Il tema dell’impersonale costituisce il fulcro di un dibattito odierno forse sfuggente ma variamente presente in assi tematiche e ambiti di ricerca assai differenti. Si tratta, molto in generale, di un tentativo di rimettere in discussione la nozione di soggettività, antropologicamente circoscritta, per giungere a teorizzare una sorta di spazio impersonale, capace di fondare e articolare le linee dell’intero piano della realtà concretamente esperibile. Si potrebbe obiettare che un simile tema mantenga un’impostazione di tipo “metafisico”, intesa in senso negativo, come fautrice di una speculazione antiquata, piattamente astratta e slegata dalla contemporaneità. A questa obiezione, che tende a schivare con forse troppa leggerezza gli ammonimenti heideggeriani e derridiani – è possibile uscire dall’epoca della metafisica? O meglio, è possibile una filosofia che non sia per ciò stesso metafisica? – corrisponde un atteggiamento oggi ben radicato, che tende a svalutare il pensiero “puro”, considerato logoro e inadatto a cogliere le linee in cui si articola il mondo di oggi.
Affrontare l’impersonale altro non significa se non riformulare la questione trascendentale della fondazione, ossia del rapporto e della connessione tra dato empirico e pensiero, concetti e realtà, ontologia e epistemologia, soggetto e oggetto, anima e corpo. Occuparsi dell’impersonale può voler dire porre una questione dal sapore evidentemente genetico, volta a indagare il sorgere stesso del reale; quel momento intensivo che ci fa transitare verso la realtà che esperiamo quotidianamente, dal piano di immanenza deleuziano alla spaziatura derridiana, passando per la questione della sintesi passiva in Husserl – per limitarsi a qualche breve esempio. D’altra parte riflettere sull’impersonale significa praticare un pensiero critico nei confronti di un’istanza, quella del soggetto, che costituisce ancora uno dei poli problematici fondamentali della riflessione filosofica. Dalla critica “biopolitica” dell’interiorità agostiniana e della nozione di “persona” al ripensamento profondo (antropologico, farmacologico, sferologico) della tecnica, passando per l’atmosferologia come decostruzione dell’introiettivismo patico, chi si interroga sull’impersonale ambisce così a demitizzare gran parte del soggettivismo che ha caratterizzato la riflessione filosofica almeno da Descartes in avanti.
Non meno importanti i contributi provenienti dal côté più strettamente biologico e vitalista, che prende le proprie mosse dalla vivace ricezione francese del bergsonismo nel secondo dopoguerra. A orientare questo filone è l’idea di un divenire organico della vita, in opposizione ai vari riduzionismi neopositivistici – fisiologia, psico-fisica, etc. - promotori di una suddivisione del vivente in semplice somma di parti meccaniche, aggregabili e quantitativamente misurabili. Figure come Raymond Ruyer, Georges Canguilhem e Gilbert Simondon, tra le altre, inaugurano così un pensiero fisico-biologico (e filosofico) che pone il proprio accento sul rapporto tra individuo e ambiente, tra virtualità preindividuale e meccanismi di attualizzazione.
La questione dell’impersonale non ha evidentemente limitazioni tematiche né frontiere ben circoscrivibili, ma si distribuisce piuttosto all’interno di una serie di incroci tra punti di vista e contesti cronologico-geografici differenti, che il seguente numero vorrebbe provare a far dialogare.
*Atti del convegno svoltosi a Torino il 28 e 29 aprile 2016, organizzato da Gaetano Chiurazzi, Carlo Molinar Min e Giulio Piatti, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Torino e del dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, e in collaborazione con Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea.
Si desidera qui ringraziare il professor Roberto Salizzoni per il sostegno e i preziosi suggerimenti nel corso delle fasi di organizzazione del convegno.
Muoversi comporta costruire spazi. Che gli spazi siano costruiti non significa che la materialità di pianure mari monti fiumi foreste sia irrilevante: anzi, è proprio a partire dai vincoli imposti da tale materialità che procede il processo di ominizzazione. Il compito delle scienze umane, allora, consiste nel pensare l’intreccio tra questi vincoli ‒ la datità dell’elemento geografico, potremmo dire ‒ e quegli atti, collettivi e individuali, di conferimento di senso che rendono gli spazi l’a priori materiale della storicità. Non c’è storia, infatti, se non a partire da una geografia, come non c’è un abitare gli spazi del mondo che non sia impregnato dei significati che una collettività di parlanti condivide.
Il presente numero vuole invitare a riflettere sulle strutture categoriali che stanno alla base del cosiddetto spatial turn occorso nelle scienze umane. Si tratta di una svolta che ha accompagnato la necessità di analizzare attraverso uno sguardo unitario una serie di processi storici, culturali e politici che, in varia misura, mettono in evidenza come la comprensione delle pratiche sociali contemporanee debba partire dall’analisi dei modi in cui, di volta in volta, si attua l’entanglement (per usare l’espressione dell’archeologo Ian Hodder) tra spazi e pratiche sociali. Con il termine “globalizzazione” altro non si intende, infatti, che il modo in cui si dispongono l’uno accanto all’altro i vari spazi di flussi entro i quali i processi di soggettivazione hanno luogo. L’enumerazione di questi ultimi fa ormai parte delle retoriche che il senso comune utilizza per definire i tratti più caratteristici e maggiormente salienti della contemporaneità. Abbiamo il flusso di micro-organismi e agenti patogeni, il flusso di informazioni che circola nel web, il flusso delle materie prime e delle merci, il flusso di capitali che il mercato dei prodotti finanziari sposta incessantemente, il flusso dei lavoratori della conoscenza, il flusso dei migranti, il flusso dei rifiuti, i processi di gentrificazione e di trasformazione delle aree urbane, e infine i flussi di gruppi di specialisti, tecnologie informatiche e armi generati dalla gestione geostrategica delle varie aree del pianeta.