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Storia della filosofia del lavoro
Recensioni / Settembre 2022«È ampiamente riconosciuto che per noi, membri delle società moderne, il lavoro conta molto […] Sapere per quali ragioni, è una domanda a cui rispondere è molto meno agevole». H-C., Schmidt Am Busch
Histoire philosophique du travail (Vrin, 2022), curato da Frank Fischbach, Anne Merker, Pierre-Marie Morel ed Emmanuel Renault, è uno dei risultati del progetto di ricerca «Approches philosophiques de la centralité du travail» diretto da Fischbach e Renault tra il 2014 e il 2017. A loro due si deve l’interessante introduzione, a cui seguono sedici saggi (per i titoli e gli autori, rinvio all’indice) organizzati in due sezioni, la prima dedicata alla filosofia antica, la seconda, più ampia, dedicata alla filosofia moderna. Completa il volume, una bibliografia che amplia i riferimenti proposti dai singoli saggi e che si rivolge quasi esclusivamente alla filosofia contemporanea, in particolare ai più recenti sviluppi della Teoria critica francese, di cui, d’altronde, Fischbach e Renault sono esponenti.
Histoire philosophique du travail non ambisce a proporsi come una «storia della filosofia» sul tema del lavoro. I curatori non hanno ricercato né la sistematicità né la completezza che avrebbe richiesto una simile opera: rimandano ai sette volumi curati da Antimo Negri (Negri 1980-1981) e al progetto in fieri di Jean-Philippe Deranty. I saggi, infatti, sono stati scelti tra gli interventi di tre diverse giornate di studio, tenutesi, tra il 2015 e il 2017, nell’ambito di suddetto progetto di ricerca, e presentano, pertanto, una certa aleatorietà. Così, sebbene i curatori stessi riconoscano che mancano, ad esempio, la filosofia medioevale e quella contemporanea (cfr. p. 11), nondimeno va notato che la selezione dei saggi riduce la filosofia antica a quella greca da cui, però, è escluso Platone (che pure era oggetto di più di una conferenza). Al contempo, occorre segnalare la pubblicazione dell’antologia curata dagli stessi Fischbach e Renault (Fischbach, Renault 2022) con cui integrano Histoire philosophique du travail della parte mancante sulla filosofia contemporanea (nell'indice, ad esempio, si trovano Simone De Beauvoir, Adina Schwartz e Elizabeth Anderson).
Alle mancanze contenutistiche, si può forse aggiungere una mancanza di tipo pratico, quella di un indice analitico. Componendo una mappa del nutrito elenco di termini che gravitano attorno al lavoro e che ricorrono nell’arco del volume, un indice analitico avrebbe certamente agevolato il lettore a muoversi trasversalmente tra i saggi e sarebbe stato coerente con un interesse teorico che i curatori sottolineano nell’Introduzione (cfr. pp. 12-13), cioè seguire le inflessioni di significato che, nel corso della storia della filosofia, i concetti che si riferiscono al lavoro hanno assunto. Inoltre, tanto più in un volume come questo, che presenta una notevole varietà tra gli autori trattati, ciò avrebbe reso possibile reperire i diversi fili rossi che s’intessono nelle riflessioni filosofiche sul lavoro. Piacere, macchina, corpo, dignità, ma anche democrazia, salute, tempo, solo per ipotizzare alcune delle possibili voci.
Tuttavia, non si può additare come lacunosa questa Histoire philosophique du travail, poiché si tratta di un progetto pionieristico e poiché presenta, comunque, una certa organicità. Sin dall’Introduzione, intitolata Historicité et centralité du travail, Fischbach e Renault fissano ed esplicitano il fulcro del volume, che è la centralità del lavoro. A quest’ultima è legato il chiaro obiettivo teorico a cui essi mirano, cioè favorire una rivalutazione delle «risorse» che la storia della filosofia mette a disposizione «per pensare l’importanza delle diverse poste in gioco del lavoro» (p. 9). L’intento è invitare a «rivisitare la storia della filosofia occidentale dal punto di vista del lavoro e così elevare il tema del lavoro alla dignità filosofica che merita e che raramente gli è stata riconosciuta dalla storia della filosofia» (p. 10).
Questo è il tono che i curatori danno al volume e a cui tutti i contributi s’accordano. Gli autori e le autrici si propongono di rileggere tale filosofo o filosofa o una certa tradizione, per dimostrare il valore euristico di tematizzare il lavoro all’interno della loro produzione. Pertanto, per una valida recensione dei singoli saggi, servirebbe l’intervento di altrettanti specialisti. Ad esempio, Morel (Démocrite et le travail technique. Comment produire en régime atomiste?)sceglie di interrogare «la coerenza globale della filosofia di Democrito» non sulla pista più battuta dell’etica bensì «per quanto riguarda l’attitudine umana a modificare la natura attraverso il lavoro» (p. 88), mentre Frédéric Porcher (Nietzsche, penseur du travail?) intende mostrare che in Nietzsche è possibile individuare una nozione positiva di lavoro su cui egli sviluppa la sua critica, alla quale, invece, si fermano normalmente i suoi interpreti.
È possibile, quindi, definire una prima portata dell’espressione «centralità del lavoro». Bisogna intenderla come il tentativo di contrastare l’idea che il lavoro sia un tema poco rilevante nella storia della filosofia o che ha acquisito interesse solo recentemente, con la modernità. Fischbach e Renault vogliono, invece, «rendere manifesta la presenza costante del tema del lavoro, rendere percettibili un più ampio numero delle sue implicazioni, e far apparire la ricchezza dei concetti e delle problematiche attraverso le quali esso è stato pensato» (p. 11). In altri termini, si tratta di affermare la centralità del lavoro per smuovere la filosofia dalla sua posizione affine alla «lunga tradizione di svalorizzazione delle attività lavorative» (p. 9).
È un obiettivo piuttosto urgente per Fischbach e Renault. Infatti, la filosofia, dopo aver assecondato il primo discorso sulla fine del lavoro (cfr. Rifkin 1995), potrebbe assecondare anche il nuovo discorso sulla fine del lavoro che si sta diffondendo e che si basa sull’intelligenza artificiale e il machine learning. Riprendendo le analisi di A. A. Casilli (cfr. Casilli 2020), i curatori sottolineano che anche questo nuovo discorso è solo un nuovo capitolo dell’«occultamento del lavoro, della sua cancellazione nei fatti e della sua svalorizzazione nelle norme […], e dell’estensione e della diffusione del regno della produzione di merci» (p. 7). È evidente, quindi, che la «centralità del lavoro» ha una portata che tracima i limiti della storia della filosofia.
Con la «centralità del lavoro» Fischbach e Renault, infatti, non intendono soltanto opporsi alla perifericità o alla trascurabilità del lavoro quale tema filosofico, bensì vogliono affermare una tesi a pieno titolo. L’espressione indica più propriamente l’opzione teorica su cui la Teoria critica di stampo francese si sta spendendo negli ultimi anni (cfr. Dejours et al. 2018), cioè affermare «il potere strutturante, tanto socialmente quanto psicologicamente, tanto individualmente quanto collettivamente» (p. 16) del lavoro. Contro certe critiche del capitalismo che considerano che il lavoro sia diventato centrale solo con l’avvento della modernità (cfr. Postone 1993), inoltre, ritengono che la svolta che quest’ultima rappresenta consiste nel fatto che il lavoro ha assunto una centralità ulteriore, quella sociale: «La centralità del lavoro diventa così essa stessa sociale nelle società moderne, nel senso che il lavoro vi diventa socialmente strutturante, di modo tale che questa nuova centralità sociale riconfigura completamente e di riflesso le modalità secondo cui il lavoro è e resta strutturante anche sui diversi piani economico, psicologico e politico» (p. 19).
L’articolo di Renault su John Dewey (Dewey, l’anti-Arendt) è quasi un prolungamento dell’Introduzione. Infatti, ricostruendo l’argomentazione del tutto originale del pragmatista americano a proposito della centralità del lavoro, Renault offre una lucida esposizione dell’articolazioni delle «dimensioni» di tale problema. La prima è quella epistemologica, ovvero l’estensione da assegnare al concetto di lavoro. La questione è decisiva perché, come spiega Renault, una «concezione ristretta» esclude la possibilità di riconoscere la centralità del lavoro, laddove una «concezione allargata» la ammette (cfr. p. 369). Tra l’altro, questo spiega perché in Histoire philosophique du travail, a dispetto del fatto che il primo tipo di definizioni siano quelle più diffuse nella storia della filosofia - le rappresenta, ovviamente, Arendt, qui discussa da K. Genel (Hannah Arendt, une critique du travail: comment sortir de «la triste alternative de l’esclavage productif et de la liberté improductive»?) -, sia il secondo tipo di definizioni a prevalere: oltre a quella di Dewey (cfr. pp. 359 e sg.), si veda, per esempio, quella di Weil, esaminata da M. Labbé (Le travail chez Simone Weil: réalité, subjectivité, liberté, cfr. pp. 309-312).
Posta in via preliminare tale questione, la centralità del lavoro si decide propriamente sotto tre riguardi, cioè decretando la sua posizione dal punto di vista antropologico, dal punto di vista psicologico e dal punto di vista della teoria sociale. A tal riguardo, secondo Renault, l’originalità di Dewey consiste nel fatto che la sua argomentazione investe tutti e tre gli ambiti congiuntamente, laddove altri autori e autrici sostengono la centralità del lavoro sotto uno solo di questi aspetti. Infine, vi è la questione della «diagnosi storica» della centralità del lavoro che riguarda il ruolo del lavoro nelle varie società, in particolare in quella contemporanea.
Negli articoli che compongono Histoire philosophique du travail, se ne può quindi individuare una serie che, mentre contribuiscono ad affermare l’interesse filosofico del tema del lavoro, alimentano la prospettiva «forte» della centralità del lavoro e la esplorano secondo le diverse prospettive degli autori che vengono discussi. A proposito della centralità del lavoro dal punto di vista antropologico, ad esempio, sono di grande interesse le pagine del ricco esame che Merker dedica alla concezione aristotelica di schiavitù (L’esclave-Organon d’Aristote: entre machine-outil et homme augmenté). L’inattesa conseguenza delle riflessioni di Aristotele sullo schiavo e il lavoro, infatti, è la sanzione dell’«inclusione indelebile della problematica del lavoro nella condizione umana» (p. 154). H.C. Schmidt Am Busch, invece, esaminando i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel (La valeur du travail: sur l’actualité de la théorie hégélienne de la société moderne) si propone indagare «il valore non monetario del lavoro» (p. 213) tanto per l’individuo quanto per la società.
Tra gli autori che compongono suddetta serie, ha un peso specifico Marx, in quanto è uno degli autori di riferimento per chi sostiene le «obiezioni storicistiche» alla centralità del lavoro (cfr. Deranty 2013). Dapprima, J. Quétier (Marx et le travail) ricostruisce la posizione di Marx a proposito della centralità del lavoro: essa è cruciale tanto per la sua antropologia quanto per la sua analisi del capitalismo e le sue prospettive emancipative. Per riprendere le parole di Quétier, la centralità del lavoro è per Marx «problematica: da una parte perché occultata, dall’altra perché incompleta» (p. 233). Quindi, Fischbach (Le salariat Le salariat doit-il quelque chose à l’esclavage? Capitalisme, esclavage et salariat selon Marx) si concentra su questo secondo aspetto, cioè sulle ragioni per cui, secondo Marx, la centralità del lavoro non può essere realizzata nel capitalismo. Quest’ultimo, infatti, non solo conserva la schiavitù ma ha «una tendenza permanente» (p. 345) a reinventarla e congiungerla con il salariato e con nuove forme indirette di subordinazione del lavoro.
In definitiva, grazie al consistente novero dei filosofi e delle filosofe che sono prese in esame, Histoire philosophique du travail persegue l’obiettivo di rendere meno «fantasmatica» l’esistenza del tema del lavoro nella storia della filosofia (cfr. p. 10). D’altro lato, Histoire philosophique du travail segnala l’interesse e l’urgenza di ampliare e sviluppare, se si accetta la metafora, il cantiere del «potere strutturante» del lavoro ovvero della sua centralità.
di Armando Arata
Bibliografia
Casilli, A. A. (2020). Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano.
Dejours, C., Deranty, J-Ph., Renault, E., Smith, N. H. (2018). The Return of Work in Critical Theory. Self, Society, Politics, Columbia University Press, New York.
Deranty, J-Ph. (2013). Cartographie critique des objections historicistes à la centralité du travail, in «Travailler. Revue internationale de Psychopathologie et Psychodynamique du Travail», 30, pp. 17-47.
Fischbach, F., Renault, E. (2022). Philosophie du travail. Activité, technicité, normativité, Libraire Philosophique J. Vrin, Paris.
Rifkin, J. (1995). La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento del post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano.
Negri, A. (1980-1981). Filosofia del lavoro. Storia antologica (7 volumi), Marzorati Editore, Milano.
Postone, M. (1993). Time, Labor and Social Domination: A Reinterpretation of Marx's Critical Theory, Cambridge University Press, New York and Cambridge.
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La solidarietà in tempi difficili
Longform / Giugno 2022Che cos’è la solidarietà? Nel concetto si incontrano, come sappiamo, almeno due tradizioni distinte, quella rivoluzionaria della “fraternità” e quella cattolica della “carità”. L’una e l’altra alludono a un legame tra gli individui di tipo extracontrattuale, capace di fare in modo che l’attenzione disinteressata per il prossimo non risulti sacrificata a vantaggio della logica dello scambio. Appellarsi alla solidarietà significa ricordare che non è solo da considerazioni razionali rispetto allo scopo che è possibile dedurre le norme e le istituzioni in grado di offrire alle persone l’opportunità di condurre vite soddisfacenti e dignitose e di garantire al sistema democratico la possibilità di mantenere nel tempo condizioni accettabili di stabilità. Eppure, la solidarietà è divenuta una risorsa scarsa, che non si lascia rigenerare o ingrandire a piacimento. L’indebolimento progressivo delle pratiche simboliche che assicurano la solidarietà sociale, come i riti, il culto religioso, le cerimonie nazionali per un verso, e la tendenza crescente all’esercizio meramente legale e strategico dei diritti soggettivi per un altro, hanno contribuito a rendere questa risorsa, che indica la soglia minima della spontaneità sociale, un bene sempre più bisognoso di rigenerazione. In generale, si può in ogni caso affermare che tutte le concettualizzazioni della solidarietà hanno in comune qualcosa che ha a che fare con la volontà di promuovere e praticare a livello di socializzazione forme di relazione di tipo cooperativo, così da incentivare la coesione solidale dei cittadini al di là delle rispettive funzioni professionali o degli stereotipi di ruolo interiorizzati.
Per provare a chiarire meglio il concetto può essere utile distinguere tre aspetti principali. In primo luogo, la solidarietà si richiama alla necessità di fornire sostegno o assistenza alle persone in difficoltà con le quali vi è un rapporto di prossimità, di tipo solitamente affettivo o emotivo. In secondo luogo, chi avverte questa esigenza percepisce di avere qualcosa in comune con chi ne è beneficiario: valori, norme e costumi tacitamente condivisi, oppure il senso di essere parte di una comunità solidale nella quale ciascuno si fa carico dell’altro per affrontare assieme le sfide esistenziali di una vita sottoposta a una minaccia incombente. Infine, la solidarietà non è una forma di interazione da praticare occasionalmente ma è, piuttosto, un ingrediente costitutivo del tessuto sociale o politico, una componente intrinseca del vivere sociale. Per questo richiede un certo livello di reciprocità, per quanto indiretta: non a caso, il sentimento di solidarietà è più accentuato quando le persone che contribuiscono agli assetti solidaristici possono contare sul fatto che a tempo debito i loro sforzi verranno debitamente ricompensati. L’idea di Habermas, della solidarietà come terza fonte dell’integrazione della società accanto al denaro e al potere amministrativo, cerca di cogliere con uno sguardo d’insieme questa triplice articolazione del concetto, che dalle strutture di mutuo riconoscimento spontanee e concrete si trasferisce in forma astratta, ma vincolante, agli ambiti d’azione complessi e progressivamente anonimi delle società funzionalmente differenziate.
In prima battuta, tuttavia, è opportuno restare ancorati al piano della fattualità spontanea di forme di vita unite da vincoli di prossimità e cooperazione abituale, dove risulta possibile definire la solidarietà come una pratica spontanea e non-regolamentata che esprime la volontà di assistere o sostenere coloro con i quali vi è – o si ritiene che vi sia – una sorta di familiarità per un qualche aspetto ritenuto rilevante. L’aspetto che gioca il ruolo più significativo è costituito dai contesti all’interno dei quali risulta possibile praticare forme di solidarietà “in solido”, per così dire. Poniamo che un individuo venga a sapere che in un certo luogo di lavoro i dipendenti subiscono esperienze di discriminazione, degradazione ed esclusione. È probabile che la molla della solidarietà scatti in lui se gli è a sua volta toccato in sorte di subire esperienze simili. O immaginiamo che un altro doni un organo del proprio corpo a che ne ha bisogno per sopravvivere. Anche in questo caso è verosimile che un gesto di solidarietà così impegnativo venga attuato se in famiglia o nella cerchia di amici o conoscenti una circostanza del genere abbia già avuto modo di verificarsi. Il riconoscimento della somiglianza sotto un qualche aspetto rilevante è perciò un processo attivo, che permette di vedere negli altri ciò che si sa o che si prova riguardo a se stessi. Non si tratta del mero riconoscimento di caratteristiche astratte e generiche: tocca invece situazioni in cui i tratti comuni che le persone hanno imparato a riconoscere possono diventare effettivamente obbliganti per l’agire del singolo solo se si incarnano nell’esigenza di qualche essere umano realmente esistente.
È verosimile che se un individuo avesse l’abitudine di vedere negli altri ciò che hanno di diverso da lui – per esempio attraverso il filtro delle appartenenze culturali, religiose o politiche – piuttosto che gli aspetti condivisi, incontrerebbe non poche difficoltà a ritrovare quella disponibilità a porre l’altro entro se stesso e a permanere presso di sé nell’essere altro di cui parlava Hegel – disponibilità che è alla base di ogni impegno solidaristico. Insomma, la solidarietà sembra prevedere un rapporto di simmetria tra i soggetti, per lo meno nel momento in cui qualcuno presta sostegno a qualcun altro. Questa simmetria non è una sorta di affermazione ontologica relativa alla configurazione delle nostre società, nel senso che non si tratta affatto di lasciare in ombra le differenze e le disuguaglianze strutturali che le attraversano. Si tratta piuttosto di prendere atto che, in alcune circostanze, le somiglianze contano ben più delle differenze.
Questa definizione permette di distinguere la solidarietà da altre forme di sostegno o di pratica pro-sociale, come l’empatia, la carità o l’amore. La solidarietà è diversa dall’empatia perché non basta limitarsi a ricondurre a sé le emozioni altrui: la preoccupazione per le sorti di chi è minacciato o si trova in difficoltà deve essere unita alla motivazione altruistica di porre rimedio alla situazione mediante una qualche forma di intervento concreto. È diversa dalla carità perché richiede una preliminare condivisione, anche solo immaginativa, di alcuni tratti comuni impliciti nelle forme di vita, per esempio, il fatto che ci si trovi nella stessa situazione di vulnerabilità rispetto al contagio, alla malattia o alla morte. Mentre cioè la carità potrebbe nascere da un dovere morale o religioso che sollecita i ricchi a elargire denaro ai poveri in ragione delle macroscopiche differenze tra gli uni e gli altri, un impegno di tipo solidaristico tende a considerare queste differenze come marginali e dedica invece la massima attenzione ai fattori di condivisione. La solidarietà, infine, è diversa dal sostegno che amanti, amici o familiari possono prestare gli uni agli altri, perché ciò che in questi casi lega gli uni agli altri ha un peso e un valore emotivo che manca nel caso di legami che si basano soltanto su una somiglianza, reale o percepita. La solidarietà può allora subentrare come fattore compensativo proprio là dove legami thick di questo genere risultano assenti.
La solidarietà può così manifestarsi a livelli diversi: a livello interpersonale, a livello di gruppo e a livello di istituzioni e di norme formali. Quando la solidarietà si attua a livello individuale, da persona a persona, si può parlare di solidarietà di primo livello. Quando le azioni di mutuo sostegno diventano così comuni da trasformarsi in un comportamento quasi di routine per determinati gruppi o associazioni, si può parlare di solidarietà di secondo livello. Quando la solidarietà si esprime in norme giuridiche, amministrative e burocratiche, regolamenti e progetti, si entra nel campo della solidarietà di terzo livello. Questa forma di solidarietà prende generalmente corpo quando le pratiche individuali e di gruppo si sono solidificate in forme strutturali e istituzionali, come quelle conservate nelle strutture giuridiche delle società funzionalmente differenziate di cui parla Habermas. Ora, se la pandemia ha insegnato qualcosa, è che, per quanto le strutture di mutuo riconoscimento caratteristiche delle interazioni semplici e dei rapporti spontanei di solidarietà possano essere importanti, a fare la differenza, per così dire, è la solidarietà istituzionale incorporata nel diritto. Più la crisi incrementa il fabbisogno di solidarietà, più aumenta il peso della solidarietà civica giuridicamente mediata.
Il rapporto tra solidarietà e pandemie è infatti più complicato di quanto si sarebbe portati a pensare, nel senso che una crisi sanitaria, anche se ciò può sembrare controintuitivo, non fa necessariamente scattare in automatico meccanismi spontanei di solidarietà. Di primo acchito si sarebbe infatti portati a pensare che una crisi, come per esempio quella dovuta alla pandemia, spinga le persone a stringere vincoli di solidarietà capaci di rendere irrilevanti differenze che, in altri contesti e in altre situazioni, sarebbero invece sufficienti a giustificare scelte de-solidaristiche. La crisi pandemica sembra invece rendere le cose un po’ più complicate perché non a tutti riesce sempre facile trovare punti in comune con tutti gli altri. Una prima ragione è data dall’intervallo di tempo da prendere in considerazione che, anche nel caso di una pandemia prolungata, non copre certo l’intero arco di vita delle persone, e questo non le aiuta a dare per scontato che in futuro riceveranno le stesse prestazioni solidaristiche che stanno, al momento, assicurando agli altri. Inoltre, se la pandemia fosse destinata a finire in breve tempo, le persone a rischio immediato di ammalarsi sarebbero portate a vivere questa eventualità come una minaccia molto più grave e incombente rispetto ai rischi per la salute legati alla inevitabile vulnerabilità umana – rischi che possono diventare reali anche a decenni di distanza. In altre parole, è molto più difficile riconoscere le somiglianze con gli altri, e adottarle quale presupposto delle nostre azioni, nell’arco di tempo relativamente breve di una pandemia rispetto a quanto avviene nell’arco di una intera vita.
Quali insegnamenti si possono ricavare da queste riflessioni? Il primo è che, dal momento che i costi di contenimento delle pandemie non sono sostenuti da un qualche sottogruppo, ma dall’intera popolazione, e poiché le pandemie si verificano in un periodo di tempo relativamente breve, durante il quale le persone corrono rischi e hanno interessi molto diversi, le possibilità di mobilitare forme spontanee di solidarietà a sostegno della salute pubblica sono molto limitate. Il secondo è che, di conseguenza, spetta alla solidarietà civica incorporata nel diritto e nelle istituzioni democratiche, e cioè alla solidarietà di “terzo livello”, creare quelle “reti di sicurezza” che coadiuvano le prestazioni sociointegrative dei rimanenti ordinamenti istituzionali. Il terzo, che questa forma di solidarietà civica ha un nome: Stato-di-welfare, ovvero l’istituzione politica che ha creato la democrazia della solidarietà.
di Edoardo Greblo
Bibliografia
Banting, K. & Kymlicka, K. (2017). The Strains of Commitment: The Political Sources of Solidarity in Diverse Societies. Oxford: Oxford University Press.
Bayertz, K. (1999). Four Uses of Solidarity. In K. Bayertz (ed.) Solidarity (3-38). Dordrecht: Springer.
Brunkhorst, H. (2005). Solidarity. From Civic Friendship to a Global Legal Community. Cambridge, Mass.: MIT Press.
DuFord, R. (2022). Solidarity in Conflict, A Democratic Theory. Stanford: Stanford University Press.
Habermas, J. (2022). Proteggere la vita. Bologna: il Mulino.
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Rodotà, S. (2014). Solidarietà. Un'utopia necessaria. Roma-Bari: Laterza.
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Taylor, A.E. (2015). Solidarity: Obligations and Expressions. Journal of Political Philosophy 2(23), 128-145.
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bell hooks: il femminismo è per tutti!
Recensioni / Aprile 2022Era sera ed ero in coda da qualche parte. Poi, a un tratto, ho letto:
È il 15 dicembre 2022, ed è morta bell hooks.
Non immaginavo che la scomparsa di un’autrice, incontrata soltanto un anno prima, potesse lasciarmi addosso una sensazione analoga a quella che avevo già provato nel perdere dei punti di riferimento.
Mi sono allora chiesta perché e in che modo, senza accorgermene, avesse assunto un simile ruolo; per cui ho deciso di provare in parte a mettere nero su bianco ciò che bell hooks mi ha trasmesso.
Il femminismo è per tutti – scriveva nel 2015 all’interno dell’omonimo libretto che ho scelto di attraversare, tradotto in italiano da Maria Nadotti e pubblicato da Tamu Edizioni nel 2021 – evitando di nascondere il proprio io dietro a terze persone tanto impersonali quanto inesistenti, dietro a giri di parole tanto impeccabili quanto incomprensibili. Non è infatti – il femminismo – un mero stile di vita: non è possibile approcciarsi ad esso senza esporsi personalmente, dal momento che riguarda innanzitutto la capacità di fare i conti con il sessismo che ognuno trascina dentro di sé.
Del resto, «per capire il femminismo è necessario capire il sessismo» (p. 31), nelle cui insidie cadono tanto gli uomini quanto le donne: questo è il presupposto da cui parte bell hooks nel dire che, appunto, il femminismo dev’essere per tutti: deve assumersi la missione di includere. Il sessismo diventa allora l’elemento che le consente – nel primo capitolo – di stendere innanzitutto un itinerario degli sviluppi storici del movimento femminista e, poi, di distinguere tra femminismo riformista e rivoluzionario. Il primo (quello con maggiore risonanza mediatica), ponendosi come obiettivo principale il raggiungimento della parità di genere e della mobilità sociale, considera l’impegno verso la lotta al sessismo un elemento quasi accessorio; mentre il secondo, ponendosi come scopo la trasformazione radicale del sistema patriarcale (e quindi non la sua semplice modifica), vede nella lotta al sessismo una delle sue principali missioni.
Mettere fine all’oppressione sessista è infatti ciò a cui ci richiama con ostinazione la rivoluzionaria bell hooks. È possibile indirizzarsi verso questa meta attraverso numerose vie e quella teorica è sicuramente un buon punto di partenza. Del resto, come bell hooks, in tanti siamo approdati alla lotta femminista all’università, entrando in contatto soprattutto con la teoria femminista più che con la sua pratica; tuttavia, a differenza sua, molti di noi si sono fermati e continuano a fermarsi semplicemente alla teoria. Purtroppo, però, solo con questa non si può riuscire nell’impresa di mettere fine all’oppressione sessista: a un certo punto, occorre chiudersi alle spalle la porta del proprio studiolo comodo e confortante per calarsi nel mondo – correndo il rischio di sporcarsi –, incontrando la voce, i gesti, la carne e gli abissi degli altri.
A questo proposto, nelle sue opere, la femminista afroamericana evoca spesso la potenza liberatoria che hanno avuto, durante il secolo scorso, i gruppi di autocoscienza. Ce li descrive come veri e propri siti di conversione, in cui donne tra loro molto diverse per età ed estrazione sociale riuscivano a trovare a turno una “camera tutta per sé”, in cui rivelare e mostrare «apertamente la profondità delle loro ferite intime» (p. 41). In quelle camere, nessuna aveva più diritto delle altre di essere ascoltata, nessuna aveva il dovere di rimanere in silenzio, bensì tutte condividevano la possibilità di dire ciò che pensavano realmente, di discutere e far valere le proprie ragioni: in quelle camere, nessuna voce era strozzata, perché ognuna veniva così preparata a «sfidare le forze patriarcali sul posto di lavoro e in casa» (ibidem).
Con il tempo, purtroppo o per fortuna, le cose sono cambiate: i Women’s Studies hanno cominciato a configurarsi come una disciplina accademica riconosciuta e l’aula universitaria – che «era e rimane un luogo di privilegio di classe» (p. 44) – ha progressivamente spazzato via quelle camere, che invece consentivano una trasmissione ampia e orizzontale del pensiero femminista e delle strategie rivolte al cambiamento sociale, prescindendo da distinzioni di classa e di razza. Tale cambiamento oltre a depoliticizzare il movimento femminista e a renderlo, per certi versi, più elitario, ha soprattutto contribuito al graduale allentamento della solidarietà politica tra le donne – forza che precedentemente aveva saputo mettere in atto un cambiamento positivo. Tutto ciò ha prodotto delle stratificazioni all’interno del movimento femminista, che, talvolta, ha finito per perdere di vista il fatto che «finché le donne usano il loro potere di classe o di razza per dominare altre donne, la sorellanza femminista non può realizzarsi appieno» (p. 53).
A partire da tali rilievi, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata si fa promotore della necessità di ripercorre la storia del movimento femminista, di esplorarne criticamente tanto i punti deboli, quanto quelli forti. Attraverso uno stile schietto, semplice, asciutto, bell hooks reclama la creazione di «un movimento di massa che offra un’educazione femminista a tutti» (p. 65), in grado di spiegare, in forme iper-accessibili, alle donne e agli uomini come opera il pensiero sessista, in che modo è possibile metterlo in discussione e cambiarlo e come, nel corso del tempo, il femminismo abbia inciso sulle vite di tutti noi. Si tratta di una sorta di testamento intellettuale, in cui vengono affrontati acutamente, seppur in poche pagine, tanti temi essenziali. Uno di questi – quello su cui mi capita di arrovellarmi più spesso – è il corpo: perno introno al quale ruotano, in particolare, il quinto capitolo, il sesto e l’undicesimo.
Essere il proprio corpo per una donna è un gesto rivoluzionario, che comincia con la scoperta della propria sessualità, con la ricerca del proprio piacere (e in questo tutti gli strumenti di controllo delle nascite hanno aiutato un bel po’), che passa attraverso la possibilità di rimanere incinta. Misurarsi con tale eventualità ha prodotto innumerevoli discorsi nel corso del tempo, alcuni dei quali elogiano la maternità, restituendola come un ineluttabile destino; altri sottolineano invece come quest’esperienza possa finire per costituire un intralcio alla realizzazione personale di una donna. L’intrecciarsi e lo scontrarsi di questi innumerevoli discorsi hanno contribuito a generare quel rumore che da anni avvolge il dibattito intorno all’aborto.
La posizione di bell hooks al riguardo – che mi sento di sottoscrivere in pieno – è molto semplice e parte dal presupposto che «se noi donne non abbiamo il diritto di decidere che cosa succede al nostro corpo, rischiamo di rinunciare ai nostri diritti in ogni altra sfera della nostra vita» (p. 72): essere pro aborto significa essere pro scelta, cioè sostenere «il diritto delle donne che hanno bisogno di abortire, di scegliere se farlo o no» (p. 73); ecco perché occorre lottare affinché non si torni «a un mondo in cui gli aborti sono accessibili solo alle donne che hanno un sacco di soldi» (p. 70), essendo questo un primo passo verso il ritorno a una politica che mira a rendere illegale l’aborto. Essere pro scelta, dunque, vuol dire battersi tanto affinché donne sole e senza mezzi possano permettersi di scegliere di essere madri, tanto affinché donne che vogliano abortire possano farlo in sicurezza.
Il femminismo ha il merito di aver contribuito a puntare i riflettori sull’incapacità di molte donne di scoprire «che la nostra carne è degna d’amore e di adorazione al naturale» (p. 75), dal momento che «tutte le donne, indipendentemente dalla loro età, vengono consciamente o inconsciamente educate a essere assillate dal pensiero del proprio corpo, a considerare problematica la carne» (pp. 80-81). Tale assillo si fa sempre più incombente durante la pubertà, quando una giovane donna percepisce più che mai il suo corpo come sfuggente, arrivando talvolta a sentirlo a lei estraneo. Allo stesso tempo, gli occhi maschili, che seguono sempre più frequentemente il ritmo dei suoi fianchi per strada, comunicano giudizi sulla sua anatomia, inducendola a viversi come un oggetto per gli altri.
A tutto questo si può reagire in vari modi: mettendo più o meno radicalmente in mostra la propria carne, traendo piacere dal forte desiderio che suscita negli altri; oppure – provando per essa paura o disgusto – ricercando l’invisibilità. Oggi, in un numero sempre crescente di giovani, il disgusto per la propria carne degenera in maniera patologica. Disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia nervosa sono infatti una vera e propria piaga per il mondo occidentalizzato: si tratta di una patologia estremamente fatale, che, nello specifico, colpisce prevalentemente le giovani donne e che ogni anno miete un numero sempre maggiore di morti. Uno dei tanti aspetti che la caratterizzano è dato dal fatto che – come ben nota bell hooks – «non c’è monito, per quanto terribile, che riesca a dissuadere le donne convinte che il loro valore, la loro bellezza, il loro merito intrinseco sono determinati dal fatto di essere magre o no» (p. 79). Un disturbo come l’anoressia nervosa porrebbe allora il mondo femminista di fronte a un’urgenza: «anche se oggi le donne sono più coscienti delle insidie e dei pericoli insiti nell’accettazione di una visione sessista della bellezza femminile, non stiamo facendo abbastanza per eliminare, per creare un’alternativa […]. Finché le femministe non torneranno a misurarsi con l’industria della bellezza e con la moda, provocando una rivoluzione costante e di lunga durata, non saremo libere. Non sapremo come fare ad amare il nostro corpo e noi stesse» (pp. 81-82).
Il corpo di una donna è sempre attraversato dalla possibilità di esser ferito, cioè di subire in esso la volontà di un altro; tuttavia, questo non deve trarci in inganno su quella che dovrebbe essere una delle missioni principali del femminismo. Secondo bell hooks, quest’ultimo deve puntare, non tanto a contrastare esclusivamente la violenza degli uomini verso le donne, bensì a far cessare ogni forma di violenza. Alla base di ogni forma di violenza, compresa quella patriarcale, c’è sempre l’idea secondo cui è accettabile che un individuo dotato di maggiore potere controlli gli altri tramite varie forme di forza coercitiva. Ecco perché, mirando in fondo a minare la libertà che ciascuno ha di disporre del proprio corpo, la violenza patriarcale, oltre a poter essere perpetuata tanto dagli uomini quanto dalle donne, si rivela come un fatto che riguarda l’umanità intera.
Per quanto breve, il libro di bell hooks è talmente pieno di spunti che sarebbe davvero difficile diffondersi qui su ognuno di essi. Ho scelto di ricordarla parlando proprio di questo volume, non solo perché, di recente, è comparsa la sua traduzione italiana, ma anche perché trovo che esso racchiuda perfettamente alcuni dei punti essenziali del pensiero che bell hooks ha sviluppato per una vita intera: nel leggere, mi è piaciuto pensare di star conservando il suo testamento tra le mani…
di Giulia Castagliuolo
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Pensare senza concetti: l’epopea guerriera
Recensioni / Febbraio 2022Uscito nel 2006 per i tipi di Champion, e ripubblicato nel 2021 dalla stessa casa editrice, il saggio di Florence Goyet Penser sans concepts: fonction de l’épopée guerrière. “Iliade”, “Chanson de Roland”, “Hôgen” et “Heiji monogatari” vede nell’epopea guerriera un genere letterario strettamente legato a una crisi della società. In questo senso, la rappresentazione di eventi collocati in un tempo arcaico, o immaginario, altro non è che uno mezzo attraverso cui l’epopea permette di riflettere su un disordine attuale. Così facendo, essa si configurerebbe come un vero e proprio dispositivo riflessivo – una «Machine à penser» secondo la definizione dell’autrice – capace di fornire al pubblico gli strumenti per comprendere e metabolizzare intellettualmente quella crisi di cui la guerra si fa, appunto, espressione metaforica. Ecco perché l’epopea non rappresenta solo la risposta a un mondo in via di cambiamento ma anche, e soprattutto, un tentativo di sublimare la mancanza di adeguate categorie intellettuali – siano esse appartenenti al terreno degli studi storici, delle scienze giuridiche o della riflessione filosofica – che possano consentire di comprenderlo. Una simile tesi, nitidamente espressa già nell’introduzione, è argomentata attraverso l’analisi approfondita delle tre opere presenti nel titolo, a ognuna delle quali è dedicata una parte ben distinta all’interno del testo.
Fin dalle pagine introduttive, volte a fornire non solo una breve disamina delle questioni che il saggio intende affrontare ma anche a illustrare i principali referenti metodologici utilizzati, Goyet si sofferma su quelli che, a suo avviso, costituiscono i due elementi fondamentali ai fini di un corretto approccio ermeneutico all’epopea: la relazione con la Storia e la fiducia nel testo. Sottolineando lo stretto – e articolato – rapporto che l’epopea intrattiene con la dimensione storico-politica a essa contemporanea, il volume entra volontariamente in rotta di collisione con la celebre tesi espressa da Lukàcs nella Teoria del romanzo (1920), dove, a partire da alcune considerazioni di Hegel, l’epopea è interpretata come il genere non-problematico per eccellenza. Secondo l’analisi lukacsiana – com’è noto –, l’epopea si fonda infatti sull’integrazione armonica del singolo all’interno del proprio contesto di riferimento, e ciò in opposizione al romanzo moderno, al contrario luogo dello scarto tra le aspirazioni dell’individuo e il mondo. Goyet riconduce invece l’epopea a un genere statutariamente fondato sulla rappresentazione di un conflitto, interpretandola come riflesso – e insieme risposta – di una crisi politica «où les valeurs qui avaient cours depuis toujours sont battues en brèche, où les solutions politiques classiques deviennent totalement inapplicables».
La rilevanza che la storia riveste nell’elaborazione dell’epopea giustifica certo l’abbondante ricorso che il saggio fa a riflessioni di carattere storico; del resto, Goyet non fa mistero di considerare l’importanza del contesto un elemento fondamentale per una corretta comprensione del genere. Tuttavia, l’interpretazione proposta non si limita a presupporre un rapporto di rispecchiamento tra testo e referenti extra-testuali ma ambisce a sviluppare, prima di tutto, un’analisi di tipo strettamente letterario. Al di là delle diverse questioni filologiche che, del tutto legittimamente, possono guidare l’approccio a queste opere, l’autrice valorizza prima di ogni altro aspetto la coerenza interna del testo, individuando nei suoi principali dispositivi retorici – personaggi, relazione tra le scene etc.– un sistema di senso del tutto autosufficiente. La comprensione della crisi riflessa dall’epopea è, in altre parole, resa possibile dai dispositivi stessi del récit, incaricato di restituire il disordine del mondo e, insieme, di proporre le soluzioni per risolverlo. Da questo punto di vista, un tratto tipico del genere come la moltiplicazione dei personaggi risponderebbe a una necessità di tipo strettamente politico, ovvero quella di rappresentare le varie alternative storiche perseguibili in risposta alla crisi che le epopee analizzate pongono al centro della rappresentazione.
Data l’assenza di altri strumenti concettuali, l’epopea risolve così una crisi politica contemporanea, altrimenti non risolvibile, mettendo a confronto soluzioni antagoniste che si incarnano concretamente nei personaggi. In questo modo, il conflitto tra valori diversi perde ogni consistenza astratta e si inscrive dinamicamente in un racconto, passaggio che permette al lettore una reale metabolizzazione intellettuale del discorso. È proprio il sistema di relazioni che si instaura tra i vari personaggi a occupare un ampio spazio all’interno dell’analisi proposta dal saggio. In particolare, la complessità del disordine tematizzata è restituita attraverso la tecnica del parallelismo, dispositivo che – tanto nell’Iliade quanto ne La Chanson de Roland – è a sua volta configurabile in due varianti, il parallelo-differenza e il parallelo-omologia. Più complesso il quadro che, secondo l’autrice, caratterizza invece le epopee giapponesi Hogen e Heiji monogatari, dove a fare da padrone è soprattutto lo strumento della juxtaposition.
In virtù di queste considerazioni, puntualmente sondate attraverso l’analisi dettagliata dei singoli testi presi in esame, il saggio indica nell’epopea non solo un dispositivo di riflessione sul presente ma anche un luogo testuale dove vengono elaborate soluzioni profondamente nuove. Per l’lliade, cui è dedicata la prima parte del volume, si tratta di affermare i valori della Cité in risposta al declino del sistema patriarcale: «on voit s'élaborer une nouvelle conception de la royauté, celle-là même qui s'affirmera dans les premières Cités, et qui est bien loin de celle qu'avaient connu Mycènes puis l'Âge Sombre d'où le monde grec est en train de sortir».Nella seconda parte, la Chanson de Roland è dal canto suo letta come «la réponse des contemporains au renouveau de la royauté au XIIe siècle». Per Hôgen e Heji monogatari, al centro della terza parte, è in gioco l’affermazione di una feudalità nuova, opposta a quattro secoli caratterizzati dal predominio della corte. L’analisi ravvicinata delle singole opere permette di notare come la soluzione politica elaborata dall’epopea sia, in fin dei conti, quella poi rivelatasi storicamente vincente. Tuttavia, ciò non equivale a vedere nei testi una pura espressione del contesto storico-culturale: lo dimostra, tra l’altro, l’elogio di personaggi che incarnano una posizione perdente – è il caso di Roland – o, viceversa, la morte di un personaggio che incarna i valori politici risultati poi trionfanti – è il caso di Ettore.
Una tale mobilità assiologica permette a Goyet di insistere sulla differenza tra racconto e riflessione, nella misura in cuil’epopea trae la sua forza cognitiva non dalla sua capacità di veicolare concetti astratti ma dal suo configurarsi come narrazione. In questo senso, l’epopea conserva certo un’immagine forte del passato ma contemporaneamente ambisce a costruire valori nuovi; o, per dirla altrimenti, proporre nuovi valori non impedisce di render testimonianza a un passato storicamente in procinto di essere sorpassato dalla Storia. Del resto, Goyet sottolinea come la struttura stessa dell’epopea sia fondata su due movimenti complementari e in parte contraddittori, messi in risalto nei singoli capitoli e poi riassunti nelle conclusioni. Innanzitutto, una tensione all’ordine perseguita attraverso tecniche diverse – su tutte la polarizzazione dei valori grazie al confronto tra due campi chiaramente antagonisti. Se questo sembra ricondurre l’epopea a quel genere aproblematico teorizzato da Lukàcs, il saggio sottolinea come il movimento di semplificazione rappresenti in realtà solo una prima componente presto oltrepassata in virtù di un ritorno alla tematizzazione della crisi.
Le caratteristiche fondamentali dell’epopea qui riassunte permettono ai singoli testi analizzati di trattare una materia storico-politica ben determinata ma rielaborandola in modo complesso e articolato. In questo senso, Goyet conclude la sua riflessione elevando la polifonia a condizione necessaria perché il genere sussista: «Il faut que l’épopée soit capable de développer chacune des positions comme si elle était absolument valide, […] pour que le choix qui s’impose entre les valeurs ne soit entaché d’aucun parti pris ni préjugé». Il riferimento alla polifonia rischia forse di schiacciare eccessivamente l’argomentazione dell’autrice verso la teoria di Bachtin, del resto evocata esplicitamente nelle conclusioni del volume. Se l’argomentazione proposta potrebbe facilmente sussistere anche prescindendo dalle celebri posizioni bachtiniane, resta fondamentale il riferimento all’epopea come testo non partigiano, ovvero come testo in cui la logica stessa della narrazione si presta a invalidare qualsiasi partito assunto aprioristicamente. Per la sua capacità di vedere nell’epopea un modello retorico articolato, il saggio lascia così spazio a nuove prospettive di ricerca, come, ad esempio, quella evocata dall’autrice stessa a proposito dell’Eneide.
di Iacopo Leoni
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Politiche dell’anti-utopia
Recensioni / Gennaio 2022Quando, dopo aver letto la quarta di copertina, ho accettato di recensire La pensée politique de l’anti-utopie di Anna Saignes (Honoré Champion, Paris 2021), intuivo mi sarei immerso in un bel libro. Non sapevo che fosse un saggio così attento alle buone regole dell’accademia, con tutti i pregi e, va da sé, i limiti del caso: la simmetria quasi perfetta nei e tra i capitoli, il gusto per l’approfondimento, la ricchezza e l’esattezza dei riferimenti bibliografici, ma insieme la costrizione, per apprezzare appieno il volume, a leggerne almeno altri sette-otto. Il tema, che dovrebbe interessare qualunque appassionato di letteratura e politica, è tutto nel titolo: il pensiero politico dell’anti-utopia, nel senso oggettivo e soprattutto soggettivo del genitivo.
L’autrice non si cimenta in un’aperta e distesa teorizzazione. Il che non le impedisce di formulare una tesi di fondo chiara e stimolante: l’utopia, che la vulgata vuole morta e sepolta sotto le macerie del muro di Berlino, sopravvive oggi sotto forma di distopia. Benché l’autrice preferisca non distinguere anti-utopia e distopia, è infatti della seconda che tratta. Mentre l’anti-utopia nasce dal rifiuto dell’utopia, come se ogni tentativo di approssimarsi al paradiso fosse destinato a generare un inferno, la distopia le è solidale, animata com’è da una critica radicale della società contemporanea. Con la differenza che, invece di descrivere un luogo felice ma inaccessibile nelle condizioni date, disegna un luogo cattivo, che estremizza alcuni tratti del presente, intollerabili e alla lunga insostenibili. Ecco il nucleo della distopia come soggetto del pensiero politico, un soggetto che l’autrice scandaglia con precisione.
C’è poi il pensiero politico che ha per oggetto la distopia o, meglio, il regime su cui questa forma letteraria si è originariamente plasmata: il totalitarismo. A tal riguardo, Saignes si affida agli studi classici di Hannah Arendt e specialmente di Claude Lefort, che nel totalitarismo non vedeva l’antitesi, bensì il rovescio della democrazia. Con quale conseguenza? Scorgerne il pericolo anche all’indomani del crollo dei regimi totalitari. Ma il totalitarismo è l’esito inevitabile della mentalità utopica? È l’utopia il nemico ultimo della democrazia? No. Per l’autrice, che qui fa sua la lezione di Miguel Abensour, una società è davvero totalitaria proprio se priva di qualsiasi immaginazione utopica.
Saignes fa emergere il pensiero politico in questione grazie a una lettura ravvicinata e incrociata di tre distopie recenti, celebrate ben al di là dei paesi d’origine (Polonia, Francia, Russia): Piccola apocalisse (1979) di Tadeusz Konwicki (tradotto da Pietro Marchesani per Feltrinelli nel 1981), Le particelle elementari (1998) di Michel Houellebecq (tradotto da Sergio Claudio Perroni per Bompiani nel 1999 e oggi disponibile per La nave di Teseo), e Le Slynx (2000) di Tat’jana N. Tolstaja (tradotto in francese da Christophe Glogowski per i tipi di Robert Laffont).
Dopo averne riassunto la trama nel prologo, Saignes dimostra nell’introduzione e nel primo capitolo come ciascuna delle narrazioni appena evocate si modelli su un ipotesto canonico. Konwicki si ispira a 1984 (1949) di George Orwell, Houellebecq a Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley, Tolstaja a Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury. Tutti libri collegati alla prima grande distopia antitotalitaria del Novecento, Noi (1924) di Evgenij Zamjatin, il quale, a sua volta, aveva alle spalle la leggenda del «Grande Inquisitore» raccontata da Fëdor Dostoevskij ne I fratelli Karamazov (1879). Ma i riferimenti letterari, lungi dal testimoniare un’evasione dalla realtà, sono strumentali a un parlare satirico di, a e attraverso realtà storiche determinate.
I problemi affrontati sono politici e lato sensu ambientali. Saignes dedica secondo e terzo capitolo ai due elementi che più profondamente hanno segnato l’immaginario distopico: la figura del tiranno e il momento della catastrofe. Piccola apocalisse e Le Slynx mettono in scena la quotidianità, grottesca e patetica, di burocrazie che faticano a sorvegliare e omologare masse sempre più attratte dalle sirene del consumismo, in un universo che si avvicina rapidamente alla fine oppure si allontana lentamente da un disastro nucleare. Le particelle elementari raccontano una società iniqua e ipercompetitiva, in cui la politica non conta più, schiacciata da una tecno-scienza in grado di clonare l’umanità intera. In tutti i casi, la libertà è messa a dura prova, soffocata, svuotata, svenduta.
Cionondimeno, forse anche nella sua versione più disperata (Houellebecq), la distopia non è un invito alla rassegnazione. Nel quarto e ultimo capitolo Saignes recupera la polemica di Georges Didi-Huberman (2009) contro Pier Paolo Pasolini, che nel 1975, in un famoso articolo sul «Corriere della Sera», aveva denunciato la «scomparsa delle lucciole» nelle città sovrailluminate dal neocapitalismo. Per gli studiosi francesi la speranza non è finita, vedere le lucciole è difficile ma non impossibile. Per ritrovare il buio, però, occorre immaginare il peggiore dei mondi possibili. Questa, almeno, è la scommessa della distopia.
di Giulio Azzolini
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Con Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020) Roberto Esposito porta avanti la riflessione per una filosofia politica affermativa che da tempo muove le sue pubblicazioni. La presa di distanza dalle filosofie che pensano le proprie categorie a partire dal loro rovescio negativo (l’amico a partire dal nemico, la vita a partire dalla morte) è esplicito in Politica e negazione (2018) ma rintracciabile fin da Communitas (1998). D’altra parte in Pensiero istituente si chiarisce anche il distacco dell’autore dalla parte della biopolitica e da quella filosofia affermativa che dimentichi di articolare in maniera produttiva la negatività e il conflitto come caratteristiche imprescindibili del politico. La novità del saggio è proprio la definizione di una terza posizione all’interno della quale Esposito stesso si colloca: egli la delinea tornando a Machiavelli ma soprattutto attraverso l’opera di un autore di cui fin qui poco si era occupato e che, almeno per quel che riguarda la recezione italiana, rientra ancora tra i minori, Claude Lefort. È alla sua posizione, definita appunto istituente, che si riferisce il titolo del nostro testo e che costituisce la proposta positiva di Esposito.
L’articolazione del libro in tre capitoli restituisce la partizione proposta dall’autore tra un paradigma destituente che fa capo alla tradizione heideggeriana, un paradigma costituente fatto risalire all’opera di Deleuze, e infine un pensiero istituente, neo-machiavelliano o conflittualista, lefortiano. Se l’ultimo paradigma è la pars costruens del discorso di Esposito, Heidegger e Deleuze rappresentano invece due tendenze, tra loro opposte ma ugualmente degenerative, che caratterizzano la crisi del pensiero politico contemporaneo. Ripercorrerne le elaborazioni è così un modo per prendere posizione rispetto al dibattito, italiano e non, che ad essi è debitore, si pensi per esempio ad Agamben o a Nancy per il primo ed a Negri e Hardt per il secondo.
Le tre posizioni si collocano all’interno di un orizzonte che Esposito definisce «ontologico politico post-fondazionale» e corrispondono ad altrettante declinazioni possibili del rapporto tra essere, politica e differenza. A caratterizzare questa impostazione sarebbe secondo l’autore la particolare consapevolezza della dipendenza reciproca di ontologia e politica: da una parte la presupposizione di concezioni sull’essere (sullo spazio, sul tempo, sull’uomo) implicita in ogni azione politica, dall’altra il fatto che l’elaborazione di posizioni ontologiche, a partire dalla decisione su ciò che deve o meno essere considerato politico, dipende a sua volta da opzioni politiche. È su questo piano comune che riposa la possibilità di un confronto tra autori che si sono occupati in maniera quanto mai difforme di politica, sia per quel che riguarda la teorizzazione che la sua pratica concreta. L’impressione però è che ad emergere in Pensiero istituente, anche rispetto ad altri interventi dello stesso Esposito più situati rispetto a questioni di politica contemporanea, sia piuttosto l’ontologia della politica che non la concreta esigenza politica di un’ontologia.
Il primo capitolo del saggio è dedicato al paradigma destituente cui fanno capo le filosofie che, pensando la politica a partire dal suo fondamento negativo, hanno come esito una delegittimazione dell’azione politica. In questa prospettiva che vede la politica rinchiusa all’interno dei propri confini mondani, e compromessa con la violenza e il potere che ne fanno parte, ogni tentativo di realizzazione storica di qualsivoglia idea di bene o di giustizia è destinato a fallire. La critica di Esposito al pensiero heideggeriano ed al paradigma che rappresenta è che, a fronte di affermazioni teoricamente rivoluzionarie, essi finiscano per essere praticamente inerti e spoliticizzanti (p. XIII).
Benché Esposito ne ripercorra quasi interamente l’opera, non è tanto l’Heidegger degli anni Trenta a rappresentare nella maniera più chiara questo paradigma. Qui, ancora, l’adesione al regime nazista si accompagna a un discorso positivo sulla messa in opera e quindi a una possibilità positiva di politica, benché Heidegger la immagini guidata dalla filosofia in un primo tempo (cfr. il Discorso del rettorato, 1933), e in seguito la concepisca in analogia alla creazione dell’opera d’arte, condotta da parte degli individui “più unici” in grado di dare unità simbolica e politica a un popolo (cfr. i corsi del 1934-35 su Hölderlin e L’origine dell’opera d’arte, 1935). È piuttosto dagli anni Quaranta che Heidegger comincia a maturare la sfiducia nei confronti dell’azione che andrà consolidando negli scritti del secondo dopoguerra. Già nel corso del ’42 su l’Ister di Hölderlin, Heidegger non pensa più la politica come un’opera da realizzare ma come un evento che emerge dalla polis (p. 46). Se però ancora nella polis una politica sembra possibile, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica l’azione politica non è in grado di sottrarsi alla sua razionalità: il passaggio dall’idea greca di una realtà operante alla concezione romana del reale come creato e dell’agire come causa efficiente fa sì che l’azione politica venga a far parte della stessa logica della tecnica e della macchinazione che vorrebbe contrastare (cfr. Scienza e meditazione, 1953). In questo contesto l’unica azione possibile è un lasciar essere, una revoca dell’azione e della volontà che in Heidegger si tinge di tinte poetico meditative (cfr. Gelassenheit, 1983).
Come già accennato, Heidegger non è l’unico autore ascritto al paradigma destituente. In Categorie dell’impolitico (1988), che si può dire si muova all’interno di questa prospettiva, Esposito si era rivolto tra gli altri a Weil, Broch, Bataille che anche in Pensiero istituente non manca di citare. Se la lezione di altri autori «destituenti» non porta a esiti così smaccatamente spoliticizzanti come quelli di Heidegger egli è però portatore dell’opinione condivisa sulla limitatezza, sulla non fondatezza dell’agire umano e sulla sua implicazione nella necessità del mondo. Come commenta Esposito seguendo Schürmann: «A venir meno, con la distruzione metafisica praticata da Heidegger, non è l’agire, ma la possibilità che questo continui a essere legittimato da un principio esterno. Ormai la praxis non è più fondabile da parte della theoria» (p. 65).
Un discorso specularmente inverso vale per il paradigma costituente rappresentato da Deleuze. La filosofia di Deleuze è definita costituente nel senso che essa pensa l’essere come una realtà creativa e produttiva di molteplicità. La critica di Esposito a questa posizione è che, per quanto non pacifica nel percorso di Deleuze, la coincidenza sempre più stretta di essere e differenza tenda a obliterarne la dimensione conflittuale, e il politico, che in questa dimensione si colloca, finisce per confondersi con il flusso del divenire perdendo rilievo specifico e forza critica. «Ciò che manca, in un’ontologia dell’immanenza assoluta, non è la trascendenza del potere, ma una teoria del conflitto politicamente articolata» (p. 115).
Anche in questo secondo capitolo Esposito ripercorre puntualmente l’evoluzione del pensiero di Deleuze. Secondo l’autore, in buona parte in consonanza con Žižek, il pensiero di Deleuze oscilla tra due ontologie divise dalla posizione di fronte al negativo. Ancora in Nietzsche e la filosofia il negativo viene inteso come il risultato dell’aggressività dell’affermarsi della differenza, dotato di una forza propria, e in Marcel Proust e i segni emerge come il segno di ciò che non è più, di ciò che è passato. A partire dagli anni ’60, con l’avvicinamento alle posizioni di Bergson, Deleuze tende invece a mettere da parte il negativo come falso problema. Nonostante qualche eccezione (cfr. per esempio Logica del senso, 1969), la sua ontologia si sposta interamente sul piano di immanenza cosicché l’essere stesso viene a coincidere con la differenza, ovvero con una realtà plurale e articolata in una molteplicità di organizzazioni (p. 107). Proprio quando, nella collaborazione con Guattari, l’interesse e il linguaggio di Deleuze si fa espressamente politico, la politica stessa finisce per perdere i confini del proprio ambito e viene a coincidere con il dispiegarsi del desiderio inteso come azione rivoluzionaria produttiva di realtà (p. 120). In questo contesto la critica al capitalismo che innerva i due volumi di Capitalismo e schizofrenia vede come unica azione politica possibile l’accelerazione degli stessi flussi di desiderio di cui il capitalismo è composto. La schizofrenia, la decodificazione di tali flussi e la dissoluzione degli ultimi vincoli che ancora li trattengono costituiscono l’unica strada per immaginare il superamento del capitale.
Nello stesso ordine di riflessioni si inseriscono, come già notato da Benjamin Noys (cfr. The Persistence of the Negative, 2010), autori come Lyotard e Baudrillard, ma Esposito vi fa convergere anche Negri e Hardt e per altro verso Vattimo. Il tratto che, pur nelle differenze specifiche, li accomuna è il tentativo di contrapporsi al capitale dall’interno, assecondandone la razionalità invece di contrastarla (p. 79). L’esito del paradigma costituente risulta simmetricamente opposto a quello heideggeriano, ovvero un pensiero dalla veste al contempo iperpolitica e spoliticizzante. Una nota a parte meritano invece due testi, Istinti e istituzioni (1955) e Empirismo e soggettività (1973), perché ci portano nella direzione che sarà propria del paradigma istituente. In questi testi, a partire dalla lettura di Hume, Deleuze interpreta l’istituzione come la zona d’incontro tra natura e cultura, ovvero tra il desiderio e la necessità di darvi una forma. Diversamente dalla lettura che ne è stata data dai francofortesi fino a Foucault, in questa prospettiva l’istituzione è l’affermazione di un modello possibile di soddisfazione degli istinti piuttosto che un dispositivo volto a frenarli, com’è invece la legge. Vedremo come ciò sia consonante con alcune posizioni lefortiane.
A queste ultime si rivolge il terzo e ultimo capitolo di Pensiero istituente. Lefort (1924-2010) è noto per essere stato fondatore insieme a Cornelius Castoriadis di Socialismo o Barbarie. Allievo di Merleua-Ponty, ne è stato anche esecutore testamentario curando e introducendo le edizioni di molti dei suoi testi, come Il visibile e l’invisibile (1964); L’institution. La passivité (2003); e Œuvres (2010). Questa matrice fenomenologica caratterizza fortemente il terzo paradigma delineato da Esposito. Qui l’istituire viene inteso come un processo di stabilizzazione dell’esperienza che si compie su un piano intersoggettivo: se da una parte l’istituzione consiste nelle azioni dei soggetti istituenti, essa ha allo stesso tempo una validità indipendente da ognuno di essi. In questo modo i singoli la tengono in vita modificandola, ma senza per questo crearla ex nihilo né tantomeno trovandola prederminata, ricevendola da altri e restituendola ad altri.
Ad istituire per Lefort è in primo luogo la politica, dove essa consiste nella messa in forma simbolica dei conflitti che dividono il sociale. Questa prospettiva, che segna anche il distacco da Marx, deve molto all’incontro con la letteratura etnografica e con Machiavelli (cfr. Le Travail de l'œuvre Machiavel, 1972). In particolare dal confronto con quest’ultimo, in parte anticipato nel Merleau-Ponty delle Note su Machiavelli (1949) e de Le avventure della dialettica (1955), si delineano due punti centrali dell’ontologia politica di Lefort: il simbolico come luogo del politico e l’ineluttabilità del conflitto. Come ribadisce Esposito «il potere ha a che fare più col discorso – cioè con la sua costruzione rappresentativa – che con i rapporti economici all’interno dei quali s’istituisce» (p. 178), in quanto sua immagine simbolica il politico eccede dal sociale e retroagisce su di esso. Se da una parte non si dà politica al di fuori della società su cui si esercita, infatti, d’altro canto anche la società non esiste propriamente come insieme riconoscibile prima di essere resa visibile tramite la sua rappresentazione politica (p. 169). D’altra parte, la comprensione del conflitto come dato ineluttabile delle società intende affermare che l’ordine politico è sì possibile ma sempre provvisorio, ovverosia che l’operazione di simbolizzazione e di messa in forma della società non è garantita dal suo fallimento proprio perché, se il politico non coincide col sociale, neppure il sociale coincide con se stesso. Ciò che distingue le diverse società è il modo in cui in esse il potere politico rappresenta il conflitto (p. 191). Da una parte, nelle cosiddette “società senza storia” o “stagnanti” la tendenza è quella a escludere e neutralizzare per quanto possibile il conflitto, con lo scopo di mantenere intatto un certo ordine. Diversamente, secondo Lefort, la democrazia moderna è l’unico sistema politico in grado di riconoscere e rappresentare l’essenza conflittuale della società (cfr. Sur la démocratie: le politique et l’institution du social, 1971). Attraverso le sue istituzioni volte non tanto a mantenere un certo potere quanto a salvaguardare la possibilità del suo passaggio di mano tra le parti in gioco, la democrazia dà forma a un potere vuoto, cioè infinitamente contendibile. Contraddicendo una valutazione comune ai più grandi pensatori politici novecenteschi, che intendono la modernità come un’epoca di spoliticizzazione, per Lefort la democrazia moderna è al contrario politica per eccellenza. Nell’istituzione democratica, infine, viene riconosciuto il risultato del ribaltamento dell’articolazione di diritto e potere messa in atto dalle rivoluzioni moderne, dove adesso è il diritto a fondare e a limitare il potere.
Anche in questo caso Lefort non è né il primo né l’unico ad aver tematizzato l’istituzione, egli ne condivide anzi il discorso con autori come Castoriadis, Ricoeur, ma anche Hariou e Santi Romano. In particolare attraverso quest’ultimo, cui Esposito dedica l’ultimo paragrafo del saggio, il discorso istituente viene aperto a una prospettiva che superi la dimensione statale. Romano riconosce l’istituzione anche nelle collettività organizzate alternative o addirittura competitive nei confronti dello Stato, facendo dell’istituire un processo in grado di accogliere le istanze mutevoli della società. Così anche per Esposito «tutt’altro che a un ordine consolidato di regole e leggi, l’istituire rimanda piuttosto a un compito – coincidente con quello della politica – destinato a mutare continuamente il quadro normativo entro cui agisce» (p. XIX).
di Anna Draghi
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Martha Nussbaum. La tradizione cosmopolita.
Recensioni / Aprile 2020Che si tratti di un incidente di percorso, o di un esito coerente con la nostra direzione di marcia, la crisi finisce sempre per rivelare qualcosa: quella che stiamo vivendo, se non altro, ci ricorda quanto siamo fragili, quanto precaria ed esposta alla fortuna sia la condizione umana. E invita anche tutti noi a meditare sulla necessità dell’altruismo, tanto su scala individuale quanto internazionale, al fine di tamponarne le conseguenze più funeste. Se quella che serve è allora una coscienza globale, indispensabile per fronteggiare questa come altre emergenze, non sarà forse inopportuno riflettere attentamente sul significato e le implicazioni di un simile allargamento di prospettiva. È quello che prova a fare Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, La tradizione cosmopolita. Un ideale nobile ma imperfetto, recentemente tradotto in italiano per le edizioni Bocconi, un saggio in cui alla complessità dei temi affrontati fa da contraltare il migliore stile anglosassone.
Partendo dai Greci, e nello specifico da quella straordinaria figura che fu Diogene il Cinico, il quale dichiarava di sentirsi cittadino del mondo intero, la filosofa ricostruisce una tradizione di pensiero che dall’antichità giunge fino a noi, e che nelle parole dei suoi protagonisti ha costantemente difeso il principio dell’eguale valore di ogni essere umano. Non si tratta però di ripercorrere passo dopo passo la storia di un concetto, con precisione filologica: a Nussbaum interessa piuttosto soffermarsi su alcuni autori particolarmente significativi per i problemi al centro della sua indagine, accogliendone gli spunti o prendendone invece congedo come si farebbe con dei contemporanei.
Si comincia con lo stoicismo, che eredita dai cinici l’idea secondo cui l’essere umano, indipendentemente dal rango sociale e dalle appartenenze politiche, sia in quanto tale meritevole di rispetto: la dignità, secondo questa tradizione, trascende ogni differenza e deriva dalla capacità di pensare e agire moralmente. Il possesso di beni esteriori non rappresenta affatto un discrimine rilevante, un motivo per giustificare un trattamento iniquo. Ecco l’egualitarismo stoico, che si traduce – l’autrice ha qui in mente soprattutto Cicerone – nel riconoscimento dei doveri di giustizia a cui ognuno di noi è chiamato, e che consistono fondamentalmente nell’astenersi da comportamenti lesivi dell’altrui libertà. Fin qui, spiega Nussbaum, il discorso stoico suona condivisibile, ma a ben vedere non ancora sufficiente: sconta infatti un antico pregiudizio, una visione dell’essere umano monolitica, che non gli consente di comprendere appieno la nostra sfera di responsabilità. Si tratta del convincimento secondo cui la dignità umana, inalienabile in ogni individuo, sarebbe al riparo dalle condizioni esterne, e quindi anche dalle privazioni materiali, giudicate del tutto indifferenti per una vita buona. Convincimento che a sua volta deriva dalla rigida separazione tra foro interno e mondo esterno, respinta dalla filosofa con ottimi argomenti: «La mente e lo spirito, infatti, sono parte di un organismo vivente che ha bisogno di cibo, di cure mediche e di altri beni materiali» (p. 16). Una rettifica quanto mai opportuna e tuttavia gravida di conseguenze, perché lo scarso valore tributato ai beni esteriori è proprio ciò che consente agli stoici di affermare l’universale dignità umana. Non esiste il rischio che, riabilitandoli, si finisca anche per negare dignità a coloro che di quei beni non dispongono? No, spiega Nussbaum, il riconoscimento che la vita umana necessiti di beni esteriori per fiorire davvero, invece di favorire sperequazioni e degradazioni, presuppone al contrario un impegno maggiore nei confronti degli altri, affinché ciascun essere umano abbia la possibilità di condurre un’esistenza ricca di significato. Per un verso la dignità è allora inalienabile, e come affermano gli stoici appartiene all’individuo in quanto tale, ma per un altro verso è responsabilità nostra e della comunità alla quale apparteniamo contribuire a farla risplendere, dando a ciascuno i mezzi per esprimerla appieno. Questo comporta che i doveri di aiuto materiale siano importanti tanto quanto quelli di giustizia, e che agire moralmente non significhi semplicemente astenersi dal commettere azioni malvagie, ma anche attivarsi in modo concreto per il benessere altrui. Con le sue parole: «Esiste un livello minimo di beni esteriori di cui è giusto preoccuparsi, sia pure strumentalmente, poiché la sua mancanza impedisce a un essere umano di vivere una vita decorosa, all’altezza della dignità umana, così come glielo impedisce la mancanza di libertà politica, di istruzione, di legami associativi e di reciproco rispetto con i propri concittadini» (p. 69). Gli stoici, che pur furono anche riformatori sociali, secondo Nussbaum non si sarebbero mai spinti a tanto: con l’eccezione forse di Cicerone, indiscutibile protagonista della prima parte del libro, che ammorbidisce il rigorismo morale affermando l’importanza dei rapporti umani e in generale dei beni di fortuna per la conduzione di una vita felice.
A questo punto, bisogna però sottolineare come le implicazioni del discorso non chiamino in causa la sola dimensione individuale, bensì anche quella internazionale, come non deve sorprendere vista la prospettiva cosmopolitica della tradizione, secondo la quale tutti gli esseri umani farebbero già parte di un ordine morale universale. Dovremmo sentirci obbligati nei confronti dei popoli diversi dal nostro, e fino a che punto? Una delle domande centrali del saggio, alla quale l’autrice risponde con un energico sì. Cicerone, per altri versi un modello da seguire, da questo punto di vista non sembra più un interlocutore affidabile, dal momento che ripropone a livello internazionale la distinzione tra doveri di giustizia e di aiuto materiale, sostenendo che nelle relazioni tra stati non si dovrebbe pretendere altro che il rispetto dei primi. Occorre allora richiamarsi ad altri autori, per elaborare una teoria della giustizia globale più comprensiva, ed è proprio quello che l’autrice intende fare rivolgendosi a pensatori come Ugo Grozio e Adam Smith.
Il giurista olandese ha il grande merito di traghettare la tradizione stoica nel mondo moderno, calando la prospettiva cosmopolitica nell’orizzonte della statualità. Ecco allora che la concezione groziana del diritto internazionale, incentrata sul riconoscimento di una legge naturale a fondamento della politica, può rivelarsi di grande ispirazione per Nussbaum, insieme alla sua difesa del principio di sovranità. Il tentativo di conciliare i due aspetti, bisogna ammetterlo, finisce inevitabilmente per alimentare tensioni. Se è vero infatti che la ragione impone al potere politico di rispettare l’umanità, secondo Grozio questo non deve neanche diventare un pretesto per ingerirsi in modo sistematico nelle vicende degli altri stati. Difficile però stabilire un criterio univoco, una regola generale per disciplinare l’intervento umanitario, che viene giustificato solo come extrema ratio. Come viene spiegato, «il mondo delineato da Grozio è quindi tutt’altro che semplice. Pur prevedendo un’evoluzione del diritto internazionale, egli prefigura un mondo in cui continuano a esistere anche norme morali vincolanti ma non sancite dal diritto positivo, a meno che questa o quella nazione non le trasformi in leggi» (p. 98). La speranza è allora che le sovranità esistenti traducano sul piano legislativo i comandi della ragione, e che nel frattempo la comunità internazionale si impegni a intervenire nelle vicende degli altri stati solo di fronte a intollerabili crimini contro l’umanità. Oltre a questo, un altro fondamentale contributo del giurista, che in questo innova rispetto alla posizione di Cicerone, va ricercato nella concezione groziana dei beni comuni, ovvero dei doveri di aiuto materiale su scala internazionale, una dimensione del suo pensiero spesso trascurata. Pur senza prefigurare meccanismi o istituti precisi, Grozio avrebbe infatti sostenuto l’imperativo dei paesi ricchi di venire in aiuto dei popoli in difficoltà, spingendosi ad affermare qualcosa di rivoluzionario, ovvero che la condizione d’indigenza, lo stato di necessità che attanaglia i poveri, darebbe loro pieno diritto alle risorse di cui non dispongono, e che anzi ne sarebbero loro i legittimi proprietari.
Sull’importanza dei beni materiali, questa volta nell’ambito di una riflessione più generale sullo sviluppo della personalità umana, Nussbaum analizza poi la posizione di Adam Smith. Nelle pagine del saggio, il filosofo scozzese smette i panni del liberista appassionato e si scopre teorico della giustizia redistributiva. Il riferimento non va alla Teoria dei sentimenti morali, come ci si potrebbe attendere, giudicata dalla filosofa ancora troppo debitrice del rigorismo stoico, ma proprio alla Ricchezza delle nazioni, il classico dell’economia politica, dove Smith riabilita la dimensione pratica dell’esistenza, emancipandola dal disprezzo che una lunga tradizione le aveva riservato. Sensibile alle rivendicazioni dei lavoratori contro le iniquità, egli auspica che lo stato garantisca a tutti un’istruzione minima, affinché le capacità innate presenti in ogni essere umano non deperiscano. Pur senza auspicare stravolgimenti, ecco forse perché l’autrice lo preferisce a un pensatore come Marx, il filosofo scozzese ci ricorda che «la dignità umana non è simile a una roccia, ma è semmai una tenera pianta che in condizioni inclementi appassirà» (p. 136), e che la collettività ha il dovere d’intervenire a favore degli svantaggiati.
Nussbaum prosegue l’itinerario giungendo all’epoca dell’interconnessione globale, dove il cosmopolitismo diviene per ragioni strutturali una prospettiva non solo attraente ma anche necessaria. Bisogna recuperare la tradizione mettendola a confronto con le sfide del presente, nella direzione di un «liberalismo politico globale materialista, basato sulle nozioni di capacità e di funzionamento dell’uomo» (p. 195). Le proposte avanzate dalla filosofa sono molteplici, e appaiono in linea con la sua produzione teorica precedente, come quando – emancipandosi dall’antropocentrismo stoico – afferma l’esigenza di estendere il riconoscimento della dignità a tutti i senzienti. O come quando, arricchendo la lista delle capacità umane che a suo giudizio dovrebbero essere garantite universalmente, confida che sia possibile trovare un consenso per intersezione con qualsiasi cultura. A ogni modo, le pagine più interessanti dell’ultimo lavoro concernono la società internazionale. Considerati i deficit delle organizzazioni sorte in seguito al secondo conflitto mondiale, lungi dall’autrice prospettare soluzioni radicali come la costituzione di un governo planetario, del tutto irrealistico, o auspicare nel breve periodo che i diritti umani vengano riconosciuti e garantiti ovunque allo stesso modo. «La società internazionale rimane soprattutto un ambito di persuasione morale, e solo in rari casi diventa una vera e propria sfera politica. Ma ciò non significa che il processo di creazione e ratifica dei documenti sia inutile: esso genera un senso di solidarietà e di finalità comune, creando le premesse per l’emergere di potenti movimenti transnazionali capaci di influenzare le politiche nazionali» (p. 195). Senza impegnarsi in progetti irrealistici dal punto di vista istituzionale, Nussbaum intende riattualizzare il cosmopolitismo stoico, provando a conciliarlo con il principio della sovranità nazionale. Una prospettiva equilibrata, si direbbe, che ricorda quella di Grozio. Leggendo tra le righe, si viene però a scoprire che è solo la sovranità democratica a meritare considerazione morale, sebbene l’autrice eviti di esplicitarne le conseguenze. Ove si verifichino violazioni dei diritti umani, si deve quindi ritenere legittimo l’intervento umanitario? Nei casi estremi, sembrerebbe di sì. Ma non è affatto chiaro quali soggetti istituzionali dovrebbero farsene carico, se le sole organizzazioni internazionali, che però non sembrano godere dell’autonomia necessaria, o addirittura ogni stato moralmente ispirato. Fatta eccezione per il primo interrogativo, l’autrice non fornisce le doverose spiegazioni, preferendo rimanere sul piano dei principi: inutile rilevare che si tratta però di questioni ineludibili, impossibili da accantonare, e che rappresentano il banco di prova di ogni cosmopolitismo davvero conseguente.
Sulla scorta di Grozio e Smith, Nussbaum insiste poi sulla necessità dell’aiuto materiale alle nazioni sottosviluppate. Ma anche in questo caso, sebbene le dichiarazioni di principio siano più che condivisibili, a colpire è soprattutto l’afflato normativo. Da notare per inciso come l’autrice rifugga da ogni analisi vagamente strutturale del sistema economico mondiale: la prospettiva rimane individualista, incentrata sulla distinzione manichea tra paesi ricchi, i quali avrebbero il dovere morale di condividere parte delle loro risorse, e paesi poveri, bisognosi del soccorso internazionale. Per quanto animato dalle migliori intenzioni, il suo monito presenta almeno due problemi. Da un punto di vista geopolitico, è chiaro che dietro agli aiuti economici si celano molto spesso i disegni imperiali delle grandi potenze, le uniche peraltro a poter elargire risorse significative in mancanza di istituzioni internazionali indipendenti a livello finanziario: la generosità ha valore in quanto tale, certo, ma rappresenta anche una forma particolarmente subdola di esercizio del potere. Nussbaum questo lo sa bene, ma tale consapevolezza non mette capo a una seria problematizzazione degli aiuti all’estero, di cui la filosofa si limita a sostenere l’assoluta necessità morale.[1] Inoltre, per venire al secondo punto, non sembra che la proposta di Nussbaum riesca davvero a emanciparsi dall’accusa di paternalismo, nonostante i molteplici tentativi profusi in tal senso. Ammesso infatti che i paesi ricchi abbiano il dovere d’intervenire a favore di una maggiore eguaglianza planetaria, e che riescano a farlo in modo equamente distribuito, che cosa dovrebbero fare nel frattempo quelli poveri? L’interrogativo è di quelli cruciali, considerando che il saggio ha rivendicato a chiare lettere il diritto universale a un’esistenza dignitosa. Al quietismo, obiettivamente inaccettabile, sembrano profilarsi tre alternative fondamentali. La prima alternativa è rappresentata dalla migrazione economica verso le aree del pianeta più sviluppate, una possibilità che Nussbaum ritiene vada garantita, ed entro certi limiti anche implementata, ma pur sempre nel rispetto delle sovranità nazionali dei paesi ospitanti, che legittimamente pretendono di governare i flussi: il bilanciamento tra accoglienza e protezione, maggiore o minore inclusività delle politiche migratorie, viene quindi rimesso ai singoli governi. Un altro scenario è rappresentato dalla ripresa del conflitto – variamente inteso, anche in senso bellico – contro i paesi ricchi sfruttatori di risorse, uno scenario che però l’autrice neanche prende in considerazione, non fosse altro che per le evidenti difficoltà a ricomprenderlo in una visione morale della politica. Infine, rimane pur sempre aperta la via tracciata dagli stoici, i quali raccomandavano il distacco e l’indifferenza nei confronti dei beni materiali come viatico per la serenità dell’animo: una possibilità che Nussbaum come abbiamo visto rifiuta a livello individuale, e tanto più a livello collettivo. Alle nazioni povere non resta dunque che continuare a fare quello che hanno sempre fatto, tentare cioè di sopravvivere alle dure regole del mercato mondiale varando riforme in grado di stimolare la crescita economica, nella speranza che la comunità internazionale, a cui nello specifico Nussbaum indirizza il suo messaggio, intervenga con politiche di solidarietà.
Che cosa dire, in conclusione? Stimolante per i temi affrontati, indubbiamente di grande attualità, oltre che per l’originale rilettura di Cicerone, Grozio e Smith, il saggio di Nussbaum apre forse più questioni di quante non riesca a risolverne. Se alcune tesi di fondo risultano convincenti, come l’equiparazione tra doveri di giustizia e doveri di aiuto materiale, o il superamento dell’orizzonte antropocentrico nella direzione di un riconoscimento trasversale della dignità, la sua proposta normativa sconta però tutti i limiti della teoria morale, in un certo senso inevitabili. Senza prospettare una futura Cosmopolis, Nussbaum non auspica neanche un ritorno unilaterale alle sovranità nazionali: in quella terra di nessuno, in effetti la sola terra a nostra disposizione, esitiamo tuttavia ad affidarci alla sua bussola.
Note
[1] «Chi sostiene queste tesi è sicuramente ispirato dalle migliori intenzioni, ma rischia di limitarsi a una esibizione di scrupoli morali. Ciò che questi autori sembrano ignorare è che le società moderne sono caratterizzate da una netta differenziazione funzionale fra il codice politico e il codice delle interazioni personali» Zolo D., (1995). Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale. Milano: Feltrinelli, p. 92.
di Michele Gimondo
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Mariana Mazzucato – Lo stato innovatore
Recensioni / Aprile 2016Con il libro Lo Stato Innovatore (Laterza, 2014) Mariana Mazzucato ha rotto il silenzio che pervadeva nell’accademia e tra l’opinione pubblica europea circa il ruolo dello Stato in una moderna economia di libero mercato. Il libro ha avuto un’ampia diffusione, soprattutto in Italia e nel Regno Unito, dove Mazzucato insegna Economia dell’innovazione. Se ne è molto dibattuto, perché la tesi centrale dell’autrice è in radicale opposizione sia con le teorie economiche correnti sia con l’atteggiamento della politica europea degli ultimi trent’anni: secondo l’autrice lo Stato dovrebbe intervenire di più e meglio nel sistema economico. Esperta di innovazione tecnologica e del rapporto di quest’ultima con la crescita economica e il tessuto produttivo, Mazzucato sostiene due posizioni fondamentali: la prima è che il contributo attivo dello Stato nel creare innovazione tecnologica è largamente sottostimato e taciuto; la seconda è che il settore privato non è in grado di produrre da solo l’innovazione necessaria per garantire crescita economica e risposte ai più urgenti problemi globali (in primis la crisi ambientale).
Mazzucato ha un curriculum di eccezione da economista eterodossa. Ha ottenuto il dottorato alla New School for Social Research, prestigiosa università americana considerata fra le più progressiste d’oltreoceano. Effettivamente i riferimenti teorici del libro sono esplicitamente eterodossi: John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter, Karl Paul Polanyi e Hyman Minsky sono tra i nomi che l’autrice evoca per fondare le argomentazioni di policy del libro su solide basi teoriche. L’argomento più convincente in favore del necessario intervento statale per promuovere e realizzare l’innovazione scientifica e tecnologica sarebbe la differenza tra i concetti di rischio e di incertezza, sottolineata dall’economista americano Frank Hyneman Knight negli anni Venti del secolo scorso. Il primo caratterizza la condizione di indeterminatezza rispetto a una serie di eventi che potrebbero verificarsi. Prendiamo per esempio il classico lancio della monetina. Non si può sapere prima del lancio quale sarà il risultato, ma si può calcolare con precisione la distribuzione probabilistica dei due eventi possibili. Da ciò risulta che il rischio è quantificabile e in effetti i moderni mercati finanziari si basano sostanzialmente sulla misurazione del rischio e della sua “commodificazione” sotto forma di assicurazioni, contratti derivati e altri tipi di strumenti economici. L’incertezza invece è la completa incapacità di prevedere un evento futuro, proprio come nel caso di uno scienziato che conduce un esperimento per scoprire una nuova tecnologia. Secondo Mazzucato l’innovazione si basa sul concetto di incertezza ed è per questo che il settore privato – aziende e venture capitalist, cioè quegli investitori specializzati nel finanziare progetti innovativi e altamente rischiosi – dimostra di non avere gli incentivi giusti e quel “capitale paziente” che permetterebbe all’innovazione di fiorire.
Secondo l’autrice le più grandi multinazionali rispondono alla deregolamentazione dei mercati finanziari reinvestendo i loro profitti nel riacquisto delle proprie azioni anziché promuovere il comparto di ricerca e sviluppo (R&S) o proporre progetti innovativi. I fondi di venture capital invece guadagnano dalla vendita di quote di società altamente innovative sui mercati azionari, il loro scopo non è certamente attendere di rientrare dell’investimento attraverso il normale flusso di ricavi che il nuovo prodotto garantirebbe. L’orizzonte temporale dei fondi di venture capital non supera i cinque anni, un problema fondamentale se si considera che possono essere necessari anche diversi decenni per commercializzare i risultati di ricerche scientifiche innovative. Per far entrare lo Stato sulla scena, Mazzucato sfata un mito resistente nella teoria economica: il concetto di fallimento del mercato. Questo non rappresenta né l’unica né la più importante ragione del perché lo Stato debba farsi protagonista attivo dei complessi processi dell’innovazione. La teoria sostiene che il mercato dovrebbe essere lasciato libero di autoregolarsi tranne in casi eccezionali, nei quali l’ammontare del bene fornito dal mercato è inferiore all’ammontare ottimale (da qui il fallimento). Per quanto riguarda l’innovazione, però, lo Stato è l’unica istituzione in grado di assumere l’incertezza e di guidare i processi innovativi con un mix di politiche e investimenti mirati. Quel che è chiaro è che lo Stato non dovrebbe semplicemente limitarsi a creare le condizioni migliori affinché siano i privati a condurre i processi di innovazione tecnologica e industriale, ma dovrebbe invece svolgere un attivo ruolo di coordinamento, di finanziamento e di promozione attraverso agenzie pubbliche, centri di ricerca e partnership con il settore privato.
Nei capitoli centrali del libro, Mazzucato passa in rassegna numerosi esempi storici che dimostrano il ruolo attivo dello Stato nei processi di innovazione. Il suo caso studio più eclatante sono gli Stati Uniti. Qui, molti dei programmi pubblici che finanziarono ricerca di base e applicata nei settori delle biotecnologie e dei farmaci furono approvati dall’amministrazione conservatrice di Ronald Reagan negli anni Ottanta. A tal proposito l’autrice ricorda l’apparente conflitto tra i sostenitori delle politiche interventiste di Alexander Hamilton (1755-1804) e quelli delle politiche del laissez-faire di Thomas Jefferson (1743-1826). Negli Stati Uniti, la posizione ufficiale è sempre stata jeffersoniana mentre la politica economica – adottata silenziosamente – decisamente hamiltoniana. Già nel 1958 il governo creò un ufficio governativo all’avanguardia nella promozione dello sviluppo tecnologico per la difesa nazionale (Darpa). Le caratteristiche del Darpa erano: autonomia dal governo, ingenti finanziamenti e capacità di attrarre le menti più brillanti del paese. Senza il Darpa alcune tra le più importanti innovazioni in campo informatico (per esempio internet) non sarebbero state possibili.
Per spiegare il ruolo decisivo avuto dallo Stato nel potenziare innovazione tecnologica e permettere lo sviluppo di nuovi prodotti, Mazzucato dedica un intero capitolo ad Apple, l’azienda del popolarissimo Steve Jobs. Creata in un garage con pochissimi mezzi e tanto spirito imprenditoriale, Apple rappresenta nell’immaginario comune l’impresa di successo che ha rivoluzionato i mercati con prodotti tecnologicamente all’avanguardia. Peccato che, secondo Mazzucato, Jobs e compagni non sarebbero andati da nessuna parte senza le invenzioni finanziate dal governo americano. Internet, GPS, schermi tattili e le più moderne tecnologie di comunicazione sono state tutte inventate grazie allo Stato e poi utilizzate da Apple. Il segreto del successo dell’azienda di Cupertino starebbe nella capacità di integrare innovazione preesistenti e nella cura del rapporto utente-supporto informatico.
In sostanza la tesi di Mazzucato è che lo Stato debba essere considerato un partner del settore privato nei processi di innovazione tecnologica e non un semplice facilitatore. Al contrario del privato, lo Stato può assumere l’incertezza e coordinare i processi virtuosi che portano le economie capitaliste a crescere. L’autrice condanna le recenti tendenze delle grandi imprese farmaceutiche e high-tech alla socializzazione del rischio – cioè lo sfruttamento della ricerca finanziata dallo Stato – per poi privatizzare i profitti, non remunerando adeguatamente i lavoratori o cercando di eludere il fisco. La ricetta di Mazzucato è riassumibile in un concetto espresso nella parte finale del libro: «quando la distribuzione dei proventi finanziari del processo di innovazione riflette la distribuzione dei contributi al processo stesso, allora l’innovazione tende a ridurre la diseguaglianza». Questa è però anche la debolezza della tesi esposta nel libro: manca un’analisi approfondita delle complesse dinamiche economiche che caratterizzano le moderne economie globali. Un ruolo diverso dello Stato nei processi di innovazione sarebbe il grimaldello per invertire la tendenziale stagnazione delle economie occidentali e per risolvere il problema della riconversione industriale. Troppi elementi vengono ricondotti all’interno del discorso dell’economia dell’innovazione; per esempio il problema delle diseguaglianze crescenti difficilmente può essere affrontato entro tale cornice teorica.
Infine sembra mancare un’indagine dei processi politici che guidano lo Stato. Chi è lo Stato innovatore e come si forma? Quali sono gli incentivi necessari per mettere in moto i virtuosi meccanismi dell’innovazione coordinati dallo Stato? Su questo punto il testo di Mazzucato è deficitario, cosa che, tra l’altro, rende il suo punto di vista facilmente attaccabile: chiedere più Stato affidandosi vagamente a una leadership più forte o a una capacità di visione maggiore rischia di produrre solamente corruzione e sprechi.
di Alberto Fierro
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Quando Karl Marx si interrogò sul ruolo che la legge occupava nelle dinamiche della società moderna, scelse di risolverlo, come ben noto, negandole qualsiasi specifica autonomia: il diritto – come d’altronde la religione, la filosofia e la politica – non sarebbero nient’altro che il riflesso passivo, ossia una sovrastruttura, di quella concreta base economica che ben più attivamente si agita nel cuore della società. L’antica tradizione ebraica, di certo non sconosciuta allo stesso Marx, insegnava invece che la legge è stata data agli uomini perché questi la custodissero e la salvaguardassero dall’oblio, rendendo così tanto il Testo quanto la Voce dei suoi interpreti il suo sigillo imperituro. Chiunque osservi il funzionamento della società attuale, delle sue regole e dei suoi vincoli, dei suoi flussi e dei suoi varchi, può domandarsi se queste note affermazioni mantengano ancora qualcosa delle proprie antiche verità. Nella recente pubblicazione di Pier Giuseppe Monateri tali stringenti interrogativi si uniscono a un’analisi inedita e originale, in cui attraverso un approccio comparatistico si indaga sull’origine del fenomeno giuridico nella tradizione Occidentale e sugli effetti che le memorie normative suscitano negli attuali processi economici e produttivi.
Innegabilmente, vi fu un tempo nella storia del pensiero giuridico in cui la riflessione sulla norma non era soltanto oggetto di un pensiero tecnicistico o economicistico, ma al contrario interrogazione profonda sui meccanismi che governavano l’umano, il divino e lo spazio politico. Nel nuovo ordine mondiale, tuttavia, sembra che la scienza giuridica stia attraversando un processo di inesorabile declino, un lento tramonto che si acuisce vieppiù a causa della crescente predominanza di discipline “altre”, quali l’economia e la finanza, che nella loro costante rincorsa verso un nuovo paradigma di pensiero paiono sbarazzarsi con fermezza di qualsiasi scrupolo culturale.
Pier Giuseppe Monateri affronta criticamente la perdita di considerazione del fenomeno giuridico, compiendo una nuova e accurata riflessione genealogica sul medesimo, la quale si dimostra – proprio alla luce dell’attuale contesto neoliberista – emblematicamente necessaria. La tesi principale sostenuta dall’Autore è che in un mondo tendente ovunque all’uniformità politica ed economica, la legge persiste a differenziare e a contrassegnare i diversi corpi politici, formalizzandosi in un elemento di caratterizzazione che se a prima vista appare assente o mancante, si rivela in realtà quale matrice storica delle istituzioni occidentali. La legge, così prosegue l’Autore, possiede una riserva di senso più profonda della politica stessa e la prova di ciò consiste nel fatto che se nell’attuale crisi globale la sovranità appare disperdersi e la politica neutralizzarsi, proprio il fenomeno normativo mantiene al contrario la propria incatturabile identità, che si dispiega così nei luoghi, negli stili e nelle forme politiche dell’Occidente.
Sintetizzando brevemente l’ampia analisi sviluppata nel testo, è oramai constatazione abituale suddividere i sistemi giuridici mondiali in due distinte famiglie: da un lato la tradizione giuridica di common law, diffusa soprattutto nei paesi anglosassoni, dall’altro quella di civil law, tipica al contrario della tradizione giuridica continentale di scuola romanista (Francia, Germania, Italia, Spagna).
Tale suddivisione – se interpretata nella particolare ottica efficientistica propugnata dal sistema WTO-FMI-Banca Mondiale – diviene immediatamente un fattore problematico. L’armonia potenzialmente “irenica” di una sola regola juris, paradiso in terra per la massimizzazione delle transazioni commerciali, è infatti bruscamente osteggiata proprio dalla persistenza di diverse culture giuridiche, di differenti (e antitetici) modi di statuizione delle regole, e – cosa che maggiormente interessa – di diversi linguaggi normativi nell’amministrazione della giustizia. Nei Diktat degli organismi internazionali, tuttavia, il diritto non può permettersi di essere vario: esso deve farsi uniforme.
Fu così, come illustra Pier Giuseppe Monateri, che si diede avvio a un’aspra lotta culturale, tutt’oggi in pieno svolgimento, testimoniata da alcuni rapporti emessi dalla Banca Mondiale nel 2004 e nel 2005. Tali report sancirono definitivamente l’inefficienza dei sistemi giuridici di origine romanista rispetto agli opposti modelli giuridici di common law, in ciò coadiuvati anche da quel movimento internazionalmente noto come Law and Finance, a sua volta propugnatore della diffusione del tipo anglosassone a discapito di quelli “rivali”.
Chiaramente, proprio sul punto della pretesa superiorità di una tradizione rispetto a un’altra tali correnti di pensiero mostrano vistosamente la più chiara debolezza. Ciò non soltanto in un’ottica – come si diceva – culturale, ma prim’ancora in una di tipo storico-narrativo.
Il percorso logico che Pier Giuseppe Monateri individua si giova, così, tanto della riflessione politica classica quanto di uno spiccato approccio letterario, teso alla critica delle procedura di sponsorizzazione delle regole giuridiche. Se infatti la globalizzazione ha come fine il dissolvimento puro e totale dei corpi politici con il preciso obiettivo di realizzare uno spazio politico liscio, privo di resistenze e dagli effetti sconfinati, occorre, come necessaria forma di critica, evidenziare proprio quelle differenze, quelle singolarità e quegli scarti che persistono nell’esistenza attuale di ciascuna tradizione normativa. Ciò diviene tanto più essenziale se si considera l’importanza di una decostruzione delle rappresentazioni offerte dalla Banca Mondiale, dal FMI e dal WTO, che sulla base di indagini genealogiche finalisticamente orientate operano per imporre un solo linguaggio globale.
Come sottolinea Pier Giuseppe Monateri, da questo passaggio emerge in realtà la vera “ragione” del contendere: essa non risulta più semplicemente la questione di quale tipo di regola giuridica da utilizzare, o di quale sistema di giustizia imbastire. La vera questione diviene quella sulla natura duale o unitaria dell’Occidente, ossia sul problema dell’esistenza o meno di due diversi modelli di società (come si ricordava, quello di civil law e quello di common law), e quindi anche di quale dei due rendere concretamente operativo su scala internazionale. Proprio attraverso questo varco, l’indagine dell’Autore da giuridica si fa geopolitica e ha il pregio di sviluppare una ricostruzione spaziale dei meccanismi di origine del politico tanto in Europa, quanto nel continente americano.
Certo, nella suesposta presa di posizione del WTO, ciò che emerge è la polemica concreta verso ogni forma di socialismo e di sovranità statale, oramai ampiamente messa in scena attraverso innumerevoli strategie. Secondo questa vulgata, il diritto continentale (in primis quello francese e quello dei suoi più stretti imitatori europei) viene considerato storicamente statalista, pertanto inadatto a garantire le flessibilità normative spesso richieste dai grandi investitori globali. Inoltre, la burocratizzazione della magistratura continentale – considerata completamente sottomessa agli ordini dello stato centrale –garantisce ancora diritti e privilegi che si oppongono strutturalmente all’operare dei mercati finanziari. Tuttavia, ciò che in realtà tali organismi sovranazionali mirano ad attaccare è proprio il politico nelle sue forme di manifestazione istituzionali; un attacco che viene condotto, per di più, attraverso la pretesa ricostruzione storica delle origini della legge.
In questo senso, diviene dunque fondamentale condurre un nuovo tipo di esame che si giovi anche degli strumenti della critica letteraria, della filosofia politica e della storia delle tradizioni giuridiche. In accordo con ciò, la nozione che nel saggio viene precisamente individuata è quella, giuridico-letteraria, di “stile” della tradizione. Lo stile, secondo la ricostruzione di Pier Giuseppe Monateri, non attiene ai fronzoli della scrittura, o alla sua composizione manieristica. Esso non indica nemmeno un semplice giudizio di gusto sulla bellezza o sulla piacevolezza di un determinata scrittura. Lo stile è in realtà una vera e propria ontologia che differenzia ciascun corpo politico nella sua rispettiva esistenza storica, marcando quindi lo spazio sconfinato neoliberale con precise striature che distinguono, interrompono e oppongono gli stati nazione. I diversi stili della legge e della giustizia sono, così, gli elementi pregnanti per una geopolitica del diritto in cui lo “spazio” diviene quella soglia attraverso cui la legge ottiene una determinata visibilità.
A primo avviso, ciò potrebbe sembrare assai distante dagli scopi del diritto comparato, inteso quale disciplina finalizzata esclusivamente a evidenziare le differenze dei molteplici sistemi giuridici e le rispettive regole operative. Eppure, ogni problema di diritto comparato è anche, in ultima istanza, un problema che investe il politico e la sua identità. Cos’è allora, oggi, il diritto comparato? In Europa, come si accennava, esso è un mezzo per realizzare un diritto unico (esemplarmente, il codice europeo); nell’esperienza statunitense è invece lo strumento che consente di creare ranking tra le diverse tradizioni giuridiche, le quali divengono così dei veri e propri “oggetti” forniti di indici e valori numerici. In breve, attraverso un certo uso della disciplina, si staglia netto il pericolo di una tentazione riduzionistica, che considera il complesso corpus politico e istituzionale di una nazione alla pari di un indice aritmetico incasellato in una classifica, passibile quindi di essere sostituito, cancellato e modificato senza particolari problematiche.
È su questo piano politico-giuridico che insiste, con rigore, l’opera di Pier Giuseppe Monateri. La nuova funzione che egli individua, infatti, è proprio quella del diritto comparato inteso appunto quale disciplina volta allo studio delle differenze e alla comprensione degli spazi nomici. Forse, è proprio attraverso tale passaggio che è possibile rilevare il vero paradosso della classificazione economicistica voluta dai grandi organismi sovranazionali: nonostante la preminenza dei modelli matematici e dei loro calcoli marginali, la legge continua a occupare il centro degli interessi economici odierni. L’idea che domina tali pratiche è che le riforme e il progresso siano possibili, dopotutto, soltanto attraverso riforme giuridiche. In questo senso, è allora il governo della legge, inteso come cattura del mezzo giuridico, a interessare alle grandi organizzazioni, e a spingerle così a scontrarsi e a imbastire narrazioni che mostrano, qualora accuratamente analizzate, il proprio fine affabulatorio. L'importante giurista statunitense Robert Cover scrive nell'articolo intitolato Nomos and Narrative (in “Harvard Law Review”, 97, 1983) che noi abitiamo una legge, un nòmos, e questo nòmos occupa sempre uno spazio specifico, che si volge quindi in spazio giuridicamente organizzato. Se lo spazio è allora quella soglia in cui la legge si rende visibile, tale forma di visibilità ricade proprio nella pratica degli stili in quanto rappresentazioni visibili della legge: il diritto comparato può allora divenire quella disciplina che conferisce un senso globale alla legge, disvelandone in ultima istanza la sua “misteriosa” presenza.
Forse, è proprio in questi termini (come già rilevato da von Hayek) che è possibile abbozzare una conclusione: la legge è molto più ineffabile, molto più sublime e molto più ingovernabile di quello che crediamo. Essa non può divenire oggetto di ranking o di classifiche. Eppure, evitare la tentazione di ridurre il diritto a un oggetto misurabile non significa affatto affermarne l’inesistenza: al contrario, la legge esiste e ci governa molto più di quanto riusciamo noi stessi ad amministrarla. Ciò è tanto più curioso se si considera che spesso, nella tradizione giuridica di common law, i grandi commentatori ripetevano l’adagio per cui il giudice, nell’atto di decidere, “scopre” la legge. Ironicamente, considerare la legge come esistente ben al di là degli oggetti che la presentificano è proprio l’idea di fondo che si oppone al modello della disponibilità assoluta voluta dagli apparati finanziari: un’idea, come si sarà notato, che è tratta da quella stessa cultura giuridica che la Banca Mondiale e il FMI vorrebbero invece imporre al globo intero.
Il merito ultimo del saggio di Pier Giuseppe Monateri è allora quello di illustrare le diverse immagini della legge che continuano, inesorabilmente, a segnare le differenze e gli scarti all’interno dell’attuale spazio globale. Solo con un’effettiva e rinnovata conoscenza di tali meccanismi, uniti a un approccio critico e vigile verso gli stringenti Diktat internazionali, sarà forse possibile smascherare le narrative mendaci e le subliminali pratiche egemoniche del nuovo ordine neoliberale.
di Mauro Balestrieri
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Paolo Vignola, ne L’attenzione altrove. Sintomatologie di quel che ci accade, si pone un obiettivo ambizioso: praticare una critica radicale della società e del pensiero filosofico contemporanei, a partire da una prospettiva che l’autore chiama sintomatologica. La società contemporanea, caratterizzata da un’economia capitalistica sempre più pervasiva, ingenera nell’uomo, secondo Vignola, una serie di sintomi, come la sofferenza, la precarietà esistenziale, i disturbi dell’attenzione e un più generale deterioramento dei rapporti interpersonali, che, se diagnosticati con chiarezza, possono aprire la strada a un ripensamento critico del mondo odierno.
Il punto di avvio del libro di Vignola risiede nel rovesciamento di un classico filosofico del Novecento, Il disagio della civiltà. Com’è noto, Freud individua, all’origine della società umana, un processo di sublimazione e regolazione delle passioni umane, che, sebbene provochi una pesante ricaduta sulla salute psico-fisica dell’uomo, risulta in ogni caso inevitabile e necessario. Se con questa intuizione Freud, per Vignola, ha il merito di porre la possibilità di una prospettiva sintomatologica, concentrandosi sui sintomi insalubri che una società è in grado di ingenerare sui suoi individui, la posizione freudiana risulta tuttavia pericolosamente normalizzante, poiché non allarga il proprio discorso dall’individuo alla considerazione critica della società nel suo complesso, limitandosi invece a fornire gli strumenti per una forzata adeguazione dell’individuo a essa. Occorre quindi rovesciare il discorso di Freud, appoggiandosi a chi, nel corso del Novecento, ha praticato, più o meno consapevolmente, una vera e propria sintomatologia. Vignola si confronta così con un gran numero di autori – Foucault, Adorno e Horckheimer, Stiegler, Sloterdijk e Carr, tra gli altri - ibridandone con perizia i concetti: la sintomatologia non è infatti una disciplina nuova, nuovo è forse il tentativo di una sua esplicita sistematizzazione filosofica.
Per poter sfuggire alle secche che caratterizzano la posizione di Freud, serve una sostanziale ridefinizione dei concetti di normale e patologico nei confronti del dato sociale. È qui che Vignola si confronta con Georges Canguilhem e l’idea che il mancato adattamento a un ambiente sociale non sia di per sé patologico, ma che anzi manifesti un diversoorientamento del soggetto, volto a una trasformazione in senso normativo della realtà. Tale trasformazione può essere intesa, in accordo questa volta con Gilbert Simondon, come un processo di individuazione, che, in quanto tale, non riguarda tanto il singolo individuo, quanto una realtà preindividuale e collettiva. Il passaggio dal sintomo alla cura, dalla critica all’adombramento di un’alternativa, come ripete a più riprese Vignola, è infatti pensabile soltanto a partire da un noi che rifugga le componenti individualistiche e narcisistiche tipiche della società contemporanea. Il libro non si limita così a evidenziare la salute precaria che caratterizza la realtà sociale odierna nel suo complesso, ma propone anche una possibile linea di fuga, all’insegna dello stoicismo, nella versione corretta e riveduta da Gilles Deleuze: si tratta di controeffettuare il sintomo, inteso come evento, per rendersi, in questo modo, «degni di quel che ci accade» (p. 36).
Se c’è un protagonista, all’interno de L’attenzione altrove, questi è proprio Deleuze, filosofo che da sempre accompagna la riflessione di Vignola, la cui brillante scrittura sembra ormai averne introiettato il lessico. È poi proprio a partire dal Deleuze di Critica e clinica che nasce il progetto di una prospettiva sintomatologica. Secondo Deleuze, infatti, i grandi scrittori della letteratura mondiale sono al contempo i più grandi clinici e sintomatologi della civiltà a loro contemporanea. Il problema di Vignola è allora quello di traslare la possibilità di una sintomatologia da un ambito profetico-letterario a un campo transdisciplinare, che sappia includere sociologia, antropologia e riflessione filosofica.
Per analizzare i sintomi patologici presenti nella società contemporanea, Vignola si confronta a più riprese con i mezzi di comunicazione digitali. L’esplosione dei social network e, più in generale, del web 2.0 ha portato infatti a una serie di pesanti ricadute sulla capacità di attenzione dell’uomo: la velocità, la dispersione e l’overload di informazioni che caratterizzano la rete hanno infatti trasformato la capacità di concentrazione, non più in grado di sedimentarsi con pazienza, ma brevemente iperstimolata da fonti sempre più varie e disparate. Gli effetti di istupidimento collettivo, soprattutto sui cosiddetti nativi digitali, vanno così di pari passo con una mole di informazioni disponibili sempre in aumento. Da qui una captazione dell’attenzione da parte delle più avanzate strategie di marketing, attive in quella che Stiegler chiama telecrazia.
Accanto a una sintomatologia sociale, Vignola si lancia poi in una vera e propria sintomatologia filosofica: si propone cioè di utilizzare la prospettiva sintomatologica, facendola agire all’interno del pensiero filosofico, che sembra oggi attraversato da una crisi profonda. Mancano infatti uno spazio e un tempo propri al filosofare, attività che ha da sempre richiesto, come sostiene Sloterdijk, uno sguardo differente e allenato. La filosofia deve costituirsi come un esercizio di ascesi teoretica, che necessita di un intenso sforzo di concentrazione. Far agire la prospettiva sintomatologica nei confronti delle teoria filosofica, significa allora chiarire le possibilità della filosofia come disciplina che deve dirigere l’attenzione verso un altrove, verso un nuovo re-incantamento del reale, capace di liberare energie in vista di una trasformazione di se stessa e della realtà sociale.
I sintomi individuati da Vignola non sono in definitiva differenti rispetto a quelli presenti in analisi, anche recenti, che diversi filosofi hanno dedicato al rapporto tra economia capitalistica e società: sfaldamento dei legami interpersonali, individualismo esasperato, consumo reiterato, sfruttamento delle facoltà affettive. C’è da chiedersi se queste analisi, che partono spesso da una premessa empirica – e quindi passibile di un certo soggettivismo –, non insistano troppo sulla pervasività del sistema economico sull’individuo. Non esistono oggi esperienze, realtà e sentimenti autonomi o, comunque, interpretabili sotto un segno positivo? La società contemporanea è soltanto un’escrescenza del neoliberismo capitalista o possiede, al suo interno, elementi che, come l’esplosione della rete, la rendono complessa e difficilmente sistematizzabile? Al netto di questi quesiti, L’attenzione altrove si presenta certamente come un percorso affascinante tra un ricco numero di autori, capace di porre alla società di oggi una serie di domande necessarie e ineludibili, che affondano le loro radici nella richiesta di una vita migliore, a partire dalla quale ci si possa prendere cura, con nuova attenzione, della sfera affettiva.
di Giulio Piatti