L’interesse di Dark Deleuze (Mimesis 2020) risiede forse nell’interrogare se la filosofia deleuzeana, o la filosofia tout court, sia un gioco linguistico in sé concluso e confinato nell’autoreferenza accademica o possa e debba essere abbastanza radicale da incidere nella prassi individuale e collettiva, cioè etica e politica. Ciò nonostante è discutibile che Dark Deleuze sia un libro filosofico o, almeno, un esperimento filosofico ben riuscito.
Il testo di Andrew Culp, autore di cui «non si sa molto», come precisa da subito il curatore e traduttore dell’edizione italiana Francesco Di Maio, esce per Mimesis, preceduto da una (Non)prefazione di Paolo Vignola e da una breve ma densa postfazione di Rocco Ronchi. Dark Deleuze si apre con una annotazione metodica: riprendendo una boutade deleuzeana della Lettera a un critico severo (Deleuze 2000, pp. 14-15), Culp afferma che «scrivere di altri autori è “una specie di […] immacolata concezione”» (p. 33), in cui l’interprete, a partire dalle aporie, dagli slittamenti, dalle ambiguità o dai punti di rottura del testo interpretato, ne rimonta, per dir così, la struttura, dando corpo a una costellazione concettuale nuova e autonoma, e teoreticamente più coerente e radicale. Aggiungo che siffatta indicazione metodica corrisponde in effetti alla nozione deleuzeana di problema[1] e può rivelarsi feconda nella misura in cui mette in guardia da due rischi ricorrenti del lavoro filosofico: ridurre l’analisi del testo interpretato a un’acribia filologica fine a se stessa e da ultimo sterile; pervertire l’aderenza a un autore in scimmiottamento o in codificazione di un gergo settario. In questo, Culp ha buon gioco contro l’«abbondante prole di mostriciattoli» (p. 33) che ricalcano in modo acritico stilemi o formule deleuzeane, facendo dell’autore di Differenza e ripetizione un pensatore à la page e, per ciò stesso, una sorta di ideologo del mondo contemporaneo.
Su questo sfondo metodico, Culp dà volto a tali mostriciattoli ed espone la tesi di fondo del proprio pamphlet: si tratta di liberare l’opera di Deleuze dal «canone della gioia» e dai suoi maliziosi vessilliferi, per lasciare emergere, senza possibili mediazioni, un Deleuze oscuro, riabilitandone la «forza distruttiva della negatività» e l’«odio per questo mondo» (p. 33). In altri termini, un’eccessiva accentuazione degli aspetti affermativi e appunto “gioiosi” della filosofia deleuzeana si sarebbe trasformata in una sorta di apologetica dell’esistente, in un rinnovato giustificazionismo che finisce per assolvere il mondo dalle sue derive capitalistiche e anzi per giustificare i cliché del connettivismo e del produttivismo: il primo «guida la strategia geopolitica di influenza globale di Google», il secondo onora «la creazione e la novità fini a se stesse», considerando la possibilità di un nuovo mondo come una semplice riarticolazione e, in fin dei conti, come una ripetizione del vecchio (pp. 88-89). Contro l’esaltazione del mondo e «correggendo» l’«errore di Deleuze» (p. 42), l’intento di Culp è quello di «trovare un modo per dire “no” a coloro che ci dicono di prendere il mondo così come è»; occorre allora far risaltare gli elementi negativi e critici che in Deleuze convivono aporeticamente, secondo Culp, con l’affermazione gioiosa dell’esistenza, e prolungare la Morte di Dio e dell’Uomo nella Morte del Mondo (pp. 87-88). Il fine di questa rinnovata forza negativa sarebbe «la sconfitta finale dello Stato e il comunismo pieno» (p. 48): «tenere vivo il sogno della rivoluzione in tempi controrivoluzionari» (p. 46).
Ora, già a proposito dell’istanza metodica che orienterebbe il progetto di un Deleuze oscuro o di un «figlio» ribelle di Deleuze, ci si potrebbe interrogare sull’effettiva riuscita dell’opera di rinvenimento dei punti problematici deleuzeani e del lavoro di riconfigurazione dei concetti del filosofo francese in una più coerente e radicale struttura. Il libro di Culp mi pare affastellare citazioni e “filosofemi” deleuzeani, quasi senza contestualizzazione, e con tracce assai esili – a esser generosi – di rigore argomentativo e di chiarimento o determinazione semantica dell’armamentario lessicale utilizzato. Sicché il testo non supera il rischio di parlare in gergo e pare voler preparare il comunismo a venire rivolgendosi ai soli accoliti di Deleuze. Senza la fatica del concetto, l’«immacolata concezione» di cui si diceva può assomigliare troppo facilmente a un mistero irrazionale i cui fumi coprono le idiosincrasie e gli arbitrî della soggettività.
Entrando poi nel merito del confronto di Dark Deleuze con l’opera deleuzeana, è singolare che Culp non si avveda di quanto la filosofia affermativa e spinozista di Deleuze sia costruita interamente su una critica del senso comune e del buon senso, una critica cioè del conservatorismo, anche politico, implicato dalla doxa in quanto doxa: il buon senso – come scrive Deleuze – è «l’ideologia delle classi medie che si riconoscono nell’uguaglianza come prodotto astratto» (Deleuze 1997: 291). Stupisce, per esempio, che manchi in Dark Deleuze un confronto puntuale con la critica dell’Immagine del pensiero operata nelle pagine centrali di Differenza e ripetizione, testo che pure lo stesso Culp considera «l’opus magnum di Deleuze» (p. 47). Quella critica mi pare, semplificando, la premessa “epistemica” e dialettica all’ontologia deleuzeana dell’affermazione e della gioia, così come quella ontologia è il fondamento senza il quale la critica resterebbe velleitaria e doxastica. L’affermazione della vita, che in Deleuze è tanto innocente quanto crudele, è giustificata da un’ontologia dell’immanenza che Culp mi sembra interamente sorvolare. In altri termini, affermazione ontologica della gioia e critica dell’esistente sono in Deleuze due istanze complementari e per nulla contrapposte.
Se riguardata sul fondamento di quella ontologia, l’affermazione della vita non consiste in una indiscriminata esaltazione di una vuota creatività o delle differenze in quanto meramente equivalenti: «la filosofia della differenza – scrive Deleuze – deve stare attenta a non diventare il discorso dell’anima bella: discorso di differenze e soltanto di differenze, in una coesistenza pacifica […] tra posti e funzioni sociali. Ma il nome di Marx basta a tutelarla da tale pericolo» (Deleuze 1997: 268). L’affermazione della vita è anche, e sotto il medesimo rispetto, un rivolgimento del già dato, nella consapevolezza che la forma-mondo (ossia la relazione di un soggetto dotato di identità a un insieme di oggetti distinti dal soggetto e tra loro) va destituita di ogni primato. Questa destituzione, però, non è una pura distruzione, ovvero una precipitazione della forma nel caos o nell’indifferenziato, ma un pensiero e un’esperienza del limite e dell’autentico senso della differenza: come a dire che la pretesa di una pura distruzione, l’ambizione di saltar fuori dalla forma-mondo e anche dalla sua configurazione storica come mondo capitalista, rischia di mutare semplicemente di segno il conservatorismo, lasciandone intatta la struttura. Detto semplificando al massimo: sostituire alla norma e all’imposizione del “lavora e produci” la norma del “ribellati e distruggi” lascia inalterata la norma nella sua forma, cioè nella sua tirannide. Il rischio del ribellismo, come rileva Ronchi, è quello di restare un modo, in fondo innocuo, del risentimento (p. 99).
D’altronde, anche lasciando sullo sfondo Deleuze e concedendo che Dark Deleuze sia soltanto Culp sub excusatione Deleuzi, mal si comprende in cosa consista il comunismo preconizzato dall’autore, quali siano i mezzi e i presupposti materiali della sua realizzazione: l’esortazione all’odio e alla distruzione sembra solo un appello alle coscienze, senza alcuna indicazione storico-effettuale o di struttura sulle condizioni concrete della sua attuazione. In merito sarebbe forse utile, se non si vuole abdicare del tutto al comunismo, rileggere le critiche di Marx alla Sinistra hegeliana.
Nonostante quanto detto, Dark Deleuze mantiene un certo interesse, su un duplice versante: quello di esortare a una lettura non disimpegnata della filosofia di Deleuze e quello, più generale, di porre in questione se e come la filosofia, e in particolare una filosofia dell’immanenza, possa e debba mantenere una valenza di critica dell’esistente. Sarebbe utile dibattere se l’alternativa al ribellismo sia il conservatorismo o il riformismo, ovvero una custodia o un rimaneggiamento del già dato.
Qui, lasciando Culp sullo sfondo, mi limito a un semplice spunto per una possibile discussione. In Differenza e ripetizione, Deleuze scrive che «l’oggetto trascendente della socialità» «non può essere vissuto nelle società attuali in cui s’incarna la molteplicità, ma deve esserlo e può esserlo soltanto nell’elemento del rivolgimento delle società (e cioè semplicemente nella libertà che si manifesta tra i resti di un antico ordine e i primi segni di uno nuovo)» (Deleuze 1997: 250). E poco più avanti aggiunge: «Il problema [di una società] si riflette sempre in falsi problemi nel momento stesso in cui si risolve, cosicché la soluzione viene generalmente a trovarsi rovesciata da un’inscindibile falsità […]. I problemi sfuggono per natura alla coscienza, ed è proprio di una coscienza essere una falsa coscienza. […] L’oggetto trascendente della facoltà di socialità è la rivoluzione. In questo senso la rivoluzione è la potenza sociale della differenza, il paradosso di una società, la collera propria dell’Idea sociale. […] La lotta pratica non passa per il negativo, ma per la differenza e la sua potenza di affermare» (Deleuze 1997: 268-269). Credo si possa dire, a una prima approssimazione, che ogni ordine sociale in quanto ordine è l’attuazione e insieme l’irrigidimento di una libertà intesa come la stessa potenza di trasgredire l’ordine e di preparare un ordine a venire. Questa libertà o potenza trasgressiva è differente da ogni ordine e, d’altra parte, non esiste se non nel corpo di un ordine sociale e nella transizione da un ordine all’altro. Se l’ordine è una ripartizione dell’ente (e del corpo sociale) secondo una norma, la libertà è la trasgressione della norma come norma, o del sistema del giudizio: l’innocenza ovvero l’anteriorità alla linea di demarcazione tra bene e male. In quanto trascendimento di ogni possibile ordine dato o presente, la libertà o innocenza è ideale, nel senso di non presentificabile. L’idealità è condizione dell’istituzione di ogni ordine presente ma per ciò stesso non può essere adeguata, normata, resa presente; l’idealità è presente soltanto, ma come “falsata”, negli ordini sociali in cui di volta in volta, incarnandosi, si sottrae. Detto altrimenti: la libertà o la rivoluzione non può porsi come norma di un qualsivoglia ordine da instaurare, quindi neanche come norma di semplice negazione dell’ordine esistente. Limite della norma e dell’ordine, la libertà non è un ordine altro o una norma posta altrove e non è in ogni caso negazione del limite o arbitrio.
La libertà resta nondimeno problematica: la sua potenza di affermare sembra porsi come fondamento di ogni ordine dato e insieme come possibilità ideale, di diritto perennemente a venire; come condizione trascendentale dell’istituzione dell’ordine e insieme come telos sempre e solo possibile, cioè non pienamente essente: in altri termini come figura della cattiva infinità e come contraddizione. Pensare la libertà come incontraddittoria, per contro, significa accertare l’impossibilità di un telos sempre differito, di un’infinità meramente potenziale. Nel toglimento originario della contraddizione del possibile, la libertà è la pura positività di un infinito attuale e l’eccedenza di un atto infinito rispetto alle proprie determinazioni finite che pure gli sono coessenziali. È questo il tentativo filosofico di un immanentismo che si voglia rigoroso, ed è questo il rigoroso fatalismo di cui parla Ronchi nella sua postfazione (p. 97). Ma se la libertà è un atto infinitamente compiuto, che si esprime e non può non esprimersi, in ogni dato e in ogni ordine, e anche nel più “falsato” degli ordini, l’esito forse più coerente, sul piano del concetto, del problema posto da Deleuze è, eticamente, non il ribelle, ma l’esausto; e, politicamente, non la rivoluzione né il riformismo ma l’indifferenza. A questo livello il Deleuze critico e gioioso pone in scacco la relazione tra il concetto e la vita o la prassi. Scacco, rispetto alle miserie e alle fatuità del mondo attuale, che l’ottimismo da anima bella di Dark Deleuze mi pare eludere con troppa facilità e da cui chi scrive, semplicemente, non sa come uscire.
di Sandro Palazzo
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[1] Sulla nozione di problema cfr. almeno G. Deleuze, Différence et répétition, PUF, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, pp. 204-213, 252-259. Id., Spinoza et la méthode générale de M. Gueroult; tr. it. Spinoza e il metodo generale di Martial Gueroult, in Id., L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007.
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Bibliografia
G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000.
Id., Différence et répétition, PUF, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997.
Id., Spinoza et la méthode générale de M. Gueroult; tr. it. Spinoza e il metodo generale di Martial Gueroult, in Id., L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007.
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