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Se si considerano le già numerose traduzioni italiane dell’ingente corpus di Bernard Stiegler, colpisce come soltanto recentemente sia stato tradotto il primo volume di Tecnica e tempo, La colpa di Epimeteo (Luiss University Press 2023), uno dei suoi testi principali. La pubblicazione, considerando il valore fondativo che riveste nella produzione stiegleriana, rappresenta – riprendo l’espressione di Paolo Vignola, curatore del testo, nonché di molte altre opere di Stiegler – un “supplemento necessario” per la comprensione del filosofo da parte del lettore italiano. Come osserva Vignola nella prefazione, le numerose traduzioni già presenti in Italia si sono spesso limitate a testi autobiografici o di occasione, causando nel lettore «un appiattimento del pensiero stiegleriano sulla sua componente più sensazionalistica, di attualità o in certi casi militante» (Vignola 2023, p. 10), oscurando però la dimensione schiettamente filosofica da cui traggono origine. Data questa particolare situazione editoriale, la traduzione italiana di La colpa di Epimeteo permette al lettore di affrontare la componente strettamente teoretica del pensiero di Stiegler.
Pur rappresentando solamente la prima parte della monumentale serie Tecnica e tempo – in tutto sette libri, di cui tuttavia sono stati pubblicati solamente i primi tre (Stiegler 2018) –, La colpa di Epimeteo contiene il nucleo più strettamente teorico del pensiero di Stiegler, ossia la proposta di rendere la «techne il terzo incomodo tra Natura e Cultura, ma anche tra physis e bios» prendendo quindi in considerazione «contro o al di là della tradizione filosofica, […] questo “altro inorganico”, ossia la materia degli enti tecnici. Si tratta, per Stiegler, della materia inorganica che, nell’essere organizzata dall’uomo, inventa e reinventa costantemente e dall’interno la natura di quest’ultimo, rendendo impossibile stabilire quelle opposizioni dicotomiche di cui si nutre la metafisica occidentale» (Vignola 2023, p. 11). Se fin «dalla sua stessa origine, e fino a ora, la filosofia ha rimosso la tecnica come oggetto di pensiero» (Stiegler 2023, p. 45), l’intento di Stiegler è «pensare in un unico movimento (l’“origine” della) tecnica e (l’“origine” dell’) uomo» (p. 175). Tale movimento – già rintracciabile nella différance derridiana, di cui Stiegler offre una rilettura originale – non si limita a concepire la tecnica come rottura all’interno della vita pura in generale (Derrida 2021), quanto di indicare in questa rottura la genesi stessa dell’uomo come «continuazione della vita con altri mezzi rispetto alla vita» (Stiegler 2023, p. 64). In altri termini, l’uomo compare nel momento in cui compare la tecnica e viceversa. Questa correlazione rappresenta per Stiegler la particolarità dell’homo sapiens, aspetto che forse Derrida avrebbe ritenuto ancora troppo tradizionale (Derrida 2020).
Debitrice di Derrida (Derrida 2015) è invece la strategia messa in atto da Stiegler di leggere in maniera decostruttiva il rapporto che la filosofia occidentale ha intrattenuto – o, meglio, non intrattenuto – con la tecnica, da sempre relegata al polo deteriore di ogni dicotomia, quello fuori dal privilegio spirituale del logos, senza assurgere mai quindi alla piena dignità di una questione filosofica. L’obiettivo è perseguito in particolare attraverso un’approfondita lettura di Heidegger, di cui il titolo della serie – Tecnica e tempo, da accostare a Essere e tempo – sembra essere testimone. Ciò è dovuto alla posizione teorica di Heidegger, a cui Stiegler ascrive il merito di aver indicato l’insufficienza di una «definizione strumentale e antropologica della tecnica» (Heidegger 1976, p. 5). Nell’ottica del filosofo francese, Heidegger non avrebbe tratto tutte le conclusioni del passaggio da una considerazione di quest’ultima come semplice mezzo alla comprensione della sua importanza ontologica: la tecnica rimane comunque identificata come il polo deteriore all’interno della dicotomia con la physis, su cui la tecnica si imporrebbe con violenza. Heidegger rappresenta quindi il pensiero che più di tutti va affrontato e decostruito per ottenere una più profonda comprensione della tecnica. Se per Heidegger alla tecnica è escluso il ruolo di originario, lo scopo di Stiegler è proprio quello di «pensare il tempo nell’orizzonte di una tecnicità originaria come oblio originario dell’origine» (Stiegler 2023, p. 52).
Se tale lettura verrà completata nella seconda parte, la prima, L’invenzione dell’uomo, ne prepara il terreno. Proprio in quest’ultima, attraversando autori come Gille, Simondon, Rousseau e Leroi-Gourhan, Stiegler realizza il definitivo distacco dalla “definizione strumentale della tecnica”. Ciò permetterà di rileggere la tecnica come materia inorganica organizzata, tertium tra materia e forma capace di incrinare l’ilemorfismo, il quale oppone ad una materia inerte e docile la superiorità del logos sovrano che la plasma. Come nel Derrida della Grammatologia, anche qui Rousseau è preso come fulgido esempio delle configurazioni storiche di questa opposizione, diventando il simbolo dell’uscita dell’uomo dalla purezza dello stato di natura. Ecco che la lettura di Rousseau permette così a Stiegler di indicare «per antitesi come tutto ciò che è nell’ordine di quello che di solito si considera propriamente umano sia immediatamente e irrimediabilmente legato a un’improprietà, a un processo di “supplementazione”, protesizzazione o esteriorizzazione, […] dove tutto è mediatizzato e strumentalizzato, tecnicizzato, disequilibrato» (p. 174).
Ciò può avere un valore deteriore soltanto qualora si leggano queste parole alla luce di una comprensione dell’oggetto tecnico come semplice strumento. Qualora invece ci si volga, come fa Stiegler, verso Leroi-Gourhan, si arriva a vedere la questione in altri termini: lo sviluppo della selce è inscindibile dallo sviluppo della corteccia cerebrale; proprio questo «rapporto co-evolutivo dell’uomo e della tecnica» (Vignola 2023, p. 31) è il livello in cui Stiegler situa la différance. Se l’intento di questa prima parte consisteva nell’invenzione dell’uomo, la rilettura della différance permette di approfondire la questione: come va intesa l’ambiguità del genitivo nell’espressione “l’invenzione dell’uomo”? Fra la tecnica e l’uomo, chi occupa il posto del “chi” e del “cosa”? Ecco che la différance permette di pensare al rapporto tra questi termini evitando di dare il primato, qualunque esso sia, a uno dei due: non c’è “chi” senza “cosa”, non si dà cioè un’interiorità spirituale che, intatta e già completamente realizzata, si volge all’esterno per modellarlo. Semmai, quanto appena detto va compreso come il risultato di un unico processo, i cui risultati sono quindi dipendenti, e non opposti, l’uno dall’altro. Come conclude molto chiaramente Stiegler, «l’interno è inventato da questo movimento: non può quindi precederlo. Interno ed esterno si costituiscono quindi in un movimento che li inventa entrambi: un movimento in cui si inventano l’uno nell’altro, come se ci fosse una maieutica tecno-logica di ciò che chiamiamo uomo» (Stiegler 2023, p. 184). L’uomo quindi esteriorizza, tramite lo strumento tecnico, un’interiorità che non preesiste a questa stessa esteriorizzazione.
Epifilogenesi è il nome che viene dato a questa dinamica, ossia lo strappo che separa la nascita stessa e lo sviluppo dell’uomo dalla pura vita organica per affidarlo costitutivamente al tecnico. Se lo strumento tecnico è esteriorizzazione, protesi, questo è per Stiegler memoria esteriorizzata. Ciò significa che accanto alla memoria genetica della specie, e a quella epigenetica dell’individuo, si pone il terzo termine della memoria epi-filo-genetica, cioè appunto lo strumento tecnico, «l’accumulo ricapitolativo, dinamico e morfogenetico (filogenesi) dell’esperienza individuale (epi)» (p. 218) indicando così «la comparsa di una nuova relazione tra l’organismo e il suo ambiente, che è anche un nuovo stato della materia: se l’individuo è una materia organica e quindi organizzata, il suo rapporto con l’ambiente (con la materia in generale, organica e inorganica), quando è un chi, è mediato da questa materia organizzata anche se inorganica che è l’organon, lo strumento con il suo ruolo istruttore (il suo ruolo di strumento), il cosa. È in questo senso che il cosa inventa il chi tanto quanto è inventato da esso» (ivi). Di conseguenza, se non è possibile parlare dell’uomo senza le sue protesi tecniche, e se queste rappresentano la sua memoria epifilogenetica, ciò segnala non solo l’impossibilità di ridurre lo strumento a mezzo, ma anche l’obbligo di concepire la temporalità a partire dalla sua stessa articolazione tecnica, cioè «pensare la relazione tra essere e tempo come una relazione tecno-logica, se è vero che essa si tesse unicamente nell’orizzonte “originario” della tecnica» (p. 175).
La prima parte del testo si chiude, quindi, con la messa in campo di questi strumenti teorici, introducendo così una lettura decostruttiva di Heidegger, compiuta nella seconda e ultima parte del testo. Essa sarà volta a rintracciare in Heidegger l’estremo esempio dell’esclusione della tecnica dal pensiero, dove vengono opposti il «tempo del calcolo (tempo inautentico della misura, del tentativo di “determinare l’indeterminato”) e [il] tempo autentico come rapporto alla morte» (p. 220). Ma Stiegler non si ferma a questo punto, in piena consonanza con l’eredità del maestro (Derrida 1997, 2010) bensì ricava dalla decostruzione di questi concetti heideggeriani lo spazio per un’analitica esistenziale della tecnica, «un’analisi della protesicità» (Stiegler 2023, p. 2020) capace di mostrare come lo strumento tecnico sia inscritto nella costituzione stessa dell’esserci.
Questa nuova analitica della protesicità non potrà più fondarsi, come in Heidegger, sulla favola di Igino, che rintraccia nella Cura la costituzione fondamentale dell’esserci (Heidegger, 2005a, §42), bensì sul mito di Prometeo, e in particolare sulla figura del fratello Epimeteo. Nel mito, e specialmente nella versione del Protagora platonico, Stiegler ravvisa il «legame originale» (Stiegler 2023, p. 223) che tiene uniti tecnica e tempo. Se può stupire che Heidegger non abbia mai parlato di questo mito, se non in maniera cursoria (Heidegger 2005b), maggiormente colpisce la dimenticanza della figura stessa di questo oblio, Epimeteo. È proprio nella vicenda del mito che Stiegler vede la conferma e l’approfondimento di quanto trattato finora: la nascita dell’uomo è dovuta alla colpa di Epimeteo, che dimentica di fornire all’uomo le δυνάμεις per vivere, donandole tutte agli altri animali. Questa dimenticanza è l’origine dell’uomo: «all’origine ci sarà stato solo il difetto, che è appunto il difetto d’origine e l’origine come difetto» (Stiegler 2023, p. 228). Ma Epimeteo, “colui che pensa dopo”, figura della dimenticanza e dell’oblio, è soltanto uno dei due poli dell’origine: questa mancanza viene raddoppiata dall’accorto fratello Prometeo che, rubando il fuoco, dona la tecnica all’uomo. Questo dono porta con sé i tratti del suo donatore: tramite la tecnica l’uomo si costituisce, può prevedere e progettare il proprio esistere, essendo entrato nel tempo. Ecco che il dono di progettare, quel legame che Heidegger rintraccia tra il Dasein e la propria la morte, non viene soltanto legato alla tecnica, ma indicato altresì come risultato di questo oblio, cioè la colpa di Epimeteo. Il tecnico si riconferma così come inscindibilmente legato alla temporalità, questa declinata nelle figure dei due fratelli come oblio e preveggenza, ma quindi anche come mortalità. Se Heidegger si incentra, per il privilegio dell’essere-per-la-morte e quindi del futuro, sul lato Prometeico dell’esserci, la lettura di Stiegler del testo heideggeriano punterà a rintracciare l’originario oblio epimeteico. Porre questo oblio all’origine dell’uomo significa, seguendo il mito, mostrare l’impossibilità di una separazione netta tra l’autentico e l’inautentico, cioè tra costituzione dell’esserci e tecnica. In altre parole, questo oblio rappresenta l’origine della stessa “storia dell’essere”, di cui la tecnica non è l’esito ma la condizione di possibilità: la condizione del fatto che ci sia, in generale, una storia: «la fatalità dell’eredità è il significato profondo della figura di Epimeteo. Come accumulo di colpe e dimenticanze, come eredità e trasmissione, sotto forma di sapere riflessivo e smemorato, l’epimetheia dà anche il senso della tradizione» (p. 245).
Data la recente scomparsa di Stiegler, la traduzione di questo testo ci può aiutare ad affrontare nuovamente, con nuove domande e necessità teoriche, non solo la tradizione filosofica occidentale, bensì anche l’eredità stessa di Stiegler; pertanto, l’apertura del cantiere di traduzione di Tecnica e tempo avrà sicuramente importanti effetti.
Pietro Prunotto
BIBLIOGRAFIA
Derrida, J. (1997). Ousia e grammé. Nota su una nota di Sein und Zeit. in Margini della filosofia. ed. it a cura di M. Iofrida. Torino: Einaudi.
Id. (2010). Dello spirito. Heidegger e la questione. ed. it a cura di G. Zaccaria. Milano: SE.
Id. (2015). La farmacia di Platone. ed. it a cura di S. Petrosino. Milano: Jaca Book.
Id. (2020). L’animale che dunque sono. ed. it a cura di M. Zannini. Santarcangelo di Romagna: Rusconi.
Id. (2021). La vita la morte. Seminario 1975-1976. ed. it. a cura di F. Vitale. Milano: Jaca Book.
Heidegger, M. (1976). La questione della tecnica. in Saggi e discorsi. ed. it. a cura di G. Vattimo. Milano: Mursia
Id. (2005a). Essere e Tempo. ed. it. a cura di F. Volpi. Milano: Longanesi.
Id. (2005b). L'autoaffermazione dell'università tedesca. In Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976. ed. it. a cura di N. Curcio. Genova: Melangolo.
Stiegler, B. (2018). La technique et le temps. 1. La Faute d’Épiméthée – 2. La Désorientation – 3. Le Temps du cinéma et la question du mal-être. Paris: Fayard.
Id. (2023). La tecnica e il tempo. Vol. 1. La colpa di Epimeteo. ed it. a cura di P. Vignola. Roma: Luiss University Press.
Vignola, P. (2023). Il ritardo dell’anticipazione. in B. Stiegler, La tecnica e il tempo. Vol. 1. La colpa di Epimeteo. ed it. a cura di P. Vignola. Roma 2023: Luiss University Press.
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Sloterdijk Suite: gestire la riduzione
Recensioni / Luglio 2023È esperienza comune tra i lettori di Sloterdijk rimanere perplessi davanti alla decina di pagine che conclude il suo capolavoro del 2009, Devi cambiare la tua vita. Dopo un lungo percorso, in pieno stile sloterdijkiano, tra i meandri della vita incentrata sull’esercizio, e dopo aver gettato uno sguardo – attraverso le lenti dell’antropotecnologia generale – sul paesaggio incredibilmente vasto delle discipline, nonché dopo aver seguito le sue linee di sviluppo interne, nell’arco che connette storicamente gli esercizi degli antichi a quelli dei moderni e al loro fallimento, ci si trova, come si suol dire, «con un pugno di mosche in mano». Tutto ciò che Sloterdijk offre, nella parte che si vorrebbe più propositiva del suo lavoro, è l’abbozzo di un’etica della co-immunità, mediante la quale soltanto l’umanità potrebbe finalmente diventare – da mero flatus vocis – un concetto politico, all’ombra inquietante della Grande Catastrofe ambientale e globale, nuovo attrattore di energie antropotecniche in grado di far risuonare ancora una volta la voce dell’imperativo metanoico assoluto e indicare così una rinnovata direzione alle tensioni verticali. Ma delle «regole monastiche» di questa macrostruttura immunitaria globale, le quali dovranno indurre a nuove secessioni e al costituirsi di una nuova civiltà antropotecnica, nulla ci viene detto se non che «vanno redatte ora o mai più» (Sloterdijk 2010, 556). Qual è dunque, viene spontaneo chiedersi, il valore pratico, concretamente applicabile – e perciò possibilmente politico – del pensiero antropotecnico sloterdijkiano?
È a questa stessa perplessità che sembra rispondere il saggio di Eleonora de Conciliis, Sloterdijk Suite. Espansione e riduzione dell’umano (Meltemi, 2023). La sua pubblicazione arricchisce il panorama della – crescente – ricezione italiana della filosofia di Sloterdijk, e lo fa con un intento teoretico ben preciso. L’obiettivo dichiarato dell’autrice, infatti, è quello di «sprofondare» dentro l’opera del filosofo di Karlsruhe, paragonata a un enorme dispositivo narrativo immersivo o anche a un’installazione di arte contemporanea à la Eliasson, piuttosto che tentare vanamente di «rincorrerlo» nel suo forsennato gettito di pubblicazioni, per adottare quello che è forse l’approccio più produttivo all’opera di un autore ancora vivente e così instancabilmente fecondo. Se Sloterdijk stesso è un raffinato parassita della tradizione filosofica – senza alcuna accezione spregiativa del termine: un parassita metodico nel senso indicato da Bonaiuti (2019) –, la cui opera è la smisurata espansione rizomatica, in ponderosi volumi qualificabili essi stessi come ospiti di questo magmatico germinare, di alcune fondamentali intuizioni poste sul finire degli anni ’90, è opportuno allora, ritiene de Conciliis, impegnarci a nostra volta a parassitarlo (2023, 22-24). Un simile gesto, quantomai lontano dal tradursi in un saggio monografico o in un’impossibile ricostruzione esaustiva delle fonti che la informano, è affine allo spirito antiaccademico e irriverente, nonché ironico – di quella quarta ironia a cui de Conciliis dedica il primo capitolo del saggio –, che anima l’opera di Sloterdijk e può tradursi nella libertà teoretica di lavorare a partire da Sloterdijk, con Sloterdijk ma anche oltre e contro Sloterdijk, mimando la postura che egli stesso ha adottato nei confronti di Heidegger (Sloterdijk 2004). Vale a dire: soffermarsi su alcuni aspetti particolari della sua riflessione, approfondirli ed espanderli, al prezzo di tralasciarne e ridurne degli altri.
Ed è proprio a partire dal nesso inscindibile tra espansione e riduzione che si muove il saggio di de Conciliis – sia a livello metodologico, per il quale ridurre Sloterdijk equivale a «disincantarsi, o meglio […] disintossicarsi dalla sua melodia» (de Conciliis 2023, 29), sia a livello teorico, ravvisando nel legame tra espansione e riduzione dell’umano una chiave fondamentale per leggere l’opera del filosofo di Karlsruhe in modo proficuo. Detto altrimenti, per allucinare mediante i potenti mezzi di quell’esercizio di riduzione espansiva che è la filosofia una strada concreta che conduca agli esercizi per il futuro, nella quale oltre a una necessaria riduzione antropotecnica di homo sapiens, si giunga anche a una riduzione autoironica del filosofo e del suo esercizio di morte apparente nel pensiero «a format di istruzioni tecniche miranti a una concreta, pragmatica rarefazione dell’umano» (2023, 46).
Come in una suite barocca, dove a un’allemanda segue un corrente e a una sarabanda una giga, de Conciliis ci conduce in un viaggio nell’alternanza tra queste «due facce di un unico movimento spazio-temporale» (2023, 51), nel quale la riduzione può essere intesa come un’inevitabile conseguenza della precedente espansione.
La ricerca si concentra infatti attorno a due assi tematici, che costituiscono poi l’ossatura del libro. Da un lato, a partire dalla sintesi di prospettiva sferologica e riflessioni sul nesso antropogenesi-antropotecnica, de Conciliis ricostruisce un affresco della mostruosa e affascinante epopea dell’espansione psico-spaziale dell’umano, permessa dall’iniziale auto-domesticazione antropotecnica. Essa dà luogo a una vera e propria pulsazione storica dal carattere immunitario: se l’uomo è tale, dentro e fuori l’utero, quale abitatore di spazi interni nei quali soltanto può prosperare, il movimento dell’antropogenesi sferica coincide con un ridursi a un «dentro» in cui ci si espande (materialmente e psichicamente) per imparare così ad avventurarsi nel «fuori». Movimento che si regge in gran parte sul quarto dei meccanismi antropogenici individuati da Sloterdijk: quello della trasposizione (Übertragung), concepibile tanto, come sottolinea de Conciliis, nei termini di un tentativo di ridurre simbolicamente il fuori al dentro, avvicinando così l’estraneo, quanto assimilabile a uno sforzo di trasferire il dentro nel fuori reale, in un gesto a tutti gli effetti ek-statico. Si tratta quindi del percorso che dall’insulazione nelle sfere animate dei gruppi umani originari – le orde – conduce all’attuale saturazione del mondo, risultato della terza globalizzazione che ha condotto la Terra a essere risucchiata in uno spazio interno del capitale (im Weltinnenraum des Kapitals), nel quale è palese «sia l’assenza di un “fuori”, che l’infestazione del “dentro”» (de Conciliis 2023, 192).
È a questa vertiginosa e ormai insostenibile espansione che consegue, sempre meno remota, la possibilità di una battuta d’arresto, di un contraccolpo violento che si darebbe nella forma di una riduzione catastrofica e incontrollata – lo spettro angosciante dell’estinzione della specie. A questo stesso fantasma si contrappone, d’altra parte, la seconda linea tematica del saggio di de Conciliis, ossia il dichiarato tentativo, a partire da Sloterdijk, di individuare un’altra forma di riduzione dell’umano che sia in grado di disinnescare le conseguenze della catastrofe ecosistemica, operando, mediante nuove e più opportune antropotecniche «una radicale riformattazione del sistema umano» (2023, 74).
Il libro di de Conciliis mostra qui quelli che sono forse, riassumendo al massimo una trattazione così ricca e concentrata, i suoi due più grandi meriti. Sfuggire, da un lato, alla retorica della catastrofe propria di un certo milieu «onto-ecologista», che vedrebbe nella riduzione violenta dell’umano l’unica via per chiudere i conti con l’Antropocene; proporre, dall’altro, a partire da Sloterdijk, una posizione politico-pedagogica radicale, che sappia condurre a una nuova antropogenesi in formato ridotto, a contrarre l’umano «in modo storicamente avvertito» (2023, 26).
Che una nuova ominazione sia possibile non è un’idea così inusitata, ma deriva da ciò che de Conciliis sottolinea magistralmente come «storicità dell’antropogenesi» (2023, 75-105), vale a dire la radicale contingenza dell’antropogenesi stessa, legata a quella forma di conservazione e superamento delle sue condizioni di possibilità (i quattro meccanismi antropogenici individuati da Sloterdijk e i loro complementi sferologici) che sono le antropotecniche. Esse, in quanto modalità psicofisiche di trasmissione intersoggettiva di pratiche «con cui i gruppi umani hanno preso “in mano” da soli la propria formazione simbolica e disciplinare» (Sloterdijk 2004, 159), possono retroagire sull’antropogenesi, espandendo o riducendo, aumentando o contraendo l’umano, nonché lo spazio e il peso eco-sistemico dello stesso. Aver posto così chiaramente l’accento sul carattere estremamente fluido e sulla delimitazione quantomai labile – contingente – del confine tra antropogenesi e antropotecniche è del resto il terzo indiscutibile merito del saggio di de Conciliis.
Tuttavia, se questa ne è la premessa teorica, come pensare in pratica, tale riduzione? Dichiarare l’equivalenza di umano e non-umano non è sufficiente, come non basta tentare di uscire dall’ontologia classica mediante una Object Oriented Ontology. Bisogna abbandonare – ridurre –, suggerisce de Conciliis, la tensione timotica e acrobatica condensata da Sloterdijk nelle «antropotecniche terziarie» (Lucci 2014), risultato della svolta antropotecnica racchiusa in Devi cambiare la tua vita, per tornare invece alle antropotecniche secondarie e al loro sviluppo omeotecnico, già circoscritte dal filosofo di Karlsruhe nei discussi interventi sul finire degli anni ’90, «come culmine storico dell’auto-domesticazione dei sapiens e passaggio a una nuova fase dell’antropogenesi» (de Conciliis 2023, 220-21). Abbandono la cui esigenza era già stata prospettata da de Conciliis (2020) in un precedente contributo.
La posta in gioco è quella di generare una nuova micro-umanità, a tal punto ridotta e resiliente da poter abitare nelle inedite condizioni dell’età neo-paleolitica prossima ventura, previa una riflessione sulla decrescita «in chiave problematicamente psicotecnica» per interrogarsi «sul modo in cui andrebbe inculcato nelle menti dei sapiens il “cambio di paradigma” auspicato dai teorici della decrescita» (2023, 74).
Si rintraccia qui il contributo più audace del saggio, che potrebbe anche essere definito un lungo commento all’esortazione sloterdijkiana a inaugurare un nuovo ciclo di secessioni «per far uscire nuovamente gli uomini, non più dal mondo, bensì dall’ottusità» (Sloterdijk 2010, 543). Se è vero infatti che la forma di civiltà scaturita dalla rivoluzione neolitica, con le sue antropotecniche inibenti, è ormai da tempo in crisi, espansa fino a scoppiare in una miriade schiumosa e instabile di bolle e di users al contempo frenetici e apatici, nonché sempre più infantili e incapaci di esplicitazione – e di critica –, la cui condizione esageratamente neotenica è esacerbata dalla digitalizzazione, intesa da de Conciliis come quinto nuovo meccanismo antropogenico, immaginare «esercizi per il futuro (per renderlo possibile, oltre che immaginabile)» (2023, 229) significa al contempo contrastare l’indebolimento psico-cognitivo della specie – correlato riduttivo dell’espansione – e ridurre le sue catastrofiche potenzialità espansive. Immaginare una riduzione, insomma, che consenta di perpetuare, attenuandone l’impronta ecologica, la fioritura psichica e tecnologica – introtopica – dell’umano, senza cadere in un «primitivismo naïf».
Ecco allora la ricetta di quella che de Conciliis definisce curiosamente – ma non troppo, se si considera il fondamentale capitolo Lusso neotenico e allomaternità, con la sua riflessione sul materno e sulle sue protesi nel contesto di una metamorfosi (post-)umana – «modifica ginotecnica dell’antropogenesi» (229): una graduale decrescita biologica che si esplichi mediante un pianificato e tutt’altro che distopico decremento demografico, unito a un incremento della resistenza psicofisica a situazioni di stress, nonché un rimpicciolimento, passante per vie pedagogiche, del verticalismo esasperato di homo sapiens. Ancora: una sdivinizzazione del web come premessa del suo uso intelligente, come nuova rete connettiva e «chiave mediale» dell’allenamento della comunità idioritmica – il richiamo è a Barthes – dei «ridotti»…l’elenco potrebbe anche continuare, e si potrebbe discutere sull’opportunità o meno dei singoli provvedimenti da adottare. Soffermandosi, per esempio, sulla domanda inaggirabile: come pensare l’esercizio – se è davvero possibile – rinunciando alla dimensione acrobatico-differenziale? Una cosa, tuttavia, è certa. Come afferma de Conciliis, se una riduzione è necessaria, essa non andrebbe certo subita, ma, al contrario, antropotecnicamente gestita.
Luca Valsecchi
Bibliografia
Bonaiuti, G. (2019). Lo spettro sfinito. Note sul parassitismo metodico di Peter Sloterdijk. Milano: Mimesis.
de Conciliis, E. (2020). Miglioramento umano? Sloterdijk e il problema della differenza. In M. Pavanini (a cura di), Lo spazio dell’umano. Saggi dopo Sloterdijk (127-152). Pompei: Kaiak.
de Conciliis, E. (2023). Sloterdijk Suite. Espansione e riduzione dell’umano. Milano: Meltemi.
Lucci, A. (2014). Un’acrobatica del pensiero. La filosofia dell’esercizio di Peter Sloterdijk. Roma: Aracne.
Sloterdijk, P. (2004). Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger. Milano: Bompiani.
Sloterdijk, P. (2010). Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica. Milano: Raffaello Cortina.
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«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon nel 1958 a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica, il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia, che ci ha spinto a dedicarle questo numero con l’obiettivo di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», Gilbert Simondon (1958) would write, concerning the encyclopedic ideal embraced by cybernetics. This encyclopedic inspiration went hand in hand with an explicit desire for renewal of philosophical categories and with the will of overtaking metaphysics’ dichotomies. It is the spectral and disseminated character of cybernetics, its insistence in the interstices of the encyclopaedia, that has led us to devote this issue to it, with the aim of mapping the places of knowledge in which the traces left by cybernetics can be discerned, following its trails, reconstructing its plots, bringing out its modes of being, questioning its legacy and relevance.
A cura di Luca Fabbris e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/18.2023
Pubblicato: marzo 2023
Indice
EDITORIALE
Luca Fabbris, Alberto Giustiniano - Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico [PDF It]
I. CIBERNETICA. L'EVENTO E I SUOI ANTEFATTI
Arantzazu Saratxaga Arregi - A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity [PDF En]
Marco Ferrari - La cibernetica prima della cibernetica. Filosofia, scienza e tecnica in Norbert Wiener (1914-1943) [PDF It]
Francesco Vitali Rosati - L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo [PDF It]
II. LE AVVENTURE DELL'INFORMAZIONE
Francesca Sunseri - “Ciberneretica” simondoniana [PDF It]
Niccolò Monti - The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI [PDF En]
Luciano Boi - I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato [PDF It]
III. L'USO DEI SISTEMI
Robin Asby - On The Framing of Systems and Cybernetic Models [PDF En]
Paolo Capriati - Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn [PDF It]
Saverio Macrì - Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi [PDF It]
IV. OGGETTI, MACCHINE, MEDIA
Luca Fabbris - Cibernetica orientata all’oggetto. L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville [PDF It]
Gregorio Tenti - Tecnoplastia. Note sulla poiesi macchinica [PDF It]
Giancarlo Corsi - Sociologia dei mezzi di comunicazione. Considerazioni per una teoria generale [PDF It]
V. TESTIMONIANZE E MATERIALI
Settimo Termini - All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta [PDF It]
Il glossario del Biological Computer Laboratory [PDF It]
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Bernard Stiegler e la miseria simbolica
Recensioni / Aprile 2022Non c’è evoluzione tecnologica senza che, nel più profondo, avvenga una mutazione del capitalismo
G. Deleuze, Proscritto alle società di controlloPer cogliere il senso complessivo del denso lavoro di Bernard Stiegler, La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale 1 (Meltemi, 2021) iniziamo con l’interrogare i termini che compongono il titolo dell’opera. In cosa consiste per l’autore “la miseria simbolica” che caratterizza le nostre società in quella che egli definisce l’“epoca iperindustriale?”
«La nostra epoca – scrive Stiegler – si caratterizza come presa di controllo del simbolico da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica» (p. 25). L’effetto di un tale conflitto sugli individui è la miseria simbolica, vale a dire «la perdita di individuazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione di simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi)» (p. 38).
Come l’autore annuncia nella Prefazione, il testo va considerato come un commento al Proscritto sulle società di controllo (in Pourparler, Quodlibet, 2019) di Gilles Deleuze. In quelle poche pagine, com’è ben noto, Deleuze sostiene che le “società disciplinari” analizzate da Michel Foucault, con l’organizzazione dei grandi ambienti di internamento (famiglia, scuola, fabbrica, ospedale, carcere) che caratterizza la loro logica, e storicamente collocabili tra il XVIII e l’inizio del XX sec., siano ormai state sostituite dalle società di controllo, la cui peculiarità consiste nell’estensione, nell’intensificazione e nella complessificazione della logica dei processi distintivi della rivoluzione industriale applicati anche alla sfera simbolica del desiderio. Nell’attuale forma di capitalismo, che Stiegler definisce con Jeremy Rifkin «culturale» (p. 83), la dimensione estetica – qui intesa in senso ampio come dimensione del sentire in generale, e nella quale soltanto è possibile costituire un “io” e un “noi” a partire da un pathos comune – viene sistematicamente presa nelle maglie del calcolo, il cui dominio, anche grazie al recente processo di digitalizzazione, si è esteso ormai ben al di là della sfera della produzione, «nella integralità dei dispositivi caratteristici di ciò che Simondon chiama l’individuazione psichica e collettiva» (p. 82).
Nell’epoca iperindustriale la legge del capitale non è più la produzione, ma «il marketing in quanto controllo dei tempi di coscienza e dei corpi attraverso la macchinazione della vita quotidiana» (p. 83), così come il luogo paradigmatico non è più la fabbrica, ma l’impresa. L’iperindustrializzazione – è questa la tesi di Stiegler – ha dunque un riscontro paradossale: da un lato fa apparire una nuova immagine dell’individuo, il consumatore, dall’altro la generalizzazione del calcolo impedisce, o quantomeno ostacola fortemente, il processo di individuazione stesso che, solo, rende l’individuo possibile.
Del saggio deleuziano, Stiegler non condivide soltanto l’analisi insieme storica e logica relativa all’insediamento progressivo di un nuovo regime di dominazione, quello, cioè, caratteristico delle società di controllo, e che comporta una notevole perdita di individuazione, vale a dire la miseria simbolica, ma fa pienamente suo, se così possiamo esprimerci, anche lo spirito politico battagliero, che anima quelle pagine e che ben si esprime in queste parole, che lo stesso Stiegler cita: «Non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi» (Deleuze, 2019, p. 235). Come ben specifica Rosella Corda nell’Introduzione, il lavoro di Stiegler non si limita infatti «alla costatazione sterile o alla rassegnazione diagnostica», ma si pone l’obiettivo di trovare, «proprio in questo disperare, mancare di speranza, un po’ di possibile» (Stiegler, 2021, p. 9)
La questione delle armi, come esplicitamente afferma l’autore, è la «questione della tecnica in generale» – ovvero la questione cardine su cui ruota tutta l’opera di Stiegler fin dal suo primo lavoro La technique et le temps 1. La faute d’Épimethée, –, la quale è anche questione del politico, questione, cioè, «del destino di un noi» (Stiegler 2021, p. 38). La questione della tèchne, che, ricordiamolo, per Stiegler è un pharmakon, vale a dire insieme veleno e antidoto, si articola qui nell’ipotesi di un’organologia generale, la quale si pone l’obiettivo di indagare, dal punto di vista di una prospettiva antropologico-filosofica, la genesi del processo di ominazione. La domanda a cui l’organologia risponde è dunque una domanda sulla seconda natura dell’uomo, vale a dire sulla natura “originariamente” protesica, e cioè tecnica, dell’uomo. Un’adeguata interrogazione della secondarietà che contraddistingue l’umano rappresenta una condizione senza la quale non è possibile comprendere l’epoca attuale e la sua miseria simbolica, né risulta possibile – ed è questo ciò che più conta per Stiegler – indicare delle vie alternative a tale stato di miseria.
Il progetto di un’organologia generale prevede lo studio congiunto di quelle che Stiegler considera le «tre grandi organizzazioni che formano la potenza estetica dell’uomo: il suo corpo con la sua organizzazione fisiologica, i suoi organi artificiali (tecniche, oggetti, utensili, strumenti, opere d’arte) e le sue organizzazioni sociali che risultano dalla articolazione degli artefatti e dei corpi (pp. 31-32)». Il concetto chiave su cui l’autore costruisce tale progetto è il concetto di ritenzione terziaria, il quale, a differenza dei concetti di ritenzione primaria e di ritenzione secondaria con i quali Husserl indicava rispettivamente la dimensione della percezione e la dimensione dell’immaginazione, indica la dimensione artificiale della produzione da parte dell’uomo di oggetti di memoria esteriorizzata, come ad es. lo smartphone, i libri, gli edifici, le targhe commemorative, i film.
Nel terzo capitolo del libro “Allegoria del formicaio. La perdita di individuazione nell’epoca iperindustriale”, Stiegler ricostruisce per tappe storiche il processo di produzione delle ritenzioni terziarie, che egli chiama epifilogenesi. «L’ambiente epifilogenetico – scrive l’autore – come insieme delle ritenzioni terziarie costituisce il supporto dell’ambiente preindividuale permettendo l’individuazione del genere» (p. 89). Essendo l’epifilogensi il «deposito di memoria che è specifico di una forma di vita unica, quella del genere umano» (p. 66), ed essendo la natura dell’uomo già da sempre tecnica, la storia dell’epifilogenesi segna le tappe dell’individuazione dell’uomo, in particolare dell’uomo occidentale. Senza poter approfondire i vari passaggi che caratterizzano questa storia, che è anche la storia di una lotta per la definizione delle criteriologie dei dispositivi ritenzionali («processo di grammatizzazione», p. 90), ci preme mettere in luce il fatto che secondo Stiegler questo processo ha raggiunto un punto limite nell’epoca iperindustriale. Il processo di individuazione rischia cioè di annullarsi in favore di una «ipersincronizzazione» (p. 96) – ben resa dall’allegoria del formicaio – in cui la differenza tra “io” e “noi” collassa nel “si”, ovvero in quella condizione che Stiegler chiama anche di «mal-essere» (p. 98), tale per cui gli individui, non avendo più accesso alla produzione di simboli, perdono la loro singolarità e la correlata possibilità di proiettarsi in un “noi” e, dunque, in una dimensione politica. Privati di singolarità, gli individui cercano di singolarizzarsi mediante gli artefatti che il mercato mette loro a disposizione, il quale sfrutta la miseria propria del consumo stesso, e così facendo fanno esperienza del loro fallimento: «non si amano più e si rivelano sempre meno capaci di amare» (p. 99).
Concediamoci ora una considerazione generale sul senso dell’opera di un autore come Stiegler. Se ci soffermassimo soltanto sul lato diagnostico, sulla pars destruens del suo discorso correremmo il rischio di eludere l’aspetto più rilevante dello sforzo intellettuale – e non solo – dell’opera e della vita di Stiegler, il quale riguarda l’impegno con cui l’autore ha da sempre tentato di rispondere alla domanda: “che fare?”. Se infatti considerassimo solo l’aspetto analitico della sua opera, finiremmo per giudicare Stiegler, come pure è stato fatto soprattutto dopo la pubblicazione de La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro (Meltemi, 2019), un autore catastrofista. Per quanto la situazione diagnosticata dall’autore sia effettivamente catastrofica, Stiegler, come si è detto, non cede nemmeno per un attimo al catastrofismo. È questo un punto battuto da tutti i curatori delle edizioni italiane recenti delle opere di Stiegler, sulla cui insistenza, potremmo dire, Meltemi ha costruito la cifra peculiare della sua operazione editoriale, che ha portato alla pubblicazione dei due volumi sulla miseria simbolica (Stiegler, 2021; La miseria simbolica. 2. La catastrofe del sentire) e a quello sulla società automatica (Stiegler, 2019) nella serie “Culture radicali” diretta da Gruppo Ippolita.
Come scrive Giuseppe Allegri in un articolo online su OPERAVIVA dal titolo Dentro, oltre e contro la società automatica, «il ricercare e l’agire di Stiegler si oppone radicalmente a qualsiasi visione apocalittica che altri rintracciano nel suo pensiero, del tutto inspiegabilmente e proprio leggendo il volume sulla Società automatica, mentre la postura del Nostro è anche e soprattutto quella progettuale e sperimentale, per la promozione e il sostegno di collettivi di ricerca che coinvolgano e che già coinvolgono ampi spezzoni di società, associazionismo di base e frammenti di classe dirigente, disposti ad accettare e orientare la trasformazione tecno-digitale e socio-economica nel senso di un ripensamento radicale delle categorie e delle pratiche sociali per maggiore autodeterminazione, dignità, felicità in favore dei molti» (https://operavivamagazine.org/dentro-oltre-e-contro-la-societa-automatica/). Lo stesso Allegri, autore della postfazione al testo qui recensito, e significativamente titolata Ricchezza delle pratiche inventive, fa un lungo elenco delle attività che hanno impegnato Stiegler dalla fine degli anni Novanta fino alla sua scomparsa nell’agosto del 2020, e che lo hanno coinvolto nella fondazione di «nuove istituzioni», quali, tra le molte altre, citiamo Ars Industrialis, «la cui “ragione sociale” è quella di un’associazione europea per una politica industriale delle tecnologie dello spirito», o «IRI – Institute pour la Recherche et l’Innovation presso il Centre Pompidou, all’interno del quale è riuscito a promuovere una rete di Digital Studies inaugurata nel 2012»,o che lo hanno visto collaborare al «progetto avviato nel maggio 2016 di Territoire Apprenant Contributif, che coinvolge i 9 comuni di Paris Nord/Seine-Saint-Denis» (pp. 160-161).
Specificamente per quel che riguarda La miseria simbolica 1. L’epoca iperindustriale, in tutte le pagine che compongono i quattro capitoli del libro, finanche nei punti in cui la disperazione emerge in maniera più forte, e, anzi, soprattutto lì, la domanda sul “che fare?” e la ricerca continua di quella che con una bella espressione Stiegler definisce l’«energia zoppicante della chance» (p. 124) non scompaiono mai dall’orizzonte. In particolare, si ha un riscontro evidente dell’insistenza con cui Stiegler si spende per “cercare nuove armi” nell’analisi dei due film On connaît la chanson di Alain Resnais e Tiresia di Bertrand Bonello, che egli conduce rispettivamente nel secondo (Come se ci mancassimo o di come trovare delle armi a partire da Parole parole parole… (On connaît la chanson) di Alain Resnais”) e nel quarto capitolo (“Tiresia e la guerra del tempo. A proposito di un film di Bertrand Bonello”) del testo.
Nel film di Resnais il nostro autore trova esemplarmente tracciata, nel modo in cui il regista compone e scompone cliché attraverso l’utilizzo della tecnica del sampling e più specificamente attraverso la ripetizione ventriloqua che i personaggi si trovano a fare dei ritornelli di alcune famosissime canzoni francesi, la via «per una nuova capacità di immaginare/sentire» (p. 15), che prenda le mosse proprio da quel processo che fa scomparire la differenza tra “io” e “noi” nel “si”, ma tentando di invertirne la direzione.
di Gian Marco Galasso
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Game Over. Tecnologie, spazi, specchi, tramonti
Longform / Gennaio 2022
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Tecnologie d’assalto
La cultura cyberpunk esplicita il suo statuto essenzialmente nella rappresentazione della tecnologia e del rapporto che quest’ultima intrattiene con l’umano e il post-umano nei loro perimetri d’elezione.
Oggi, alla fine del ventesimo secolo, negli Stati Uniti esistono intere città in putrefazione, violente e dominate dalla criminalità. All’interno delle stesse megalopoli, abbiamo il fenomeno dei senzatetto in rapidissima espansione. […] Ci ritroviamo cosi periferie fiorenti di industria leggera e informatica intorno a nuclei di industria pesante e ferroviaria in putrefazione e abbandonati. […] Continuiamo a ingrandire le nostre città intorno ai margini in un complesso groviglio di centri commerciali, palazzoni e distese di monolocali (Sterling 2001, 50).
Tempo, spazio, tecnica. Secondo gli arguti esponenti del cyberpunk, dal futuro suonano le sirene d’allarme. Quel territorio metropolitano, una macchia di compatte concentrazioni di vetro e cemento è un’emergenza, non una possibilità. Un enorme campo di battaglia in cui si combatte l’incessante guerra tra macchine e umanità inverando la distopia di Frankenstein che rende le persone altro da sé stesse modificandone la composizione organica e l’essenza. La funzione eterotopica di questo esperimento discorsivo, enunciati disgregati nella semantica di controdeduzioni della realtà, replica e esorcizza i fantasmi di un avvenire che occhieggia dalla faglia tremolante sui bordi della quale il giorno trascolora nella notte. Se di fantascienza si tratta, lo è per comodità espositiva, un attimo prima di far deflagrare il presente in migliaia di luci stroboscopiche che segnali elettrici affamati lumeggiano ovunque. Un’attività profetica, tutto sommato, in cui l’immaginazione funge da catalizzatore. La cibernetica ha incontrato il punk e lo ha sposato fondendo assieme bellicosità eterogenee: da una parte la scienza dei sistemi ricorsivi, che associamo solitamente all’Informatica, dall’altra l’estetica dei ribelli della tradizione letteraria canonica che traggono ispirazione da una tendenza musicale “deviante” con attitudini antisociali e antipolitiche. Scrive Lorenzo Palombini (2019):
La cibernetica, […] a partire dal lavoro di Ashby, Wiener, Bateson costituisce la base teorica di una rivoluzione tecnoscientifica che ha rivoluzionato negli ultimi decenni la nostra prospettiva sull’organizzazione e la sistemica. La storia filosofica della cibernetica non è priva di tensioni, né di incursioni, o di clandestine relazioni anonime. La riscoperta di autori come Simondon, l’individuazione di traiettorie che uniscono la filosofia francese post-strutturalista alle correnti cibernetiche ed ecologiche americane – per esempio l’ampio debito di Deleuze nei confronti dei concetti batesoniani, come quello di “piano di immanenza” e “doppio vincolo” – segnano la tendenza contemporanea a recepire anche in chiave filosofico-teoretica il portato della cibernetica. (98) [1]
La cibernetica non è identificabile con l’Informatica a tutto tondo. Per questo il fenomeno cyberpunk, e il “paesaggio culturale” che esso evoca, può essere descritto come narrazione dello spazio urbano, e della Rete, dilaniato da una crescita irresistibile e dal consolidarsi di scarti minimi, di equilibri instabili. Non esiste alienazione nel cosmo “programmato” delle mega-multinazionali, ma vita disumanizzata in un biosistema magmatico. I labirinti urbani cyberpunk non portano alla redenzione ma alla disperazione del reietto, che cerca di emanciparsi da un destino infelice.
Nella surdeterminazione in cui sprofonda il presente prefigurando un futuro tenebroso, il rizoma molecolare cyberpunk assomiglia sempre di più a una “iper-realtà”, proiezione fantasmatica di attese “virtuali” geneticamente collusive. L’apocalisse della tecnica e dell’economia, ultima epifania di un capitalismo giunto al termine della sua esiziale azione nel mondo, ha dissolto Stati, governanti e ceti borghesi. Le Corporazioni spadroneggiano incontrastate, come nel Blade Runner di Rick Deckard insidiato da Replicanti letali e vendicativi, macchine che cercano riscatto dalla morte consapevoli che non lo troveranno mai. Il potere, negli e sopra gli agglomerati urbani, non ha nemmeno bisogno di stabilire una linea di demarcazione tra legalità e illegalità se non per pura convenienza e vigila in concreto su una cibernetica formazione di vita meta-umana, un sistema para-biologico dotato di memoria e volontà che non dipende dalla durata dei propri componenti organici, rimpiazzabili in qualsiasi momento e per un numero imprecisato di volte.La cultura cyberpunk ci lascia in eredità una società a venire che rincorre in maniera ossessiva i suoi incubi peggiori. Eterotopia del nostro presente, essa è immaginazione simbolica estrema dell’“alterità” che si autoriproduce costantemente. Non ci sarà che “alterità”, infatti. La periferia ne è il laboratorio per eccellenza, nutrita da un Centro che non la teme, anzi la rinvigorisce favorendo spregiudicati esperimenti antropologici, culturali e, quel che maggiormente conta, tecnologici. Le città-Leviatano del canovaccio narrativo cyberpunk divorano corpi ed esistenze dopo averli attirati nel “parco giochi con pena di morte” (Gibson & Sterling, 2001). D’altronde, in tutte le periferie che sono state e in tutte quelle che verranno è andato, e andrà, in scena lo spettacolo dell’inevitabilità della sopraffazione e, parimenti, della liberazione.
Spazi virtuali e specchi utopici
L’eterotopia è anche spazio dei contrasti stridenti e delle diversità. E perciò consente ai nostri occhi di strappare il velo delle convenzioni sociali prescritte dal codice culturale con cui le interpretiamo. La modernità stessa rimbalza nella poliformia dello specchio che decostruisce la storia personale e collettiva e le disloca in geografie inusuali. I riflessi dello specchio, distorcenti spesso, rimandano echi visivi di eterotopie, e di utopie, che ci collocano lì dove non siamo perché il corpo reale sta al di qua della superficie riflettente. Nell’immaginario cyberpunk, ne abbiamo già parlato, gli specchi, interfaccia tra il soggetto e lo spazio, sono elemento ricorrente. Molly, la protagonista femminile di Neuromante, porta lenti impiantate sul volto che sostituiscono gli occhi con un effetto di potenziamento della vista e le consentono visuali impedite agli umani che non ne dispongono; un innesto bio-tecnologico ne acuisce lo sguardo. La metafora dello specchio, la stessa utilizzata da Pat Cadigan (1996) [2] per descrivere la vertigine di un’apparente assenza di limiti che prova la sua mindplayer, una sorta di “cyberpsicanalista” impegnata a frugare nella mente dei suoi pazienti, ha una lunga tradizione nel pensiero occidentale. A questo proposito bisogna osservare che alla duplicazione del mondo che lo specchio compie, va aggiunta la sua funzione primaria, e cioè quella di includere nel medesimo raggio visivo l’osservatore stesso: guardare e guardarsi avvengono in sincronia. L’enigma dell’identità e della differenza, della verità e dell’illusione riluce sulla lastra e rimanda al mistero della soggettività e dell’“altro da sé”, quando siamo noi l’esito di quella tensione riflettente.
Il “cyberspazio”, luce virtuale, misura la distanza fra il soggetto che abbandona la materialità del corpo e ciò che si lascia alle spalle espandendo il proprio Io nell’humus digitale; è eterotopia di un luogo senza luogo, per alcuni sacralmente accessibile e per altri interdetto. Esso sovrappone spazi incompatibili tra loro e rovescia il senso comune dilavandolo in una eternità che va molto al di là di quanto l’umano è in grado di registrare e di comprendere. È cifra del tessuto connettivo alimentato dall’informazione. La coscienza si fonde con la rete elettronica mentre quella neurale si abbandona al piacere di ricorrenze deflagranti. L’impensabile complessità di una rappresentazione grafica di dati ricavati dalle memorie di centinaia di computers si irradia nel non-spazio della mente.
The main thrust of micro-electronic seduction is actually neural, in that it foregrounds the fusion of human consciousness with the general electronic network. Contemporary information and communication technologies exteriorize and duplicate electronically the human nervous system. This has prompted a shift in our field of perception: the visual modes of representation have been replaced by sensorial-neuronal modes of simulation. As Patricia Clough puts it, we have become ‘biomediated’ bodies […]. (Braidotti 2013, 90)
Nella condizione meta-umana del “cyberspazio” tutto appare effetto di una ininterrotta mutazione. E il tecnologico, avverte ancora Rosi Braidotti (2013, 94), frutto di una autopoiesi “machinica” – e aggiungiamo noi misura di quel cambiamento inarrestabile – è il luogo del divenire post-antropocentrico, ovvero la soglia di molti mondi possibili. Si organizza attorno a chi veleggia nel virtuale una composizione di opportunità multiple. In Fisica il fenomeno diffrattivo si manifesta ogni volta che un’onda incontra un ostacolo e tutti i punti dell’ostacolo si trasformano a loro volta in sorgenti di altre onde. È così che si raggiungono le zone che resterebbero in ombra se la propagazione fosse semplicemente rettilinea. Nell’eterotopia “cyberspaziale” flussi di informazione investono il nocchiero schizzandolo di plasma digitale, concreto quanto la materia abbandonata nell’altro universo da cui si proviene e imbevuta di impressioni sensoriali perdute, tutto sommato imperfette rispetto a quelle che si è capaci di sintetizzare nel cammino verso un’altra consapevolezza e verso una nuova identità, non c’è dubbio, in uno scorrere ricomposto anche del tempo che ha perso ogni riferimento tradizionale. Nel “cyberspazio”l’avvicendarsi dei minuti e delle ore non ha più ragione di segnare alcun trascorrere periodizzato. Ogni cosa è istante, verrebbe da dire “presentificazione”, accadere simultaneo. L’avvento delle eterocronie, sequenze dell’“altrove” altrimenti spazializzate, è vicino.
Quel che resta del giorno
In quella che potremmo definire la nostra “memoria frattale” [3], ridotta in parti più piccole dell’insieme di partenza capaci ciascuna di riprodurne strutturalmente l’entità originaria, la cultura cyberpunk rappresenta la porzione di un “oggetto” più grande, probabilmente identificabile con il sistema di potere occidentale tout-court in ogni sua articolazione, sociale, politica, culturale, antropologica. Proviamo a tentarne una genealogia critica.
Suggerisce Salvatore Proietti, in un lucidissimo saggio:
[…] le metafore della SF, e del cyberpunk in particolare, si sono sviluppate in dialogo con le teorie letteraria, femminista e scientifica americana. Una specificità del cyberpunk è la sua diffusione (prima ancora di una vera canonizzazione) in tutti i campi del discorso sociale. (Proietti 1998, 63)
L’interfaccia corporea dell’essere biomeccanico e la topologia sempre più inclusiva della realtà virtuale stabiliscono un complesso rapporto fra umano e macchina. Nel 1985, a un anno dall’uscita di Neuromante, Donna Haraway pubblica A manifesto for Cyborgs. Discutendo specificamente di “metafore visive”, la filosofa di Denver ci conduce per mano nei viluppi dei luoghi “altri” dello sguardo. Anche questi, eterotopie.
[…] la metafora visiva ci permette di andare oltre apparenze fisse, che sono in realtà prodotti finiti. La metafora ci invita a investigare i vari apparati di produzione visiva, comprese le tecnologie prostetiche interfacciate con i nostri occhi e cervello biologici. E qui troviamo macchinari altamente selettivi per elaborare regioni dello spettro elettromagnetico nelle nostre immagini del mondo. È nei meandri della nostra appartenenza a queste tecnologie di visualizzazione che noi troveremo metafore e strumenti per capire e influenzare i modelli di reificazione del mondo, cioè le trame delle realtà per le quali dobbiamo rispondere. (Haraway 2018, 126)
Il cyborg è epifania di un’identità che ingloba in sé l’ambiente tecnologico affermando la propria autonomia. La membrana osmotica tra naturale e artificiale rimanda a una soggettività frammentata, a un’espressione identitaria priva di limiti e a una promessa, scrive Proietti (1998, 64), “di pratiche sociali adeguate alle ansie e alle speranze della contemporaneità”. Nel campo letterario della fantascienza americana, presenti sin dagli anni Venti del Novecento, le metafore del cyborg e dello spazio virtuale trovano forma compiuta soltanto nei primi anni Sessanta e poi poco dopo l’inizio degli Ottanta. La narrazione fantascientifica problematizza l’esistente molto più della divulgazione scientifica orientata a legittimare una filosofia della storia d’oltreoceano. Il “secolo americano” ha bisogno di sostenersi su solide basi culturali e, se vogliamo, epistemologiche.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’apparato industriale e militare degli Stati Uniti estende la pratica dell’integrazione bio-meccanica tipica del taylorismo con la sua catena di montaggio e agisce su un piano ideologico rimontando la china della retorica nazionale per amplificarne gli effetti. La ricerca scientifica si trasforma in nuova frontiera – gli americani sono specialisti in nuove frontiere, del resto, e basterà qui ricordare la mitopoiesi del Far West – e la speculazione sull’immaterialità si sostituisce all’esaurimento dell’orizzonte territoriale, giacché in patria la geografia interna risulta ormai completamente conquistata. Rimane purtuttavia il corpo nella sua liminarità dirimente a fornire un’ulteriore ragione per giustificare il bisogno incontrollabile di impossessamento e comando. La “cibernetica” di Wiener va in questa direzione; nelle correnti impetuose dell’informazione, tecnici e “calcolatori” – siamo attorno alla seconda metà degli anni Quaranta –, sono timonieri di battelli a vapore simili a quelli che transitavano sbuffando lungo il Mississippi. Ogni cosa procede verso un avvenire caratterizzato non più dalla tecnologia squisitamente bellica – il lavoro di Wiener era nato da uno studio commissionato per migliorare i sistemi di puntamento contraereo – ma da quella dell’informazione e della sua rapida trasmissione.
Nel 1960, il progetto della Difesa che produrrà Internet parte da un saggio-manifesto in cui lo psicologo John C. R. Licklider specula che, se la tecnologia ingegneristica ha finora dato luogo al “mechanically extended man”, la possibile associazione di operatore (“cervello”) e computer potrebbe dar luogo a una vera e propria “simbiosi”. (Proietti 1998, 65)
Ancora nel 1962, uno dei maggiori esperti dell’United States Naval Research Laboratory, il fisico Robert Morris Page, ricercatore di punta che si occupava dello sviluppo del radar, conia l’espressione “estensioni dell’uomo” in riferimento a queste nuove componenti meccaniche su cui si sta alacremente studiando. La stessa idea di cranial jack della quale troviamo riferimento nei testi cyberpunk arriva da quei decenni durante i quali l’elettronica comincia ad essere sperimentalmente applicata alla medicina. Il cyborg, aspirazione simbolica e quasi archetipica, nasce in quel panorama culturale. Con l’unica differenza, in quel momento, che le varianti dell’homo sapiens dotate di componenti esogene e migliorative consentiranno di affrontare le esplorazioni interplanetarie, lo spazio “esterno”, ennesima sfida per l’umanità intrappolata nella Guerra fredda. I processi di reificazione dell’essere umano si incistano nel corpo e lo rimodellano per consentirgli di adattarsi ad ambienti extra-terrestri inospitali e sconosciuti. Tutto sommato la materialità di quell’insieme biologico che rappresentiamo finirà per evolvere, mainstream di lustri che sembrano davvero gloriosi, in qualcosa di completamente rinnovato che consentirà di alleggerirsi dai problemi derivanti dalla sopravvivenza fisica.
L’ultimo spettacolo
In questa spettacolarizzazione della modernità tecnologica, l’identità è scelta infinita di opzioni e rifugge le complicazioni che possono derivare dalla concreta fenomenologia delle cose. Il cyborg è una metonimia che ripropone la dialettica servo-padrone e sembra quasi annunci un mondo nel quale la biologia si sta sostituendo in qualche misura alla politica. Il corpo manipolato da prodigiosi innesti proclama la comparsa di soggetti identitari che possono annullare conflitti e appartenenze sociali; la classificazione delle razze, cavallo di battaglia della peggior cultura occidentale, scompare nell’indifferenziato della macchina biologica modificata. Lo stesso Wiener (1964) in God & Golem, Inc. tenta di ridefinire il rapporto tra corpo personale e corpo politico. Tuttavia, l’arrivo della teoria delle comunicazioni di massa di Marshall McLuhan (1962; 1964), anticipata ampiamente dagli studi di Charles H. Cooley (1909) [4], riconfigura l’organismo sociale “super-individualizzando” il cyborg e rilegge le sue coordinate spaziali. Il medium è il messaggio e la società, di conseguenza, è in nuce un “cyberspazio”; il villaggio globale si distribuisce come un ordito di sensori umani che la tecnologia rende interdipendenti. Il computer, nella sua “traduzione” artificiale di vantaggi, origina un sistema nervoso planetario che annulla i limiti del linguaggio e del territorio, e perfino il significato dei ruoli nella società. Per questa ragione concetti quali potere o produzione appaiono irrilevanti, non più necessari; la politica si frammenta negli ingranaggi della macchina, le scelte individuali e gli afflati collettivi si disperdono nel campo unificato del simultaneo.
Negli anni Settanta e soprattutto negli Ottanta, quando questa infodemia si rinvigorisce ancor di più, il PC, la scatola magica dotata di schermo a pixel che sta facendo un’implacabile concorrenza alla televisione, stigmatizza una nuova figura di consumatore travolto da un immaginario che ha del miracoloso.
A chi lo saprà usare, il computer offre la promessa di una “democrazia diretta” e della “necessità evolutiva” di una “coscienza planetaria” della “psicosfera”. […] l’autoregolarsi del sistema cibernetico è il braccio invisibile del nuovo mercato che garantirà un destino umano deterministico e privo di conflitti. (Proietti 1998, 67)
La strada tracciata dalla rivoluzione informatica, lo ha ricordato Bill Gates, conduce a un benefico capitalismo privo di attriti e più il virtuale si dilata senza incappare in scomodi impedimenti, più una tale road ahead apparirà lastricata di buone intenzioni. Questo “iperoggetto” (Morton, 2018), all’opposto, assomiglia davvero agli intrichi reticolari, sconcertanti e fortuiti, delle città dei cyberpunks coartate dalla dominazione estensiva delle Corporazioni, i “non luoghi” di Marc Augé – la similitudine è azzardata rispetto al concetto espresso dall’antropologo francese ma ne rischieremo ugualmente l’impiego –, spazi altamente omologati nei quali si può vivere anche per lungo tempo, muovendosi all’interno di comunità capaci di favorire rapporti durevoli ma privi di radicamento alle tradizioni e alla storia, tipica esemplificazione di società globalizzata.
La frontiera del virtuale, riformulazione ancora una volta retorica di uno dei più noti refrains della dottrina americana, è centrale in questo dispositivo concettuale e viene, non casualmente, associata alle figure di contrasto che ne caratterizzano, all’apparenza, l’opposizione radicale: gli hackers sono i sacerdoti del rito visionario, per molti aspetti religioso quasi, che si consuma nelle terre del “post-umano”, il “cyberspazio” appunto, essenza esistenziale a-topica che trascende qualsiasi futuro perché ci parla, insistentemente, del “qui e ora”. E forse, la retorica cui si accennava:
[…] è quella di un ritorno a uno stadio prelinguistico, presociale e astorico: il cyberspazio è un sogno pastorale, che è […] il sogno imperialista di un’America espansa fino a coincidere col mondo. (Proietti 1998, 70)
Il mito nazionale è locuzione di senso che diventa presa, o meglio tentativo di presa, addirittura sul pianeta. Quel che resta del giorno sono tracce mnestiche, ricordi impiantati come per la Replicante Rachel in Bladerunner, che hanno sconfitto il passato; ogni passato pensabile.
Nel quadro storico-culturale che abbiamo cercato di delineare fino a qui, il congegno letterario cyberpunk va considerato non tanto un esperimento di rottura, quanto il rovello di chi, inconsapevolmente ma inevitabilmente, non poteva non esprimere, in morfologie narrative perturbanti, un disagio generazionale che colava ovunque. La cultura cyberpunk riafferma la modernità ipertecnologica, tagliente materia hi-tech di cui è fatta la società post-industriale; porta con sé la cadenza mai esausta della provocazione estetica e politica, e non di rado, basti pensare a Sterling, i clichés del liberalismo americano che ambiscono a rinascere, o continuare ad esistere, perfino nell’allucinazione virtuale. Le sue qualità e i suoi limiti sono stati quelli di una
[…] “struttura di sentimento dominante in alcune parti della cultura giovanile del ricco Nord del mondo” legata, materialmente o ideologicamente, al terziario avanzato: un gruppo significativo ma non omogeneo né maggioritario. (Proietti 1998, 76) [5]
Quel gruppo non esiste più da molti anni. Game over. Ma a noi, inguaribili romantici, piace pensare che, da qualche parte, i cow-boys del “cyberspazio” e le Amazzoni dalle lenti policrome stiano continuando a cavalcare l’impossibile.
di Mario Coglitore (UniVe)
Bibliografia annotata
La bibliografia sull’argomento oggetto di questo studio è comprensibilmente sterminata. Tuttavia possiamo cercare di proporre alcune tracce per un percorso di lettura, del tutto parziale, utile a un primo approccio con il movimento letterario cyberpunk, con alcuni dei suoi più perspicui studiosi e critici e con quanti hanno lavorato a vario titolo su nodi tematici che intersecano i temi sviluppati in queste pagine. Di seguito almeno tre diverse aree di “sguardi sostenibili”.
I testi “indispensabili” della letteratura cyberpunk sono: di Pat Cadigan, Mindplayers, edito per Shake Edizioni (1986); i testi di William Gibson Neuromante, per Editrice Nord (1986) e, editi da Mondadori, Giù nel ciberspazio (1990), Monna Lisa Cyberpunk (1991), Luce virtuale (1994), Aidoru (1997), American Acropolis (2000); quelli di Bruce Sterlin La matrice spezzata, edito da Editrice Nord (1986), Oceano, per Perseo Libri (1991) e, editi da Fanucci, Artificial Kid (1991) e Isole nella rete (1994). E I testi congiunti di Gibson e Sterling, editi da Mondadori, La macchina della realtà (1990) e Parco giochi con pena di morte (2001). Va inoltre citato Settore Giada, di Lucius Shepard, per Mondadori (1987).
Su temi “attorno al cyberpunk” sono da citare almeno Houdini e Faust. Breve storia del Cyberpunk, di Caronia e Gallo per Editrice Nord (1997); l’articolo di Palombini Note per una eterotopologia del punk cibernetico (in Philosophy Kitchen n. 10) e quello di Proietti Intorno al cyberpunk (in Ácoma. Rivista internazionale di Studi Nordamericani n. 5); Storming the Reality Studio. A Case of Cyberpunk and Postmodern Fiction, curato da Larry McCaffery perDuke University Press (1991); e molti altri testi curati da (e di) Bruce Sterling, in particolare, per Bompiani, Mirrorshades (1994) e la Prefazione a “Mirroshades” pubblicata in Cyberpunk. Antologia di testi politici, curato da Raf Scelsi per Shake Edizioni, oltre a La nuova fantascienza» (1992), per Telemaco, e Il cyberpunk negli anni Novanta (Isaac Asimov Science Fiction Magazine Edizione Italiana n. 2).
Andando “oltre” il cyberpunk, molte sono le possibili direzioni, partendo dal Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo di Donna Haraway (2018), per Feltrinelli, The posthuman, di Rosi Braidotti (Polity press, 2013), Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale di Antonio Caronia (2008), per Shake, e i libri di Norbert Wiener editi da MIT Press Cybernetics (1948) e God & Golem, Inc. (1964). Si possono inoltre citare lo storico Social Organization. A Study of the Larger Mind di Charles H. Cooley (1909), i classici di Marshall McLuhan: The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man (1962) e Understanding Media. The Extensions of Man (1964); il Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali di Vincenzo Tagliasco (1999), edito da Mondadori; Iperoggetti di Timothy Morton (Nero, 2018); Utopie Eterotopie di Michel Foucault per Cronopio (2006) e L'individuazione psichica e collettiva di Gilbert Simondon per DeriveApprodi (2001).
Bibliografia
Braidotti, R. (2013). The posthuman. Cambridge: Polity press.
Cadigan, P. (1996). Mindplayers (1987). Milano: Shake Edizioni.
Cooley, C. H. (1909). Social Organization. A Study of the Larger Mind. New York: Charles Scribner's Sons.
Gibson, W. & Sterling, B. (a cura di). (2001). Parco giochi con pena di morte. Milano: Mondadori.
Haraway,D. (2018). Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo. Milano: Fetrinelli.
McLuhan, M. (1962). The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man. London: Routledge and Kegan Paul Ltd.
McLuhan, M. (1964). Understanding Media. The Extensions of Man. Berkeley: Gingko Press.
Morton, T. (2018). Iperoggetti (2013). Roma: Nero.
Palombini, L. (2019). «Note per una eterotopologia del punk cibernetico», Philosophy Kitchen, 10(6), 89-105.
Proietti, S. (1998). Intorno al cyberpunk. Ácoma. Rivista internazionale di Studi Nordamericani, 5 (12), 93.
Sterling, B. (2001). La città virtuale. In W. Gibson & B. Sterling (a cura di), Parco giochi con pena di morte. Milano: Mondadori.
Wiener, N. (1964). God & Golem, Inc. A Comment on Certain Points where Cybernetics Impinges on Religion. Cambridge (MA): MIT Press.
Note
[1] Gilbert Simondon (1924-1989) è stato un filosofo francese il cui pregevole lavoro si situa tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento. Partendo dal concetto di individuazione, Simondon si è a lungo interrogato sull’uomo come essere vivente in stretto rapporto con la tecnica, colta nella sua centralità filosofica e politica.
[2] Pat Cadigan è nata nel 1953 negli Stati Uniti. Poco dopo la fine degli studi universitari nel 1975 ha cominciato la sua attività di scrittrice. Nel 1986 il suo racconto A tutto rock (Rock On, 1984) viene inserito da Sterling in Mirroshades. Un anno più tardi pubblica il primo romanzo, Mindplayers, che ottiene un discreto successo. Ha vinto premi letterari prestigiosi come l’“Arthur C. Clarke”, e nel 2013 anche il “Nebula” e lo “Hugo”.
[3] Si propone qui la definizione di “frattale” fornita dall’Enciclopedia Treccani.
[4] L’orizzonte organicista si rinnova in quel principio di secolo e la società contemporanea assume, all’epoca, le caratteristiche di una larger mind grazie alla diffusione del telegrafo e del telefono.
[5] Tra virgolette alte una citazione tratta da Darko Suvin, On Gibson and Cyberpunk SF, in L. McCaffery (a cura di) (1991). Storming the Reality Studio. A Case of Cyberpunk and Postmodern Fiction. Durham-London; Duke University Press, 363.
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Del modo di esistenza degli oggetti tecnici
Recensioni / Ottobre 2021Del modo di esistenza degli oggetti tecnici di Gilbert Simondon, tradotto in italiano da Antonio Stefano Caridi per i tipi di Orthotes (2020), è ormai un piccolo classico. Eppure si tratta di un’opera che non ha quasi nulla del classico: popolato di tubi elettronici e motori di trazione, articolato in tre parti piuttosto disorganiche e solo di rado disposto ad aperture di senso rivelatrici, è un libro quasi contrario alla vocazione del grande saggio umanistico moderno. Quando venne pubblicato nel 1958, diede voce a un certo clima di insofferenza generale verso le Humanités: «più nessuno può vivere una vera cultura umanistica, anche volendo e avendone i mezzi materiali», scriverà qualche anno più tardi Abraham Moles (2012: 32). Simondon fa sua questa diagnosi sin dall’inizio degli anni ’50 – lui che aveva fondato un atelier di tecnologia nel liceo di provincia dove insegnava, che leggeva appassionatamente Louis de Broglie e Norbert Wiener, che studiava psicofisiologia appena uscito dalle aule di filosofia de la rue d’Ulm.
Ciò che l’umanesimo sembrava aver dimenticato è che la nozione stessa di cultura si basa sull’idea che l’uomo vive in un ambiente tecnico e macchinico. Questo dato di artificialità fondamentale del milieu umano funziona come una sorta di messa a terra di quel regno dei fini che, quando viene separato dal dominio dei mezzi, diviene apparato di conservazione dei valori. È invece proprio il regno dei mezzi a produrre umanità: ancora prima del linguaggio e del concetto, la tecnica è per l’uomo «il modo più concreto del potere di evolvere» (Simondon 2017: 266). Essa è innanzitutto potenza produttiva di senso. La nozione di senso, tuttavia, sfugge al dominio esclusivamente umano nel momento in cui si riconosce come trascendentale rispetto all’umano stesso. In altre parole, se il mezzo e la componente materiale assumono un ruolo essenziale e non semplicemente veicolare nella dinamica evolutiva, allora la dinamica riflessiva secondo cui l’uomo costituisce sé stesso raddoppiando la propria natura si rende opaca e si interrompe: il mondo non è più lo specchio dello spirito.
Del modo di esistenza degli oggetti tecnici entra subito in dialogo con l’altra grande opera di Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione. La tesi che in chiave diversa è portata avanti in entrambe le opere è che l’informazione, intesa come regime di atti disparanti generativi, è principio primo della realtà e della conoscenza umana. L’informazione è articolazione ontologica individuante che si esprime nei modi d’esistenza stessi delle forme, intese secondo il loro carattere processuale e diveniente. In Del modo di esistenza degli oggetti tecnici tale paradigma si specifica nel senso delle potenze proprie all’inorganico artificiale, l’oggetto tecnico in quanto campo di affetti ed essenza singolare. Come nota Deleuze a proposito del concetto di dispositivo, «è già molto tempo che pensatori come Spinoza o Nietzsche hanno mostrato che i modi d’esistenza dovrebbero essere pensati secondo dei criteri immanenti, secondo il loro tenore di “possibilità”, di “libertà”, di creatività, senza alcun appello a dei valori trascendenti» (Deleuze 2007: 24).
La tesi portata avanti da Simondon è che l’oggetto tecnico è stato sistematicamente trasposto sul piano di valori ad esso trascendenti. La forma tecnica è il terreno in cui si afferma la ragione strumentale tout court, in cui ogni oggetto è inteso sin da subito come strumento e privato di autonomia ontologica. Più un oggetto dipende dall’uso che l’uomo ne fa, più gli si impedisce di esplicare il proprio specifico ambito di potenze. La forma tecnica dev’essere invece compresa come un modo in cui dell’informazione è espressa; così essa si rivela parte di una vicenda che supera sia l’oggetto che il singolo soggetto utilizzatore, una vicenda di transustanziazione di immagini e essenze di utilizzazione. Ogni oggetto tecnico articola un’essenza formativa che implica un numero indeterminato di concatenamenti con il reale; perciò esso porta sempre con sé un «margine d’individuazione» e di formazione ulteriore, analogamente a ogni altra forma reale. Assumere uno sguardo immanente a questi processi, per Simondon, significa smettere di trattare gli oggetti come schiavi e intraprendere una nuova relazione di trasparenza con il mondo.
Ciò che caratterizza questo “platonismo macchinico” di Simondon è il gesto di «convocazione», per dirla con Latour, tramite cui entità ontologicamente neglette vengono infine incluse – seppur nella loro differenza specifica – nel cerchio dei protagonisti della realtà. Lo sfondo di questo gesto è un pluralismo metafisico delle potenze, suggerito dal concetto stesso di “modo di esistenza” ed esplicitato nell’idea di informazione come principio generativo dell’Essere. L’oggetto è un compito formativo, un processo in cui possiamo soltanto innestarci, per intuizione dunque, per conoscenza genetica. «Non basta, in effetti, entrare con l’operaio o lo schiavo nell’officina, o anche prendere in mano lo stampo ed azionare il tutto. Il punto di vista dell’uomo che lavora è ancora molto esteriore rispetto alla presa di forma, che è la sola cosa ad essere tecnica in sé stessa. Occorrerebbe poter entrare nello stampo con l’argilla, farsi insieme stampo ed argilla, vivere e provare la loro operazione comune per poter pensare la propria forma in sé stessa» (p. 261). A questo scopo, l’uomo non può che farsi inventore e, perlomeno in un certo senso, filosofo.
La traduzione di Antonio Stefano Caridi consegna ai lettori italiani un libro che, dopo la sua recente riscoperta, si è rivelato fondamentale per il pensiero contemporaneo. Dal punto di vista strettamente filosofico, tornare a leggere Simondon potrebbe sciogliere tanti falsi problemi intorno alla questione degli oggetti (per esempio quelli sollevati dall’ormai celebre ontologia di Graham Harman 2021). Simondon, inoltre, ci indica un modo per superare non soltanto l’antropocentrismo prometeico più manifesto, ma anche l’antropocentrismo larvato che appartiene alla spiegazione antropologica della tecnica. In tal senso Du mode d’existence rimane inservibile per quella linea – del tutto legittima entro i suoi confini – che va da Ernst Kapp a Bernard Stiegler e che vede nella tecnica un modo tutto umano per elaborare la distanza da un ambiente, ancora inteso come un universo oggettivo da cui distillare senso. Per Simondon, è invece proprio un ambiente informativo ubiquo e compenetrante a fornire il campo della continuità possibile tra umanità e tecnicità. Poche lezioni sulla tecnica risultano ancora così fertili e paradigmatiche dopo più di cinquant’anni dalla loro enunciazione.
di Gregorio Tenti
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Bibliografia
Deleuze G. Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2007.
Harman G. Ontologia Orientata agli Oggetti. Una nuova teoria del tutto, Carbonio editore, Milano 2021.
Moles A. Sociodinamica della cultura, a cura di G. Gamaleri, Armando, Roma 2012.
Simondon G. Cultura e tecnica, in Id., Sulla tecnica, a cura di A.S. Caridi, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
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Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche (il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gusto ecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
di Gianluca De Fazio
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#philosophers #6-1 – Bernard Stiegler
#philosophers, Serial / Dicembre 2016Nella sesta puntata di #philosophers, divisa in due parti (qui la prima), abbiamo incontrato Bernard Stiegler, filosofo e direttore dell'Institut de recherche et d'innovation (IRI) presso il Centre Georges Pompidou di Parigi. Abbiamo discusso di situazioni che cambiano la vita, di tecnica e del ruolo della filosofia, oggi.
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Incontro con Bernard Stiegler (Torino, 1-10-2016) – video
Media / Novembre 2016Presentazione di Aut aut vol. 371 - Bernard Stiegler. Per una farmacologia della tecnica
B. Stiegler, 'Qu'appele-t-on panser" dans l'Anthropocène'
Introduzione a cura di Francesca Dell'Orto
Interventi di Giulio Piatti e Paolo Vignola
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Alla voce “posthumanism” Wikipedia elenca sette possibili sfumature semantiche del termine, tutte riconducibili a diverso titolo a questa controversa nozione: si menzionano l’anti-umanismo, il postumanismo culturale, il postumanismo filosofico, la condizione postumana, fino ad arrivare ai massimalismi di transumanismo, Al Takeover ed estinzione volontaria dell’uomo. Ora, senza entrare nel merito di questa catalogazione – che come tale implica una certa arbitrarietà – cercheremo di presentare il saggio di Antonio Lucci Umano Post Umano (Inschibboleth, 2016), azzardandone una collocazione all’interno del cosiddetto postumanismo filosofico. Premessa: “postumano” indica un ambito delle scienze umane distante da una stabilizzazione disciplinare; i margini tematici a cui richiama sono sfrangiati ed estremamente porosi, continuamente soggetti a sconfinamenti e ampliamenti epistemici – di carattere sia inclusivo sia esclusivo. Dagli anni ’70 fino a oggi, infatti, l’idea di poter parlare di “postumano” nei termini di una questione culturalmente rilevante ha fatto sì che il sintagma “post” – su cui pesa tutta la portata della sua novità concettuale – divenisse l’oggetto di innumerevoli branche delle humanities. Con buona probabilità il motivo di questa fortuna è dipeso dal fatto che parlare di post-umano significhi, più o meno consapevolmente, testare la tenuta di un’idea di scienza – “umana” appunto – che mai come oggi pare minacciata da un preoccupante autosuperamento. L’espressione post-umano effettivamente, come ricorda anche Wikipedia, richiama tanto all’idea di crisi quanto alla categoria generale del “salto al di là”, sia storico (after Humanism) che locale (beyond Humanism). Posthumanism va dunque maneggiato come si maneggia un sintomo, concertando prudenza e perizia. Sarebbe eccessivamente sbrigativo liquidare l’emersione prepotente di questa nozione riducendola a un che di passeggero o magari, per additarne l’inconsistenza, a un evanescente fenomeno mediatico. E’ vero, la confusione non manca: l’oggetto su cui si dibatte rimane il più delle volte nascosto dietro un’impenetrabile cortina di nebbia concettuale; le metodologie di analisi talvolta si combinano seguendo giustapposizioni naïf, talaltra si arroccano su anguste posizioni protocollari figlie di specialismi nati l’altro ieri. Eppure, come vedremo, navigando a vista tra interdisciplinarità e tecnicismo, è ancora possibile mantenere un certo equilibrio, tale da consentirci di formulare una risposta plausibile alla domanda “cosa significa postumano?”.