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La scrittura sensibile. Proust e Merleau-Ponty
Recensioni / Febbraio 2023Nel film Magnifica presenza (Fandango, Faros Film) del regista turco Ferzan Özpetek, il giovane Pietro (Elio Giordano), vive un’esperienza singolare. Egli si accorge infatti, col tempo, di soggiornare in un appartamento infestato da fantasmi. Le misteriose entità, dapprima sfuggenti e timorose, trovano in Pietro un confidente, una figura amica, un tenero protettore. Lo stesso Pietro, che tra gli spiriti incontra Luca, vede in quest’uomo l’espressione più genuina ed autentica del sentimento amoroso, il candore delle prime volte. Sia Pietro che i membri della ‘compagnia Apollonio’ scoprono così un altro modo di vivere, di abitare il tempo, insieme, un tempo ‘ritrovato’, ben distante dalla mera cronologia, dal riepilogo del record quotidiano. I fantasmi che popolano la casa di Pietro non sono infatti ‘invenzioni’, per dirla con Bioy Casares. Non sono nemmeno il frutto di proiezioni sinistre, di spaventose allucinazioni. Lo svolgimento del film mostra che anche Pietro, come i suoi coinquilini, deve perdersi per poi ritrovarsi, per rivedersi, in senso autentico. Rivedere opinioni, correggere i propri giudizi su cose e persone: anche Pietro è un fantasma. Proprio di questa rettifica, di questa rilettura consta l’essenza più segreta della Ricerca.
Di Proust filosofo e della sua relazione con la fenomenologia merleau-pontyana si è scritto molto, nel corso negli anni passati. All’interno del vasto panorama offerto da questi studi, la recente pubblicazione del testo di Franck Robert va ad occupare una posizione di sicuro rilievo, e questo per più di una ragione. In primissimo luogo a colpire è l’ampiezza e la profondità, fisica e tematica, del volume in questione: composto da tredici capitoli (Proust philosophe; Percevoir, le rapport sensible au monde; De l’art; Modernité de Proust; Littérature et réalité; L’homme et l’œuvre; Art et vie; Le style; Vérité et institution; Approche phénoménologique. Temps et subjectivité; Le temps sensible; Écriture et vérité ed Ouvertures)che si dispongono su oltre quattrocentocinquanta pagine di testo, il lavoro di Robert rappresenta, a mia personale conoscenza, lo studio ad oggi più completo dedicato specificamente al confronto tra l’opera di Proust ed il pensiero di Merleau-Ponty, quest’ultimo da sempre affascinato, per confessione del filosofo stesso, dalla prosa dello scrittore e dalla sua ricchissima eredità concettuale. Un ulteriore e pregevole aspetto formale che mi preme rimarcare, in apertura, è la presenza constante, nell’argomentazione di Robert, di richiami teorici e testuali al corso merleau-pontyano Le problème de la parole, tenutosi al Collège de France tra gli anni 1953 e 1954, recentissimamente edito in lingua francese (Métis Presses, 2020, di questo testo mi permetto di segnalare una mia recensione pubblicata in «Studi di Estetica. Italian Journal of Aesthetics», vol. 19, 2021, pp. 237-242). Questa peculiarità, questa scelta speculativa, rappresenta senza dubbio un elemento meritorio e di originalità del già di per sé ricco lavoro di Robert.
La tesi fondamentale del libro è l’affermazione della centralità del ruolo della scrittura al cuore dell’esperienza sensibile. La scrittura non è slegata dalla pratica percettiva, anzi: ne è elemento costitutivo, compimento essenziale, sublimazione. Grazie alla scrittura l’uomo può ritrovare il senso autentico del tempo e dello spazio: tornando sui suoi passi, ripercorrendo a ritroso il cammino della conoscenza, ritrovandosi. Si tratta di un’opinione sostenuta sia da Proust che da Merleau-Ponty, sebbene sia stata comprovata in campi e discipline affatto diverse. Sia lo scrittore che il filosofo, però, hanno fatto della scrittura una vocazione, un mestiere, un modo di vivere ed interpretare il mondo e la propria epoca. Per entrambi la scrittura si spinge, si inoltra dove la percezione sensibile, la nostra prima e fondamentale porta d’accesso al mondo percepito, non può arrivare. Ma perché quest’insufficienza? Cosa serve a giustificare la sua comparsa della ‘grafia’, il suo richiamo, la sua fantasmagoria? Quale logica comanda la dimenticanza, e quale ancoraggio impone, in senso contrario, il percorso, la rotta del ricordo? Robert tenta di rispondere in questo testo a tali domande.
La scrittura, lungi dall’essere banale, sterile, ripetizione del senso, ne sancisce invece la ‘raccolta’, la ‘fissazione’, l’istituzione che non è, però, da intendersi quale esercizio di una qualsivoglia facoltà intellettuale, superiore, di ‘sorvolo’. La scrittura, dice Robert, «apre su di un’universalità che non presuppone, ma che, viceversa, inaugura» (p. 16). Tale affermazione prescrive la primarietà dell’espressione sull’espresso, della comunicazione sul contenuto della comunicazione stessa, facendo allusione ad un’universalità che non può – più – essere quella del concetto (p. 433). La parola non deve essere compresa come «esercizio del concetto, ma rivolta verso l’intersezione dei mezzi espressivi di una pienezza che essi delimitano [qu’ils jalonnent] ma che non contengono», recita Il problema della parola (p. 420; Merleau-Ponty 2020, 143).
Per mezzo dell’espediente letterario proustiano, «la verità che si rivela al narratore nelle reminiscenze della sensazione e nella scrittura – dice Robert – non è un accesso ritrovato a un mondo di idee che l'esperienza sensibile avrebbe coperto, poiché le arti che aprono la strada a questa verità, che abbozzano ciò che la letteratura realizzerà in altro modo, attraverso la scrittura, sono proprio le arti meno concettuali, più vicine al sensibile» (ibid.). Non è la filosofia che conduce alla filosofia, dice Robert, il sapere non si nutre di sapere, autenticamente, in modo univoco, ma è la ‘non-filosofia’, l’esperienza concreta, vissuta, ad indicare la via per il suo superamento non concettuale, laterale. L’intera opera di Proust, sostiene Robert facendo parlare le pagine Merleau-Ponty, può essere intesa allora come un tentativo di rovesciamento del platonismo, dell’idealismo cartesiano e delle sue derive teoreticamente più pericolose. Citando nuovamente Il problema della parola, in questo caso, «l’idea non precede l’espressione, ma è l’espressione ad essere responsabile dell’avvento dell’idea» (p. 108; Merleau-Ponty 2020, 160).
L’ambizioso compito della scrittura, e con essa del linguaggio letterario, è quello di restituire «la modalità di apparizione del mondo sensibile» (p. 221). E proprio «restituendo questo mondo vissuto, pre-nozionale, è possibile effettuare il passaggio all’idea: ovvero, è possibile costruire un ‘equivalente spirituale’ dell’esistenza» (Merleau-Ponty 2020, 178-179). Dunque, ‘spirituale’ ed ‘ intellettuale’ non sono termini coincidenti. Soprattutto, scrive Merleau-Ponty, «le essenze vere – e non quelle intellettuali – si trovano esclusivamente attraverso il chiaroscuro del vissuto, che noi provvediamo a costruire attraverso la nostra vita» (ibid.). La ‘modernità’ proustiana, la sua ‘ricerca’e la sua successiva realizzazione, sta, per Merleau-Ponty, nella sua capacità di rompere con la complicità idealistica con la conoscenza di ‘sorvolo’, la quale «sostituirebbe alle cose allo stato nascente l’idea delle cose», approdando alla dimensione più propria di ricerca dell’«idea sensibile» (p. 419). Quest’indagine si alimenta della proliferazione di «significati nascenti» (p. 435), designati dal criterio della «denominazione» (Merleau-Ponty 2020, pp. 153, 181-182; cfr. Merleau-Ponty 1996, pp. 106-108) e del suo eventuale capovolgimento ‘algoritmico’, – del quale il pittore Elstir è daimon proustiano né A l’ombre des jeunes filles en fleurs, così come, a ben vedere, lo è della reversibilità carnale merleau-pontyana – ovvero di quella logica del rinvio che, nella letteratura latu sensu, consentirebbe alla verità di raggiungere quell’universalità dettata da una progressiva ed inesauribile crescita «laterale» (Merleau-Ponty 2013), contributiva ed intersoggettiva.
Di questo consta la sintesi, passiva, delle ‘cose’ che la prosa di Proust sarebbe in grado di raccogliere, di riunire: la sintesi «risiede – allora – nel modo in cui il corpo riceve il mondo, nella capacità di tracciarvi delle linee che costituiscono un senso, degli assi che il soggetto segue, e che accompagna nel suo modo di abitare il mondo» (p. 435). Menzionando indirettamente il lavoro di Jacques Garelli, la ‘ricerca’ si occupa della raccolta del «logos del mondo estetico (…) delle idee prime che sono sensibili perché, all’interno del sensibile stesso, ne tracciano il senso pur senza apparirvi esteriormente» (ibid.).
Già, ma perché – come anticipato – si continua a parlare insistentemente, nelle pagine di Robert, di raccolta, di recupero del senso? Cosa è andato perduto nella delicata transizione tra percezione ed espressione, seguendo questa volta l’itinerario storico e teorico dell’opera merleau-pontyana? Cosa è andato ‘storto’? La replica a queste domande, sebbene ponderata e testualmente fondata, non può che risultare ambigua. A pagina 255, Robert sostiene che « [m]entre nell'opera di Proust la scrittura ha origine nella perdita, è una ricerca di un significato sepolto nell'esperienza del narratore, una raccolta e uno svelamento del passato, una ricerca di un senso della vita perduta, una vita superiore a qualsiasi vita vissuta, nell'opera di Stendhal la scrittura è identica alla vita stessa, un progetto di esistenza sempre già superato da questa stessa esistenza, un eccesso, un'apertura su un futuro che si inventa mentre si realizza, un'avventura». È una prima risposta, di primo acchito soddisfacente: vi sono molti modi di vivere, di interpretare, e quindi di scrivere il mondo circostante.
Ciò che, a mio parere, Merleau-Ponty individua ed apprezza nell’opera proustiana, ed è un aspetto che Robert coglie appieno, è il ruolo positivo della dimenticanza, dell’oblio, della capacità di allontanarsi dal mondo senza perderlo mai dal personale ‘orizzonte ermeneutico’, direbbe Collot, senza perderlo mai del tutto di vista. Per Proust ogni opera, ogni sforzo, mira ad «accogliere e a raccogliere l’esperienza», attraverso una «conquista differita e sospesa del senso dei fenomeni», la quale si attua per mezzo del «ritorno incessante al concreto, al sensibile» (p. 36). Secondo Proust, e a parere di Merleau-Ponty, l’esperienza, l’erranza avventurosa e, segnatamente, l’errore, la maldestrezza, è necessaria al fine di raggiungere la verità (p. 39). Questo punto è cruciale: il narratore non sarebbe tale senza la distanza, senza la contrarietà, senza la trascendenza che lo allontana da persone e cose, come l’istituzione del sentimento amoroso e la gelosia provata per Albertine nel corso su Istituzione e passività attestano con chiarezza. È come dire che sbagliando si impara o che il viaggio conta almeno quanto la destinazione, il che è condivisibile, detto anche in modo triviale.
La posta in gioco è altissima. Non si tratta più solo, a ben vedere, di riconoscere il proprio favore ad un modo di raccontare le cose, ad un determinato tipo di restituzione degli eventi: ciò che si ridiscute, in queste pagine, è nientemeno che lo statuto dell’idealità, della razionalità, dell’epistemologia platonico-aristotelica che tradizionalmente sostiene l’architettura del pensiero occidentale.
Cercando di riassumere, queste sono le domande che ci si pongono, nuovamente: che tipo di relazione c'è tra l'eternità e la temporalità? La temporalità è un fatto primitivo o derivato? Può qualcosa essere ‘eterno’ e ‘temporale’ allo stesso tempo? Può qualcosa di originariamente ‘temporale’ assurgere al rango di essere ‘eterno’? Intuitivamente, ciò che è temporale può durare ‘per sempre’. Ciò che dura può essere ‘sempiterno’, ma è ancora situato ‘nel tempo’, in quanto radicato in una cornice strettamente temporale, chiariranno le lezioni di Merleau-Ponty su L’origine della geometria husserliano. Ciononostante, a quanto pare, per conferire all'azione temporale un valore autentico, positivo, abbiamo bisogno di una nuova definizione di memoria e di oblio, superando la lezione dello schiavo del Menone.
Nell’ontologia di Merleau-Ponty, «l'oblio ha la priorità» sul ricordo, perché «senza oblio non sarebbe possibile alcun ricordo» (Waldenfels, Calandrella 2000, 114). Dimenticare significa in un certo senso lasciare andare qualcosa, rinunciare al pieno possesso intellettuale del mondo, per conservarlo in altro modo. Il mondo sfugge perché il flusso del tempo influisce sulle capacità del soggetto vivente di trattenere tutte le possibili esperienze che passano, che scorrono, che si confondono l’una nell’altra. Il soggetto a cui pensa Merleau-Ponty non detiene più le prerogative di una coscienza assoluta poiché rivela un'apertura naturale, una disposizione ad accogliere il divenire del tempo e quindi a concedere «una sorta di passività» (Morris 2018, 86). Contestando il concetto di «ritenzione» di Husserl, Merleau-Ponty rimprovera a questi di non aver ammesso con sufficiente chiarezza che la memoria «implica l'oblio», afferma Gallagher (2005, 107).
Questo è un punto essenziale, poiché Merleau-Ponty non può sostenere il fatto che l'oblio possa essere concepito come «un passaggio nel nulla, – come ha fatto il tedesco – (...) ma – al contrario, – un modo di essere a... nell'allontanarsi da...» (Merleau-Ponty 1964, 250). Riprendendo le parole di Gallagher, «l'oblio permette la possibilità dell'intenzionalità; è il necessario rovescio dell'intenzionalità. Se l'intenzionalità è intesa come differenziazione, uno scarto, l'oblio è indifferenziazione» (2005, 107). Nell'ontologia di Merleau-Ponty, nulla è completamente perso, dal momento che nulla è assolutamente guadagnato, acquisito una volta per tutte. La presenza o l'assenza effettiva dell'uomo in questo mondo, la sua presa su di esso è, a ben vedere, solo una questione di variazione tra un modo di agire consapevole, intenzionale, e una modalità involontaria e inconsapevole di indifferenza vitale, un abbassamento, una regressione in qualche modo controllata.
La ritenzione è l'inarrestabile «affondamento graduale» della percezione presente, come hanno sottolineato Waldenfels e Giuliani (2019, 50), ma essa non comporta un eventuale, sciagurato naufragio della memoria. Conservare qualcosa significa invero non lasciar andare, trattenere ciò che l'oblio disperderebbe. Il processo di dimenticanza, proseguono i due studiosi, è «l'inverso dell'attenzione e, in quanto impercettibile, appartiene alla percezione stessa» (ibid.). La ritenzione entra in gioco in qualsiasi momento, poiché l'oblio vero e proprio «inizia ora» (ibid.), nel ‘tutto’ che è ‘ogni’, corrisponde cioè all'ineliminabile lato oscuro della percezione, di ogni atto percettivo. Ma come funziona questo processo di allontanamento? Come può Merleau-Ponty sostenere che la dimenticanza non porta alla completa, diciamo, cancellazione del ricordo, della presenza? Infine, come può il filosofo francese salvare l’essere dal nulla, dall’irrecuperabile?
Ecco che allora l’erranza proustiana insegna propriamente a Merleau-Ponty che è il corpo a custodire i segreti della memoria, ad esserne lo scrigno del tempo il cui sigillo può essere divelto solo a determinate condizioni, che non sono quelle dettate dalle logiche dell’intelletto. L’esperienza principe che testimonia la sussistenza, sotterranea, silenziosa, di questa memoria di permanenza, è offerta già dalle primissime pagine proustiane della Ricerca, dedicate alla descrizione del processo di addormentamento e di risveglio dal sonno del narratore. È la «descrizione del risveglio – dice Robert – e la scoperta della continuità tra il mio essere ed il mondo, che consentono di pensare la memoria del corpo» (p. 372). Questo lungo passo della Ricerca è commentato da Robert all’interno del capitolo Le temps sensible, collocato verso la conclusione del libro, e che ne rappresenta, a parere dello scrivente, uno degli estratti più vividi e riusciti circa l’analisi della comunanza tra i due intellettuali.
Nelle pagine proustiane, Merleau-Ponty coglie infatti quell’onirismo, quell’elemento immaginario, simbolico, proiettivo e retrospettivo, quella poesia o ‘poetica’ della coscienza, quell’affaiblissement dello spirito che stava cercando, quell’«indice» (Merleau-Ponty 1945, 479) che segnala un problema, che, filologicamente, lo interessava già dal 1945: mi riferisco all’attività nella passività, ai movimenti avversi e pur inerenti alla vita stessa, il chiaroscuro che, come detto, costruiamo giorno per giorno (e notte per notte). Quella peculiare azione-passione che è l’addomentarsi, l’‘endormissement’ è la migliore prova, illustra Robert, che una coscienza può perdersi e ritrovarsi «rimanendo se stessa», che essa non è mai pienamente presenza à sé, e che il sogno non incarna l’assenza di ogni coscienza» (p. 366). Al contrario, il sonno, come la veglia, incarna «un modo in cui il corpo dispone per incontrare il mondo» (ibid.).
Assodata la virtualità del sonno, quella cavità che è una possibilità interna all’essere, perché la coscienza «scivola, senza una transizione chiara, nel sonno» (p. 367), altrettanto importante appare il risveglio, nel quale il corpo effettivamente si ‘ritrova’. In Proust, «il tempo ritrovato (…) si delinea innanzitutto nel modo in cui il corpo conserva la memoria del passato (...) il corpo – prosegue Robert – è innanzitutto ciò che riceve, che raccoglie il mondo, ciò che è sensibile al mondo; in esso, nel sonno, come nella vita percettiva, si radica un senso che non proviene dall'attività della coscienza di veglia» (p. 366). Il corpo è un qualcuno, è colui che mantiene e salvaguarda il legame con il cosmo, il tempo e lo spazio. Proprio come Merleau-Ponty, anche Sartre si è cimentato nell’analisi del sonno proustiano, insistendo però grandemente – e colpevolmente, rimarca Robert – «sull’immobilità del corpo, sull’annullamento di ogni motricità e l’abbandono di ogni fascinazione dei pensieri» (p. 370).
È un versante interpretativo che Merleau-Ponty non condivide, e che si impegna a confutare proprio sulla base della lettera proustiana. L’immobilità ipnotica cui pensa Proust, dice Robert leggendo Merleau-Ponty, ricalca infatti di una soppressione diversa, che non è concepita come degradazione, diminuzione della vita della veglia. Nel sonno, si vive in un altro modo, secondo rinnovate coordinate etologiche: l’immobilità è infatti «una possibilità del corpo che si relaziona a delle possibilità altre rispetto alla motricità» (ibid.) e che non è affare di coscienza. Nel sonno, il corpo si ritrova: nel riassorbimento letargico, il dormiente ri-scopre, potremmo dire, la ‘religione’ ed il culto primitivo di un passato carnale dal carattere enigmatico, una liturgia per la quale l’ancoraggio alla profondità, alla stasi del riposo personifica già, forse curiosamente, le virtualità di un progetto, una specifica «iniziazione cinetica» (p. 67), l’attributo di un «movimento imminente» (Merleau-Ponty 2020, 139).
L’esperienza di Pietro perciò si ‘scrive’, si ‘raccoglie’. Nel sonno, nel sogno, in questa dimensione non meglio precisata dell’immaginario, la ‘compagnia Apollonio’ rivive, e Pietro con lei: le sue vicende riecheggiano per i muri dell’appartamento, le voci dei suoi protagonisti lo accompagnano nelle vicissitudini quotidiane, ed il recupero, la raccolta del senso, ‘ritrovato’, la sera, ha il sapore dolce dell’intimità, dell’appuntamento. L’auspicio è che la ricerca possa, in futuro, concentrarsi su quest’ambiguità teorica, quest’anfibolia interna alla vita cosciente, rappresentata dalla dualità sonno-veglia, un aspetto che il libro di Robert ha messo in mostra con singolare fulgore.
di Riccardo Valenti
Bibliografia
Opere merleau-pontyane
M. Merleau-Ponty (1945). Phénoménologie de la perception, Paris, PUF
M. Merleau-Ponty (1964). Le visible et l’invisible. Suivi de Notes de travail, Paris, Gallimard
M. Merleau-Ponty (1996). Sens et non-sens, Paris, Gallimard
M. Merleau-Ponty (2013). Recherches sur l’usage littéraire du langage. Cours au Collège de France. Notes 1953, Genève, Métis Presses,
M. Merleau-Ponty (2020), Le problème de la parole. Cours au Collège de France. Notes, 1953-1954, Genève, Métis Presses
Bibliografia secondaria
S. Gallagher (2005) «Disrupting Seriality. Merleau-Ponty, Lyotard, and Post-Husserlean Temporality», in L. Hass; D. Olkowski (ed.), Rereading Merleau-Ponty. Essays Beyond the Continental-Analytic Divide, New York, Humanity Books
D. Morris (2018). Merleau-Ponty’s Developmental Ontology, Evanston, Northwestern University Press
B. Waldenfels; D. Calandrella (2000), Time Lag: Motifs for a Phenomenology of Time, in «Research on Phenomenology», vol. 30, Leiden, Brill
B. Waldenfels; R. Giuliani (2019) «Vortex of Time: Merleau-Ponty on Temporality», in E. Alloa; F. Chouraqui; R. Kaushik (ed.), Merleau-Ponty and Contemporary Philosophy, Albany, Suny
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Alexandre Gefen: l’idea di letteratura in Francia
Recensioni / Aprile 2022L'Idée de littérature. De l'art pour l'art aux écritures d'intervention (éditions Corti, 2021) propone un’analisi dei tratti costitutivi dell’idea di letteratura attualmente diffusa in Francia, cogliendone l’evoluzione dal punto di vista storico, geografico, tematico e generico. Particolare attenzione è riservata al panorama critico francese e alle influenze dal mondo anglosassone (studi postcoloniali, studi culturali, studi areali), nonché all’apporto di aree come le neuroscienze, l’antropologia e la sociologia. Vengono infine esaminate le attuali pratiche di scrittura, anche non professionale, nel quadro della diffusione delle nuove tecnologie.
Partendo dall’osservazione dei più recenti fenomeni del mondo letterario, come il dibattito suscitato dal conferimento del premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan nel 2016, la scelta di Svetlana Aleksievič per il precedente o le reazioni del movimento #Metoo, l’autore riflette sulla crisi teorica attualmente in corso, che si realizza con il passaggio da una concezione di letteratura come sfera autonoma a una littérature-monde (p. 37), inclusiva e democratica, consapevole del proprio ruolo nella formazione delle coscienze, incline a dar voce alle minoranze e rivolta a un pubblico ampio, libera dai formalismi e dai generi tradizionali e aperta alle contaminazioni con altre arti e discipline. Per Gefen, tale concezione si realizza grazie al superamento di una visione idealista, estetica ed estetizzante della letteratura, nata con il Romanticismo e basata sull’ordine soggettivo, qualificata dalla forma e comprensibile unicamente attraverso una disciplina endogena (la stilistica) o connessa al proprio campo (linguistica, semiologia o narratologia).
Per comprendere questa “rivoluzione silenziosa” (p. 37), l’autore ripercorre l’evoluzione dell’idea di letteratura nella sua accezione moderna a partire dal XIX secolo e dal Romanticismo, periodo del quale la concezione contemporanea è ancora ampiamente tributaria. A partire da questo momento, come noto, la letteratura acquisisce la propria autonomia inserendosi nello spazio dell’estetica, andando incontro alla disgiunzione del concetto di bello dall’oggetto rappresentato e alla liberazione dai canoni classici. La concezione dell’Art pour l’art, con il rifiuto dell’idea di utilità o utilitarismo, costituisce una tappa fondamentale di tale evoluzione. Nel corso del Novecento fino a oggi, l’idea estetica della letteratura ha configurato il campo letterario, determinandone la storia e la geografia, tracciandone la sociologia e influenzando la teoria dei generi e l’analisi delle pratiche di scrittura. Secondo l’autore, la riformulazione di tale paradigma, a cui tendono le opere, le pratiche e le teorie contemporanee, dovrebbe indurre a riconsiderare il progetto di autonomia estetica, riconducendolo a una semplice parentesi nella storia. Dal processo in corso, emerge una concezione dell’opera d’arte come oggetto culturale, nonché un maggiore interesse per le istituzioni e le relazioni di potere. In questo quadro, la critica postcoloniale mette in discussione l’universalità del giudizio estetico, chiedendo la sostituzione di categorie astratte con criteri locali e relativi e contestualizzando le produzioni.
Il secondo capitolo, dedicato all’estensione geografica della letteratura, ripercorre le principali tappe della formazione di un modello storicamente teleologico, elaborato a partire dal XIX secolo e legato alla formazione di nazionalismi letterari, estetici e linguistici. La nascita degli studi di comparatistica e la fabbricazione di un’idea occidentale dell’oriente conducono a un’apertura che resta però tendenzialmente eurocentrica, con metodi difficilmente applicabili in aree culturali lontane e variegate dal punto di vista antropologico. Da questo punto di vista, Gefen sottolinea la necessità odierna di ripensare la letteratura, privandola di modelli unidimensionali, con una temporalità policronologica e multidirezionale, relativizzando la struttura moderna del soggetto e il quadro occidentale in cui esso si esprime.
Sul piano tematico, l’autore individua nella letteratura contemporanea la realizzazione di un nuovo stadio del Realismo delle rappresentazioni, come già Auerbach aveva descritto nel fondamentale saggio Mimesis, qui rievocato (p. 109). Se il XIX e il XX secolo erano incentrati sull’esplorazione dell’esperienza umana nelle sue diverse sfaccettature, il XXI secolo si espande alla sfera dell’agentività non umana. A partire dagli anni 2000, con la globalizzazione e la presa di coscienza ecologica su scala mondiale, il potere di rappresentazione della letteratura viene riattivato per descrivere le forze socio-economiche. Inoltre, la funzione di critica sociopolitica si estende alla questione ambientale e i nuovi temi della letteratura relativizzano l’antropocentrismo precedentemente dominante. Con il rimescolamento ontologico causato dalla rivoluzione digitale, l’estensione del campo mimetico oltre la sfera dell’umano e l’attenzione al mondo della natura e agli oggetti, il campo della letteratura contemporanea si trova ormai di fronte a un “multirealismo”, concetto di Bruno Latour qui ripreso (p. 143). Il fenomeno porta all’indebolimento delle frontiere che separano i diversi generi letterari che, come categorie della percezione estetica, entrano in crisi. A caratterizzare le opere sono le finalità dei dispositivi, la maniera di produrre senso o la specificità cognitiva, i nuovi supporti digitali e l’esplorazione di regimi semiotici originali. Un tale movimento di decomposizione dei generi ha effetto anche sulle frontiere esterne della letteratura, sfumando la linea di demarcazione tra letterario e non letterario. Come sottolinea l’autore, le recenti etichette di neoletteratura (Nachtergael 2017), non-letteratura (Théval 2018) o di mondo postletterario (Colard 2018), testimoniano questo cambiamento.
Il capitolo dedicato all’estensione politica sottolinea come la concezione della letteratura come campo autonomo registri attualmente una perdita di rigidità a favore della nozione di relazione e dell’esigenza di intervento nel mondo. La fecondità morale e l’utilità cognitiva che contraddistinguevano le Belles Lettres in epoca classica rinascono in maniera eclatante nel mondo contemporaneo. Nella genealogia dell’Art pour l’art, le nozioni di désengagement e il principio di inutilità erano centrali per il principio moderno di autonomia della creazione. L’inutilità costituiva una qualità essenziale del campo estetico e lo scrittore era visto come una personalità in rottura con il mondo. Come sottolinea l’autore, la nostra epoca rinnova il legame con un’arte più politica e invita a relativizzare retrospettivamente la portata delle teorie insulari dell’arte. Dietro alla semplice nozione di utilità sociale, rinasce l’idea di una funzione cognitiva, antropologica e politica. Si parla nuovamente di poteri, di virtù, di ruoli, del posto della letteratura nelle questioni del mondo. Gli approcci cognitivisti, che sottolineano la funzione sociale della letteratura, permettono di reintrodurre la psicologia dei personaggi e dell’autore e propongono una descrizione cognitivista degli stili e delle forme. Altro segno dell’evoluzione, secondo Gefen, è l’impegno ritrovato degli scrittori contemporanei, in particolare sul piano dell’analisi del discorso, con lavori d’inventario sociale a favore della democrazia e della difesa delle minoranze. Gli scrittori percepiscono il loro lavoro come un dispositivo performativo che influenza la costruzione della realtà sociale e come un gioco ermeneutico, centrato sul testo e sulla sua enigmaticità. La descrizione a distanza della realtà si riappropria così dell’esigenza di dévoilement assegnatale da Sartre. Gli autori contemporanei si interessano alla questione dei migranti, all’evocazione dei crimini coloniali e delle tensioni sociali contemporanee e mirano ad allontanare i pericoli di un’identità percepita come essenza eterna. Al romanzo viene riconosciuto non solo il potere di riflettere, ma anche quello di informare e di costruire realtà sociali. La nuova fase di democratizzazione della letteratura, che subentra con la fine dell’elitismo, rivede inoltre la questione della responsabilità dell’autore, mentre le figure del dandy e dello scrittore invisibile tendono simultaneamente a scomparire, con la dissoluzione dell’opposizione proustiana tra l’“io sociale” e l’“io profondo” (p. 241).
Per quanto riguarda i più recenti mutamenti che investono le pratiche di scrittura, su cui l’autore si sofferma, si assiste a un processo di democratizzazione, caratterizzato dalla pubblicazione di testi online e dall’emergenza di autori non professionisti, fenomeni che la critica francese tarda a cogliere. L’estensione del campo si scontra con un riflesso culturale di protezione di una letteratura vista come ristretta e fondata sulla padronanza della forma, nella quale qualità e quantità si oppongono strutturalmente. Secondo questa visione, l’arte è concepibile unicamente secondo un regime maltusiano, con un canone di opere selezionate che si distingue da una produzione di consumo e da forme di espressione ordinarie (p. 255).
Il volume si chiude con considerazioni legate alle conseguenze che i fenomeni descritti esercitano sulla critica letteraria. L’autore sottolinea la necessità di adottare approcci idonei ai nuovi oggetti di analisi, con una presa di consapevolezza dei limiti del vocabolario della retorica e della linguistica e l’adozione di una terminologia descrittiva nuova, ad esempio attingendo dall’antropologia come nel caso di “densità” per definire la bellezza. Per rispondere all’estensione del concetto di letteratura e all’interdisciplinarietà che lega gli studi contemporanei e i diversi settori accademici, viene sottolineata la necessità di mobilitare conoscenze e metodi nuovi, come avviene nel passaggio dall’intertestualità di Julia Kristeva all’intermedialità di Jürgen Ernst Müller (p. 283). L’autore promuove una maggiore apertura degli studi letterari, con l’avvicinamento alle scienze sociali, alla teoria dei media, alla filosofia, agli studi culturali, alle scienze cognitive e alla teoria dell’informazione.
L’idée de littérature si presenta come un lavoro originale per la quantità e la qualità delle fonti citate nonché per le riflessioni di natura globale sull’idea di letteratura. L’apertura ad altre discipline, che l’autore condivide, si riflette nell’estensione della ricerca ad aree meno comuni, rievocando, come già sottolineato, metodi e approcci di aree quali la sociologia, la psicologia cognitiva e l’antropologia. Il vasto panorama critico considerato include lavori di ricerca europei e americani, proponendo un fruttuoso canale comunicativo. Attraverso il confronto con gli studi culturali e postcoloniali, lo scritto partecipa al difficile percorso di integrazione di queste correnti in una Francia ancora largamente incentrata sul concetto di francofonia, categoria secondo alcuni da superare in quanto espressione di una visione colonialista (p. 100; Forsdick e Murphy 2003 p.7-8; Moura 2008, pp. 55-61; Genin 2006, pp. 43-55). Con il riferimento alla letteratura mondiale, l’autore si inserisce in un dibattito che da più di due secoli (Goethe, Moretti, Casanova, Spivak, Damrosch) ruota attorno a questo concetto, come descritto da Pradeau, Samoyault (2005) e da David (2011). Gefen rievoca le critiche rivolte all’idea di letteratura universale proposta da Goethe, accusata di eurocentrismo o dominocentrismo ad esempio da Jérôme David (p. 92), e ripropone il dibattito che ha preso forma attorno alla pubblicazione del manifesto “Pour une littérature-monde en français” nel 2007, documento per la liberazione della letteratura dal patto esclusivo con la nazione che rischiava secondo alcuni di promuovere un paradigma unico e una prospettiva americana ed egemonica (p. 100). L’autore si esprime a favore del concetto letteratura mondiale, in grado, come afferma, di liberare la storia letteraria dal suo percorso teleologico (p. 102).
Le riflessioni sul ruolo dello scrittore nella società, sulla transitività e sulla funzione dell’opera letteraria, nonché sulla responsabilità dello scrittore si inseriscono nella ricerca che indaga il rapporto tra il testo narrativo e le idee politiche, le diverse concezioni di engagement e le modalità con le quali esso si esprime nel testo letterario (Suleiman 1983; Denis 2000; Sapiro 2011). Gefen aveva precedentemente esaminato la complessità delle strategie moderne di impegno e individuato alcune tendenze che contraddistinguono l’engagement contemporaneo (2005 p. 75-84). L’idée de littérature affronta il discorso della responsabilità e del ruolo dello scrittore nella società, mostrando come la concezione contemporanea della letteratura inauguri una nuova fase in cui mondo letterario e mondo civile, istituzioni letterarie e vita della comunità politica, economia letteraria ed economia comune cessano di opporsi (p. 241).
Il capitolo sull’estensione sociologica e istituzionale della letteratura si inserisce negli studi sul rapporto con le nuove tecnologie, dalla narratologia transmediale (Ryan 2002, 2018) alle recenti pratiche di scrittura in ambiente digitale, anche ad opera di scrittori non professionisti (Goldsmith 2018; Price e Siemens 2013). Il lavoro si basa su un’osservazione diretta di tali ambienti e pratiche, con particolare attenzione alla piattaforma Wattpad, alla quale l’autore si è ulteriormente interessato («Wattpad et la démocratisation de la littérature par Internet », in corso di pubblicazione). Per gli studi sui temi e sui generi e i contributi sull’apporto di discipline come la sociologia, la psicologia cognitiva e l’antropologia, rimandiamo alla bibliografia a fine volume, che mostra il ricco lavoro di documentazione e costituisce un valido punto di partenza per ricerche aperte al panorama critico internazionale.
di Virginia Melotto
BIBLIOGRAFIA
Colard, J.-M. (2018), «Bienvenue dans un monde post-littéraire», AOC, 6 septembre 2018, disponibile online: https://aoc.media/critique/2018/09/06/bienvenue-monde-post-litteraire/
David, J. (2011), Spectres de Goethe, Les métamorphoses de la "littérature mondiale", Paris, Les prairies ordinaires.
Denis, B. (2000), Littérature et engagement : de Pascal à Sartre, Paris, Éd. du Seuil, coll. « Points Essais ».
Forsdick, C. & Murphy D. (2003), Francophone Postcolonial Studies. A Critical Introduction, Oxford University Press Inc.
Gefen, A. (2005), « Responsabilités de la forme. Voies et détours de l’engagement littéraire contemporain », in Bouju, E., (dir.), L’Engagement littéraire, Rennes, PUR, coll. « Interférences ».
Id. (in corso di pubblicazione), «Wattpad et la démocratisation de la littérature par Internet », in La Démocratisation de la littérature, Paris, Gallimard, « Cahiers de la NRF ».
Genin, C.(2006), « Les études culturelles: une résistance française ? », MEI, no 24-25 (« Études culturelles / Cultural Studies »), pp. 43-55.
Goldsmith, K. (2018), L’Écriture sans écriture : du langage à l’âge numérique [Uncreative Writing : Managing Language in the Digital Age, 2011], Paris, Jean Boîte éditions.
Moura, J.-M. (2008), Sur la situation des études postcoloniales francophones, «Neohelicon».
Nachtergael, M. (2017), « Le devenir-image de la littérature : peut-on parler de “néo-littérature” ? », in Mougin, P. (dir.), La Tentation littéraire de l’art contemporain, Dijon, Les Presses du Réel, coll. « Figures », pp. 139-152.
Pradeau, C. & Samoyault, T. (dir.) (2005), Où est la littérature mondiale ?, PU Vincennes, coll. «Essais et savoirs».
Price, K. M. & Siemens, R. (dir.) (2013), Literary Studies in the Digital Age : An Evolving Anthology, disponibile online : https://dlsanthology.mla.hcommons.org/
Ryan, M.-L. (2002), « Beyond Myth and Metaphor : Narrative in Digital Media », «Poetics Today», vol. 23, n° 4, pp. 581-609, disponibile online : https://read.dukeupress.edu/poetics-today/article/23/4/581/20743/Beyond-Myth-and-Metaphor-Narrative-in-Digital
Id. (2018), « Sur les fondements théoriques de la narratologie transmédiale », in Patron, S. (dir.), Introduction à la narratologie postclassique : les nouvelles directions de la recherche sur le récit, Ville-neuve-d’Ascq, Presses universitaires du Septentrion, pp. 147-166.
Sapiro, G. (2011), La responsabilité de l’écrivain. Littérature, droit et morale en France (XIXe-XXIe siècle), Paris, Seuil.
Suleiman, S. R. (1983), Le Roman à thèse ou l’autorité fictive, Paris, PUF, coll. « Écriture ».
Théval, G. (2018), « Non-littérature ? », Itinéraires. Littérature textes cultures, 2017-3 | 2018 (« Littératures expérimentales »), disponibile online : https:// journals.openedition.org/itineraires/3900
Id. (2015), Poésies ready-mades, xxe- xxie siècles, Paris, L’Harmattan, coll. « Arts et médias ».
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Tra le scuole di pensiero marcatamente connotate dalla presenza di un capostipite fondatore – si pensi alla fenomenologia di Husserl, all’ermeneutica di Heidegger, e alla biopolitica di Foucault – oggi è forse la decostruzione a godere della più vasta pervasività; e non tanto per intensità e clamore mediatico, quanto piuttosto in termini di tacita assunzione e di capillarità. A nostro modo di vedere, ciò è potuto accadere poiché, situandosi a cavallo di istanze epistemologico-metodologiche e di ipotesi ontologiche forti, il pensiero di Derrida ha raggiunto lo statuto di referente teorico ineludibile, sia dal punto di vista dei detrattori sia da quello dei più strenui fautori. Equipaggiando la filosofia di un metodo critico di lettura e riscrittura, così come, al contempo, drenando dai bacini delle filosofie decostruite operatori concettuali dormienti, la decostruzione ha fornito strumenti e spazi di disputa. È divenuta cioè il teatro ideale di animate discussioni, tanto interne, volte ad affinare la lettura degli stessi testi derridiani, quanto esterne, ossia vertenti sulla possibilità o meno di applicare le procedure e le nozioni decostruttive in relazione a prospettive di diverso lignaggio. Ora, è esattamente in direzione di questo doppio binario che si inserisce il recente lavoro di Francesco Vitale, Biodeconstruction. Jacques Derrida and Life Sciences (Suny Press, 2018). Frutto di un’attenta ricerca filologica, capace di coordinare l’approccio storico-ricostruttivo con quello più spiccatamente propositivo, il testo di Vitale si situa a pieno titolo tra i lavori della “scuola” decostruttiva progressista, intendendo con questa espressione quel filone di studi derridiani – di cui Rodolphe Gasché è probabilmente il nume tutelare – impegnati a manifestare fedeltà metodologica alla decostruzione, tramite un’espansione della sua area di operatività. Dopotutto il volume di Vitale, come si vedrà, cerca di assecondare quello che fu l’auspicio stesso di Derrida: preservare la singolarità del gesto decostruttivo tradendone però, di volta in volta, i limiti epistemici.
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Extra#2 \ TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia
Extra / Febbraio 2018TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia è la traccia di un dialogo spesso acceso, ricco di incomprensioni e riconciliazioni, che coinvolge architetti e filosofi, docenti e professionisti, e ancora biologi, dottori di ricerca, studenti. È il racconto di due discipline, architettura e filosofia, che si voltano per guardarsi reciprocamente, provando a innescare una svolta concettuale che deve divenire un nuovo punto di partenza. Precisamente questo è il doppio significato del termine “Turns”.
Da un lato infatti, il filosofo ha sempre avuto difficoltà a interloquire con l’architetto, sia per ragioni storiche sia per ragioni strettamente legate al suo metodo e ai suoi obiettivi. L’architetto sembra infatti presentarsi allo sguardo del filosofo come un personaggio al contempo perturbante e conturbante, in un misto di attrazione e biasimo, di invidia e ammirazione: una figura tanto sfuggente da investire la riflessione filosofica con effetto retroattivo, facendo scricchiolare le sue fondamenta concettuali e mettendo in dubbio nozioni fondamentali quali verità, libertà, realtà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, che hanno rappresentato per secoli il lessico base del pensiero occidentale. L’interesse verso una simile figura sembrerebbe ovvio. Eppure, quasi sempre è il filosofo che viene interpellato, utilizzato o coinvolto nel lavoro dell’architetto, in molti casi con l’intento di distillare spazialmente il senso dei suoi discorsi nel progetto. Non che ciò sia impossibile, ma, forse, dovremmo domandarci se è proprio questo quello che vogliamo: o se invece non sia compito del filosofo esercitare una sistematica e implacabile strategia di provocazione interessata, al fine di produrre un effetto, una particolare condizione dello sguardo. Creare la crisi, mettendo in discussione ciò che è dato, sapendo che, come spesso accade, l’apertura verso un nuovo oggetto di conoscenza lascia insoluti quei quesiti che lo vedono direttamente implicato per produrre un effetto retroattivo di chiarificazione nel soggetto indagatore, impegnato a leggersi ora attraverso una nuova forma di mediazione.
Dall’altro lato, per l’architettura il rapporto con la filosofia è storicamente naturale, quasi che questa fosse una visione complementare sul mondo rispetto al suo operato: questo era possibile perché la società si evolveva in modo relativamente lento, attraverso sedimentazioni di usi che diventavano convenzioni sociali, di pensiero, di stile. Così andava nell’architettura egizia, in quella classica, nel medioevo, nel rinascimento, finanche nel Modernismo: i significati erano decifrabili perché si condivideva un sostrato convenzionale. Ma qualcosa è cambiato. Le correnti durano pochi anni: poi passano, come le mode, spesso senza lasciar traccia – tranne edifici già superati, ovviamente. Così, spariscono le teorie dell’architettura, cioè sistemi che dicano cosa sia giusto costruire. E senza una teoria che legittimi le scelte, fioriscono le retoriche e le poetiche personali, spesso così ridicole da essere persino (e giustamente) oggetto di satira. La condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai fisiologica. Ed è qui che la filosofia diventa non solo utile, ma necessaria. A patto, certo, di non usarla in senso analogico, con derivazioni dirette che trasformano concetti in forme e pensieri in stili. Dialogare con i filosofi serve perché essi ragionano su temi che, in qualche modo, toccano gli architetti – ad esempio, lo spazio, l’invenzione, la città, la generazione della forma, il potere. Capire qualcosa di quei temi aiuterà a progettare con una maggior consapevolezza, o una più approfondita convinzione sulle ragioni del progetto, e a capirne meglio effetti ed esiti.
A cura di Carlo Deregibus e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/1.2018
Pubblicato: gennaio 2018
Indice
Alberto Giustiniano - ARCHITECTURAL TURN. Il filosofo e le sfide del progetto [PDF It]
Carlo Deregibus - PHILOSOPHICAL TURN. Fragilità dell’architettura contemporanea [PDF It]
(S)Block-Seminar
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DA LASCAUX AI JUNKSPACE
Giovanni Leghissa - Da Lascaux ai junkspaces (passando per Ippodamo da Mileto) [PDF It]
Giovanni Durbiano – Descrivere il progetto dello spazio [PDF It]
Riccardo Palma – Molteplicità e non naturalità degli spazi nella produzione del progetto di architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Dutto [PDF It]
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DECOSTRUZIONE, IMMANENZA, ILOMORFISMO
Giulio Piatti – Simondon e Deleuze di fronte all’ilomorfismo. Appunti sul rapporto forma-materia [PDF It]
Carlo Deregibus – Appunti su Chōra, spazio e architettura. Da Platone a Derrida [PDF It]
Paola Gregory – Le nuove scienze e la conquista dell’informale [PDF It]
Riccardo Palma – L’assenza necessaria dell’architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
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FENOMENOLOGIA E PROGETTO
Claudio Tarditi – Fenomenologia e architettura. Introduzione al problema della percezione spaziale in Edmund Husserl [PDF It]
Alberto Giustiniano – Tempo, forma, azione. Il senso del progetto nel dialogo tra Enzo Paci e Ernesto Nathan Rogers [PDF It]
Silvia Malcovati – Per un razionalismo relazionale [PDF It]
Carlo Deregibus – L’orizzonte del progetto e la responsabilità dell’architetto [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Tosca [PDF It]
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MORFOGENESI E AUTOORGANIZZAZIONE
Veronica Cavedagna & Danilo Zagaria - Quale spazio per la morfogenesi e l'auto-organizzazione? [PDF It]
Paola Gregory – Morfogenesi architettonica e “vita artificiale” [PDF It]
Carlo Deregibus – Progetto e complessità. Fascino dell’analogia e libero arbitrio [PDF It]
RIFERIMENTI di Edoardo Fregonese [PDF It]
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ANTROPOGENESI E COSTRUZIONE DELLO SPAZIO
Roberto Mastroianni – Regimi dello sguardo. Sloterdijk e la metafora spaziale [PDF It]
Alessandro Armando – La scrittura del futuro e la promessa del progetto [PDF It]
Daniele Campobenedetto – Leggibilità e materialità dello spazio [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Cesareo [PDF It]
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POTERE E SPAZIO
Luigi Giroldo – Genealogie dello spazio contemporaneo. Utopie moderne e nascita dell’urbanistica [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
BIBLIOGRAFIA
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Scrivere tra le pieghe. Nancy e Hantaï
Sconfinamenti, Serial / Febbraio 2017Tutto inizia con un duplice paradosso. Da una foto scattatagli da Antonio Semeraro nel 1994, il pittore Simon Hantaï ritaglia un particolare (che mostra le ginocchia, sformate e impolverate, dei propri pantaloni) e lo glossa sul retro con la scritta: «Ho passato la vita a quattro zampe. Scultura fatta dal corpo (Duchamp). Autoritratto, dunque». Se già questa, come immagine o sineddoche di sé, appare sorprendente, non lo è meno l’inclusione del particolare fotografico in un libro del filosofo Jean-Luc Nancy dal titolo Le Regard du portrait, accanto ad altre riproduzioni, quasi tutte di ritratti o autoritratti tradizionalmente intesi. Certo, considerando che il pittore ungherese ha dipinto gran parte delle proprie tele non su un cavalletto ma appoggiandole sul pavimento dell’atelier, si capisce in quale senso egli possa vedere nel dettaglio della foto un’immagine eloquente di se stesso. Da parte sua, Nancy prende sul serio tale definizione di ‘autoritratto’ perché si rende conto che, nell’arte contemporanea, la centralità dello sguardo della persona raffigurata si perde spesso a favore di più indirette rappresentazioni del soggetto, o di nuovi e imprevisti trattamenti «del sub e del getto (del supporto e della pittura)». In ogni caso, quando il filosofo si rivolge ad Hantaï per chiedergli l’autorizzazione a inserire nel proprio libro la foto dei pantaloni, probabilmente non immagina che la risposta positiva del pittore sarà all’origine di un carteggio fra loro destinato a durare anni e a essere pubblicato in due distinti volumi. Le lettere presentano un carattere personale e spontaneo ma, nel contempo, offrono utili spunti di riflessione. L’artista, infatti, è anche un lettore di testi filosofici, antichi e recenti, dunque in grado di dialogare senza imbarazzo col suo interlocutore. SCARICA IL PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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Jean-Luc Nancy – La comunità sconfessata
Recensioni / Marzo 2016Con La comunità sconfessata (ed. orig. La communauté désavouée, Galilée, Paris 2014) Jean-Luc Nancy compie un passo avanti nel tentativo di dipanare e allargare le maglie di un gioco di rimandi reciproci che lo connette a Maurice Blanchot a partire da L’absolu littéraire, apparso nel 1978: un rapporto di prossimità che lega Nancy a Blanchot nonostante i differenti percorsi teorici. La risposta di Nancy a La communauté inavouable di Blanchot, uscito nel 1983, si fa attendere trent’anni, anni che sono stati non solo testimoni della morte dello stesso Blanchot, ma anche della reale difficoltà di comprensione del suo testo e, in particolare, di quel segreto inconfessabile che, secondo l’autore, caratterizza propriamente la comunità. Nancy ammette di essere rimasto inizialmente paralizzato nel constatare che un autore del calibro di Blanchot decidesse di rispondere a un “giovane filosofo senza autorità” (p. 32) e con una tale sollecitudine (La communauté inavouable esce infatti lo stesso anno dell’articolo di Nancy intitolato La communauté désoeuvrée, “Aléa”, n. 4/1983). Solo recentemente l’imbarazzo e lo stupore, oltre che una certa prudenza teorica, hanno ceduto il passo all’urgenza etica che il tema della comunità prospetta e all’importanza di un’interrogazione su quel carattere comune delle nostre esistenze che ci consente di essere in rapporto, nell’insieme e nella condivisione (partage) ancora prima che individui o entità discrete.
In questo dialogo “a distanza” compare immediatamente un ulteriore referente, Georges Bataille, le cui opere del dopoguerra, rilette in un’ottica politica comunitaria, diventano oggetto d’interesse tanto per Nancy quanto per Blanchot. Anche in nome dell’amicizia e della fraternità che lo legano a Bataille, Blanchot si convince della possibilità di integrare la nozione di comunità alla luce delle analisi contenute in questi testi, in riferimento ai quali è sviluppata la nozione di “comunità negativa”. Nel corso del terzo capitolo – “Il cuore o la legge” – i rimandi ai testi di Bataille e di Blanchot, echi che ricordano i riferimenti silenziosi ricercati dalla poesia neoterica, si fanno serrati come se tre figure si riflettessero infinitamente su due specchi posti l’uno di fronte all’altro: il rifiuto di consacrare la comunità alla sua propria esistenza è punto di partenza comune tanto a Blanchot quanto a Nancy – che fonda infatti su questo rifiuto la scelta del termine ‘inoperosa’ – ma, se Nancy e Bataille relegano la sovranità a “nulla”, negandone l’essenza primaria (p. 48), Blanchot la consacra invece alla realtà dello Stato moderno, confinandola a un’altezza che nulla può eccedere e collocandola dalla parte degli dèi e degli eroi. Se per Bataille la scrittura resta lacerata nella sua tensione verso un’inaccessibile trasmissione, Blanchot vede nella scrittura stessa la possibilità di trasmettere l’intrasmissibile, offrendo dunque il suo testo come lavoro “dell’inoperosità”. La comunicazione sconveniente di Bataille – chiaro riferimento alla sua attività letteraria notturna di carattere erotico –, occupandosi di diffondere un segreto senza segreto, da un lato delinea una comunità di amici che sembra esprimersi nella forma stessa della “comunità inoperosa” e dall’altro dà voce all’abbandono dell’autore dovuto al movimento della sua stessa comunicazione, al suo comunicare qualcosa di incomunicabile. La produzione notturna di Bataille diventa anche occasione affinché si manifesti l’accortezza di Blanchot nei suoi riguardi che, in quanto amico e membro della comunità, si propone come custode del “cuore o della legge” e si fa portavoce dell’abbandono e dell’isolamento di Bataille tramite l’elaborazione di un’altra scrittura o, meglio, di una scrittura altra. Blanchot realizza infatti La communauté inavouable come tentativo di pensare la comunità lontano dalle semplificazioni operate dalle cause da sostenere, dalle leggi da rispettare e dalla dicotomia comunicativa che relega la scrittura dettata dalla passione “scatenata” o “abbandonata” alla sola sfera privata, allontanandola dalla legge o dalla politica. Scrive Nancy a tale proposito: «Il cuore o la legge: se la legge non può mai decidere del cuore, il cuore in compenso può dettare legge al di là di ogni legge. È forse l’inconfessabile» (p. 55).
La legge dell’abbandono, che per unicità ed eccezionalità può essere paragonata alla legge del cuore o dell’amore, condanna il soggetto a essere “senza ritorno e senza ricorso”. È Bataille dunque a essere in “estasi” (usando un termine caro allo stesso autore), a essere abbandonato e a venir meno come soggetto, rapportandosi in questo modo con l’esperienza della comunicazione e con la sua impossibilità. Blanchot, in quanto amico e membro della comunità, comprende meglio di tutti la solitudine di Bataille: tale aspetto è magistralmente assunto da Nancy nel cogliere a sua volta entrambi nel loro abbandono ancora prima che essi si comprendano reciprocamente. In ultima istanza, sembra che Blanchot, ancora prima di affrontare la questione della comunità, ci tenga a farla primariamente vivere e ad affermarla, rimarcando un certo legame continuo, uno slittamento di testi, rapporti e identità, un’immediatezza creativa e segnando, in altri termini, un abbandono stesso della comunità “senza ritorno e senza ricorso”, nonostante la forma d’insieme si mantenga sotto il suo nome. La comunità sconfessata si presenta quindi come un testo che, più che affrontare il tema della comunità, si pone esso stesso come il soggetto di una comunità invocata, tanto da aprire la riflessione a partire da un “Io” e a concluderla terminando con un “Noi”, e in quanto tale strizza l’occhio in modo tacito, ma perentorio, alla “comunità degli amanti” di Bataille.
Nel quarto capitolo – “La comunità consumata” – Nancy legge nella considerazione sul movimento del ‘68 l’occasione tramite cui Blanchot indaga il popolo che, in quanto istanza o soggetto, mantiene il proprio essere a partire dall’oscillazione continua tra assemblaggio e disassemblaggio; scartando ogni fondazione della comunità di carattere propriamente politico e privilegiandone una di tipo ontologico-sociale – che potremmo definire della Gemeinschaft, più che della Gesellschaft – Nancy vede la comunità, che si sottrae a ogni determinazione, legarsi tramite il proprio slegamento e realizzare il “mondo vero degli amanti”, la cui verità costituisce il cuore o la legge del popolo, «la legge di un popolo che va concepito più come un cuore che batte che come un’associazione» (p. 70). Si noti bene come l’amore, racchiuso nella sfera ristretta della soggettività, sia – nella sua impossibilità – estraneo alla comunità degli amanti, contrariamente alla passione, al conatus, che, simile all’obbligo etico, costituisce uno slancio che istituisce la relazione con l’alterità tramite l’abbandono che porta con sé.
L’ultimo capitolo – “Ciò che essenzialmente sfugge” – attribuisce l’elusività e i toni più marcatamente mistico-cristiani di Blanchot – che affida al suo libro il compito di “parlare” anziché tacere e che lo vede destinatario di un messaggio importante – al suo progressivo avvicinamento al tema, mai svelato, dell’inconfessabile, presenza di colpa politica non-confessabile, forma di indicibile. L’inconfessabile, riscontrabile nell’esperienza della morte, che si comunica senza che si possa decidere della sua comunicazione, consiste nell’impossibilità di determinare sia l’effettività sia la dissoluzione della comunità. In altri termini, l’inconfessabile va ricercato nell’impossibilità di attribuire senso ultimo ai rapporti interni alla comunità e nella necessità che la comunità stessa si mantenga incerta nella propria essenza, al riparo da ogni confessione come da ogni dominio e da ogni solidità, “insubordinata”, non-comune e dunque “sconfessata”.
di Evelina Praino