-
All’interno delle opere che contribuiscono ad arricchire il panorama letterario sul neoliberalismo, alcune si occupano di individuarne la genesi o di circoscriverne l’attuale fenomenologia (dalla governamentalità flessibile alla gestionalità operante tramite eccezioni e stati di crisi), altre si dedicano a una ricostruzione della sintomatologia che affligge le soggettività in perenne (dis)equilibrio tra imprenditorialità di sé e precariato, poche – dopo aver obiettivamente constatato lo stato di reale crisi in cui versa il presente – azzardano, oltre alla diagnosi, una possibile cura. In questa direzione si muove invece Per la critica della ragione europea. Riflessioni sulla spiritualità illuminista, di Giovanni Leghissa, pubblicato quest’anno da Mimesis per la collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano.
Se l’autore presenta la proposta teorica contenuta in questo breve saggio come un manifesto, il lettore non stenterà a riconoscere in esso, oltre ai tratti dichiaratamente utopici o critico-polemici che lo connotano, la continuazione sistematica di quel progetto politico che già si intravvedeva all’interno della Conclusione Provvisoria contenuta in Neoliberalismo: un’introduzione critica, (Mimesis 2012). La necessità di interrogarsi sul tema della responsabilità in un contesto teorico in cui sembra non esserci più spazio per le teorie globali della giustizia, l’urgenza di mettere in risalto gli elementi – anche emotivi – che orientano le scelte umane all’interno di uno scenario contemporaneo che aumenta progressivamente di complessità e incertezza, e l’importanza di riflettere sulle capacità razionali che caratterizzano la conditio humana in quanto tale diventano, in questo testo, la cornice di senso – per usare un’espressione cara all’autore – all’interno del quale postulare la fondazione di una collettività d’appartenenza europea che si riconosca nella sua comune matrice culturale e, conseguentemente, politica.
L’idea di Europa, da intendersi non tanto come luogo geografico, ma come principio di legittimazione politica, consente all’autore, che da tempo si dedica allo studio del sistema neoliberale e delle sue criticità (Cfr. Leghissa & Becchio 2017), di proporre una tesi fondativa: la sovranità europea, all’interno dello scacchiere geopolitico, è a rischio e, con essa, quella concezione del mondo che, derivataci dall’Illuminismo, ha garantito per secoli la prosperità di un modo di vivere associato basato su ideali quali la libertà, la giustizia e l’uguaglianza di fronte alla legge. In quest’ottica, la proclamazione della necessità urgente di prassi politiche che ci conducano alla costituzione di una federazione europea e l’appello culturale a una “mitologia della ragione” di stampo hegeliano si pongono non semplicemente come rimedi ai sintomi di una crisi che imperversa un continente popoloso ma ormai in declino, come quello europeo, quanto come soluzioni che hanno visualizzato la crisi nella sua eterogeneità e che hanno evidenziato nell’assenza di un mito fondativo a cui radicare la propria appartenenza la causa della deriva culturale e politica insieme del continente.
All’interno della digressione sul presente che si dipana a partire dalla riflessione kantiana sull’ Aufklärung, Foucault attribuisce alla filosofia, in quanto pratica discorsiva dotata di una propria storicità, la necessità di collocarsi all’interno della propria attualità, per «dirne il senso» (2014, p .118), ma anche per sondare la modalità d’azione esercitabile all’interno di questa attualità. Facendo tesoro del monito foucauldiano, la proposta contenuta nella Critica per la ragione europea interroga il presente e, così facendo, entra nel discorso politico da un lato, producendo un’architettura del reale alternativa rispetto a quella nota, la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, dall’altro, suggerendo un’altra modalità secondo cui costituire la soggettività e il rapporto che essa intrattiene con la sua attualità, per mezzo di una spiritualità autenticamente atea. Secondo il principio per cui ogni trasformazione, individuale o collettiva, è data dalla combinazione originale di elementi dati, il richiamo all’Illuminismo e al suo specifico uso della critica e della riflessività in quanto paradigmi fondativi del pensiero moderno, ma anche come principi d’indagine teorica, consentono all’autore di individuare preventivamente e di riflettere sulle inevitabili debolezze del suo manifesto e di renderlo così collocabile entro un orizzonte di possibilità perseguibili.
Se nella lettera a Erodoto Epicuro insisteva sulla necessità di «cogliere quello che sta a fondamento delle parole» al fine di poter giudicare su fenomeni la cui problematicità è ancora irrisolta e di radicarsi al raziocinio per l’indagine dei fenomeni, Leghissa compie un’operazione simile all’interno del suo saggio compiendo un’attività di demistificazione dei significati a carico di complessi concettuali spesso usati impropriamente. Aldilà delle similitudini di metodo, la capacità di critica, cui l’autore sembra auspicare come principio generale per la lettura del presente testo, all’interno del saggio diventa quindi il mezzo per ridefinire alcuni termini della questione europea (solo per citarne alcuni: globalizzazione, p. 68, laicità, p. 88, ragione, p. 119, spiritualità p. 139) e la ricollocazione semantica che attua, mira a liberare il lettore da un mostro a tre volti, ognuno dei quali incarna le paure che immobilizzano attualmente la cittadinanza europea, con intento analogo a quello che animava il tetrafarmaco epicureo.
La paura è un tratto emotivo facilmente riconoscibile nella moltitudine che anima la nostra società; Leghissa intravede in questa paura la causa della presente crisi europea e, all’interno del primo capitolo della Critica si occupa diarticolare i vari volti della paura in sezioni tematiche che, se connesse, si riducono di complessità. La paura dello straniero, della globalizzazione e della guerra diventano inaggirabili a meno che non si abbia la capacità di articolare intorno a queste un discorso unico e significativo. Vedere lo straniero in termini di risorsa o di pericolo da includere o escludere dalla propria comunità politica; leggere nella globalizzazione un dispiegamento assoluto e totalizzante della ragione economica pronta a invadere le vite dei cittadini, abbandonati in stati d’eccezione perenne in cui la legge è sospesa; immaginare la guerra come uno scenario pericoloso, ma da cui difendersi non nominandolo sono tutte strategie che consentono di avere sempre delle risposte che appagano l’emotività ma non risolvono in alcun modo lo stato di crisi che tutti sperimentiamo quotidianamente. Comprendere la correlazione tra mito e politica e assumersi la responsabilità (individuale quanto collettiva) di ergere la propria mitologia di derivazione illuminista a fondamento ineliminabile della propria cultura comporterebbe un posizionamento identitario che da un lato, non avrebbe più motivo di temere il confronto con un’altra realtà religiosa – che, con l’ausilio della critica e della ragione, verrebbe identificata come una narrazione significativa tra le tante possibili – dall’altro consentirebbe un’affermazione politica originale in un terreno geopolitico tendenzialmente aggressivo. Ancora, vedere la globalizzazione come una molteplicità collettiva di attori variamente costituita e distribuita su differenti livelli di gerarchizzazione che ridisegna lo spazio in cui si muove attraverso il controllo e la gestione di flussi (di denaro, di merci, di individui etc.) consente di tener presente un aspetto che depotenzia enormemente la teoria di un dominio inarrestabile dei mercati; ogni interazione si origina a partire da una cornice statale e istituzionale e ogni mediazione viene salvaguardata dalla condivisione di modelli mentali da parte di coloro che sono a capo delle organizzazioni. In altre parole, ogni interazione – per quanto disseminata sul piano globale – è normata e tende al successo, nella misura in cui «ogni istituzione, o organizzazione, persegue un unico fine: sopravvivere» (p. 45). Infine, intendere le azioni militari compiute dagli eserciti europei nei diversi scenari del pianeta e gli atti terroristici che immobilizzano le nostre città per quello che sono realmente, ossia atti di guerra, consentirebbe di volgere la discussione pubblica sulla possibilità di una comune difesa europea che renda tangibile quel senso di comunità che i membri dell’Unione Europea si ostinano a difendere almeno verbalmente e che affermi l’esistenza politica dell’Europa aldilà dei suoi confini.
La seconda sezione del testo – La laicità e le forme della condivisione – si apre con una digressione riguardante il processo di decision making: essere consapevoli del fatto che le scelte vengono fatte da parte di individui razionali all’interno di «cornici di senso e istituzionali» che orientano la scelta e che «tali cornici hanno un impatto sulla sfera emotiva degli individui» (p. 75) aiuta a comprendere il perché sia importante un orientamento collettivo volto a valorizzare il terreno simbolico intorno al quale gravita la cultura europea. Nessuna scelta, per quanto razionale, viene perseguita in nome della razionalità e le argomentazioni nulla valgono di fronte a sistemi di credenze, magari erronei, ma consolidati: questo è il motivo per cui non basta indicare una via razionalmente perseguibile per uscire dalla crisi attuale e le politiche dell’inclusione non sono mai servite a scalfire l’inclinazione razzista che compare periodicamente in ogni paese. Un cambiamento rilevante si avrebbe invece riconoscendo la forza del legame che intercorre tra la sfera affettiva dell’individuo e il suo vivere politico e ponendo in primo piano la narrazione mitica in luogo dell’argomentazione razionale. In questo senso, la laicità atea che, pur consapevole dell’importanza della componente religiosa nell’esperienza umana, si impegna a spiegare i comportamenti religiosi in termini storici, può farsi mito e principio fondativo del vivere comune da far valere come fondazione politica degli Stati Uniti d’Europa «in grado di rendere inutili le controversie su chi è europeo e chi no sulla base dell’adesione a questo o quel sistema di credenze religiose» (p.98).
È possibile che una laicità atea di matrice materialista venga a costituire il mito fondativo intorno a cui articolare una modalità di vivere propriamente europea, ma è davvero possibile considerare l’ateismo una forma di religiosità? Nell’ultima sezione del saggio, Il materialismo come esperienza spirituale, l’autore indaga la relazione tra materialismo – su cui articolare una mitologia della ragione (p.125) – e il mondo degli affetti dell’individuo, consapevole di quanto non sia la persuasione cognitiva a render conto dell’agire morale o dell’attitudine spirituale dell’uomo. Forte dei risultati provenienti dalla biologia evolutiva, Leghissa rassicura tanto sulla possibilità di interazioni simpatetiche e altruistiche tra sapiensanche all’interno di un orizzonte finito e vulnerabile, come quello materialista, tanto sulla possibilità del materialismo stesso di entrare in risonanza con la sensibilità umana a tal punto da orientare significativamente il suo sguardo sul reale e costituirsi, in un’ultima analisi, come spiritualità.
Ragione, ateismo, laicità, storicità, scientificità del metodo, stato di diritto, norme, uguaglianza, libertà sono alcuni dei termini che costituiscono una rete concettuale a cui ogni europeo, a partire dalla modernità, farebbe riferimento nel tentativo di esplicitare il senso di appartenenza che lo radica al suo continente; la proposta contenuta in Per la critica della ragione europea suggerisce di articolare questa rete in una narrazione mitica che, risuonando nella sfera affettiva dell’uomo, sia in grado di dare statuto a questa appartenenza, salvaguardarla e fondarla politicamente tramite la costituzione degli Stati Uniti d’Europa. La realizzazione, spetta a noi.
di Evelina Praino
Bibliografia
Leghissa, G., Per una critica della ragione europea. Riflessioni sulla spiritualità illuminista, Mimesis, Milano-Udine 2019.
Leghissa, G., Neoliberalsimo. Un’introduzione critica, Mimesis,Milano-Udine 2012.
Leghissa, G. Becchio, The Origins of Neoliberalism. Insights from economics and philosophy, Routledge, London-New York 2017.
Foucault, M., Il problema del presente. Una lezione su “Che cos’è l’illuminismo?” di Kant, In Poteri e Strategie, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 115-126.
-
PK#9 \ Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi
Rivista / Settembre 2018L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
A cura di Lorenzo Curti e Irene Ferialdi
Scarica PDF
English version
DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/9.2018
Pubblicato: settembre 2018
Indice
Editoriale
L. Curti, I. Ferialdi, Soggettivazioni: tra vuoti e contiguità [PDF It]
I. Genesi
P. G. Curti, Estrarre il soggetto [PDF It]
C. Mola, Intrecci concettuali. Il soggetto tra Hegel, Kojève e Lacan [PDF It]
A. Lattuada, L’atto reale e la genesi del soggetto nella psicoanalisi di Jacques Lacan [PDF It]
D. Tolfo, Per un'analisi non significante della soggettività: la funzione del punto-segno ne l'Anti-Edipo [PDF It]
II. Trasformazioni
L. Melandri, La parola contaminata dei movimenti non autoritari degli anni Settanta [PDF It]
R. Chiafari, Drammaturgia e metamorfosi del genio maligno: soggetti e spettri tra follie e ragione [PDF It]
M. Di Bartolo, La psicoanalisi come estetica dell'esistenza [PDF It]
A. Soares De Moura Costa Matos, Streaming Subjectivation: Two Questions and One Thesis about Netflix [PDF En]
III. Reale
F. Cimatti, La lingua c'è. Saussure, Chomsky e Lacan [PDF It]
A. Pagliardini, Verso il reale: schizofrenia/psicoanalisi [PDF It]
F. Vergine, Le origini trascendentali del mondo. Per un'ontologia topologica del reale [PDF It]
Traduzioni
A. Zupančič, Differenza sessuale e ontologia [PDF It]
F. Rambeau, La fosforescenza delle cose [PDF It]
Interviste e recensioni
Intervista a Franco Lolli [PDF It]
F. Zambonini, Una quasi-recensione a "Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan" di Sergio Benvenuto e Antonio Lucci. Considerazioni marginali sul rapporto filosofia-psicanalisi [PDF It]
-
Si tratta di una delle storie più note a chi frequenta i territori filosofici: la filosofia nasce come superamento del mito, costruisce il proprio spazio negando e lasciandosi alle spalle il mito, sforzandosi di superare il suo linguaggio, anche quando – Platone lo testimonia per primo – si ritrova a farne ancora uso. Da qui la convinzione che, in fondo, pensare significhi non raccontarsi storie, ma anche che conoscere sia l’operazione anti-mitologica per eccellenza (la finzione narrativa del mito che fa spazio alla verità razionale della scienza). A fronte di tutto ciò, un volume che ha il coraggio di riaprire il discorso sul rapporto tra mito e filosofia merita la più assoluta considerazione. Sarebbe ingeneroso pretendere di riassumere in pochi capoversi i trenta fitti saggi che compongono il testo, in cui il dibattito antropologico, storico-religioso, sociologico e psicologico si intreccia felicemente alle riflessioni teoriche e all’opportuna ricostruzione di casi storici; per questo, mi limiterò a presentare quelli che mi sembrano i due assi principali dell’opera, legati a loro volta a un’idea fondamentale che fa da basso continuo a tutti gli interventi: il mito non tanto “è qualcosa”, ma piuttosto “fa qualcosa”. La prospettiva funzionalista deve sostituire quella sostanzialista.
Il primo asse ruota attorno alla convinzione che ripensare la contrapposizione tra mito e ragione non significa semplicemente dire che il mito sia ovunque, che tutto sia mito, che in realtà anche la filosofia e la scienza sono in qualche modo “mitiche”. Il punto è piuttosto riconoscere che il mito non è stato semplicemente superato una volta per tutte, né deve essere lasciato alle spalle, perché non è una modalità di rapporto con la realtà imperfetta, incompiuta e difettosa rispetto a quella razionale: è piuttosto una modalità altra con delle proprie specificità e – soprattutto – con la propria utilità. Si tratta infatti di comprendere che le ambiguità e le contraddizioni del mito, capace di generare fascino e seduzione come repulsione e rinnegamento, sono legati al fatto che il mito è innanzitutto una prassi, che si colloca cioè in una dimensione performativa che si avvale di peculiari materiali e pratiche: il mito rappresenta la tessitura – in termini foucaultiani – di un vero e proprio ordine discorsivo, di un dispositivo di sapere-potere. In questo senso, esso ha persino una propria “razionalità”, nella misura in cui possiede una struttura e delle modalità di funzionamento e dispiegamento irriducibili ad altro e – soprattutto – insubordinabili a quelle proprie della ragione in senso stretto. Senza che ciò debba tradursi nella celebrazione della narrazione mitica a discapito della discorsività argomentativa, evidentemente; anzi, occorre proprio cominciare a vederle come complementari piuttosto che dirette antagoniste.
In particolare, il mito gioca un ruolo decisivo nella messa in opera della realtà politica e nella costruzione dell’identità sociale: il mito è produzione di memoria, di coesione, di immaginario, è fondazione del legame socio-culturale e dell’articolazione storico-temporale, offre un punto di riferimento per la stabilità di un gruppo. Il mito produce tutto ciò proprio mentre è da tutto ciò prodotto e riprodotto: il mito orienta. È per questo che esso non può essere semplicemente “demistificato”, in nome della ragion pura come della denuncia delle ideologie: il mito non è un vestito che ricopre una supposta realtà originaria e fatto proprio da una determinata classe sociale per tenerne sotto scacco un’altra; è – piuttosto – una modalità di accesso alla realtà che accomuna le diverse (supposte o effettive) classi sociali, che consente loro di far parte della medesima società. In poche parole, il mito ha una peculiare funzione soprattutto sociale, fonda la socialità umana, è un fattore di coesione e condensazione rispetto alla vita associata: il mito istituisce proteggendo e preservando – immunizzando. Ed è proprio qui che la sua funzione stabilizzatrice diventa indisgiungibile dal rischio di tradursi in un fattore di sclerotizzazione o eccessiva solidificazione; è perciò che il mito può essere tanto un orizzonte di condivisibilità quanto una cornice intrascendibile, che la sua macchina può generare forme di conoscenza e di circolazione linguistica, immaginale e simbolica che si autocertificano come verità naturali e immodificabili.
Il secondo asse attorno a cui si costruisce il volume consente però proprio di spiegare meglio il senso di questa utilità e il motivo profondo per cui il mito non può essere superato. Infatti, riprendendo soprattutto la lezione di Blumenberg, la funzione simbolico-performativa del mito va letta in chiave antropogenetica, vale a dire che l’utilità del mito è antropologica: il mito è uno dei modi tramite cui l’animale umano articola il senso della propria esistenza e il rapporto al proprio ambiente. Più specificamente, il mito consente di addomesticare il mondo e di dare così stabilità all’esistenza, è una forma di metaforizzazione della realtà e della propria posizione al suo interno che consente di dare a entrambe una figura. In altri termini, per quell’essere – quale l’uomo è – esposto, vulnerabile e consegnato al compito di dar attivamente forma al proprio rapporto con il mondo e di condurre esplicitamente la propria esistenza, il mito rappresenta un sistema di prevenzione da un’eccessiva prossimità con il reale e conseguentemente un meccanismo di misurazione delle giuste distanze da esso: troppe domande sull’origine del mondo generano angoscia, certo, ma la medesima angoscia si produrrebbe qualora non venisse prodotto nessun tipo di risposta. Il mito è proprio il tentativo di fornire una risposta che, pur non rifiutando la domanda sul senso del mondo, cerca però di limitarne la proliferazione indefinita, di interromperne il regresso all’infinito: finché l’uomo dovrà orientarsi nel mondo – a dire: finché l’uomo esisterà – il mito interverrà a offrire sostegno e supporto. In breve: il suo spettro di variazioni storiche e culturali fa dunque da controcanto all’invariante antropologica del bisogno di metafore capaci di far fronte all’assolutismo della realtà. Certamente, si potrebbe sostenere che il richiamo a Blumenberg comporti un eccessivo ricorso a quel “paradigma dell’incompletezza” o “fiction dell’essere carente” che gli sviluppi contemporanei dell’antropologia filosofica hanno cercato di ripensare (a partire da Sloterdijk, non a caso uno degli autori comunque chiamati in causa dagli interventi), così come implicherebbe di conseguenza anche un’eccessiva insistenza sul bisogno di protezione e riduzione del rischio e meno su quello di esplorazione e soddisfazione della curiosità. Come a dire che il mito può o deve essere considerato anche un dispositivo di scoperta di possibilità, oltre che di contenimento della loro dispersività, ossia che – pensando soprattutto alla dimensione sociale – al mito va riconosciuta più nettamente una dimensione simbolico-espressiva a fianco di quella contenitivo-stabilizzante. Tuttavia, ciò nulla toglie al punto di fondo da tener fermo: riconoscere che il mito è un paradossale “zero efficiente”, un nulla performativo, in ragione della stessa costituzione umana, e non il residuo di un passato oscuro da scrostarsi di dosso una volta per tutte. Ed è da questo punto fermo che il volume chiede di ripartire e di pensare.
Per chiudere, come viene pregevolmente evidenziato dai curatori, padroneggiare totalmente le problematiche scientifiche come le dimensioni pratiche connesse al mito è un’impresa ai limiti dell’insormontabilità: mito si dice e si fa senza dubbio in molti modi. Ma l’altrettanto indubbio pregio dell’opera è sforzarsi di mostrare questa molteplicità, è offrire un quadro insieme complessivo e articolato di quel solo apparente ossimoro che è la “filosofia del mito”, al fine di contribuire a rendere meno cogente la sottile violenza con cui tende a presentarsi ciò che è ovvio e a indicare così nuovi spazi di libertà possibili. Siamo insomma di fronte alla piena assunzione del compito forse più peculiare e controverso di cui la filosofia tenta di farsi carico: pensare il proprio tempo in rapporto al suo trascorrere.
di Giacomo Pezzano