Oltre natura e cultura (2005) di Philippe Descola – riproposto ora da Raffaello Cortina, a cura di Nadia Breda, dopo una prima traduzione SEID del 2014 divenuta presto irreperibile – è un libro che certo non si adopera per nascondere la portata dell’operazione cui si dedica. Ed ecco il primo merito da riconoscere a questo instant classic del pensiero antropologico contemporaneo: il candore nel confessare l’ambizione, e la consequenzialità dello sforzo messo in opera per esserne all’altezza. Le oltre quattrocento pagine (seicento, nell’edizione poche di Gallimard) lungo le quali si articola il volume fanno un uso sapiente dell’esperienza etnografica dell’autore – tra gli Achuar dell’Amazzonia ecuadoregna – così come di una vasta letteratura etnologica e di selezionati riferimenti teorici per rimetter mano a uno dei temi più classici della disciplina: il rapporto tra natura e cultura.
Si tratta di una questione d’importanza capitale per l’antropologia, il campo di una partita «narcisistica» (Viveiros de Castro 2017) in cui ne va delle fondamenta stesse – epistemologiche e politiche a un tempo – della disciplina. Nel primo capitolo de Le strutture elementari della parentela, Claude Lévi-Strauss, di cui Descola è stato discepolo ed erede al Collège de France, aveva indicato nell’incesto il luogo in cui, all’interno dell’avventura umana, la natura prende le forme sempre locali, sempre specifiche, della cultura – delle culture. La natura umana è vuota, mancante, segnata; la cultura, dunque, altro non sarebbe che la maniera in cui gli umani s’ingegnano per riempire questa natura, e così compierla, nelle forme sempre specifiche e mai concluse prodotte e riprodotte dai vari collettivi. All’epoca, si trattava di affermare l’autonomia della disciplina, e l’arbitrarietà del segno linguistico – la violenza muta della castrazione – sembrò sufficiente a garantire l’invalicabilità di una soglia al riparo della quale l’antropologia poteva dirsi scienza. Tale gesto inaugurava quello che ancor oggi va probabilmente annoverato come il momento di maggior lustro della disciplina, stagione di un fortunato contrabbando che avrebbe portato alla diffusione degli strumenti forgiati nel laboratoire d’anthropologie sociale presso psicanalisti, filosofi, storici e linguisti. Lungo le rotte di questo commercio, lo strutturalismo assumeva l’ambizione – se non la solidità – di un paradigma.
In Oltre natura e cultura, Descola si pone esplicitamente nel solco di Lévi-Strauss; e in particolare si ripromette di proseguire una pista additata eppure lasciata inesplorata da parte del maestro, che ne Il pensiero selvaggio aveva scritto:
Il marxismo – se non proprio Marx – ha ragionato troppo spesso come se le pratiche dipendessero direttamente dalla praxis. Senza mettere in causa l’incontestabile primato delle infrastrutture, noi crediamo che tra praxis e pratiche si inserisca sempre un mediatore che è lo schema concettuale per opera del quale una materia e una forma, prive entrambe di esistenza indipendente, si adempiono come strutture, ossia come esseri al tempo stesso empirici e intellegibili (Lévi-Strauss 2010, p. 146, cit. in Descola 2021, 116).
Tra la disposizione simbolica dell’umano e la varietà delle forme concrete cui essa può dar luogo, ecco stagliarsi una terra di mezzo che l’antropologia sarebbe attrezzata per conquistare, e dove potrebbe giocarsi la tenuta del proprio rinnovato progetto intellettuale. Così, Descola ritiene che «sia possibile e necessario risalire […] verso un nucleo di schemi elementari della pratica le cui differenti configurazioni permetterebbero di dar conto di tutta la gamma delle relazioni con gli esistenti, una sorta di matrice originaria dove gli habitus troverebbero la loro fonte e di cui conserverebbero una traccia percepibile in ciascuna delle loro manifestazioni storiche» (Descola 2021, p. 112).
Di questi schemi – disposizioni apprese e largamente inconsce che garantiscono la possibilità agli esseri umani di rapportarsi al mondo senza doverselo reinventare a ciascuna occasione daccapo, script generalissimi d’interazione con l’alterità capaci di darle consistenza e ricondurla ogni volta entro l’ambito del domestico e dell’abituale –, Descola distingue due prestazioni fondamentali: da un lato, essi concorrono a definire l’identità dell’alterità che popola i mondi umani, attualizzando alcune delle affordances che essa reca intrinseche in seno; dall’altro, sulla base dei tratti ascritti alle entità del mondo, determinano il campo delle possibilità interattive con tali entità, rendendo disponibili certi pattern d’interazione e impedendone invece altri. Ma oltre a distinguere i due piani, Descola postula anche una gerarchia precisa che li organizzerebbe: le identificazioni precedono le relazioni; la maniera in cui gli umani percepiscono gli esistenti influenza univocamente le pratiche tramite cui essi vi si relazioneranno.
È in questo primato delle identificazioni che risiede l’originalità della proposta descoliana nel panorama del dibattito contemporaneo. È a tal riguardo, peraltro, che Descola impiega il termine, finito al centro di tante polemiche, che più ha finito per identificare il suo lavoro: ontologia. Se nell’utilizzo fattone da Viveiros de Castro o – con più moderazione – da Stengers o Latour il concetto di ontologia funge da grimaldello anticorrelazionalista, utile a ricercare – per stessa ammissione degli autori, più a tentoni che nell’ambito di un progetto dotato di ambizioni sistematiche – un accesso al mondo e non soltanto alle sue rappresentazioni, nel caso di Descola esso va invece riconosciuto svolgere, curiosamente, un ruolo squisitamente epistemologico. In un impiego del termine in questo senso più prossimo a quello dell’informatica che a quello tradizionalmente proprio della filosofia, le ontologie descoliane sono indistinguibilmente orizzonti di senso e regimi di operabilità del mondo, abitudini cognitive coltivate dai gruppi umani e insiemi di pratiche che ricorsivamente ne rinnovano la pertinenza.
Dettando il profilo degli esistenti, le diverse ontologie limitano dunque i margini entro cui i mondi potranno essere composti e modificati: così, per esempio, se gli Indiani d’Amazzonia non hanno mai addomesticato il pecari, ciò sarebbe in virtù esclusivamente della collocazione che tale animale ha entro gli schemi concettuali che organizzano il loro accesso al mondo, la quale impedirebbe loro di applicare a questo animale un tipo di relazione che pur dimostrano, nel rapporto con altre specie, di conoscere bene. La scena, allora, è quella kantiana: da una parte il soggetto umano, dall’altra un mondo conoscibile e maneggiabile solo in virtù degli schemi che ne organizzano la percezione fenomenica. Al livello di questi schemi, per Descola, ha luogo una – beninteso, inconscia – decisione fondamentale, riguardante la collocazione degli esistenti, da parte del soggetto, su un piano di continuità o discontinuità rispetto a due dimensioni che l’autore giustifica senza troppi imbarazzi come universali della percezione umana: «interiorità» e «fisicalità». Il gioco combinatorio produce una matrice quadripartita: e allora quattro sono, per Descola, le ontologie. Noi moderni, «naturalisti», ci figuriamo in un rapporto di continuità con l’alterità del regno animale e vegetale sul piano della fisicalità (quanto meno da Darwin in poi), mentre ci riteniamo distinti su quello dell’interiorità (delle facoltà cognitive); i popoli «animisti», come gli Achuar studiati da Descola, al contrario, raccontano di un mondo originariamente tutto umano, decaduto in seguito a eventi mitologici sino ad assumere il profilo ingannevole di una fisicalità frammentata; ma la speciazione nasconde una continuità irriducibile e sempre pronta a riaffiorare, lungo il tracciato invisibile – ma non per questo impercorribile – della metamorfosi (Viveiros de Castro 2019). Agli altri due poli della matrice, i «totemisti» – per esempio i popoli aborigeni dell’Australia – riconoscono continuità tra sé e determinate entità non umane su entrambi i piani, delineando così i confini di collettivi che non possono ricercare nella differenza di regno o di specie la garanzia della loro identità; mentre l’ontologia «analogista» – di cui il pensiero cinese costituisce un esemplare prototipico –, postulando discontinuità su entrambi i piani, concepisce un «cosmo composto da immanenze particolareggiate» (Descola 2021, p. 342).
L’assunto che regge l’impianto descoliano va riconosciuto essere in netta controtendenza con buona parte dell’antropologia degli ultimi trent’anni. Dal punto di vista dell’autore, come detto, le identificazioni precedono le relazioni: la diversità delle pratiche, cioè, è da ricondurre alla varietà – ampia ma finita – dei modi in cui gli umani attribuiscono capacità di agire alle entità che compongono i loro mondi. Da una parte gli umani e le loro ontologie; dall’altra, lo schermo immacolato del mondo, sul quale gli umani continuano a prodursi in un’attività in fin dei conti proiettiva. I non umani fanno capolino nel ponderoso volume unicamente come input per la cognizione di esseri umani che, a seconda dell’abitudine, potranno ritenerli più o meno affini a sé, e li tratteranno di conseguenza; ma non hanno mai occasione di dispiegare un’agentività che possa dirsi in senso stretto loro propria. In un tempo in cui proliferano le etnografie multispecie e i tentativi di simmetrizzare la scena epistemologica, Descola porge in dono all’antropologia il campo definito di un oggetto omogeneo e nuovamente tutto umano verso il quale concentrare i propri sforzi.
Ma se è vero che l’apertura postumanista delle scienze sociali, e dell’antropologia in particolare, ha coinciso con la progressiva messa a tema della questione ecologica come affare di cui le humanities non solo avrebbero i titoli per occuparsi, ma di cui esse sole saprebbero elucidare il tenore squisitamente politico, è su questo genere d’implicazioni che conviene chiudere la nostra breve rilettura di Oltre natura e cultura. Se nel gioco combinatorio disegnato dall’autore le relazioni fanno ingresso solo in un secondo momento, quando le entità hanno già acquisito il profilo di un’identità – ovvero sono state identificate da un essere umano –, è entro quei margini che esse saranno passibili di mutamento. Nell’intento di abolire ogni orizzonte evoluzionistico per la classificazione delle tecnologie umane, è la tecnica stessa a finire per sfumare sino a scomparire in uno sfondo nel quale saranno sempre le inferenze di carattere identificatorio a determinare le disponibilità del mondo a essere trattato altrimenti. Al fondo, si potrebbe dire che il mondo – così come l’insieme dei rapporti a esso – esiste, nell’antropologia di Descola, solo come correlato delle differenti visioni che diversi gruppi umani hanno di esso. E a queste condizioni, evidentemente, la storicità si trova ancora una volta ristretta all’umano soltanto – il resto ridotto a materia grezza per le nostre identificazioni. Le ontologie, in effetti – a differenza della cultura, che biologi e antropologi si erano ormai accordati a dismettere quale fattore identificativo di una qualsivoglia singolarità dell’animale umano (cfr. Morin 1974) –, sono affare squisitamente umano; e alla facoltà ontologica spetta il compito d’individuare, come era precedentemente toccato al linguaggio o alla coscienza della propria condizione mortale, una specificità irriducibile dell’essere umano, che assegna alla nostra specie il ruolo di una innegoziabile eccezionalità entro il campo della storia naturale.
Commisurato alla rivoluzione lovelockiana proposta da Latour (2019), allora, lo sforzo di Descola assume il profilo di una restaurazione perfettamente katiano-copernicana: il soggetto umano nuovamente al centro, e attorno a esso un mondo fatto unicamente delle diverse rappresentazioni che esso ne produce. La linea tra natura e cultura che l’opera ambisce a oltrepassare, di conseguenza, si trova rimpiazzata da un’altra linea: quella – inerte, priva di storia, tracciata una volta per tutte e indisponibile a rinegoziazioni – tra l’umanità e un mondo con cui essa intratterrebbe rapporti certo variegati ma comunque unilaterali.
Bisogna concluderne che l’antropologia di Descola ricerca la propria efficacia sugli stessi terreni ove il progetto strutturalista aveva ritenuto di fondare le proprie ambizioni paradigmatiche; e così facendo, finisce per esporsi al medesimo genere di critiche che quel progetto avevano bersagliato sino a minarne le fondamenta. Ma è anche vero che l’etichetta dello strutturalismo, pur esibendo la facciata di un edificio intellettuale possente e dai confini definiti, riesce a stento a tenere assieme le traiettorie di avventure che furono dotate di propositi, ambizioni e percorsi diversissimi tra loro. E ciò implica la necessità di spingersi un passo oltre nel caratterizzare l’eredità intellettuale che Oltre natura e cultura assume e rilavora. Proponendosi di raccogliere il lascito di Lévi-Strauss, in effetti, Descola si ritrova in mano un’opera certo marcata in origine da un dualismo profondo, che vede la struttura e il mondo contrapporsi in maniera frontale, segnando la giurisdizione di due regni radicalmente eterogenei. Tale opera, tuttavia, è anche popolata di trickster, figure mediane che mentre sembrano convocate in quanto punto – arbitrario – di contatto tra i due piani, sono pronte a tradire il proprio ruolo impiegatizio, mostrandosi invece – se interpellati con la giusta malizia – essi stessi artefici della sintesi, geni della significazione. Lo sciamano, per esempio: apparentemente rentier di un privilegio strutturale nel quale risiederebbe il segreto – simbolico – dell’efficacia delle sue pratiche, e in realtà depositario di tecniche e saperi che tale ordine concorrono a fondare e manutenere, «cristo magico» (De Martino 1948) di mondi il cui stare assieme non è garantito dall’arbitrarietà di un segno linguistico che sul piano orizzontale della differenza trova la propria consistenza necessariamente logica, bensì dal lavoro materiale e speculativo che incessantemente compone forma e vita; oppure il mana polinesiano, cui Lévi-Strauss parrebbe attribuire il ruolo di architrave del sistema simbolico – «semplice forma» dal «valore simbolico zero» (Lévi-Strauss 1965, LII) –, ma che a un esame più attento si rivela traccia di un gesto originario il quale, aprendo il campo del simbolico, può solo sopravvivere come cicatrice sulla sua superficie liscia (cfr. Leoni 2019).
In quegli anfratti, l’opera di Lévi-Strauss ospita già una venatura che lo strutturalismo trascende e reimpagina, schiudendo linee di fuga «selvagge» capaci, a volerle seguire, di aprire il sistema e mostrare la struttura nella sua consistenza di gesto e di evento. Non è tuttavia questo, bisogna convenire, il versante dell’opera levistraussiana che Descola percorre e decide di proseguire; bensì quello più saldo e rassicurante del paradigma. Ma come dimostra l’importante libro di Nastassja Martin (2016), che di Descola è stata allieva, messo alla prova dell’etnografia, l’impianto di Oltre natura e cultura rende necessarie ibridazioni che finiscono per snaturare la linearità del progetto che esso propone. Che si tratti dello sguardo latouriano che Martin assume come controcanto all’impostazione del maestro, o quelli resi possibile dai lavori di Donna Haraway (2003), Anna Tsing (2021), o Isabelle Stengers (2018), che in maniera simile potrebbero svolgere un ruolo analogo, le voci della cosiddetta “svolta ontologica” trovano nel testo di Descola l’opportunità per un dialogo capace di esplicitare sino in fondo la radicalità del sommovimento politico-teoretico che interessa l’antropologia da ormai trent’anni.
Alla luce di quanto detto, diviene lecito domandarsi quanto il volume riesca, a conti fatti, negli intenti da cui prende le mosse; in quale misura cioè si mostri capace di dotare l’antropologia della concettualità nuova che le aveva promesso, in grado di addomesticare le terre selvagge che si schiudono varcata la linea che distingue e istituisce gli ambiti speculari di natura e cultura. Come notato anche dalla curatrice nella sua densa postfazione, tuttavia, si tratta di bilanci che sarebbe probabilmente prematuro fare ora, se è vero che nel corso di quest’anno è attesa la pubblicazione del libro dedicato al tema della figurazione cui Descola ha consacrato i suoi sforzi negli oltre quindici anni trascorsi dalla pubblicazione originale di Par-delà. E in ogni caso, considerazioni di una tale portata non possono spettare a questo scritto, che aveva la ben più modesta ambizione di additare il percorso teoretico imbastito da Descola e dettagliare la frizione che esso provoca nel contesto del dibattito antropologico contemporaneo.
È con un auspicio, allora, che conviene chiudere queste note fugaci. Nell’inaugurare un capitolo italiano nella Wirkungsgeschichte del volume, e in attesa dell’uscita del nuovo libro, questa traduzione offre l’occasione perché, anche nel nostro paese, l’antropologia muova passi decisivi verso quel ruolo di primo piano che altrove essa è riconosciuta occupare nelle discussioni sull’ecologia politica. La questione ecologica e il relativo dibattito, in Italia, s’intrecciano infatti alle traversie di un mondo culturale nel quale all’antropologia ancora tocca in sorte una posizione largamente subalterna. Se il testo – accompagnato dalle voci che già vivaci hanno cominciato ad accoglierlo – saprà propiziare movimenti in tale direzione, un passo oltre la linea di natura e cultura sarà effettivamente stato intrapreso.
di Nicola Manghi
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Bibliografia
De Martino, Ernesto (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino
Descola, Philippe (2021), Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina, Milano
Haraway, Donna (2003), The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Prickly Paradigm Press, Chicago
Latour, Bruno (2019), Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, Rosenberg & Sellier, Torino
Leoni, Federico (2019), “Struttura. Antropologia dell’immanenza. Mauss Lévi-Strauss Deleuze”, in R. Panattoni e R. Ronchi (a cura di), Immanenza: una mappa, Mimesis, Milano-Udine, pp. 59-74
Lévi-Strauss, Claude (1965), “Introduzione all’opera di Marcel Mauss”, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, pp. XV-LIV
Lévi-Strauss, Claude (2010), Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano
Martin, Nastassja, (2016), Les âmes sauvages. Face à l’Occident, la résistance d’un peuple d’Alaska, La Découverte, Paris
Morin, Edgar (1974), Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Bompiani, Milano
Stengers, Isabelle (2018), “The Challenge of Ontological Politics”, in M. de la Cadena e M. Blaser (a cura di), A World of Many Worlds, Duke University Press, Durham, pp. 83-111
Tsing, Anna Lowenhaupt (2021), Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Rovereto
Viveiros de Castro, Eduardo (2017), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre Corte, Verona
Viveiros de Castro, Eduardo (2019), Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, Quodlibet, Macerata
Un commento al seminario "La vita la morte" di Jacques Derrida
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“È importante, per me, nel filosofare, mutar sempre posizione, non stare troppo a lungo su una gamba sola, per non irrigidirmi.”
Wittgenstein (1980, p. 61)
Il titolo di questo seminario di Derrida (2019) del 1975-6 dice perspicuamente più che il suo oggetto, il nodo attorno a cui si avvolge (difficile dire se per scioglierlo o al contrario per annodarlo): la vita la morte.
Non “la vita, la morte” né “la vita e la morte” dunque, dove la virgola o l’et sancirebbero una separazione tra le due, premessa e promessa di una loro prevedibile opposizione. E nemmeno “la vita è la morte” né “la morte è la vita”, che avrebbe il valore di un’eguaglianza, come risultato della soluzione di un’equazione: questa identità tra la vita e la morte non è qualcosa che Derrida trova, come risultato di un processo argomentativo, ma qualcosa che pone sin dall’inizio, sfida e scommessa di tutto questo seminario.
Notiamo però che Derrida scrive sempre “la vita la morte” (o lavitalamorte) mettendo in precedenza la vita. Il precedere cronologico della vita sulla morte appare ovvio, ma per Derrida l’anteriorità empirica non implica assolutamente una precedenza logica. Perché allora questa antecedenza sintagmatica della vita sulla morte?
Per un filosofo tradizionale questa scelta grafica di Derrida non avrebbe alcuna importanza. Ma sappiamo che invece per Derrida le scelte di scrittura – anche mettere una parola prima di un’altra – sono importanti tracce filosofiche, hanno la densità di una concettualità inconscia. È proprio sulla traccia del pensiero di Derrida che quindi poniamo questa questione di traccia: ‘vita morte’ e ‘morte vita’ non sono equivalenti.
Ora, il perno attorno a cui sembra girare il seminario è una sentenza di Nietzsche:
“Evitiamo di dire che la morte sarebbe opposta alla vita. Il vivente è solo un genere di ciò che è morto, un genere molto raro[1].”
Cosa voleva dire Nietzsche?
Da un punto di vista razionale, si tratta di un assurdo. Perché diamo per scontata una gerarchia logica tra vita e morte: non ci sarebbe morte se non ci fosse vita. D’altro canto, sappiamo dalla biologia (anche se qui Derrida contesta questo sapere, come vedremo) che ci sono vite senza morte, quelle che si riproducono agameticamente. Insomma, la morte implica la vita, non viceversa. E invece Nietzsche rovescia la gerarchia, facendo della vita un sotto-genere della morte.
Chiama egli “morto” semplicemente ciò che non è vivente? Ma dare a morto il senso di non-vivente significa proprio far prevaricare la dimensione della vita sull’ente in generale. Nello stesso momento in cui Nietzsche dice che la vita è un sotto-insieme della morte, ipso facto mette la vita, il vitale di cui la morte è fattore, in una posizione direi egemonica: apparendo come morto, il non-vivente viene riportato così alla logica della vita, alle opposizioni vitali. Dire che ciò che non è mai vissuto è morto, è dare in realtà alla nozione di vita una portata che va ben al di là della vita biologica – insomma, Nietzsche enuncerebbe qui il suo vitalismo (quindi, lo sforzo di Derrida, nel corso di questo stesso seminario, di contestare l’etichetta di “vitalista” attribuita solitamente a Nietzsche non è del tutto convincente).
Abbiamo detto prevaricazione: è un punto essenziale su cui torneremo. In effetti, qui Nietzsche, proprio dicendo che la vita è un genere del morto, fa prevaricare la categoria della vita sull’ente in generale.
Eppure, malgrado il rovesciamento di Nietzsche, Derrida dà la precedenza grafica alla vita. Nell’identificazione vita-morte, resta la traccia di una non-identificazione, su cui – derridianamente – dovremmo interrogarci.
Potremmo dire che in questo seminario Derrida si interroga sul “biologico”, nella misura in cui questo è anche interrogarsi sul “tanatologico”.
Derrida slitta da una lettura all’altra. Grosso modo, in questo seminario abbiamo quattro “stasimi” del suo confronto con testi che tematizzano questo bio-tanatologico: un primo in cui si confronta con Ecce Homo di Nietzsche; un secondo in cui articola un confronto serrato con il libro di François Jacob (1970) La logica del vivente, pubblicato cinque anni prima; un terzo sulla lettura heideggeriana del cosiddetto “vitalismo” di Nietzsche; e un quarto in cui si confronta con Al di là del principio di piacere di Freud. Qui mi limiterò a commentare il commento di Derrida al libro di Jacob.
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1.
In questa parte del seminario Derrida si confronta con il testo, in senso lato divulgativo, di Jacob. Con un testo più storico, di storia della biologia, che biologico, come enuncia il suo sottotitolo: Storia dell’ereditarietà. Derrida lo prende però come fosse un testo filosofico, lo analizza come tale, e ovviamente da questa lettura emergono cedimenti metafisici nel testo del biologo o storico della biologia. Wittgenstein, che disprezzava la divulgazione scientifica, disse “Le opere di divulgazione scientifica non sono l’espressione del duro lavoro dei nostri uomini di scienza, bensì del loro riposarsi sugli allori” (Wittgenstein 1980, p. 86). Derrida in Jacob vede insomma gli allori, anche se, tengo a dirlo, il riposarsi di Jacob è a tutt’oggi esemplare.
In certi punti, Derrida sembra promuoversi miglior biologo di Jacob (il quale vinse il premio Nobel in medicina). Ad esempio, quando confuta l’idea (di Jacob? della biologia moderna? del modo che ha la biologia di raccontarsi?) secondo cui la riproduzione dei batteri è asessuata. Jacob fa notare che la sessualità e la morte sono un’”invenzione” (così scrive) che la vita fa a un certo punto della propria storia, sottolineando che la sessualità e la morte si implicano: è veramente mortale solo il vivente sessuato. (Evidentemente questo guasta de facto l’assunto di partenza di tutto il seminario derridiano: il sovrapporsi logico della vita e della morte.) Ora Derrida, rifacendosi ad altri biologi, cerca di mostrare che avvengono inserimenti di materiale genetico da un batterio all’altro, il che può considerarsi una forma di riproduzione sessuata. Inoltre, solleva un’obiezione di buon senso all’idea che un batterio non muoia, dato che alcuni batteri certamente si dissolvono. Se un batterio produce dieci copie di sé e poi ne restano solo sette, come possiamo non dire che quattro batteri sono morti?
La domanda da porsi è perché Derrida ci tenga tanto a contestare l’idea che la sessualità e la morte siano prodotti successivi della vita, fino al punto da usare argomenti biologici contro un biologo nobélier. Perché tiene tanto a fare della morte qualcosa di coestensivo alla vita, e non un’”invenzione” succedanea della vita stessa? Ma prima di rispondere a questa domanda, vorrei mostrare come l’obiezione di Derrida mostra che egli non abbia colto l’essenziale dell’argomento di Jacob.
Derrida non sembra cogliere il fatto che, per la biologia, solo con la sessualità e la morte diventa pertinente il concetto di individuo – di indivisibile, che è la traduzione del greco ατομος. L’individuo o atomo è tale perché il suo genoma è del tutto diverso da quello di ciascun genitore (sessuato), ed è completamente diverso da quello di ogni altro essere vivente della stessa specie (a parte il caso dei gemelli veri). La genetica insomma ha modificato il nostro concetto originario, comune, di individuo: che non è più, prima di tutto, l’indivisibile, ma è il portatore di un assetto genetico unico. La morte quindi equivale alla scomparsa di questo unicum. Mentre la riproduzione non sessuata è produzione di cloni – all’epoca il termine “clone” non era entrato nel linguaggio comune, e difatti Derrida non lo usa mai. I cloni sono individui diversi dal punto di vista del linguaggio comune, ma non dal punto di vista biologico, perché hanno identico genoma.
Questo taglia corto alle obiezioni che Derrida solleva all’idea che un batterio, ad esempio, non muoia. Se per individuo intendiamo chi porta genomi diversi, il batterio non muore nel senso che copie di sé comunque sopravvivono. Un libro non muore se restano alcune copie di esso, anche se il manoscritto originale fosse andato perduto.
(Si dirà che uno dei due gemelli omozigoti umani può morire, mentre l’altro può sopravvivere. Se fossero lo stesso individuo, dovrebbero morire assieme. Ma consideriamo due gemelli due individui distinti perché oltre al senso genetico di “individuo” abbiamo un altro senso che ci deriva dal linguaggio comune: l’avere due cervelli e quindi due coscienze diverse. Le due coscienze diverse individualizzano, per noi, ciascun gemello. Due sensi diversi di “individuo” si sovrappongono nel nostro linguaggio. Si dà però il caso che il batterio non abbia alcun cervello né alcuna coscienza, nel caso suo, quindi, il senso genetico di individuo può prevalere.)
Inoltre, le eccezioni alla riproduzione asessuata nei batteri che Derrida evoca non inficiano la distinzione categoriale di Jacob tra vita asessuata-immortale da una parte, e vita sessuata-mortale dall’altra. Il problema vero non è stabilire quali specie rientrino nella prima categoria e se non ci siano eccezioni, ma stabilire questa distinzione, che resta valida malgrado i distinguo di Derrida.
Derrida non apprezza insomma l’interesse del senso nuovo dato al termine “individuo” (ovvero, sessuato e mortale) come impossibilità di replicarsi integralmente. Eppure questo nuovo senso dato a individuo – e quindi anche alla sua morte – è filosoficamente importante perché rompe con l’idea che Homo sapiens, ad esempio, abbia un’”essenza”, che ci sia un’essenza della specie umana. Siccome non esistono due individui geneticamente eguali, ogni individuo è portatore di una variabilità che potrebbe avere successo storico, cioè riprodursi e quindi mutare, a poco a poco, certe caratteristiche che consideriamo umane. Per la genetica, ogni individuo è un mutante. Non c’è quindi veramente un tratto comune a tutti gli esseri umani, ogni umano è un potenziale punto di fuga da un’umanità “media”. Questo è il senso della rivoluzione darwiniana: il disgregarsi del concetto di specie. Species è versione latina diείδος, la forma essenziale (termine che tradurrei oggi con struttura). Non c’è unastruttura umana. Per la biologia pre-darwiniana le specie animali erano essenze, mentre con Darwin abbiamo solo esistenze animali. Strano quindi che la vocazione anti-metafisica di Derrida non lo porti a valorizzare questo anti-essenzialismo della moderna biologia.
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2.
Certamente Derrida ha spesso ragione nel mettere in rilievo certe ingenuità concettuali di Jacob. Per esempio, Jacob dice che la biologia non si interessa alla vita – non pone il problema dell’essenzadella vita – ma ai viventi. “Oggi nei laboratori non si interroga più la vita … Ci si sforza solo di analizzare i sistemi viventi, la loro struttura, la loro funzione, la loro storia” (p. 116[2]) Qui Derrida ha buon gioco nel dire che sostituire alla vita il vivente non dispensa dalla domanda non solo filosofica, direi, ma anche biologica: che cosa fa di un vivente un vivente?
E in effetti, Jacob si contraddice de facto perché dice spesso e forte l’essenza del vivente: è qualcosa che ha la capacità di riprodursi. La riproducibilità – l’avere eredi - è ciò che fa del vivente un vivente.
La riproducibilità evoca il concetto di disegno, di progetto. Concetti che Jacob non disdegna, ma avvertendo:
“L’essere vivente rappresenta certo l’esecuzione di un disegno, ma che nessuna intelligenza ha concepito.”
Dice Derrida: se c’è un’omogeneità tra le produzioni del vivente umano (testi, calcolatrici, programmatrici, ecc.) e il funzionamento della riproduzione genetica, l’opposizione tra scienze della natura e le altre scienze perde pertinenza e rigore. È quello che lui nel fondo desidera? Questo sarà il punto essenziale – ma non detto - del commento di Derrida.
Intanto però Derrida si dedica a criticare i filosofemi, direi, del biologo. Ad esempio, scova dell’hegelismo in Jacob, e per lui Hegel “è il più metafisico di tutti i metafisici”. Jacob, facendo del vivente un impulso a riprodursi, nella vita “ritrova l’essenzialità dell’essenza, l’origine e la fine dell’essenza come dinamica ed energia d’essere” (p. 121) “La vita è l’essenza… la vita è più essenziale del non-vivente che essa integra in sé”.
“Mi applico a render chiaro il rapporto che il discorso del genetista, dello scienziato biologo moderno mantiene con la tradizione filosofica: debito e dipendenza sconosciute, diniego, semplificazione, caricatura, sottomissione ai vincoli di un codice, di un programma, appunto, di macchine calcolatrici da cui egli si crede liberato mentre invece ne riproduce i funzionamenti, ecc.” (p. 123)
Insomma, per Derrida non c’è rottura (e non è chiaro se se ne rammarichi o se ne compiaccia) tra filosofia metafisica e scienza, il che è in continuità con un certo atteggiamento del filosofo detto “continentale”, quello di una sorta di rivalsa professionale contro l’egemonia politica della scienza: “credete di esservi liberati della filosofia, e invece fate voi stessi un sacco di filosofemi!”
È vero che Jacob talvolta arrischia enunciati che è facile qualificare di rodomontate, come: “La biologia non cerca la verità. Essa costruisce la propria”. Anche qui Derrida ha buon gioco nel mostrare come in realtà la biologia, proprio nella misura in cui cerca la propria verità, presuppone una nozione generale di verità, senza la quale non sarebbe nemmeno possibile dire che cerca una propria verità. Ma qui Derrida non usa il “principio di carità” che la filosofia stessa ha promosso[3]: che occorre sforzarsi di trovare una logica ad affermazioni che a prima vista appaiono illogiche o paradossali.
L’enunciato di Jacob che Derrida deride può essere interpretato caritatevolmente come un modo di dire: “il biologo non ha bisogno, come i filosofi, di interrogarsi prima su cosa significhi verità in biologia: ne ha una nozione intuitiva che gli basta per operare”. E questo è vero per ogni scienza. Non è il mestiere dello scienziato interrogarsi sul concetto di verità, il suo lavoro consiste nell’usare questo concetto per poter dire il vero sul vivente.
L’enunciato di Jacob può essere anche inteso in senso feyerabendiano[4]: la biologia, come ogni scienza, cambia il proprio metodo scientifico a seconda delle opportunità e dei problemi che le si pongono. La biologia è opportunista, come ogni scienza. Nella sua storia essa ha cambiato spesso metodo, dandosi cioè fini e funzioni diverse. Così con Linneo e Buffon la biologia si auto-interpretava come descrizione accurata delle diverse specie animali, sulla base di una teoria preformista. Con Lamarck e Darwin, invece, si è posta il problema dell’origine delle specie, ovvero sulle ragioni della storia del prodursi e del distruggersi delle forme animali. Cambiamento che si può ravvisare nella storia di ogni scienza. È il senso stesso di “fare biologia” che è cambiato. Ma talvolta nemmeno Derrida se ne rende conto.
Per esempio, Derrida critica il concetto di “riproduzione” in Jacob:
“Il discorso di Jacob – come quello di una certa modernità – maneggia il concetto di produzione o ri-produzione come se fosse trasparente, univoco, che vada da sé, come se ci fosse anche una distinzione o un’opposizione chiara tra produrre e riprodurre, riprodurre e riprodursi. In nessun momento Jacob si chiede quel che ciò vuol dire, mai sottopone questo concetto o parole di produzione/riproduzione (di sé) alla pur minima domanda critica” (p. 135).
Anche qui, la critica di Derrida ripercorre la critica che da molto tempo – da quando la filosofia speculativa ha divorziato dalla concettualizzazione scientifica, diciamo da Kant in poi – la filosofia rivolge alla scienza: che quest’ultima è incapace di pensare i concetti che essa usa, che non si interroga sull’’essenza’ dei propri concetti. (È il rimprovero che già Socrate rivolgeva sistematicamente a qualunque “esperto” ateniese che non si ponesse interrogativi filosofici sul proprio campo di sapere.) Si rimprovera insomma alla scienza di non essere filosofica, il che implica un assunto metafisico forte, nel senso che la riflessione filosofica in qualche modo fonderebbe il discorso della scienza e delle scienze particolari. (E questo a dispetto del fatto che Derrida si sia posto sempre come filosofo non-fondazionalista.) Se la filosofia è in grado di criticare la concettualizzazione scientifica, questo vuol dire in effetti che questa concettualizzazione manca di qualcosa per essere valida, per reggersi da sé, e che questo reggersi è fornito da un altrove dalla scienza, dalla riflessione filosofica appunto. E in effetti, per molti secoli si è pensato che per fare scienza si dovesse prima capire filosoficamente quale fosse il suo oggetto e il modo corretto di procedere per renderne conto. Così Descartes, per esempio, pensava che non potesse essere un buon fisico se prima non avesse stabilito un criterio di certezza. Ma da secoli sappiamo che questo non è vero: possiamo dire che anzi il filosofo di solito arriva dopo lo scienziato, dopo che questi ha scoperto qualcosa che tutti accettiamo. Il filosofo, si dice, giunge sempre al tramonto.
È un peccato che Derrida non tenga in alcun conto l’”altra filosofia”, che poi è anch’essa per lo più continentale, nel senso che è sorta in Austria e in Germania: la filosofia della scienza moderna, il filone cha va da Mach al Circolo di Vienna, a Popper, a Kuhn, a Lakatos, a Feyerabend… Il confronto con questo filone avrebbe aiutato certamente Derrida a distinguere più perspicuamente il discorso dello scienziato da ciò che la scienza di fatto fa. Una distinzione ripresa da Feyerabend, il quale diceva: “Spesso si crede che la scienza fatta da uno scienziato non sia quella pubblicata nelle riviste specialistiche, ma quello che lo scienziato dice quando pontifica”.
Ora, per limitarci al tanto bistrattato (dalla filosofia “continentale”) Popper, bisogna convenire che due o tre cose importanti sulla scienza le ha dette. Una è che la grande scienza – quella che fornisce le visioni del mondo che poi diventano le nostre, anche di Derrida – non nasce dall’osservazione dei fatti, ma da teorie. E che queste teorie sono all’inizio delle metafisiche o dei miti. La separazione netta tra fisica (scienza) e metafisica su cui si basa il positivismo logico è storicamente fallace: le teorie scientifiche sorgono sempre da qualche metafisica. Ciò che separa man mano – col tempo, in un processo mai del tutto concluso, secondo una separazione che chiamerei asintotica – la scienza dalla metafisica è il modo in cui la scienza seleziona via via i suoi asserti (secondo Popper, attraverso tentativi ripetuti di falsificazione, ma questa è un’idea sua, confutata dai post-popperiani). Ora, quando giustamente Derrida vede il discorso di Jacob – ma di qualsiasi biologo, in fondo – intriso di presupposti metafisici (fino a vedervi un hegelismo di fondo) non fa che ri-scoprire l’ombrello: che tutti i concetti della scienza hanno un’origine metafisica, e ne portano le tracce, anche se sono stati rimodellati dal procedere corroborativo (è questo il termine di Popper, che non significa verificativo) della scienza. E questo anche in fisica. Tanti concetti fondamentali della fisica tradiscono la loro origine filosofica o metafisica: per esempio energia, che viene dall’energheia aristotelica. O i concetti di materia, potenza, atomo, forza, vuoto, continuo e discontinuo…
La moderna filosofia della scienza ha detto un’altra cosa importante: che qualche secolo fa il pensiero scientifico si separa da quello filosofico quando cessa di pensare che esso debba partire da una definizione delle cose che esso studia. La scienza non è matematica, non nasce da definizioni precise e rigorose dei propri oggetti, insomma, la scienza non si interroga sulle essenze di ciò che vuole studiare. È in questo senso, credo, che Jacob può dire “la biologia costruisce la propria verità”. La scienza nasce sempre dal linguaggio comune, che essa non interroga come invece è opportuno che faccia la filosofia. La chimica non ha scoperto la composizione dell’acqua (cosa che qualcuno potrebbe chiamare l’“essenza dell’acqua”), l’essere una certa combinazione di idrogeno e ossigeno, partendo da una definizione esaustiva e non-ambigua di acqua. I chimici si sono occupati di quello che la gente comune chiamava acqua. Perciò tutti i fondamentali concetti scientifici fanno risuonare l’eco di concetti ed esperienze comuni: la gravitazione evoca subito la mela di Newton, la forza e l’energia evocano le attività umane, la causa efficiente il tirare e spingere, azione e reazione sono atti animali, gli astri sono quelli che gli umani hanno chiamato tali guardandoli a occhio nudo, ecc.
Questo confuta o limita ciò che avevamo prima detto, che le teorie nascono sempre da ipotesi metafisiche o mitiche? No, perché gli oggetti di cui la scienza si occupa all’inizio (poi essa scopre oggetti non comuni, nuovi, come i buchi neri o i quark) sono oggetti comuni, ma il modo di spiegarne il comportamento è preso da metafisiche. La scienza coniuga linguaggio comune e concetti metafisici, e quindi bypassa l’onere di riflettere filosoficamente sul senso dei concetti.
Certamente poi il sapere scientifico rimbalza sul linguaggio comune e lo modifica. La chimica ha studiato l’acqua senza definirla prima, ma quando ha scoperto la sua struttura chimica, allora essa ha avuto un effetto di rinculo sul linguaggio comune stesso: sappiamo che possiamo chiamare legittimamente acqua solo ciò che è H2O. L’astronomia ha descritto la luna come pianeta perché così la considerava il sapere comune, poi, con la rivoluzione copernicana, ci ha detto che la luna è invece un satellite, e come tale oggi il linguaggio comune la considera. Ciò che chiamiamo sapere della nostra epoca è effetto di una lunga storia di doppio scambio a zig zag tra linguaggio comune e linguaggio scientifico.
Quindi, non so se Derrida, quando critica Jacob perché – come ogni biologo – non si interroga sull’essenza del vivente (pur fornendo a sua volta una definizione dell’essenza del vivente come ereditarietà), si renda conto di criticare in generale la scienza in quanto scienza. Tutto il ragionare di Jacob sul vivente parte dal concetto comune di vivente. Ancor prima che la biologia si sviluppasse come scienza, i nostri antenati, i greci, i romani…, hanno sempre considerato un albero o una mosca come esseri viventi, pur senza disporre di una definizione precisa (filosofi a parte). Ne avevano una definizione implicita, e il compito dei filosofi è stato di esplicitarla. Il biologo non si interroga sull’essenza del vivente se non après coup, quando scopre certe caratteristiche non evidenti (che il linguaggio comune non riconosce) del vivente (ad esempio, il suo essere espressione di un genoma). La scienza fa bene insomma a non interrogarsi sul concetto di vivente, perché è il suo operare in un certo modo sul vivente che gli fornirà poi un concetto di vivente, che sarà comunque sempre provvisorio, rivedibile.
Scrive ancora Derrida:
“[Criticare] i discorsi degli scienziati – per esempio dei biologi – i quali, quando assumono una portata filosofica o epistemologica generale, non sono abbastanza vigilanti quanto alla filosofia o all’ideologia implicita in quel che dicono, non interrogano abbastanza il sistema e la storia dei concetti operativi di cui si servono…” (p. 139)
È una critica agli scienziati solo quando fanno discorsi con “una portata filosofica o epistemologica generale” (quando “pontificano”)? O una critica agli scienziati in generale, in quanto sono scienziati? In questo secondo caso, direi che è impossibile, per chiunque faccia scienza, non usare concetti filosofici, come abbiamo visto, dato che impregnano le loro teorie sin dall’inizio. Derrida vorrebbe allora che gli scienziati facessero solo il loro lavoro?… ma dove comincia e finisce questo loro lavoro? Consiste nel descrivere dei semplici meccanismi? Ma anche quando diciamo che lo scienziato di oggi ricostruisce i meccanismi che operano nella natura, già nel dire “meccanismo” implichiamo tutta una filosofia che è fusa nel concetto stesso. È la metafisica su cui si basa tutta la scienza moderna: che gli enti si relazionano gli uni con gli altri come gli ingranaggi in un meccanismo, in una macchina. Di questa metafisica non possiamo dire che sia vera o falsa, possiamo dire solo che finora ha funzionato, perché la scienza in questi secoli ha avuto un grande sviluppo. Una macchina non funziona perché è vera, funziona perché funziona.
In effetti, la mechané di cui parlavano i greci erano solo le macchine costruite dagli umani per svolgere una certa funzione. Ai greci non sarebbe mai passato per la mente di pensare che la physis – la natura – fosse mechané! Solo in seguito, con la rivoluzione galileiana, si è sviluppata una “meccanica”, la natura viene studiata come se fosse una macchina. Ma una macchina che non serve a nulla, e che nessuno ha creato (l’ipotesi creazionista non è mai scientifica perché segna lo scacco della spiegazione scientifica). È l’atto istitutivo della scienza moderna: la natura è una immensa macchina, ma che non serve a nulla. La biologia moderna è meccanicista – su questo ha ragione il tanto spregiato (dai filosofi) Jacques Monod (1970). Ma già quando il biologo afferma di essere meccanicista emana del filosofico, perché gli si può ricordare che il modello della macchina per pensare la natura è di per sé una scelta metafisica. O meglio, una scommessa: la scienza moderna si impegna a spiegare tutto (non il Tutto) come meccanismo. Abbiamo anche qui una prevaricazione che in sostanza caratterizza ogni metafisica: la macchina, inizialmente solo una parte dell’ente, diventa l’essenziale di tutti gli enti.
Tutta la scienza moderna si basa anche su un altro assioma: la conservazione dell’energia. Non si tratta di una scoperta empirica, ma di una scommessa che identifica la ricerca in quanto scientifica. La scienza esclude a priori che ci possa essere creazione o annullamento di energia, perché sarebbero “miracoli”. Conservazione di energia perché, dopo Einstein, l’energia è equivalente della materia. La forma tradizionale di questo assioma è: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questo all’interno di un tutto (universo) che viene ipso facto concepito come chiuso. Fin quando un tutto è aperto, non è mai “tutto”. Può darsi che il nostro universo sia uno di altri innumerevoli universi di cui nulla sappiamo, ma anche senza saperne nulla la scienza già sa che questo tutti-gli-universi non diminuisce né si accresce. Potremmo anche dire che la materia-energia non muore mai. Si tratta evidentemente di una visione metafisica, ma sarebbe assurdo criticare le moderne teorie scientifiche – che tutte tengono conto di questo assioma – perché esse si basano su una metafisica sbagliata! Che sia sbagliata o meno nessuna filosofia ce lo può dire, ce lo potrebbe dire solo il fallimento della scienza. Se la moderna scienza fallisse, se dovesse ammettere che certe cose emergono dal nulla, allora dovremmo considerare fallace anche la metafisica su cui si regge.
Proprio perché la scienza riusa il linguaggio filosofico, può dispensarsi dal pensarlo filosoficamente.
Qualcuno potrà dire che qui Derrida non critica i filosofemi di Jacob in quanto disapprova la contaminazione di filosofia e scienza, ma li critica perché ritiene che Jacob non si renda conto di essere anche filosofo. Ma, come abbiamo visto, è inevitabile che lo scienziato debba essere anche “filosofo”, perché ogni scienza ha basi metafisiche. È essenziale allora che lo scienziato se ne renda conto, che ammetta di essere filosofo senza saperlo? Non credo che questo sia il punto.
Il filosofo ha un compito che allo scienziato viene risparmiato: quello di mettere filosoficamente in discussione i filosofemi che sono alla base di ogni paradigma scientifico, ma direi anche della maggior parte delle nostre credenze, politiche religiose artistiche, ecc. Quella che chiamiamo filosofia è la riflessione, non sempre critica, su ciò che chiamerei filosofie popolari, le visioni del mondo che ispirano le nostre vite e le nostre credenze. E la scienza ha alla base una sua “filosofia popolare”. Ma mettere in discussione questi filosofemi popolari – qui è il punto – non deve portarci (è questa la tentazione a cui molti filosofi cedono) a criticare la concettualizzazione scientifica in quanto tale! Non si critica una teoria scientifica criticandone i presupposti filosofici. Sarebbe come voler criticare un ottimo cuoco cinese perché ispira la sua arte all’opposizione taoista tra yin e yang…
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3.
Derrida critica insomma i “filosofemi” di Jacob perché non si rende conto che quel che il secondo dice ha una semplice funzione euristica (termine che Derrida usa due volte in questo seminario). Ovvero, la scienza non si fa solo con delle equazioni, o con delle previsioni calcolabili, ma elaborando anche modelli che chiamerei immaginari, una certa immagine di che cosa accada in un oggetto che serve a guidare l’immaginazione scientifica. Per esempio, il darwinismo non è in grado di prevedere assolutamente nulla sul futuro della vita (che sempre più dipende da decisioni politiche umane, ormai), ma ci offre un modello preciso grazie a cui pensare la storia della vita. È falso credere che le scienze siano sempre predittive: spesso prevedono poco o nulla, ma ci offrono una descrizione virtuale della macchina supposta.
Così, per esempio, la fisica parla di informazione. In cosmologia si dice comunemente che la luce delle stelle che giunge fino a noi “ci informa” del loro esserci. Ovviamente qui informazione ha un valore metaforico, se consideriamo essenziale in ogni informazione la volontà consapevole, animale o umana, di informare un altro animale o essere umano. Eppure usare la metafora informativa può essere euristicamente utile nella misura in cui essa piega la ricerca scientifica in un senso piuttosto che in un altro. Comunque, l’uso di figure antropomorfiche – come segnale, informazione, messaggio, codice, programma, ecc. – è la spia di qualcosa di più profondo nella scienza. Ovvero, l’uso di queste metafore è una traccia della scienza come elaborazione soggettiva. La scienza non è lo specchio della natura: è prodotto di un dialogo continuo con la natura. Una teoria scientifica è regolare un certo giococon la natura (la natura può essere considerata il partner dello scienziato nel gioco della scienza; un partner coatto, ma un partner[5]).
Si pensi ad esempio a concetti come ordine e disordine, fondamentali nella termodinamica. È evidente che ordine e disordine sono valutazioni soggettive, non oggettive. Se guardiamo una stanza, possiamo percepirla come ordinata o disordinata, ma che c’è di “oggettivo” in questo? Chiamiamo un sistema di cose più disordinato di un altro quando il primo esige una descrizione più complessa (e più lunga) del secondo. Una stanza molto disordinata ha un suo ordine, anche se molto complesso. Ma la complessità è pur sempre una valutazione soggettiva: è una reazione umana a qualcosa che deve essere capito. “Disordine” dice semplicemente il supplemento di sforzo che dobbiamo impiegare per trovarvi un suo ordine, che comunque esiste (a qualsiasi cosa possiamo trovare un ordine, una “legge” che la regoli[6]). L’entropia è la tendenza del mondo ad assumere degli ordini sempre più complessi, fino al punto che qualunque essere umano rinuncerà a trovarne uno. Quando la termodinamica dice che in un sistema chiuso ogni energia tende irreversibilmente al calore, ovvero all’energia più disordinata (ovvero più porobabile), dice che il calore è un’energia la cui descrizione è troppo complicata. Il mondo è una corsa verso la complessità, verso il caos – il quale non sarebbe all’origine del mondo, ma punto di arrivo del mondo. Come si vede, una valutazione soggettiva è incastrata nei concetti stessi, oggettivi, di “calore” e di “energia” in generale. Anche la scienza più sofisticata tradisce le proprie umili origini, il suo derivare da valutazioni umane, molto terra terra: se qualcosa è disordinata o meno, se è complicato capirla o meno, quanto tempo e quanta energia dobbiamo impiegare per descriverla, ecc.
Si prenda il concetto, tuttora controverso, di probabilità. A lungo si è discusso che cosa essa sia, se abbia una base oggettiva (è più probabile ciò che è più frequente) o sia squisitamente soggettiva (ovvero, si basa sulle nostre attese). Oggi, dopo Ramsey e de Finetti, è la teoria soggettivista della probabilità a prevalere in matematica e in logica. Eppure la probabilità è nel cuore delle cose stesse, dato che per la fisica quantistica fenomeni che consideriamo oggettivi sono di fatto uno spettro di probabilità[7]. Sono quei punti critici della scienza in cui oggettivo e soggettivo si intersecano, dove la scienza deve convenire che certi fenomeni oggettivi possono essere descritti solo in relazione al nostro sapere e alle nostre attese. Da qui i paradossi ben noti, come l’indeterminazione di Heisenberg o il gatto di Schrödinger. Probabilmente questi paradossi sono una nemesi, il venir fuori di qualcosa di rimosso, il fatto cioè che la scienza inizia come un modo di valutare soggettivamente il mondo, e che tale, anche al culmine della maturità, essa resta. Che le cose sono, fondamentalmente, indistricabili dalle nostre reazioni soggettive a esse. È come se la scienza, divenuta principessa del reame del sapere, dovesse sempre re-incontrare la Cenerentola che essa era.
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4.
Ora, l’importante è che la critica, anche dura, al testo di Jacob da parte di Derrida si rovesci poi in un’accoglienza piena del modello proposto da Jacob – la riproduzione biologica come un processo testuale. Lungi dal vedere i riferimenti linguistici e testuali di Jacob come metafore pedagogiche, Derrida li prende alla lettera e conclude che il vivente ci dà l’esempio di una testualità senza messaggio e senza comprensione.
Jacob si pone il problema di fino a che punto la moderna scienza del vivente possa fare a meno di concetti “teleologici”, ovvero di concetti appartenenti all’ordine del linguaggio e della scrittura, e quindi all’ordine dei fini, dei programmi… Abbiamo detto dell’ampio uso che le scienze di oggi fanno di concetti come “informazione”, “messaggio”, “codice (genetico)”, “istruzioni”, che sembrano tutti implicare una soggettività, un Io, uno “spirito”… Jacob afferma che la descrizione dell’eredità come un programma cifrato in una sequenza di radicali chimici fa scomparire la contraddizione tra teleologia e meccanismo (diremmo: tra soggettività e oggettività). La riproduzione – per Jacob, la struttura essenziale del vivente – funziona come un testo. Come scrive in modo pungente:
“A lungo il biologo si è ritrovato davanti alla teleologia come essere accanto a una donna di cui non può fare a meno, ma con cui non vuole farsi vedere in compagnia in pubblico. Il concetto di programma dà ora uno statuto legale a questa relazione segreta.” (p. 17)
Ora, mi pare che Derrida accolga completamente questa “legalizzazione”. Assistiamo a una doppia strategia di Derrida nel suo confronto col pensiero biologico via Jacob: da una parte, abbiamo visto, critica le concettualizzazioni di Jacob, dall’altra invece ne fa uso per insinuare ciò che la sua filosofia insinua (direi anzi che la filosofia di Derrida è tutta un’insinuazione), come se cercasse nel modo in cui il biologo dice il proprio sapere dei supporti al proprio discorso. Da una parte certi concetti sono criticati, come abbiamo visto, dall’altra però essi sono utilizzati per giustificare il suo ”la vita la morte”. Può fare questo però solo forzando il senso di certi concetti biologici, piegandoli al proprio uso per così dire.
Per esempio, Derrida pensa di leggere in Jacob l’idea che la sessualità e la morte, queste “invenzioni”, siano supplementi. Che si tratti di qualcosa che si aggiunge alla vita, che la supplisce. Ma si ha allora il sospetto che Derrida non abbia capito quello che Jacob e la biologia dicono della sessualità e della morte. La sessualità non è qualcosa che supplisce o si aggiunge alla vita, non più di quanto l’”invenzione” dei mammiferi sia un supplemento dei vertebrati… La sessualità è semplicemente un modo di replicazione (modo nuovo in una certa fase di evoluzione della vita), di cui la morte dell’individuo è una conseguenza intrinseca. È un’innovazione nel modo di riproduzione, non un supplemento. Ma l’idea che la sessualità e la morte siano supplementi faceva gioco a Derrida, che ha sempre insistito sulla posizione del supplemento nei vari campi. Direi che si tratta qui di un’appropriazione indebita.
Derrida insiste d’altro canto sull’ambiguità del concetto di produzione e ri-produzione in biologia perché quel che gli interessa nel fondo è mostrare come ogni riproduzione di sé sia riproduzione di una riproduzione. Che non c’è un prodotto primo che dia inizio a un processo di riproduzione. Ogni prodotto è riprodotto. Questo è uno dei temi fondamentali del pensiero derridiano: le copie, le tracce, le rappresentazioni, non hanno un originale, un’origine da cui derivano. Derrida si gioca tutto nel rinvio all’infinito, come nella mise en abyme.
È difficile capire non il pensiero così enunciato di Derrida – lo si può leggere nei manuali di filosofia, ormai – ma la sua enunciazione, cioè, che cosa Derrida voglia in fondo dire (o meglio, cosa voglia mostrarci) con questa insistenza. Dato che non si tratta nemmeno di una teoria, quanto di una critica di ogni teoria che voglia dire l’origine di qualcosa. Dopo tutto, non ci è ancora possibile capire Derrida, perché non siamo ancora riusciti a decostruirlo. (Questo per dire che, malgrado le mie critiche qui a Derrida, in fondo sono derridiano).
Derrida riprende il paradosso ben noto “è nato prima l’uovo o la gallina?” (a cui fa riferimento anche Jacob). Questa domanda è già derridiana, in quanto si dà per scontato che a questa domanda non ci sia risposta, che gireremo in tondo sempre tra un’origine e l’altra… Ora, si dà il caso che la teoria genetica moderna ci dia invece la risposta: all’origine c’è l’uovo. L’uovo in effetti è il contenitore del genoma del pollo, e il pollo ne è il fenotipo. Il pollo di oggi esiste perché l’uovo del pre-pollo o proto-pollo ha subito una mutazione, che ha dato nascita al pollo; l’origine del mutamento può essere solo nel genoma, cioè nell’uovo, non nel fenotipo del pre-pollo o proto-pollo. Da qui il noto apoftegma: “la gallina è un taxi usato da un uovo per produrre un altro uovo”. Certo si potrebbe sempre dire: ma ci voleva comunque un proto-pollo con un proprio uovo, l’uovo del pollo non nasce spontaneamente. Certo, e così si potrebbe retrocedere, man mano, fino all’origine del vivente sulla terra. Ammesso che ogni forma vivente venga da un unico ceppo. Allora, c’è un’origine della vita, anche se non c’è un’origine delle specie, come ci ha detto Darwin?[8]
Per le scienze dell’evoluzione la vita certamente è un evento, appare a un certo punto della storia del pianeta. La geologia ci dice che la vita lascia tracce solo a partire da un certo momento della storia della terra. Ma la biologia non è in grado di dire cosa abbia prodotto questo evento, e come si è prodotto. La biologia esclude che ci sia stata creazione ex nihilo, perché questo è escluso dal gioco stesso della scienza. Perciò per la biologia ci deve essere un’origine, dobbiamo supporre un primo prodotto che non fu a sua volta un ri-prodotto. L’assunto filosofico di Derrida non può quindi essere accettato dal biologo. Per cui ci si chiede: perché comunque per Derrida è così importante affermare che comunque, della produzione e riproduzione, non c’è origine?
La verità, secondo me, è che nel fondo Derrida diffida delle scienze perché queste sono sempre ricerca di un’origine, insomma di una causa prima in senso aristotelico. Certamente la scienza rimanda sempre più all’indietro la causa prima, sia nel più antico, sia nel più elementare. Sia verso un evento da cui verrebbe fuori anche il tempo (oggi, teoria del Big Bang), sia verso qualcosa di irriducibile, di non riducibile ad altro, verso un semplice che non sia a sua volta composto (le particelle non a caso dette elementari, i quark, ecc.). Ma il filosofo sa che questo rinvio – al più arcaico e al più elementare – è un processo infinito, ovvero, sa che ogni spiegazione scientifica, ogni Erklärung, sarà sempre provvisoria e regionale. Mentre la filosofia tende (anche quando non lo sa) all’assoluto, ovvero al non-regionale, alla totalità dell’ente, a un tutto non relativo, ovvero non in relazione con altre parti… Ma dell’assoluto non si può dire nulla, perché ogni predicazione lo relativizza, ne differisce, per così dire, l’assolutezza.
Allora, la manovra di Derrida per salvare “l’assoluto” è consistita nel fare di questo differimento, di questa différance, dell’assoluto… l’assoluto stesso. Nella figura della “traccia” si inscrive, si incide, questo scacco della filosofia nel dire l’assoluto, ma facendo di questo scacco l’assoluto stesso, facendo prevaricare lo scacco dell’assoluto sull’assoluto. Altrimenti il filosofo – teme Derrida – dovrebbe rassegnarsi a dipendere dalle spiegazioni (sempre regionali e provvisorie, sempre storiche) delle scienze, insomma a costruire una metafisica realista che faccia da sgabello al confort filosofico degli scienziati (questa è la funzione di molto epistemologi oggi, e del “nuovo realismo”). La filosofia come ancilla scientiarum. Che non sia mai! Da qui la sfida “barocca” di Derrida (che citava appunto i quadri barocchi, di differimento, di David Teniers il Giovane): tutto è ri-produzione, non c’è produzione originaria.
E perché non può (o non deve?) esserci produzione originaria? Perché la produzione originaria – del cosmo ad esempio, o della vita su questo pianeta – stabilisce un inizio del gioco, ma Derrida vuole che il gioco non abbia mai inizio. In ogni caso, ci sarà sempre e comunque già gioco. La catena degli effetti lascerà béant l’ultimo o il primo degli effetti, insomma, la causa prima è sempre differita. Ma allora questo differimento della causa prima verrà eletto a “causa prima”, ad archi-traccia, a traccia che viene prima di ogni traccia e che comanda la produzione di tutte le tracce. In questo modo Derrida pensa di salvare la capra e il cavolo: salvare la sempre recidiva vocazione della filosofia all’assoluto, e allo stesso tempo denunciare l’eterna relatività di questo assoluto, rinunciare all’assoluto come a qualcosa di sempre effimero, dato che rimanda sempre… a qualche altro assoluto.
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5.
Quindi, Derrida mette tanto impegno nel criticare la filosofia implicita, “ingenua”, di Jacob, perché ci tiene a impossessarsi del concetto essenziale che, secondo lui, Jacob avanza: che la vita è una forma di scrittura. In effetti nozioni come codice, produzione e riproduzione, trascrizione, programma, ecc., sono tutte nozioni legate al concetto di scrittura. Ma, come è noto, Derrida non pensa alla scrittura come a un succedaneo della parola orale, ma come a qualcosa che precede (filosoficamente, non cronologicamente) il linguaggio orale propriamente detto. Egli vuole proporre una nozione di scrittura che non la riduca a trascrizione successiva di un pensiero, che non la faccia provenire da un’intenzione soggettiva cosciente. In questo senso, gli sembra che la genetica moderna conforti, avalli direi, la sua proposta filosofica.
Derrida vorrebbe insomma estendere il concetto di testualità fino a renderlo co-estensivo al vivente.
“Questa situazione – un testo senza riferimento esterno, tutto al di fuori perché senz’altro riferimento che un testo rimarcante [remarquant[10]] un testo -, questa situazione non è in fondo quella del testo della biogenetica che si scrive su un testo di cui essa fa parte o di cui essa è il prodotto, che si scrive su un oggetto o un referente che non solo è a sua volta già un testo, ma un testo senza il quale il testo scientifico – esso stesso prodotto del vivente – non potrebbe scriversi?” (p. 159)
Ciò gli permette di avanzare una metafisica che escluda ogni forma di realismo: non solo la vita è testualità, ma possiamo rigettare ogni riferimento all’autorità, direi, di un reale, di cui la scrittura sarebbe semplice riproduzione o rappresentazione.
“Riferendo il vivente alla struttura di un testo, si compie visibilmente un progresso concettuale nella bio-genetica, un progresso nella conoscenza, se volete, del vivente, se intendiamo questo progresso della conoscenza come allo stesso tempo una trasformazione dello statuto della conoscenza che non ha più nulla a che fare […] con un reale meta-testuale, ma con del testo, e che consiste quindi a scrivere testo su testo.” (p. 160)
Non siamo in pieno idealismo, ma in qualcosa che gli rassomiglia: in pieno testualismo. Le sue obiezioni a una visione realista possono essere nel fondo alquanto simili a quelle che già a suo tempo furono articolate dall’idealismo tedesco a partire da Fichte – ovvero, che anche quando diciamo che c’è una realtà fuori del testo, possiamo dire questa realtà solo grazie a un testo, per cui “la realtà” è pur sempre un testo a cui rimanda un altro testo. Così, il suo rigetto di un originario, di un evento che sia origine di tutti gli altri, è il corollario filosofico dell’idea che non c’è un reale all’origine dei testi, che non c’è un reale prima del testo che questo testo inizialmente rappresenterebbe. Il mondo diventa una fenomenologia della testualità così come per l’idealismo il mondo era fenomenologia dello Spirito.
Hegel (“il più metafisico dei metafisici”, come dice Derrida) disse che ogni vera filosofia è idealista anche se non lo sa o lo nega. “Accusare” anche Derrida di idealismo, quindi, potrebbe essere un modo di confermare l’enunciato di Hegel. E in effetti possiamo dire che Hegel ha ragione, a suo modo. Il punto – ed è qui la divaricazione – è se il filosofo di questo proprio idealismo se ne rammarichi o meno. In questo senso ogni vera filosofia (con buona pace di Badiou) è anti-filosofica: denunciando il proprio incorreggibile idealismo, cerca di andare oltre… la filosofia.
Ma anche qui, dietro l’enunciato testualista di Derrida, quale enunciazione dobbiamo leggervi? Ovvero, in quale contesto, in quale con-testo – in che cosa intorno al testo – dobbiamo leggere il testo di Derrida? Certamente il suo testualismo, preso alla lettera, è un avatar dell’idealismo, e quindi un approccio metafisico a dispetto del fatto che Derrida voglia chiudere con la metafisica. Ma è questo ciò che egli ci mostra? L’enunciato è ciò che si dice, l’enunciazione è ciò che si mostra.
La differenza tra enunciato ed enunciazione è colta da una famosa barzelletta ebraica. Due ebrei si incontrano in treno e uno chiede all’altro dove vada, e l’altro risponde “vado a Cracovia”. Risposta che irrita il primo, il quale protesta: “Ma perché dici di andare a Cracovia per farmi credere che vai a Varsavia, mentre in realtà vai proprio a Cracovia?”
Possiamo dire che Derrida dice di andare filosoficamente a Cracovia – andare contro la metafisica della tradizione filosofica - per farci credere che vada a Varsavia, ovvero verso una metafisica testualista. Questo ci fa pensare, come pensa l’ebreo della barzelletta, che lui vada davveroa Cracovia, cioè che intenda veramente disfarsi della metafisica, compresa della propria, quella testualista. Mi pare che questa sia la lettura che fanno di lui molti derridiani. Ma se prendere Derrida au pied de la lettre fosse a sua volta un malinteso, un modo di cadere nel suo tranello? Se invece Derrida andasse davvero dove non dice di andare, ovvero verso una nuova metafisica? Perché il secondo ebreo pensa di essere ancor più acuto e scafato del primo nella misura in cui prende il primo alla lettera – e se invece questo suo essere non-dupe, il suo non lasciarsi ingannare, come dice Lacan, fosse il suo errore? Les non-dupes errent. Perché in effetti la barzelletta dei due ebrei resta aperta, non conosciamo la verità, per cui possiamo rovesciare l’enunciazione potenzialmente all’infinito. Più si cerca di essere non-dupe, più si rischia di errare.
Questa nuova (non detta) metafisica verso cui di fatto Derrida va è certamente legata a qualcosa di personale, di idiosincratico. E mi chiedo se in ogni filosofia, anche in quelle che si vogliono le più razionali, le più puramente argomentative, le più anonime, non si esprima questa opacità soggettiva del filosofo. È il tema che Derrida stesso affronterà in questo seminario parlando della biografia del filosofo, a proposito dell’uomo Nietzsche. Ovvero, al centro di ogni filosofia, per quanto rigorosamente impersonale, si annida un ombelico biografico, direi un’ossessione privata, qualcosa che gli altri non condividono originariamente, ma che finiscono con l’assumere quando entrano nel gioco di quella filosofia. Non ereditiamo solo le argomentazioni dei grandi filosofi, anche le loro ossessioni. Ora, sappiamo che Derrida era ossessionato dalla scrittura, varie testimonianze ce ne parlano. Scrivere per lui era molto più che esprimersi, era, direi, un tracciare delle forme indelebili nel marmo, o forse nella carne.
Ma questa sua ossessione personale ha avuto molto successo, soprattutto nel campo della critica e della storia letterarie, ovvero in professioni di scrittura. Un po’ come i massoni –masons, muratori – hanno creato una visione metafisica e cosmologica fondata sulla costruzione architettonica, analogamente la metafisica derridiana della traccia e della scrittura fornisce una sorta di esaltazione filosofica di quegli artigiani della scrittura che sono gli accademici nelle Humanities. Derrida è diventato l’interprete più prestigioso della confraternita di coloro che scrivono. Come nella massoneria, gli strumenti del lavoro diventano l’essenza del lavoro stesso.
Ma, al di là di questa confraternita mondiale, gran parte del pensiero moderno ha pensato di trovare nel concetto derridiano di testo la soluzione che questo pensiero da tempo cerca: qualcosa che metta finalmente fine alla divisione di vecchia data tra mondo dei segni e mondo delle cose. È la stessa ragione per cui a un certo punto, nella seconda metà del XX° secolo, il pensiero è sembrato coagularsi attorno al significante linguaggio: il linguaggio andava a pennello nel superare la divisione che da secoli tormenta il pensiero occidentale, quello appunto tra segni e cose, o tra res cogitans e res extensa, quindi tra spirito e materia, mente e mondo, ecc. Perché il linguaggio sembra una moneta che ha una faccia materiale, sensibile (i suoni, le lettere, la struttura fonologica) e una faccia mentale, intelligibile (il versante semantico, l’espressione di idee). Ma il linguaggio, il logos, dirà Derrida, è ancora troppo poco materiale, troppo poco ‘cosa’, dato che solo gli esseri umani posseggono un linguaggio. Derrida vuole andare oltre, e pensa di trovare nella nozione di traccia – in qualcosa di non sempre intenzionale, in una semplice differenza inferta a qualcosa di omogeneo – il significante giusto per dire questo superamento. Il superamento della micidiale divisione all’origine delle metafisiche, che originariamente era tra un intellegibile e un sensibile, tra είδος ed ειδωλων, di cui sarà sempre problematico l’intreccio e la reciproca congruenza.
In sostanza, Derrida partecipa a un grande sogno della cultura, non solo parigina, dell’epoca: superare la divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica, non accettare più la barriera diltheyana tra scienze dello spirito e scienze della natura. Abbiamo visto che la nozione di testo secondo Derrida poteva permettere questa congiunzione.
Poco dopo il seminario di Derrida, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers pubblicheranno La nuova alleanza[11], che proseguirà lo stesso progetto, lo stesso sogno: la nuova auspicata alleanza sarà esplicitamente quella tra scienze umane e scienze della natura (solo che qui il riferimento filosofico sarà Bergson).
Molta acqua da allora è passata sotto i ponti, e possiamo dire oggi che questo sogno non è mai divenuto realtà. In seguito, le Humanities e le Natural sciences si sono sempre più separate, e da entrambi i lati. La cultura filosofica continentale è slittata da allora sempre più verso forme di spiritualismo, verso l’ermeneutica, verso una ripresa del bergsonismo o della fenomenologia; mentre le scienze hanno riaffermato spavaldamente il loro riduzionismo e hanno investito lo stesso “spirituale” attraverso le neuroscienze, di cui all’epoca del seminario di Derrida non si parlava. Le neuroscienze tematizzeranno la vita mentale degli esseri umani a partire dalla struttura del cervello, a partire da un organo materiale.
Tengo a dire che anche io lavoro da tempo a un superamento delle metafisiche che oppongono spirito e mondo, scienza dello spirito e scienze della natura, nature e nurture, ecc.[12] In questo senso lo sforzo di Derrida è anche il mio. Il punto, secondo me, è il modo in cui Derrida rigetta questa opposizione. Egli fa prevalere - direi prevaricare - un concetto profondamente antropologico come quello di scrittura facendone il modello di processi naturali. Anche il concetto di traccia, se non antropocentrico, è zoocentrico: una traccia è tale solo per qualcuno che la consideri tale. La forma di un piede sulla sabbia è traccia solo per qualcuno che cerchi chi vi è passato.
Come per Nietzsche, abbiamo visto, la nozione di vita prevarica su quella di ente in generale – anche se nella forma negativa della morte - analogamente in Derrida la nozione di scrittura o di traccia prevarica sull’ente in generale.
È come se Derrida dicesse: "Non c'è divisione tra pensieri e cose, perché tutte le cose sono forme di pensieri..." Non si supera veramente un'opposizione facendo prevaricare uno dei termini di un'opposizione sull'altro. È un superamento illusorio.
La testualità è una prevaricazione metafisica nel senso che tutte le metafisiche sono sempre l’atto di una prevaricazione categoriale: una parte dell’ente prevarica la totalità dell’ente, ponendosi come essenza dell’ente in generale. E così la scrittura – o meglio la traccia – questo ente in particolare, differenziale e in differita, diventa qualcosa di essenziale della totalità dell’ente.
Malgrado tutte le sue critiche a Jacob, qui Derrida esprime la speranza che la biologia moderna possa abbandonare i presupposti meccanicisti da cui essa è partita, e da cui è partita ogni scienza moderna. Ma così non si rende conto che tutte le nozioni illustrate da Jacob, e che richiamano l’ordine dei segni e della scrittura, sono concetti, appunto, euristici - la biologia era allora, e lo sarà sempre più, meccanicista. Quando il biologo dice “codice genetico” sta usando una metafora: sa che si tratta in fin dei conti solo di processi chimici. Derrida prende metafore didattiche per la struttura stessa della cosa biologica.
Questo non significa che il mondo dello spirito e quello delle cose naturali siano necessariamente separati. Ma un punto di vista che vada oltre questa divaricazione non può essere quello della prevaricazione dei concetti di un mondo su quelli dell’altro.
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Storicamente, direi che la concettualizzazione della filosofia della scienza è andata in una direzione per certi versi opposta alla proposta di Derrida, di prendere la scrittura (quindi anche la scrittura dei biologi, i testi che essi scrivono) come modello per rappresentare il vivente. Si è affermata invece sempre più – e non dico che me ne rallegri, ma è un fatto - una visione delle teorie scientifiche, dei modelli scientifici – inclusa quindi la teoria biologica – come essi stessi organismi il cui modello è l’organismo biologico secondo il darwinismo. Ovvero, una teoria non è solo né essenzialmente un’immagine del mondo, dell’oggetto che essa vuole descrivere e spiegare, è essa stessa una sorta di organismo simil-vivente, soggetta a processi fondamentali molto simili a quelli della vita biologica.
Il darwinismo afferma che la vita ha una storia per mutazione e selezione: la mutazione è casuale, stocastica, e poi ogni mutazione è messa al vaglio dell’ambiente dell’organismo, che la premia o la elimina. Ogni organismo ha un doppio ambiente: da una parte i congeneri (per esempio, vincere contro altri maschi la competizione per accaparrarmi le femmine, ecc.), dall’altra l’ambiente extra-specifico (assicurarmi le prede, sfuggire ai predatori, far fronte a cambiamenti climatici, ecc.). L’equivalente della selezione delle teorie è anch’essa duplice: una teoria deve competere con le altre teorie rivali, e allo stesso tempo fornire spiegazioni migliori del proprio oggetto di ricerca. Conta la capacità che ha una teoria di prevedere certe cose del mondo, e anche di offrire un modello migliore, che appaia verosimile, di ciò che accade nel mondo che descrive, rispetto ad altri modelli. Ma le teorie scientifiche sono a loro volta frutto del caso, del fatto cioè che a un certo punto compaiono degli esseri umani – Galileo, Newton, Darwin, Mendel, Einstein, ecc. – che concepiscono, non importa come e non importa perché, delle idee nuove. Dawkins (1976) chiama queste idee memi, da mimesis, e i memi sono il corrispettivo culturale dei geni. Questi memi nuovi sono mutanti intellettuali – i quali vengono poi sottoposti all’esame dei fatti, ovvero della porzione di realtà che intendono descrivere, e alle critiche dei memi (teorie) rivali. Nessuna teoria spiega tutto, ma può spiegare più di un’altra, per cui finisce col prevalere nella lotta per l’esistenza memetica. Una teoria scientifica è vista sempre meno come una riproduzione fotografica del mondo, sempre più come un organismo composito che sopravvive nel mare del reale. Una teoria ci appare più vera di un’altra perché sopravvive meglio dell’altra.
Una critica puramente filosofica delle teorie nuove lascia quindi il tempo che trova: quel che conta è la capacità di ogni teoria di sopravvivere e trasmettersi (riprodursi) nelle comunità scientifiche. Per una teoria scientifica accettata le critiche filosofiche sono per lo più come le punture di zanzare per un elefante. Una teoria biologica, quindi, prodotto del vivente, tende spontaneamente a comportarsi essa stessa come una sorta di organismo vivente in relazione a quel mondo vivente che vuole descrivere.
Possiamo dire quindi che l’idea peregrina di Charles Darwin – che le specie mutano non perché trasmettono caratteri acquisiti dal fenotipo, ma per una mutazione puramente casuale del genotipo – fu essa stessa una mutazione memetica che è stata positivamente selezionata dalla ricerca successiva, nel senso che essa si è dimostrata adatta a sopravvivere nella massa di dati che le scienze dell’evoluzione hanno prodotto da allora in poi. Certo anche il darwinismo ha i suoi contro-fatti, molti tratti della vita non possono essere spiegati darwinianamente[13], eppure il darwinismo sopravvive come idea dominante perché si adatta abbastanza bene (non perfettamente) ai fatti biologici.
In questa ottica, non è più la testualità il modello della biologia moderna, ma i testi che gli umani producono trovano il loro modello nel vivente stesso.
[5] Riprendo qui la brillante descrizione di Hintikka della scienza come un gioco, assimilabile quindi a una teoria generale dei giochi. Hintikka, 1975, capp. II-III-V.
[6] È questo un presupposto fondamentale della matematica moderna: a qualsiasi insieme, per quanto in apparenza caotico, possiamo trovare un ordine, una “legge” che ne descriva la composizione.
[7] La meccanica quantistica considera il flusso o corrente di probabilità come un fluido eterogeneo (la corrente di probabilità è il tasso di flusso di questo fluido). È un vettore reale, come in una corrente elettrica. Un fluido (ente oggettivo) può essere descritto in termini probabilistici (di attese soggettive), e un calcolo probabilistico può essere descritto come un ente oggettivo.
[8] Più volte è stato notato che il titolo di “L’origine delle specie” è fuorviante, perché di fatto non dice nulla delle origini delle specie, e di fatto dissolve anche il concetto di specie.
[9] Se fosse per Derrida, fra i quadri dell’arciduca ci dovrebbe essere anche il quadro di Teniers “L’arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria a Bruxelles”… Avremmo quella che i francesi chiamano myse an abyme.
[10]Remarquer quindi nel doppio senso: come un testo che marca un altro testo una seconda volta, che lo ri-marca, ma anche che lo nota, lo rende rimarchevole, lo fa essere testo mentre prima, non notato, non lo era.
[12] Rimando qui a: S. Benvenuto, "Natura/ Cultura. Critica ad un paradigma culturale" in Giorgio de Finis & Riccardo Scartezzini, a cura di, Universalità & Differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 116-142.
[13] Del resto, nemmeno Darwin era “darwiniano” fino in fondo, per fortuna. Cfr. Pievani (2013, 2015).
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Bibliografia
R. Dawkins (1976) The Selfish Gene, Oxford Univ. Press, Oxford. Tr.it. Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano 1992.
J. Derrida (2019) La vie la mort, Seuil, Paris.
P. Feyerabend (1975) Against Method. Tr.it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 2013.
F. Jacob (1970) La logique du vivant : Une histoire de l’hérédité, Gallimard, Paris. Tr.it. La logica del vivente. Storia dell’ereditarietà, Einaudi, Torino 1971.
J. Monod (1970) Le hasard et la nécessité. Tr.it. Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 2001.
F. Nietzsche, La gaia scienza (1882)
T. Pievani (2013) Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin, Mimesis, Milano.
T. Pievani (2015) Leggere l’Origine delle specie di Darwin, IBIS Edizioni, Como-Pavia.
I. Prigogine & I. Stengers (1979) La nouvelle alliance, Gallimard, Paris.
Quine, WVO (1975) ‘On Empirically Equivalent Systems of the World’, Erkenntnis, vol. 9, no. 3, pp. 313–328.
L. Wittgenstein (1980) Pensieri diversi, Adelphi, Milano.
N. L. Wilson (June 1959). "Substances without Substrata", The Review of Metaphysics, 12 (4): 521–539.
Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche(il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gustoecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
Quella proposta da Einaudi con la riedizione de La fine del mondo di Ernesto De Martino, è un’operazione editoriale coraggiosa e assolutamente singolare. Pubblicato inizialmente nel 1977, il volume ci consegna riflessioni che De Martino (1908-1965) fu costretto a interrompere da una morte prematura, e che andavano allora concentrandosi sul tema escatologico della fine del mondo, inteso tanto nella sua dimensione storico-culturale – le “apocalissi culturali” di cui fa menzione il sottotitolo – quanto nel suo angoscioso orizzonte individuale – proseguendo il tema, già lungamente indagato in precedenza dall’autore, della “crisi della presenza”. Più che un libro, quello edito già allora da Einaudi era un cantiere nel quale il lettore veniva invitato a intrufolarsi e rovistare, prezioso archivio a cielo aperto del confronto corpo a corpo tra De Martino e il tema angoscioso su cui egli era giunto a concentrare le proprie ricerche – corpo a corpo del quale Clara Gallini, sua allieva a Cagliari, si sarebbe sobbarcata il compito decennale di selezionare e raccogliere le carte sparse, dando alla luce nel 1977 la prima edizione del volume (riproposta poi nel 2002 corredata da una nuova introduzione). Oggi, la casa editrice torinese ci presenta, volta all’italiano, la traduzione francese del volume pubblicata nel 2016 dalle edizioni dell’EHESS. Sarebbe estremamente riduttivo, tuttavia, parlare di quella francese come di una mera traduzione del testo originale italiano – e a farlo si perderebbe di vista la menzionata unicità di questa nuova Fine del mondo. I curatori – Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio – ne hanno piuttosto disposto una riedizione, accompagnata passo a passo da una serie di seminari, che li ha visti reimmergersi nell’archivio demartiniano per ricomporre nuovamente questo libro impossibile, rivedendo il canone istituito dalla prima edizione, con l’obiettivo di farci tutti, così, “divenire suoi contemporanei” (Charuty 2019, 29).
Una consapevolezza ha accompagnato la cura de La fine del mondo sin dalla prima edizione: non sarebbe stato possibile ‘completare’ il progetto per cui De Martino aveva cominciato gli scavi, e portare a compimento le intenzioni dell’autore; si poteva solo presentarne gli appunti, invitando il lettore, per così dire, a navigarli. Ed è questa consapevolezza che si trova riproposta, e rivendicata, anche in questa nuova edizione, che fa tesoro della storia del volume e ne segna una nuova decisiva tappa. Il setaccio della traduzione, la lingua nuova a cui è stato proposto di ospitare l’intricato testo demartiniano, è colta quale occasione per rilavorare le struttura del volume, reinterrogando i criteri che avevano soprinteso alla prima selezione dei materiali, e rinnovando in tal modo l’attualità dell’opera. Non, come si diceva, al fine di chiudere il cantiere, presentarlo in forma finalmente definitiva, risolverne gli enigmi e le contraddizioni: quanto piuttosto per manifestarne nuovamente l’evento e proporci d’incontrarlo daccapo.
Gli scritti sparpagliati – appunti, note di lettura, piani di progetti futuri, che talvolta evolvono in paragrafi più consistenti di cui l’edizione curata da Gallini ci presentava le faticose riscritture successive – raccolti in questo volume trovano sistematicità nella radicalità del tema che li chiama a raduno: la fine del mondo. Mondo e crisi sono temi su cui De Martino aveva lavorato sin dagli anni Quaranta: dapprima su fonti etnologiche di seconda mano, nel Mondo magico (1948), nel quale la consistenza del mondo è indagata là dove essa è il prodotto del sortilegio; e poi etnograficamente, con la trilogia meridionalista (Morte e pianto rituale, del 1958; Sud e magia, del 1959; e La terra del rimorso, del 1961), per raccontare un mondo, al cuore del nostro – le “Indias de por acá” –, che recalcitrava ad arrendersi di fronte al progetto razionalizzante della modernità. A questo mondo, De Martino guardava non con la nostalgia di che innervava in quegli anni tanta antropologia, bensì con la ferma decisione di non sottrarsi al dramma – esistenziale e politico al tempo – di questo stentato finire. “Carmela balla. Venite” (De Martino 2013, 115) è il grido, impossibile da sopire, che aveva animato l’intrufolarsi di De Martino nei mondi agonizzanti, e che pur parevano resistere alla traiettoria lineare della modernizzazione, della magia del Mezzogiorno italiano; un grido che lo aveva investito dell’urgenza e della responsabilità del suo ruolo di ricercatore, e sulla scia del quale anche il progetto incompiuto de La fine del mondo è da comprendersi.
Questo progetto, cui sarebbe toccato agli eredi dell’etnologo napoletano dar forma, conduceva De Martino lontano da scene esotiche, vicine o lontane che fossero da un punto di vista strettamente geografico, per aprire invece una breccia al cuore della modernità occidentale stessa, al fine di mostrare come il dramma dell’apocalisse risieda anche lì. Esso vi risiede, anzi, in una condizione che, nel panorama etnologico scandagliato dall’autore, ha dell’eccezionale: credendo di assicurare il mondo, i moderni ne hanno invece, da un lato, moltiplicato le capacità distruttive (aprendo il campo, che da allora ha saputo solo ampliarsi, della “fine del mondo come gesto tecnico della mano” [De Martino 2002, 119]), mentre dall’altro deridevano – o alternativamente “tolleravano” (Stengers 2005) –, credendo di ‘spiegarli’, i molteplici dispositivi di cui le comunità umane non occidentali – e “nonmoderne” (Latour 1995) – si erano dotate per avervi a che fare. L’analisi conduceva De Martino a una conclusione: l’apocalisse dei moderni è apocalisse senza eschaton, priva di un orizzonte di reintegrazione possibile. Nelle parole dell’autore: “il momento dell'abbandonarsi senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca” (De Martino 2019, 355). Di fronte a questa constatazione, tuttavia, l’autore non cercava un posizionamento che della modernità tentasse di disfarsi. Anche i tratti che del pensiero demartiniano sono stati tacciati d’intrattenere un flirt con l’irrazionalismo, in questo senso, sono da apprezzarsi in realtà quali esperimenti – esistenziali e scientifici al tempo – realizzati lungo il percorso che doveva condurlo a elaborare la proposta di un nuovo umanesimo, “etnografico”, di cui l’etnologia veniva proposta quale animatrice fondamentale.
Insomma, davanti alla crisi che investiva il mondo moderno e occidentale, e che nel proprio nel presentarsi “nuda e disperata” trovava il suo carattere specificamente moderno, De Martino non si arrendeva alla contemplazione. Lo sforzo in cui l’autore si produceva nel progetto de La fine del mondo era piuttosto clinico, terapeutico: il compito che gli si parava dunque di fronte – e di cui gli scritti consegnatici rimangono, pur nella loro densità e ampiezza di respiro, esercizio preliminare – era quello di “individuare l’esatto significato dei sintomi, l’estensione del contagio, il condizionamento della malattia, le forze della guarigione” (De Martino 2019, 356). Nei preparativi a questo compito, freudianamente “impossibile”, de Martino convocava risorse molteplici: l’antropologia, certo, e con essa la filosofia e la storia delle religioni, al crocevia delle quali l’autore si era formato sin dagli inizi della propria carriera intellettuale; ma insieme a quelle anche la psichiatria fenomenologica di marca tedesca, la psicoanalisi, la storia, la riflessione marxista, cui gli appunti raccolti ne La fine del mondo sono costellati di rimandi puntualissimi. Così, il volume letteralmente emerge dalle letture dell’autore; commenti fugaci, note di lettura, osservazioni a caldo si sviluppano in paragrafi densi, che approcciano il tema escatologico nei contesti più disparati: nel fragile mondo sorretto dal celebre campanile di Marcellinara, in Calabria, per esempio; nella filosofia della storia marxista, di cui De Martino individua una vera e propria apocalittica; nei movimenti millenaristici in diffusione all’epoca nel Sud del mondo, di cui De Martino coglieva appieno la portata anticoloniale; oppure nelle “apocalissi psicopatologiche”, di cui il documento clinico, minuziosamente analizzato da De Martino, dischiudeva l’originalissimo campo d’analisi.
Come accennato, l’edizione curata da Gallini esponeva la fatica di quel labor limae, impossibile da ridurre a mero sforzo stilistico, tramite cui De Martino rinegoziava minuziosamente, nelle scritture successive, il proprio posizionamento di fronte ai problemi che di volta in volta lavorava. Questa nuova versione, invece, rinuncia all’apertura sinottica sugli strati successivi dello scavo, preferendo selezionare di volta in volta una singola versione di ciascun paragrafo. Il beneficio, da lettori, è evidente: abbiamo a che fare con un testo che ci si presenta come definito, ‘deciso’, e il suo procedere risoluto di fronte ai temi trattati si staglia con più nettezza rispetto al contesto di provvisorietà e parzialità da cui il progetto, bruscamente interrotto dalla morte di De Martino, rimane caratterizzato. Una scelta, questa, che va compresa all’interno della storia di questo volume; scelta, cioè, che non ‘corregge’ la precedente, producendo un’edizione finalmente definitiva di questo testo travagliato; ma che la supplementa, invece, predisponendosi per ereditarne nella maniera più proficua. Rimane infatti lungo l’insieme della sua storia – storia inevitabilmente aperta – più che in ciascuna delle sue singole versioni editoriali – nella vicenda, cioè, di una sintesi che, pur necessaria, non può mai compiersi per davvero – che la potenza speculativa de La fine del mondo può dispiegarsi appieno.
È sufficiente leggere qualche paragrafo de La fine del mondo per rendersi conto di come il corpo a corpo che De Martino vi intrattiene con l’apocalisse, il suo rischio e le sue lavorazioni esistenziali e culturali non rimanga confinato al solo piano intellettuale. De Martino – che sempre si muove, proprio come pretendeva di essere trattato dai suoi interlocutori, da “persona intera” – si pone di fronte al rischio della fine (al “rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile”, secondo una celebre formula che ricorre più volte nel libro) con tutto il suo corpo: lo avverte e lo combatte, lo analizza e vuole disinnescarlo. La lucidità dell’argomentazione non cede mai il passo ai vezzi di una prosa pure a tratti barocca e per il lettore odierno antiquata, e soprattutto non deriva all’autore dallo sforzo di allontanare da sé l’oggetto della propria ricerca, quanto piuttosto dal riconoscerne e accettarne l’intima prossimità – una prossimità di cui, si è ipotizzato, era forse complice l’epilessia di cui soffriva, che costante gli ricordava la fatica della presenza e il perenne rischio della sua crisi.
Crisi del mondo e crisi della presenza sono infatti una crisi sola: crisi di quella soglia, ogni volta rinegoziata, che presenza e mondo istituisce come realtà distinte, piano di consistenza – “magia” avrebbe detto De Martino (1948; cfr. Leoni 2012) – che si spezza. Ecco allora che l’intimità di questa crisi, la precarietà di questa soglia, forza l’autore a una prosa lontana da quelle “equivoche castità del sedicente discorso oggettivo” (De Martino 2002, 91) che pretendono il mondo sia là fuori, solido, risolvibile, garantito. Per la persona intera che De Martino è, insomma, il mondo è affare indistinguibilmente epistemologico ed esistenziale: ‘ontologico’, a voler trovare una parola sola, non priva, per gli antropologi, di un’eco contemporanea.
Sotto la scorza di un gergo evidentemente influenzato in maniera decisiva da Heidegger, e proprio perciò a lungo ritenuto obsoleto, allora, si celano in realtà, nelle pieghe del discorso demartiniano, intuizioni perfettamente contemporanee, e che nella loro contemporaneità ancora attendono di essere sviluppate appieno: il mondo è fatto, istituito, patchy – ha bisogno di cure. A seguire queste intuizioni, l’avventura intellettuale cominciata con Il mondo magico e che si compie, pur senza compiersi, con La fine del mondo sembra invocare, naturale, una messa in dialogo con studiose e studiosi che in anni recenti hanno eletto la questione ecologica a sfida politico-esistenziale-epistemologica decisiva del presente, e che proprio sotto il segno della sua essenziale precarietà hanno iniziato a interrogare la consistenza del mondo (per esempio Stengers 2009; Tsing 2015; Danowski e Viveiros de Castro 2017; Latour 2019).
Quelle che condurrebbero a questo dialogo, sono tracce che, dobbiamo constatare, rimangono inesplorate anche nei pur validissimi testi critici che corredano questa nuova edizione. La fine del mondo, però, l’abbiamo già detto, è un testo che non si lascia leggere passivamente; se questi nuovi testi introduttivi – insieme a quelli classici di Clara Gallini e Marcello Massenzio che avevano accompagnato le edizioni precedenti del volume – sono essenziali nel porgerci questo libro-archivio nella sua viva complessità, rendendoci possibile incontrarlo, essi ci ricordano anche che, con un calembour, un’altra Fine del mondo è possibile – e spetta a noi immaginarla.
Opere citate:
Charuty, G. (2019), “‘Tradurre’ La fine del mondo”, in De Martino (2019), 5-29. Danowski, D. e Viveiros de Castro, E. (2017), Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano. De Martino, E. (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino. De Martino, E. (2002), Furore Simbolo Valore, Feltrinelli, Milano. De Martino, E. (2013), La terra del rimorso, il Saggiatore, Milano. De Martino, E. (2019), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Einaudi, Torino. Latour, B. (1995), Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, elèuthera, Milano. Latour, B. (2019), Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, a cura di N. Manghi, Rosenberg & Sellier, Torino. Leoni, F. (2012), “La magia degli altri, e la nostra. Ernesto de Martino e le tecniche della presenza”, in Paradigmi. Rivista di critica filosofica, XXXI, 2, 67-78. Stengers, I. (2005), Per farla finita con la tolleranza, in Id., Cosmopolitiche, Luca Sossella Editore, Roma, 599-729. Stengers, I. (2009), Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient, Les Empêcheurs de penser en rond/La Découverte, Paris. Tsing, A. (2015), The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton (NJ).
Quale alleanza sono chiamate a stringere la filosofia e il sapere antropologico nel contemporaneo clima apocalittico dell'Antropocene? Il libro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine dell’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros De Castro e della filosofa Déborah Danowski (Nottempo 2017) può essere considerato un tentativo di rispondere a questa domanda. Per Danowski e De Castro, tuttavia, non si tratta solo di porre in correlazione antropologia e filosofia, sebbene sia indubbio che uno scambio reciproco arricchisca lo sguardo di entrambe le discipline. Affini alla postura intellettuale di uno dei numi tutelari del libro, Gilles Deleuze, gli autori aprono la filosofia e l'antropologia ai rispettivi spazi di alterità moltiplicando le filiazioni teoriche, talvolta a scapito, va detto, dell'omogeneità argomentativa e del nitore dell'esposizione: nel paragrafo Metafisica e mitofisica sono numerosi i riferimenti a film come Melancholia di Lars Von Trier o Il cavallo di Torino di Béla Tarr, e non mancano all'appello neppure santi patroni della fantascienza – o come preferiscono chiamarla gli autori, della mitofisica – come Philip K. Dick e Howard Philips Lovecraft, scrittori sempre intenti a percorrere un immaginario innervato da una vera e propria passione per la fine, da un irriducibile Todestrieb fabulatorio. Per la speculative fiction contemporanea è più facile immaginare cupi scenari apocalittici che le magnifiche sorti progressive della specie umana.
Già dalle prime righe del capitolo d'apertura, E quale rozza bestia..., gli autori dichiarano che l'Antropocene – l'epoca geologica nella quale la specie umana si trasmuta da agente biologico in forza geofisica –costituisce, per dirla con Foucault, «l'ontologia della nostra attualità» e ci conficca tutti, senza resti, nel campo della politica. Se è pur vero che l'obiettivo dichiarato del volume è l'elaborazione di «un bilancio preliminare di alcune delle principali varianti del tema della ‘fine del mondo’, così come si presentano oggi nell'immaginario della cultura mondializzata» (p. 32), in ultima istanza gli autori sono costretti dalla forza stessa dell'argomento a disegnare i contorni possibili di una politica del katéchon, il tempo della fine.
Se il concetto di mondo ci rimanda alla dimensione dello spazio, l'evocazione della sua fine ci proietta nel campo semantico del tempo. Ciò che distingue la crisi climatica da tutti i cataclismi della storia umana si può riassumere in uno scambio di preposizioni: nel paragrafo Gaia e Anthropos gli autori sottolineano che, se le catastrofi precedenti si manifestavano neltempo e nello spazio, l'Antropocene si presenta ora come la possibilità concreta e minacciosa di una tragica corrosione del tempo e dello spazio nel futuro prossimo. Dopo che l'assassinio delle Idee kantiane di Anima e Dio aveva già macchiato le mani alla modernità, ora è la seconda Idea, quella di Mondo, a portare una spada di Damocle sul proprio capo. Seguendo la lezione dello storico indiano Dipesh Chakrabarty – membro fondamentale della trinità di alleati selezionati dagli autori, insieme a Isabelle Stengers e Bruno Latour – sappiamo che l'Antropocene travalica i confini di ogni storiografia classica per scagliare la specie umana e molti viventi non-umani in un orizzonte temporale nel quale le condizioni materiali della loro esistenza sono a rischio reale di cancellazione.
Nel loro bilancio gli autori presentano le due vie principali imboccate dal pensiero contemporaneo sul tema: il presagio di un mondo-senza-noi e l'accelerazione verso un noi-senza-mondo. Da una parte l'approssimarsi dell'estinzione umana dovrebbe essere assecondato con gioia, dato che a essa viene assegnata ab origine una vocazione ecocida. È il caso del Voluntary Human Extincion Movement di Alan Weisman, descritto nel paragrafo Il mondo prima di noi, che mira, dopo l'estinzione volontaria del genere umano, alla restaurazione della rigogliosa wilderness originaria da parte della natura naturans planetaria, ora soffocata da un'immensa infrastruttura tecnica. La versione più radicale di questo orizzonte di pensiero è presentata da Ray Brassier –fra i protagonisti del paragrafo La tesi tanatologica e figura di spicco del realismo speculativo – nell'opera Nihil Unbound. Il cupo ritornello che Brassier non fa che scandire è «everything is dead already», tutto è già morto. Nel tempo profondo del cosmo la vita stessa non sarebbe che un evento assurdo e incompatibile con la grandezza colossale della materia inorganica e morta sulla quale essa è cresciuta, e la coscienza che dal vivente emerge non sarebbe nulla più che un banale accidente, un insignificante attimo all'interno di una storia universale inumana e abiotica.
Sull’altro versante – affrontato nel paragrafo Dopo il futuro: la fine come inizio – troviamo radunati sotto un unico stendardo i singolaristi del Breakthrough Institute e gli accelerazionisti marxisti dell'Accelerationist Manifesto. Secondo i singolaristi la potenza dei calcolatori elettronici andrà progressivamente incrementando fino a formare una nuova coscienza macchinica, un hardware immateriale, rendendo possibile la liberazione dal corpo, il wetware organico della specie; una misura, ovviamente, riservata a pochi. La minaccia presentata dall'Antropocene sarebbe così sventata grazie alle nuove, abbondanti risorse naturali rese disponibili dai progressi tecno-scientifici. Gli accelerazionisti invece intendono aumentare la potenza tecnica del capitalismo finanziario globale fino a un punto di crisi irreversibile, superato il quale l'irruzione messianica della rivoluzione risulti inevitabile. Il mondo, in entrambi i casi, è visto esclusivamente come un deposito inerte di risorse, verso il quale non c'è alcuna necessità di assumere particolari attenzioni, poiché sarà sempre possibile fare a meno del nostro wetware per incarnarci nell'immateriale, come vogliono i Transumanisti.
De Castro e Danowski si rifiutano di scegliere fra queste opzioni: per loro l'estinzionismo militante di Brassier così come la «tecnofilia della cornucopia» dei singolaristi e l'angelologia materialista degli accelerazionisti si rifanno ancora a un pensiero eurocentrico traboccante di metafisica, «la fons et origo di ogni colonialismo», come afferma De Castro in Metafisiche Cannibali. Tutte fanno capo – in positivo o in negativo, poco importa – a quello stato d'eccezione ontologico costituito dall'Uomo, al duplicato antropologico empirico-trascendentale dell'episteme moderna, al Dasein come «configuratore di mondi», «pastore dell'essere» e, felice fardello, «luogotenente del nulla». Non è quindi un caso che la ricognizione operata dagli autori fra gli immaginari della fine si concluda fuori dal continente europeo, in Amazzonia. Nel capitolo intitolato Un mondo di persone gli Amerindi, veri e propri «specialisti della fine», vengono identificati come coloro che hanno testimoniato l'avvento dell'apocalisse da almeno cinque secoli con lo sbarco del colonialismo europeo. Il pensiero di questi popoli, il «prospettivismo amerindio», che costituisce il tema principale degli studi di De Castro, viene presentato come il farmaco necessario ai Moderni per espellere dal proprio pensiero ciò che ha consentito la catastrofe in atto. Per esempio, attraverso un mito cosmogonico Yawanawa, una popolazione di lingua Pano dell'Amazzonia occidentale, viene introdotta una variante rispetto alle categorie descritte in precedenza, ovvero un noi-prima-del-mondo, un universo in cui «non c'era niente, ma le persone c'erano già». Singolare inversione del salmo di Brassier: non «tutto è già morto», ma «tutto è già vivo». L'argomento non risulta però del tutto convincente: potremmo infatti domandarci perché nella miriade di ontologie e cosmovisioni indigene si dovrebbe recuperare in senso strategico proprio l'ontologia amerindia, dandole un'illusoria priorità? Gli autori sembrano assegnare agli Amerindi il compito quasi metonimico di rappresentare la totalità dei 370 milioni di indigeni che dimorano sul pianeta. Resta però da determinare se gli amerindi e le altre società preindustriali concordino con gli autori. De Castro sembra tanto propenso a ritornare alla propria rassicurante esperienza etnografica da omettere interi continenti, un gesto teorico piuttosto incauto quando è la totalità del pianeta la posta in gioco.
L'Antropocene è dunque un'epoca di guerra, ma non una guerra di tutti contro tutti, quanto piuttosto una guerra dei mondi, dato che i combattenti in campo lottano per realizzare due cosmovisioni del tutto differenti. Si tratta di un conflitto che, per utilizzare le categorie espresse da Bruno Latour, opporrà gli Umani – coloro che fra i Moderni pensano di poter ancora vivere in un prolungamento dell'Olocene senza dover pagare il prezzo del progresso – e i Terreni – coloro i quali affrontano le sfide dell'Antropocene alla tarda modernità, consci che nulla sarà più come prima e che il futuro richiederà nuove strategie di composizione del mondo comune. Tuttavia, se i nemici Umani sono facilmente identificabili – De Castro e Danowski riportano una lunga lista di “colpevoli”, principalmente grandi multinazionali, nel paragrafo La fine del mondo come evento frattale – non è affatto chiaro dove trovare gli alleati Terreni, gli esponenti del popolo a venire che dovrà intraprendere la guerra per poter essere, in futuro, l'artigiano della pace. Il conflitto fra Latour e gli autori si mostra proprio a partire da questa problematica: da una parte Latour non crede che le popolazioni indigene possano assumere un ruolo decisivo nella politica planetaria che viene, preferendo piuttosto investire in un'adesione militante degli scienziati, rappresentanti della Natura nella lotta; dall'altra, Danowski e De Castro affermano invece che le risorse presentate dai «saperi minori» e dalle etnotecnologie indigene saranno essenziali in un futuro caratterizzato dalla scarsità, e che richiederà uno stile di vita improntato a ciò che gli autori chiamano sufficienza intensiva.
Una cosa sola è certa e viene asserita con forza più volte nel corso dell'ultimo capitolo, Il mondo in sospeso: siamo gettati in un conflitto che coinvolge una pluralità incommensurabile di esistenti in una guerra planetaria e, sebbene il “chi” dei Terreni sia indecidibile, questo popolo a venire è più necessario che mai per la possibilità stessa di un futuro per la specie. Si tratta, con Deleuze e Guattari, di «volere la guerra contro le guerre future e passate, l'agonia contro tutte le morti, e la ferita contro tutte le cicatrici, in nome del divenire e non dell'eterno» (p. 233, in esergo).