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Bernard Stiegler e la miseria simbolica
Recensioni / Aprile 2022Non c’è evoluzione tecnologica senza che, nel più profondo, avvenga una mutazione del capitalismo
G. Deleuze, Proscritto alle società di controlloPer cogliere il senso complessivo del denso lavoro di Bernard Stiegler, La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale 1 (Meltemi, 2021) iniziamo con l’interrogare i termini che compongono il titolo dell’opera. In cosa consiste per l’autore “la miseria simbolica” che caratterizza le nostre società in quella che egli definisce l’“epoca iperindustriale?”
«La nostra epoca – scrive Stiegler – si caratterizza come presa di controllo del simbolico da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica» (p. 25). L’effetto di un tale conflitto sugli individui è la miseria simbolica, vale a dire «la perdita di individuazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione di simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi)» (p. 38).
Come l’autore annuncia nella Prefazione, il testo va considerato come un commento al Proscritto sulle società di controllo (in Pourparler, Quodlibet, 2019) di Gilles Deleuze. In quelle poche pagine, com’è ben noto, Deleuze sostiene che le “società disciplinari” analizzate da Michel Foucault, con l’organizzazione dei grandi ambienti di internamento (famiglia, scuola, fabbrica, ospedale, carcere) che caratterizza la loro logica, e storicamente collocabili tra il XVIII e l’inizio del XX sec., siano ormai state sostituite dalle società di controllo, la cui peculiarità consiste nell’estensione, nell’intensificazione e nella complessificazione della logica dei processi distintivi della rivoluzione industriale applicati anche alla sfera simbolica del desiderio. Nell’attuale forma di capitalismo, che Stiegler definisce con Jeremy Rifkin «culturale» (p. 83), la dimensione estetica – qui intesa in senso ampio come dimensione del sentire in generale, e nella quale soltanto è possibile costituire un “io” e un “noi” a partire da un pathos comune – viene sistematicamente presa nelle maglie del calcolo, il cui dominio, anche grazie al recente processo di digitalizzazione, si è esteso ormai ben al di là della sfera della produzione, «nella integralità dei dispositivi caratteristici di ciò che Simondon chiama l’individuazione psichica e collettiva» (p. 82).
Nell’epoca iperindustriale la legge del capitale non è più la produzione, ma «il marketing in quanto controllo dei tempi di coscienza e dei corpi attraverso la macchinazione della vita quotidiana» (p. 83), così come il luogo paradigmatico non è più la fabbrica, ma l’impresa. L’iperindustrializzazione – è questa la tesi di Stiegler – ha dunque un riscontro paradossale: da un lato fa apparire una nuova immagine dell’individuo, il consumatore, dall’altro la generalizzazione del calcolo impedisce, o quantomeno ostacola fortemente, il processo di individuazione stesso che, solo, rende l’individuo possibile.
Del saggio deleuziano, Stiegler non condivide soltanto l’analisi insieme storica e logica relativa all’insediamento progressivo di un nuovo regime di dominazione, quello, cioè, caratteristico delle società di controllo, e che comporta una notevole perdita di individuazione, vale a dire la miseria simbolica, ma fa pienamente suo, se così possiamo esprimerci, anche lo spirito politico battagliero, che anima quelle pagine e che ben si esprime in queste parole, che lo stesso Stiegler cita: «Non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi» (Deleuze, 2019, p. 235). Come ben specifica Rosella Corda nell’Introduzione, il lavoro di Stiegler non si limita infatti «alla costatazione sterile o alla rassegnazione diagnostica», ma si pone l’obiettivo di trovare, «proprio in questo disperare, mancare di speranza, un po’ di possibile» (Stiegler, 2021, p. 9)
La questione delle armi, come esplicitamente afferma l’autore, è la «questione della tecnica in generale» – ovvero la questione cardine su cui ruota tutta l’opera di Stiegler fin dal suo primo lavoro La technique et le temps 1. La faute d’Épimethée, –, la quale è anche questione del politico, questione, cioè, «del destino di un noi» (Stiegler 2021, p. 38). La questione della tèchne, che, ricordiamolo, per Stiegler è un pharmakon, vale a dire insieme veleno e antidoto, si articola qui nell’ipotesi di un’organologia generale, la quale si pone l’obiettivo di indagare, dal punto di vista di una prospettiva antropologico-filosofica, la genesi del processo di ominazione. La domanda a cui l’organologia risponde è dunque una domanda sulla seconda natura dell’uomo, vale a dire sulla natura “originariamente” protesica, e cioè tecnica, dell’uomo. Un’adeguata interrogazione della secondarietà che contraddistingue l’umano rappresenta una condizione senza la quale non è possibile comprendere l’epoca attuale e la sua miseria simbolica, né risulta possibile – ed è questo ciò che più conta per Stiegler – indicare delle vie alternative a tale stato di miseria.
Il progetto di un’organologia generale prevede lo studio congiunto di quelle che Stiegler considera le «tre grandi organizzazioni che formano la potenza estetica dell’uomo: il suo corpo con la sua organizzazione fisiologica, i suoi organi artificiali (tecniche, oggetti, utensili, strumenti, opere d’arte) e le sue organizzazioni sociali che risultano dalla articolazione degli artefatti e dei corpi (pp. 31-32)». Il concetto chiave su cui l’autore costruisce tale progetto è il concetto di ritenzione terziaria, il quale, a differenza dei concetti di ritenzione primaria e di ritenzione secondaria con i quali Husserl indicava rispettivamente la dimensione della percezione e la dimensione dell’immaginazione, indica la dimensione artificiale della produzione da parte dell’uomo di oggetti di memoria esteriorizzata, come ad es. lo smartphone, i libri, gli edifici, le targhe commemorative, i film.
Nel terzo capitolo del libro “Allegoria del formicaio. La perdita di individuazione nell’epoca iperindustriale”, Stiegler ricostruisce per tappe storiche il processo di produzione delle ritenzioni terziarie, che egli chiama epifilogenesi. «L’ambiente epifilogenetico – scrive l’autore – come insieme delle ritenzioni terziarie costituisce il supporto dell’ambiente preindividuale permettendo l’individuazione del genere» (p. 89). Essendo l’epifilogensi il «deposito di memoria che è specifico di una forma di vita unica, quella del genere umano» (p. 66), ed essendo la natura dell’uomo già da sempre tecnica, la storia dell’epifilogenesi segna le tappe dell’individuazione dell’uomo, in particolare dell’uomo occidentale. Senza poter approfondire i vari passaggi che caratterizzano questa storia, che è anche la storia di una lotta per la definizione delle criteriologie dei dispositivi ritenzionali («processo di grammatizzazione», p. 90), ci preme mettere in luce il fatto che secondo Stiegler questo processo ha raggiunto un punto limite nell’epoca iperindustriale. Il processo di individuazione rischia cioè di annullarsi in favore di una «ipersincronizzazione» (p. 96) – ben resa dall’allegoria del formicaio – in cui la differenza tra “io” e “noi” collassa nel “si”, ovvero in quella condizione che Stiegler chiama anche di «mal-essere» (p. 98), tale per cui gli individui, non avendo più accesso alla produzione di simboli, perdono la loro singolarità e la correlata possibilità di proiettarsi in un “noi” e, dunque, in una dimensione politica. Privati di singolarità, gli individui cercano di singolarizzarsi mediante gli artefatti che il mercato mette loro a disposizione, il quale sfrutta la miseria propria del consumo stesso, e così facendo fanno esperienza del loro fallimento: «non si amano più e si rivelano sempre meno capaci di amare» (p. 99).
Concediamoci ora una considerazione generale sul senso dell’opera di un autore come Stiegler. Se ci soffermassimo soltanto sul lato diagnostico, sulla pars destruens del suo discorso correremmo il rischio di eludere l’aspetto più rilevante dello sforzo intellettuale – e non solo – dell’opera e della vita di Stiegler, il quale riguarda l’impegno con cui l’autore ha da sempre tentato di rispondere alla domanda: “che fare?”. Se infatti considerassimo solo l’aspetto analitico della sua opera, finiremmo per giudicare Stiegler, come pure è stato fatto soprattutto dopo la pubblicazione de La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro (Meltemi, 2019), un autore catastrofista. Per quanto la situazione diagnosticata dall’autore sia effettivamente catastrofica, Stiegler, come si è detto, non cede nemmeno per un attimo al catastrofismo. È questo un punto battuto da tutti i curatori delle edizioni italiane recenti delle opere di Stiegler, sulla cui insistenza, potremmo dire, Meltemi ha costruito la cifra peculiare della sua operazione editoriale, che ha portato alla pubblicazione dei due volumi sulla miseria simbolica (Stiegler, 2021; La miseria simbolica. 2. La catastrofe del sentire) e a quello sulla società automatica (Stiegler, 2019) nella serie “Culture radicali” diretta da Gruppo Ippolita.
Come scrive Giuseppe Allegri in un articolo online su OPERAVIVA dal titolo Dentro, oltre e contro la società automatica, «il ricercare e l’agire di Stiegler si oppone radicalmente a qualsiasi visione apocalittica che altri rintracciano nel suo pensiero, del tutto inspiegabilmente e proprio leggendo il volume sulla Società automatica, mentre la postura del Nostro è anche e soprattutto quella progettuale e sperimentale, per la promozione e il sostegno di collettivi di ricerca che coinvolgano e che già coinvolgono ampi spezzoni di società, associazionismo di base e frammenti di classe dirigente, disposti ad accettare e orientare la trasformazione tecno-digitale e socio-economica nel senso di un ripensamento radicale delle categorie e delle pratiche sociali per maggiore autodeterminazione, dignità, felicità in favore dei molti» (https://operavivamagazine.org/dentro-oltre-e-contro-la-societa-automatica/). Lo stesso Allegri, autore della postfazione al testo qui recensito, e significativamente titolata Ricchezza delle pratiche inventive, fa un lungo elenco delle attività che hanno impegnato Stiegler dalla fine degli anni Novanta fino alla sua scomparsa nell’agosto del 2020, e che lo hanno coinvolto nella fondazione di «nuove istituzioni», quali, tra le molte altre, citiamo Ars Industrialis, «la cui “ragione sociale” è quella di un’associazione europea per una politica industriale delle tecnologie dello spirito», o «IRI – Institute pour la Recherche et l’Innovation presso il Centre Pompidou, all’interno del quale è riuscito a promuovere una rete di Digital Studies inaugurata nel 2012»,o che lo hanno visto collaborare al «progetto avviato nel maggio 2016 di Territoire Apprenant Contributif, che coinvolge i 9 comuni di Paris Nord/Seine-Saint-Denis» (pp. 160-161).
Specificamente per quel che riguarda La miseria simbolica 1. L’epoca iperindustriale, in tutte le pagine che compongono i quattro capitoli del libro, finanche nei punti in cui la disperazione emerge in maniera più forte, e, anzi, soprattutto lì, la domanda sul “che fare?” e la ricerca continua di quella che con una bella espressione Stiegler definisce l’«energia zoppicante della chance» (p. 124) non scompaiono mai dall’orizzonte. In particolare, si ha un riscontro evidente dell’insistenza con cui Stiegler si spende per “cercare nuove armi” nell’analisi dei due film On connaît la chanson di Alain Resnais e Tiresia di Bertrand Bonello, che egli conduce rispettivamente nel secondo (Come se ci mancassimo o di come trovare delle armi a partire da Parole parole parole… (On connaît la chanson) di Alain Resnais”) e nel quarto capitolo (“Tiresia e la guerra del tempo. A proposito di un film di Bertrand Bonello”) del testo.
Nel film di Resnais il nostro autore trova esemplarmente tracciata, nel modo in cui il regista compone e scompone cliché attraverso l’utilizzo della tecnica del sampling e più specificamente attraverso la ripetizione ventriloqua che i personaggi si trovano a fare dei ritornelli di alcune famosissime canzoni francesi, la via «per una nuova capacità di immaginare/sentire» (p. 15), che prenda le mosse proprio da quel processo che fa scomparire la differenza tra “io” e “noi” nel “si”, ma tentando di invertirne la direzione.
di Gian Marco Galasso
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Tim Ingold – Making. Una ecologia del produrre
Recensioni / Maggio 2019Potremmo pensare che filosofi e artigiani facciano due mestieri molto diversi, che hanno davvero poco a che vedere l’uno con l’altro: il primo infatti pensa, scrive e parla mentre il secondo fa, produce e manipola. Forse proprio per questo è poco usuale, per i filosofi, interrogarsi sul nesso tra la loro attività abituale, il pensiero, e il fare che segna tanto il lavoro dell’artigiano quanto la più comune prassi quotidiana. Ed è forse altrettanto poco usuale per un operaio o un artigiano chiedersi in che modo, nella sua attività di produzione, egli stia anche pensando. Eppure si tratta di una questione straordinariamente feconda, ci insegna Tim Ingold nel suo Making, prima opera dell’autore ad essere interamente tradotta in italiano a cura di Gesualdo Busacca per Raffaello Cortina (Milano, 2019, pp. 262). Il testo scaturisce dall’esperienza di un corso universitario tenuto da Ingold a partire dal 2004 nella facoltà di Antropologia dell’università di Aberdeen, intitolato: Le quattro A: Antropologia, Archeologia, Arte e Architettura. Più volte ripreso e messo da parte nel corso degli anni, Making esce per la prima volta nel 2013 e riprende l’ossatura teorica di Being alive (2011), la raccolta di saggi in cui si sviluppa un originale percorso teorico mosso dall’esigenza di riavvicinare l’antropologia alla vita. Ciò che però contraddistingue Making, rispetto a questa raccolta, è l’intimo legame che la riflessione intrattiene con l’esperienza al contempo didattica e di ricerca dell’insegnamento universitario. Ingold intende spingersi ben oltre la trasmissione di nozioni ridotte a rappresentazioni astratte, ferme e chiuse; è piuttosto interessato a coinvolgere i suoi studenti in percorsi di movimento nell’ambiente che aprano ad esso in un atteggiamento di ascolto ed esplorazione. Il gruppo si educa così a una forma di attenzione percettiva che permette di porsi sulle tracce delle cose che abitano il mondo tramite una paziente e scrupolosa raccolta di indizi. Gli studenti, infatti, erano chiamati non solo a seguire lezioni frontali, ma soprattutto a cimentarsi in esperienze di manipolazione di materiali e costruzione di oggetti nel corso di esperimenti e laboratori collettivi sempre accompagnati da momenti di restituzione e discussione. Le quattro A intrecciava dunque attività di produzione ed elaborazione riflessiva, facendole scaturire come momenti di una conoscenza trasformativa che si innesta sui percorsi vitali delle cose e si sviluppa con essi. Questo lavoro dà origine alla pratica di formazione collettiva nella quale prendono corpo le idee che animano il libro. Nell’ambito di un corso universitario, volto comunemente a produrre tramite il pensiero, Ingold e i suoi studenti imparano ad imparare in un altro modo, ossia a pensare tramite il produrre.
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Mariana Mazzucato – Lo stato innovatore
Recensioni / Aprile 2016Con il libro Lo Stato Innovatore (Laterza, 2014) Mariana Mazzucato ha rotto il silenzio che pervadeva nell’accademia e tra l’opinione pubblica europea circa il ruolo dello Stato in una moderna economia di libero mercato. Il libro ha avuto un’ampia diffusione, soprattutto in Italia e nel Regno Unito, dove Mazzucato insegna Economia dell’innovazione. Se ne è molto dibattuto, perché la tesi centrale dell’autrice è in radicale opposizione sia con le teorie economiche correnti sia con l’atteggiamento della politica europea degli ultimi trent’anni: secondo l’autrice lo Stato dovrebbe intervenire di più e meglio nel sistema economico. Esperta di innovazione tecnologica e del rapporto di quest’ultima con la crescita economica e il tessuto produttivo, Mazzucato sostiene due posizioni fondamentali: la prima è che il contributo attivo dello Stato nel creare innovazione tecnologica è largamente sottostimato e taciuto; la seconda è che il settore privato non è in grado di produrre da solo l’innovazione necessaria per garantire crescita economica e risposte ai più urgenti problemi globali (in primis la crisi ambientale).
Mazzucato ha un curriculum di eccezione da economista eterodossa. Ha ottenuto il dottorato alla New School for Social Research, prestigiosa università americana considerata fra le più progressiste d’oltreoceano. Effettivamente i riferimenti teorici del libro sono esplicitamente eterodossi: John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter, Karl Paul Polanyi e Hyman Minsky sono tra i nomi che l’autrice evoca per fondare le argomentazioni di policy del libro su solide basi teoriche. L’argomento più convincente in favore del necessario intervento statale per promuovere e realizzare l’innovazione scientifica e tecnologica sarebbe la differenza tra i concetti di rischio e di incertezza, sottolineata dall’economista americano Frank Hyneman Knight negli anni Venti del secolo scorso. Il primo caratterizza la condizione di indeterminatezza rispetto a una serie di eventi che potrebbero verificarsi. Prendiamo per esempio il classico lancio della monetina. Non si può sapere prima del lancio quale sarà il risultato, ma si può calcolare con precisione la distribuzione probabilistica dei due eventi possibili. Da ciò risulta che il rischio è quantificabile e in effetti i moderni mercati finanziari si basano sostanzialmente sulla misurazione del rischio e della sua “commodificazione” sotto forma di assicurazioni, contratti derivati e altri tipi di strumenti economici. L’incertezza invece è la completa incapacità di prevedere un evento futuro, proprio come nel caso di uno scienziato che conduce un esperimento per scoprire una nuova tecnologia. Secondo Mazzucato l’innovazione si basa sul concetto di incertezza ed è per questo che il settore privato – aziende e venture capitalist, cioè quegli investitori specializzati nel finanziare progetti innovativi e altamente rischiosi – dimostra di non avere gli incentivi giusti e quel “capitale paziente” che permetterebbe all’innovazione di fiorire.
Secondo l’autrice le più grandi multinazionali rispondono alla deregolamentazione dei mercati finanziari reinvestendo i loro profitti nel riacquisto delle proprie azioni anziché promuovere il comparto di ricerca e sviluppo (R&S) o proporre progetti innovativi. I fondi di venture capital invece guadagnano dalla vendita di quote di società altamente innovative sui mercati azionari, il loro scopo non è certamente attendere di rientrare dell’investimento attraverso il normale flusso di ricavi che il nuovo prodotto garantirebbe. L’orizzonte temporale dei fondi di venture capital non supera i cinque anni, un problema fondamentale se si considera che possono essere necessari anche diversi decenni per commercializzare i risultati di ricerche scientifiche innovative. Per far entrare lo Stato sulla scena, Mazzucato sfata un mito resistente nella teoria economica: il concetto di fallimento del mercato. Questo non rappresenta né l’unica né la più importante ragione del perché lo Stato debba farsi protagonista attivo dei complessi processi dell’innovazione. La teoria sostiene che il mercato dovrebbe essere lasciato libero di autoregolarsi tranne in casi eccezionali, nei quali l’ammontare del bene fornito dal mercato è inferiore all’ammontare ottimale (da qui il fallimento). Per quanto riguarda l’innovazione, però, lo Stato è l’unica istituzione in grado di assumere l’incertezza e di guidare i processi innovativi con un mix di politiche e investimenti mirati. Quel che è chiaro è che lo Stato non dovrebbe semplicemente limitarsi a creare le condizioni migliori affinché siano i privati a condurre i processi di innovazione tecnologica e industriale, ma dovrebbe invece svolgere un attivo ruolo di coordinamento, di finanziamento e di promozione attraverso agenzie pubbliche, centri di ricerca e partnership con il settore privato.
Nei capitoli centrali del libro, Mazzucato passa in rassegna numerosi esempi storici che dimostrano il ruolo attivo dello Stato nei processi di innovazione. Il suo caso studio più eclatante sono gli Stati Uniti. Qui, molti dei programmi pubblici che finanziarono ricerca di base e applicata nei settori delle biotecnologie e dei farmaci furono approvati dall’amministrazione conservatrice di Ronald Reagan negli anni Ottanta. A tal proposito l’autrice ricorda l’apparente conflitto tra i sostenitori delle politiche interventiste di Alexander Hamilton (1755-1804) e quelli delle politiche del laissez-faire di Thomas Jefferson (1743-1826). Negli Stati Uniti, la posizione ufficiale è sempre stata jeffersoniana mentre la politica economica – adottata silenziosamente – decisamente hamiltoniana. Già nel 1958 il governo creò un ufficio governativo all’avanguardia nella promozione dello sviluppo tecnologico per la difesa nazionale (Darpa). Le caratteristiche del Darpa erano: autonomia dal governo, ingenti finanziamenti e capacità di attrarre le menti più brillanti del paese. Senza il Darpa alcune tra le più importanti innovazioni in campo informatico (per esempio internet) non sarebbero state possibili.
Per spiegare il ruolo decisivo avuto dallo Stato nel potenziare innovazione tecnologica e permettere lo sviluppo di nuovi prodotti, Mazzucato dedica un intero capitolo ad Apple, l’azienda del popolarissimo Steve Jobs. Creata in un garage con pochissimi mezzi e tanto spirito imprenditoriale, Apple rappresenta nell’immaginario comune l’impresa di successo che ha rivoluzionato i mercati con prodotti tecnologicamente all’avanguardia. Peccato che, secondo Mazzucato, Jobs e compagni non sarebbero andati da nessuna parte senza le invenzioni finanziate dal governo americano. Internet, GPS, schermi tattili e le più moderne tecnologie di comunicazione sono state tutte inventate grazie allo Stato e poi utilizzate da Apple. Il segreto del successo dell’azienda di Cupertino starebbe nella capacità di integrare innovazione preesistenti e nella cura del rapporto utente-supporto informatico.
In sostanza la tesi di Mazzucato è che lo Stato debba essere considerato un partner del settore privato nei processi di innovazione tecnologica e non un semplice facilitatore. Al contrario del privato, lo Stato può assumere l’incertezza e coordinare i processi virtuosi che portano le economie capitaliste a crescere. L’autrice condanna le recenti tendenze delle grandi imprese farmaceutiche e high-tech alla socializzazione del rischio – cioè lo sfruttamento della ricerca finanziata dallo Stato – per poi privatizzare i profitti, non remunerando adeguatamente i lavoratori o cercando di eludere il fisco. La ricetta di Mazzucato è riassumibile in un concetto espresso nella parte finale del libro: «quando la distribuzione dei proventi finanziari del processo di innovazione riflette la distribuzione dei contributi al processo stesso, allora l’innovazione tende a ridurre la diseguaglianza». Questa è però anche la debolezza della tesi esposta nel libro: manca un’analisi approfondita delle complesse dinamiche economiche che caratterizzano le moderne economie globali. Un ruolo diverso dello Stato nei processi di innovazione sarebbe il grimaldello per invertire la tendenziale stagnazione delle economie occidentali e per risolvere il problema della riconversione industriale. Troppi elementi vengono ricondotti all’interno del discorso dell’economia dell’innovazione; per esempio il problema delle diseguaglianze crescenti difficilmente può essere affrontato entro tale cornice teorica.
Infine sembra mancare un’indagine dei processi politici che guidano lo Stato. Chi è lo Stato innovatore e come si forma? Quali sono gli incentivi necessari per mettere in moto i virtuosi meccanismi dell’innovazione coordinati dallo Stato? Su questo punto il testo di Mazzucato è deficitario, cosa che, tra l’altro, rende il suo punto di vista facilmente attaccabile: chiedere più Stato affidandosi vagamente a una leadership più forte o a una capacità di visione maggiore rischia di produrre solamente corruzione e sprechi.
di Alberto Fierro