Empire di Niklas Luhmann
Recensioni / Novembre 2019Il numero 383 di aut aut, Niklas Luhmann. Istruzioni per l'uso, apparso questo settembre e curato da Giovanni Leghissa, esce a distanza di un ventennio dalla morte del sociologo di Lunemburgo; un numero che, come recita il titolo, ambisce a fornire le “istruzioni per l’uso” per chi voglia addentrarsi nel corpus di un autore oramai ai margini di qualsiasi dibattito, estraneo a qualsivoglia wave attualmente in voga e vivo solo dentro gli angusti confini di un risicato manipolo di ricercatori che, a discapito di tutto, prosegue il suo lavoro. L’obiettivo del volume è chiarito nella premessa: «non si è voluto tentare un’operazione monumentalizzante-storicizzante – del tipo: ciò che è vivo e ciò che è morto della teoria di Luhmann. Più modestamente, si sono volute indicare alcune piste di ricerca che mostrino a cosa può servire, oggi, la teoria dei sistemi se usata in un certo modo» (pp. 3-4). Cosa farsene di Luhmann? A cosa (e a chi) potrebbe servire? Perché dovrebbe valere la pena sottoporsi a un vero e proprio tour de force per addentrarsi in un edificio teorico ostico, totalmente arroccato su se stesso e per giunta poggiante su fondamenta instabili, sui cirri del paradosso e sui nembi dell’autoreferenza? Come scrive Andronico nel suo contributo, «leggere Luhmann non è facile, si sa, e per molti è persino noioso. Ma è necessario. Oggi più che mai, verrebbe da dire» (p.111).
A rendere poco agevole la lettura di Luhmann, oltre a una scrittura contratta che richiede di essere districata pazientemente, è l’assenza di punti fissi all’interno della sua teoria dei sistemi: con facilità ci si perde nei suoi meandri e non di rado si è soggetti a spaesamento e vertigine. Si prenda, come esempio, la distinzione tra sistema e ambiente, chiave di volta del suo edificio. I due termini, lungi dal rimandare a referenti stabili, assumono un valore meramente posizionale e funzionale: il sistema S1 è nettamente distinto dal suo ambiente (tutto ciò che non è S1); al contempo, nell’ambiente è possibile selezionare altri sistemi S2, S3,…, Sn, rispetto ai quali S1 costituirà parte dell’ambiente. La distinzione tra sistema e ambiente è dunque in funzione della peculiare selezione operata da un osservatore che circoscrive un sistema intorno al quale permarrà un non-circoscritto (l’ambiente) che costituisce il residuo di un’operazione di selezione, ciò che non è stato (ancora) selezionato.
Un secondo motivo di inciampo risiede nel carattere ricorsivo della teoria dei sistemi: la distinzione tra sistema e ambiente può applicarsi al sistema stesso, nel quale può essere distinto uno spazio circoscritto da uno non-circoscritto. Come per il triangolo di Sierpiński, che può essere diviso in quattro triangoli ognuno dei quali può essere diviso in quattro triangoli e così all’infinito, la teoria dei sistemi produce un frattale in cui una stessa operazione si ripete su di un’infinità di livelli. Ma ogni distinzione prodotta sarà posizionale e funzionale, e in tal modo il sopra e il sotto, l’inizio e la fine, il dentro e il fuori, il centro e la periferia, ecc., non rimanderanno a referenti fissi, ma a una precisa e contingenziale operazione di osservazione.
Come se non bastasse, allo spaesamento va aggiunta una sensazione di claustrofobia, perché se è vero che entrare nella “fortezza” di Luhmann non è facile, ancora meno facile è uscirne una volta dentro. L’auto-referenza che caratterizza la teoria dei sistemi istituisce uno spazio paradossale che ricorda alcune litografie di Escher, come Cascata o Salita e discesa: più si sale e più ci si ritrova in basso, più ci si approssima alla fine e più ci si ritrova in prossimità dell’inizio. In tal modo, più tentiamo di avvicinarci al fuori di quest’inland empire e più ci scopriamo vicini al suo cuore pulsante.
Detto ciò, diventa lecito chiedersi perché mai la teoria dei sistemi dovrebbe essere, oggi più che mai, necessaria. Cosa farsene di una mappa della società così complessa da richiedere di essere mappata da altre mappe? In che maniera la teoria dei sistemi può aiutare a orientarsi nel presente se essa stessa, al suo interno, non garantisce punti di orientamento stabili? Leggendo Luhmann si può provare uno sconforto simile a quello suscitato dalla scena di Stanlio e Ollio nel labirinto, quando Stanlio si imbatte nel cartello segnaletico che indirizza verso l’uscita e ha la bella idea di sradicarlo dal suolo e di muoversi nel labirinto portandoselo appresso: come ritrovare l’uscita se ogni punto di riferimento è andato perduto?
Date queste premesse, il numero di aut-aut non può che presentarsi come una vera e propria sfida: si tratta di rimettere in circolo la teoria dei sistemi e di testare la sua portata rispetto a questioni percepite dagli autori come urgenze (teoriche, politiche ed etiche). Il numero si compone di nove contributi, tra cui la prima traduzione italiana dell’articolo di Luhmann dal titolo Deconstruction as Second-Order Observing (1993), nel quale l’autore mostra le affinità tra l’operazione decostruttiva derridiana e la funzione svolta nella teoria dei sistemi dall’osservazione di second’ordine. Gli altri contributi vertono su: la relazione tra senso e paradosso nella teoria dei sistemi (Alberto Giustiniano) e la messa a fuoco di tale relazione nella produzione poetica (Cary Wolfe); la possibilità di utilizzare la teoria dei sistemi come cornice operativa per una teoria post-umanista della società (Maria Cristina Iuli); la funzione attribuita da Luhmann ai diritti umani e il loro rapporto con la modernità (Edoardo Greblo); le implicazioni politiche della teoria dei sistemi, in special modo rispetto al codice del potere e alla produzione di legittimità (Alberto Andronico); la tensione tra sguardo assoluto e sguardo situato condotta mettendo in risonanza Luhmann con Cusano (Gianluca Cuozzo); la ridefinizione (o meglio, la ricollocazione) del soggetto trascendentale alla luce della teoria dei sistemi (Giovanni Leghissa).
Non potendo, per ragioni di spazio, rendere conto di ogni singolo contributo, ci limiteremo a rapide incursioni con l’obiettivo di sondare alcuni dei tanti sentieri percorribili all’interno del volume. Ci concentreremo essenzialmente sulle implicazioni epistemologiche della teoria dei sistemi messe in luce in alcuni dei contributi, che ci sembrano costituire il nocciolo duro del volume, e proveremo a ricavarne alcune implicazioni etico/politiche.
Prima di iniziare la nostra ricognizione potrebbe essere opportuno fornire un quadro di alcuni postulati fondamentali della teoria dei sistemi, enucleati da Cary Wolfe nella maniera seguente (pp. 52-53): (1) la sostituzione delle dicotomie ontologiche proprie dell’umanesimo (natura/cultura, spirito/materia, mente/corpo, ecc.), le quali rimandano a referenti fissi, con la distinzione funzionale tra sistema e ambiente, i cui referenti sono instabili e contingenti; (2) l’asimmetria tra sistema e ambiente in termini di complessità, data dal fatto che qualsiasi sistema opera in un ambiente che gli è infinitamente più complesso; (3) la conseguente mancanza di varietà necessaria da parte del sistema per potersi rappresentare il mondo punto per punto, che lo costringe a filtrare la complessità dell’ambiente attraverso i propri codici autoreferenziali, cioè tramite operazioni di riduzione selettiva; (4) la coincidenza tra la riduzione della complessità esterna e l’aumento della complessità interna; in altri termini, la riduzione, per opera dell’autoreferenza del codice sistemico, della complessità ambientale è in grado di aumentare la varietà delle irritazioni tollerate dal sistema, dunque di renderlo maggiormente robusto rispetto a perturbazioni ambientali inedite.
Con questo bagaglio di assunzioni possiamo iniziare a tracciare un sentiero attraverso il volume. Pocanzi abbiamo accennato alla topologia paradossale cui i concetti chiave della teoria dei sistemi rimandano, ed è proprio dal paradosso che vogliamo cominciare. Per Luhmann si ha un paradosso quando un’osservazione si rivolge a se stessa. Un sistema che osserva, come abbiamo già accennato, circoscrive uno spazio di osservazione (chiamiamolo A) che in tal modo sarà distinto da uno spazio non-osservato (chiamiamolo non-A). L’osservatore può continuare a operare o sullo spazio di osservazione (applicando ricorsivamente la stessa distinzione) o sullo spazio non ancora osservato (inaugurando una distinzione inedita, dunque circoscrivendo un nuovo spazio di osservazione), ma non potrà operare sui due spazi contemporaneamente. Cosa accade nel momento in cui l’osservazione prova ad applicarsi a se stessa? Cosa succede, in altri termini, se l’osservatore cerca di osservare A e non-A nello stesso momento? Si genererà un cortocircuito paradossale, dato che l’osservatore applicherà la propria distinzione alla distinzione stessa, rendendo problematica un’allocazione di valori: la distinzione tra A e non-A è A o è non-A? Tale questione è per l’osservatore indecidibile: qualsiasi risposta dia i due valori saranno inclusi, in quanto la scelta di A implicherà non-A e la scelta di non-A implicherà A. A questo punto l’osservazione si blocca. Come si esce da questa impasse? Da una parte si può sbarrare completamente la via all’autoreferenza, dall’altra si può introdurre un’asimmetria – aggiungendo un livello di osservazione – capace di rendere l’autoreferenza non paradossale. Ma in questo secondo caso, come scrive Giustiniano nel suo contributo, il paradosso non diventa «un’eventualità da evitare ma indica un salto di livello, l’aggiunta di un osservatore che sarà in grado di osservare la distinzione, la ‘macchia cieca’ dell’osservatore sottostante e che a sua volta potrà essere osservato in quanto operazione a un altro livello» (p. 52).
Delineare il profilo dell’osservatore di second’ordine è forse il centro focale del presente numero di aut-aut. L’osservatore potrebbe essere definito, in maniera minimale, come qualunque sistema (umano, animale, macchinico, sociale) in grado di ridurre l’incertezza del suo ambiente tramite operazioni di selezione e di distinzione. Ogni osservatore può vedere solo ciò che le sue distinzioni gli permettono di vedere. Riprendendo un’espressione di Heinz von Foerster, un osservatore «non vede che non si vede ciò che non si vede» (cit. da Giustiniano, p. 53). In ogni osservazione vi è un punto cieco, che è dato dal non poter vedere, nello stesso momento, ciò che cade dentro e ciò che cade fuori il proprio spazio di osservazione. Il paradosso che risulta dal provarci può essere svolto solo da un osservatore di second’ordine, il quale osserva l’osservatore di prim’ordine (e le operazioni da questi compiute). Tuttavia, lo stesso osservatore di second’ordine non può vedere contemporaneamente i due lati della distinzione che la sua osservazione produce, i quali potranno essere visti solo da un altro osservatore, e così via all’infinito. Per quanto si moltiplichino gli “ordini di osservazione”, non si perverrà mai a una osservazione senza una propria macchia cieca, cioè a un’osservazione in grado di essere fondamento stabile per ogni altra osservazione. È su questa base che Leghissa, nel suo contributo, ricolloca nel mondo il soggetto trascendentale husserliano trasformandolo in un osservatore di second’ordine; ed è sulla stessa base che Cuozzo, mettendo in risonanza Luhmann con Cusano (l’unico riferimento filosofico costante del sociologo), mostra le implicazioni dell’incolmabile asimmetria tra l’absoluta visio di Dio – che può cogliere la verità semplice – e la parzialità, dovuta all’isolamento prospettico, di ogni conoscenza umana. Riprendendo un’efficace immagine di Cusano, quella del poligono tracciato nel circolo (dove il circolo è simbolo della conoscenza divina e il pentagono della conoscenza umana), Cuozzo mostra come tanto per Cusano quanto per Luhmann la possibilità di osservare tutte le osservazioni (quindi la capacità di vedere la propria macchia cieca) pertiene alla sfera teologica: ogni angolo del poligono è un punto di vista sull’assoluto, ma per quanto i punti di vista vengano moltiplicati all’infinito essi non potranno mai essere trasformati in absoluta visio, il poligono non potrà mai diventare circolo.
La teoria dei sistemi, dunque, conduce all’idea che il fondamento del sapere si trovi disperso in una molteplicità di osservatori, i quali possono vedere ciò che gli altri non vedono e possono essere visti da altri osservatori in ciò che essi non vedono. La conseguenza principale è che tutte le descrizioni del mondo diventano contingenti, in quanto qualsiasi descrizione prodotta da un osservatore potrà essere revocata da un altro osservatore. Per tale ragione Luhmann considera isomorfe l’osservazione di second’ordine e l’operazione di decostruzione. All’origine vi è una differenza: l’osservatore risulta da una differenza (quella tra sistema e ambiente) e produce differenze (le varie distinzioni che costruirà a partire da un unmarked space). Ma qualsiasi distinzione prodotta da qualsivoglia sistema che osserva (e ogni sistema in grado di operare una distinzione è, per Luhmann, un sistema che osserva) potrà essere revocata (cioè decostruita) da un altro sistema che osserva, il quale può essere in grado di vedere i due lati della distinzione prodotta dal primo sistema: in tal modo esso potrà scegliere di accettarla o dismetterla (in questo caso Luhmann fa riferimento alle operazioni transgiuntive di Gotthard Günther, vedi p. 17) ; non potrà però esimersi dal produrre ulteriori distinzioni (come osservatore non può far altro), le quali potranno essere accettate o dismesse da altri osservatori.
Questa rete di osservatori non produce gerarchie lineari e fisse ma eterarchie o “gerarchie ingarbugliate” (si veda il contributo di Andronico, pp. 124-126). Sebbene le espressioni “osservatore di prim’ordine” e “osservatore di second’ordine” rimandino a un’asimmetria di livelli, la distinzione tra un primo e un secondo ordine è sempre posizionale e funzionale, rimanda a un ruolo che è possibile occupare solo in maniera transitoria. Può infatti darsi il caso che l’osservatore A sia di second’ordine rispetto all’osservatore B, che l’osservatore B sia di second’ordine rispetto all’osservatore C, e che l’osservatore C sia di second’ordine rispetto all’osservatore A. Nessuno dei tre osservatori potrebbe occupare la cima di una scala gerarchica.
A questo numero di aut-aut bisogna dare il merito di mettere a fuoco tali questioni (non è cosa da poco, specie in una stagione filosofica segnata dalle waves realiste, nella quale prendere sul serio il più radicale tra tutti i costruttivisti radicali espone al rischio di attirare su di sé risate di scherno). La teoria dei sistemi ci costringe a pensarci come sistemi che osservano tra sistemi che osservano, ognuno dei quali ha uno spettro di osservazione limitato e può operare su una ristretta porzione di mondo. Sul piano sociale essa ci invita a intendere la società, venuta a profilarsi con la modernità, come una rete eterarchica, dove ogni organizzazione o sottosistema sociale, essendo operativamente chiuso, riproduce le sue operazioni in maniera autopoietica e autoreferenziale, istituendo partizioni d’ordine funzionali alla propria sopravvivenza. In quest’ottica nessun sistema sociale gode di un privilegio sugli altri: la società non si compone di un livello strutturale e di uno sovrastrutturale e in essa diventa impossibile ravvisare un unico centro di integrazione tra sottosistemi.
Ciò, da una parte, può gettarci nello sconforto, producendo un senso di impotenza e schiacciamento rispetto a sistemi sociali che, portando avanti la loro autopoiesi, fanno il loro corso indifferenti alla volontà degli individui: dinnanzi alle crisi che il presente ci pone (in primis la crisi ecologica) l’individuo non può che sentirsi impotente e per giunta sbigottito dal fatto che chi dovrebbe occuparsene non se ne occupa, provando l’amara sensazione, sempre tanto lesiva del nostro narcisismo, di non avere il controllo su niente. D’altronde, chi dovrebbe occuparsene? Quale sottosistema sociale dovrebbe farsi carico della crisi ecologica? Il sistema politico, naturalmente. Ma il sistema politico, che per Luhmann è un sottosistema sociale tra tanti e non gode di nessun privilegio, ha i suoi problemi, dati dall’esigenza di riprodurre le proprie operazioni specifiche, e la crisi ecologica solo adesso si affaccia in maniera seria nella sua agenda. In ogni caso, il sistema politico, pur auspicando al suo interno una green turn, non potrebbe imporre le sue operazioni agli altri sistemi sociali, potrebbe solamente “irritarli”: ma il modo in cui qualsiasi sistema sociale reagisce a un’irritazione ambientale non può essere previsto e dunque controllato.
Dall’altra parte, l’individuo alle prese con la tossicità del contesto in cui vive, potrebbe volgere in positivo questa impossibilità di controllare le cose e di poterle rivoluzionare. Accettare che non esiste un osservatore in grado di esercitare un controllo assoluto, dischiude un vero e proprio spazio etico. Si potrebbe allora imparare dalle strategie adottate da chi vuole assolutamente liberarsi dalla tossicità vissuta sulla propria pelle per continuare a vivere (la pletora degli addicted di ogni tipo – rispetto a questo tema, non si smetterà mai di imparare dallo scritto di Gregory Bateson La cibernetica dell’“io”: per una teoria dell’alcolismo). Non ci possiamo liberare da una dipendenza senza prendere coscienza che la “sostanza” di cui siamo dipendenti è più forte di noi. In tal senso l’auto-controllo serve a poco (in quale sottosistema di quel sistema che chiamiamo “persona” risiederebbe il centro di controllo?). Accettare di non avere il controllo assoluto, che il corso delle cose non dipende da noi, può permettere di spostare l’attenzione su ciò che veramente possiamo fare, qui e ora, nei nostri angusti limiti. La teoria dei sistemi invita a questo, e in essa ci sembra riecheggiare la Preghiera della Felicità che i membri degli Alcolisti Anonimi recitano quotidianamente: “Mio dio, concedici la serenità per poter accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare le cose che possiamo cambiare, e la saggezza per riconoscere la differenza”.
di Luca Fabbris