Uno sferragliare incede, coprendo le nostre parole, distraendo i nostri ragionamenti fino a perderli. Si sa, così come i ricordi giungono inaspettati come il sapore di una madeleine, allo stesso modo svaporano quando vengono sorpresi dall'impellente ritmo della quotidianità.
Il treno calamita gli occhi su di sé e non lascia spazio ad altro. Lo seguiamo mentre percorre i binari che costeggiano l'autostrada avvicinandosi inesorabile alla città. Ma il rumore si spegne con un boato appena la motrice scompare sotto i nostri piedi e s'addentra nelle viscere di Torino. Sappiamo bene che non lo vedremo sbucare dall'altra parte del ponte, direzionarsi verso il palazzo della San Paolo e pian piano farsi sempre più piccolo; eppure, per un automatismo dettato dall'esigenza di consequenzialità cinetica, voltiamo comunque lo sguardo.
Ricompare il cantiere e la nuda terra acquista adesso profondità. I binari che conducono fin sotto al grattacielo si snodano nel passante ferroviario sotterraneo e di conseguenza solo i residenti di vecchia data nelle aree centrali della città mantengono, forse, nella propria memoria l'immagine e la fastidiosa litania delle carrozze che giungono a Porta Susa; i nuovi arrivati, invece, si ricordano del treno solo quando sentono un tremore sui muri e i suoi pavimenti delle loro case. La ferita aperta dal grattacielo, che come un cuneo si è affondato nel suolo lasciando una grossa crepa che taglia a metà Torino, è stata man mano ricucita dalle ruspe e dai bulldozer e ora attende un intervento di chirurgia estetica per nasconderne la cicatrice: compariranno presto elementi architettonici in superficie che, come qualsiasi opera di maquillage, faranno dimenticare le tracce, il rumore e la traiettoria dei binari.
(si veda la passeggiata Corso Grosseto #1, foto n. 2)
Le modificazioni dell'aspetto urbano, infatti, trovano la loro forza nella diretta proporzionalità tra la velocità del cambiamento e quella di adattamento delle abitudini della popolazione. Il rischio è quindi quello di un oblio generalizzato sulla direzione dei flussi e sulla concatenazione di trasformazioni urbane che così costituiscono, sedimentandosi, il continuo presente degli abitanti della città.
Forse un giorno, quando il cantiere scomparirà, dal ponte di corso Grosseto nessuno potrà più intuire, come possiamo fare noi oggi, la stretta relazione centripeta che unisce il grattacielo, le nuove stazioni e le compagini urbane. L'asse di terra battuta che con il suo vuoto cattura lo sguardo sul punto di fuga, è una visione che solo ora si caratterizza nettamente come la direttrice strategica di una nuova entrata in città. Tuttavia è una considerazione parziale che – come già detto – è derivante dalla nostra prospettiva topologica e in quanto tale non può far riferimento a quell'innumerevole insieme di informazioni di cui necessiterebbe la comprensione dello spazio urbano.
Ci diciamo che sarebbe d'aiuto il poter vedere dall'alto del grattacielo le gru, i vuoti, le fratture, e come si dispongono lungo tutte le direttrici trasversali, poiché solo da lì, dal centro in cui si intersecano gli assi, la prospettiva renderebbe ragione in un sol colpo d'occhio di buona parte di quell'ingente mole di dati di cui sentiamo la necessità. Esistono infatti alcuni luoghi che si ergono a condensatori dei tempi, producono processi sociali e ne impartiscono la forma; quella torre di vetro è uno di questi.
Se poco prima ci eravamo detti che nessuna inquadratura può essere completamente esaustiva, non avevamo considerato che, al di là della conoscenza profonda della costituzione fisica della città e della massa mobile da lei informata, esiste una rappresentazione che è in grado di modificare la realtà perché è quella prodotta da chi ha i mezzi e gli strumenti tecnici per attuarla. È scontato dire che questa rappresentazione ci è preclusa, in quanto è una distanza siderale quella che ci separa da chi possiede tali requisiti.
E' necessario tener presente che i grandiosi scorci sulle città resi possibili dalle nuove costruzioni ferroviarie furono per lungo tempo accessibili soltanto a operai e ingegneri. Chi altri, infatti, oltre all'ingegnere e al proletario saliva i gradini che, soli, rendevano l'accesso al nuovo, al decisivo – al senso dello spazio di queste costruzioni?
Quando – e se – avremo la possibilità di salire sul grattacielo sarà il giorno in cui il maquillage sarà approntato. Davanti agli occhi avremo solo la maschera di Torino.
Per ora non ci resta che attraversare il ponte e cercare di proseguire lungo la linea immaginifica del progetto della Variante 200. Ci hanno raccontato di una città infinita, di un urbano sempre più difficile da definire, eppure non c'è nessuna moltiplicazione rizomatica da cercare di descrivere. Ci sono degli assi, dei nuovi centri e sì, anche delle ramificazioni più o meno articolate, più o meno pregne di importanza strategica. Tutto questo, però, è già previsto nello sviluppo gerarchico dell'arborescenza: seguirne un ramo significa riconoscere le frontiere che traccia, le aree che congiunge e soprattutto i piani longitudinali che costruisce a partire da determinate relazioni sociali. Vero è che il corpo urbano non può essere rappresentato solo da queste strutture, ma per descrivere tutto ciò che è altro è inutile avere sotto agli occhi un piano strategico; sarebbe necessario, invece, essere a conoscenza delle storie e delle pratiche di coloro che alla conformazione spaziale non si adattano.