Un collettaneo esteso allo scopo di mappare le emergenze di uno “scultoreo” ipercontemporaneo titolava sintomaticamente, all’altezza della fine della prima decade del Ventunesimo secolo e riverberando una frase di Nelson Goodman, Quando è scultura (cfr. Baldacci, Ricci, 2010). Quella scelta lessicale denuncia tuttora un’esigenza critica e teorica ormai inderogabile nel soppesare i residui del “plastico”, sparsi e tesi tra la consistenza impalpabile della “smaterializzazione” lippardiana e quella solida o vischiosa di una materialità rivendicata a detrimento della lavorazione. L’urgenza sta anzitutto nell’assenza dell’articolo (“la”): è quella dell’interrogazione, ognora contingente e revocabile, sulla localizzazione – cartografica, che nessun luogo esclude – di ciò che può essere detto scultoreo; questo approccio processuale scongiura la formulazione di domande ontologiche: che cosa sia la scultura non è più necessario chiederselo; occorre rifuggire l’incombenza monolitica dell’essenzialismo e della specificità mediale. E il bisogno chiarificatore prosegue poi nell’optare per l’avverbio “quando”, vòlta giusto appunto a situare lo scultoreo nella dimensione temporale (nel «qui e ora come dispositivo temporale» antimonumentale; cfr. Ricci, 2010) piuttosto che a delimitarlo precisamente in presunti spazi deputati.
Il processo di “temporalizzazione” della scultura, che investe in sostanza tutte le tendenze “plastiche” del secondo Novecento, è l’indizio del suo smarcarsi a livello teorico – finalmente e risolutivamente – dall’imperativo lessinghiano che per secoli l’ha voluta esclusivamente come “arte dello spazio”; questa definizione limitante la precludeva alla percezione evenemenziale: la sua dismissione si è concretizzata solo tramite l’erosione dei confini del “sistema delle arti” (problematizzato, per esempio, in maniera storica da Paul O. Kristeller e in senso filosofico da Étienne Souriau) e dal ripensamento del concetto di “materia” (non più mezzo ancillare e passivo, semmai medium dinamico e attivo). Souriau afferma infatti che «è impossibile assegnare ad ogni grande specie d’arte una materia che le sia propria e che la caratterizzi»; ciò significa che «la diversità delle materie impiegate» non deve discriminare lo “schema” delle arti: conviene che i “qualia”, i precipitati fenomenico-materiali dell’artisticità, si ponderino quasi fossero una «pelle che agisce come mezzo di conoscenza e d’esperienza qualitativa» (Souriau, 1988, 149, 151), passibili dunque di una sintesi astratta. Affinché alla scultura spettasse l’intero spettro espressivo della materialità (in luogo della sua storica funzione solida e struttiva), si è dovuto attendere che un secolo di sperimentazioni si chiudesse, e che si passasse dal concepire la materia da inerte a «una materia nelle sue presenze complete, sia evocate, sia concrete» (Souriau, 1988, 151).
Ci sono state però voci che, grazie alla loro esperienza artistica difficilmente classificabile, oltre ad avere sorpassato i dettami modernisti sulla medium specificity alla loro esacerbazione, hanno superato persino l’antinomia tra la “objecthood” friediana e l’intangibilità più pura del concettuale, già nel pieno della stagione postmodernista, intravvedendo e antivedendo soluzioni che non escludessero né l’una né l’altra, nel nome della “completezza” materica souriauiana. Giuseppe Penone, poverista da subito incondizionato dalla linea celantiana e destinato a un lungo itinerario personale, è un caso esemplare; lo ricorda bene – anzi lo asserisce ex novo – Alice Iacobone, che dedica all’artista una monografia di “estetica e poetica”: Per crescita di buio (2023), compresa nella promettente collana Corpi, curata da Emanuele Garbin per Quodlibet. L’autrice intende dare un apporto che vuole essere, scientificamente, sia teorico (filosofico e critico) sia storico-artistico (demandando a terzi compiti squisitamente archivistici); lo sforzo di sintesi è d’obbligo – è dichiarato nell’Introduzione – perché, tanto nel panorama dell’estetica quanto in quello della storia dell’arte, è raro che accada; è infrequente che le due discipline, nonostante le lampanti tangenze, si incrocino: di qui l’occorrenza di mettere «“all’opera”» i concetti filosofici, «a contatto con i materiali storico-artistici» (Iacobone, 2023, 7). Il libro segue i principali snodi teorico-artistici penoniani, costantemente verificandoli mediante analisi comparative di alcune opere paradigmatiche; la densità concettuale del lavoro dello scultore si vede quindi sensibilmente incarnata, in riflessioni esplicative (accessibili anche a chi è digiuno di letture estetologiche, in virtù di una scrittura chiara che nondimeno rinuncia all’eleganza) che corrispondono alle opere d’arte quasi fossero prova provata le une delle altre.
È eloquente che Iacobone ritmi la struttura dell’indice con il metro del corpo umano; raggruppa temi e problemi sotto il segno della “mano” (I), dell’“occhio” (II) e dell’“epidermide intiera” (III), e con un campo semantico in progressiva espansione; annuncia, così, il Grundbegriff –instillato da Penone – che ha deciso di eleggere a centro della sua meditazione compendiaria: quello della «presa di forma e della sua qualità materica» (Iacobone, 2023, 21). Il rapporto tra forma e materia – viene spiegato – penonianamente si dà in chiave antimetafisica, concreta invece; il depotenziamento di una tradizione filosofica occidentale così lunga e così soverchiante avviene proprio a causa della scultura, la cui origine sarebbe «un gesto semplicissimo […]: una mano che incontra un materiale» (Iacobone, 2023, 11). La scultura come semplice contatto, come «evento minore» (Iacobone, 2023, 11), avrebbe conseguenze rivoluzionarie: detronizzerebbe la forma in quanto impalpabile essenza di ascendenza platonica in favore della materia, senza cui nessuna forma verrebbe in essere.
Siccome Penone esordisce a postmodernismo avanzato (e mai dismetterà del tutto il ricordo di quella temperie in cui ha trovato le radici della sua carriera, per poi sempre farle crescere fino a oggi), lancia i suoi strali anti-formali con il proprio corpo; con il corpo del creatore che diviene corpo in opera, e che in ragione della sua performatività “attiva” la materia forme scultoree dai confini duttili. Iacobone illustra lucidamente che, sebbene l’artista reclami un’originaria (ma non genetica) «affirmation of sculpture» (Daval, 1986, 1118), essa è tesa all’espansione nello spazio e nel paesaggio – tramite la sua corporalità – di uno scultoreo non necessariamente “plastico” e solido, in virtù della «reversibilità di stato della materia» (Iacobone, 2023, 30). Dapprincipio c’è la materia che, per via di chi la manipola, diventa forma; l’accostamento può eccedere i codici dell’espressione e produrre «una nuova morfologia, poiché, per un breve momento, tra le mani dell’artista e la terra di produce uno spazio di assoluta prossimità che diviene indistinzione carnale» (Iacobone, 2023, 15). La “morfologia carnale”, che Penone sperimenta a partire dal “gesto minimo” e che poi dilaga, riguarda il mondo; buca un altro dualismo, quello tra arte e vita. Essa ricorda le gesta di un personaggio letterario, Gerolamo Aspri, che al principio di Corporale di Paolo Volponi (1974), si ritrova in villeggiatura sulla Costa adriatica senza mai sapere dove sbattere la testa e dove mettere gli occhi: «Guardo e vedo tutto e non c’è niente che promani dalla mia coscienza» (Volponi, 2014, 5); prova allora a “pensare” e a “guardarsi” attorno con il corpo, dato che «il contatto con il proprio corpo com’è completo e vigile: segue ogni piccolo evento […] fino alla formulazione e poi alla evidenza di un pensiero critico e quindi di una storia» (Volponi, 2014, 6); passa per la coesione con l’alterità organica e inorganica: «Attraverso lo svuotamento raggiungevo l’esaltazione. Il mio corpo come un minerale affondava in un giaciglio sempre più fondo» (Volponi, 2014, 24).
«Con umano volevo dire artificiale» (Volponi, 2014, 35), esclama infine la creatura volponiana alla perenne ricerca di immagini, saldando e fondendo il fenomenico all’artistico con l’agire del corpo: imprimendovelo addosso. Penone procede analogamente in parecchie sue opere, tanto che Iacobone rivolge a ciò alcune pagine tra le più appassionate del suo volume. Sono quelle circa l’Estetica dell’impronta, in cui viene scelto, come lume ermeneutico, il côté français degli studi sull’indessicalità, rappresentato da Georges Didi-Huberman sulla scorta di Jacques Derrida. Abbondanti esiti penoniani sono “impronte” nella misura in cui, similmente a un calco e presentandosi allora in una simultaneità di «forma e controforma […] unite in uno stesso dispositivo operazionale di morfogenesi» (Didi-Huberman, cit. in Iacobone, 2023, 38), nascono via “somiglianza per contatto”: per immediata rappresentazione affatto mimetica bensì “diffratta”, eterodiretta dalla «vicinanza esasperata tra il corpo e il materiale» (Iacobone, 2023, 39) che perturba e infonde il quid autoriale.
Le conquiste sull’indice del côté americain, al contrario, vengono opinate per un’eccessiva propensione all’“immaterialità”, cavalcando la critica all’«idealismo latente» (Iacobone, 2023, 38) che Chari Larsson ha mosso a Rosalind Krauss, tacciata di avere obliterato gli aspetti (e gli effetti) materiali dell’immagine indessicale. Unicamente per scrupolo, si segnala le ricerche di Krauss non si sono limitate a Notes on the Index (1977), e che in moltissimi altri luoghi dove non si soffermano squisitamente sulla fotografia, ribadiscono quanto lo scopo dell’azione indessicale sia segnare «una superficie ricettiva» per «violazione, […] per effrazione»: «intervenendo», il segno, «come una coltellata nell’indivisibilità della presenza» dell’integrità superficiale (Krauss, 2008, 122, 269, 270). Iacobone giustamente risalta l’intransigenza anti-abduttiva del procedere penoniano, che convoca immaginazione e trasfigurazione del fruitore: le sue opere sono “tracce” e non “segni”: «La pratica di Penone rigetta il trattamento dell’impronta come indice semiotico» (Iacobone, 2023, 39). Ma certa teoria dell’arte – Krauss in particolare – si è solo servita della semiologia, e mescolandola al post-strutturalismo francese ha configurato una nozione di indice ibrida: forte della propria matrice perciana, ma lontana dalla medesima laddove ha in animo di contestare la «dimensione di opacità, di ripetizione, di temporalità» (Krauss 2008: 24) propria del modernismo. Non sono alla fine assolutamente incompatibili, queste due estetiche dell’indice (la prima, francese, più “generativa”), per comprendere una tipologia di immagine passibile di prolungamenti e propaggini, esorbitanze fuori di sé.
Lo studio informa poi del disinteresse penoniano per la vista, senso culturalmente deputato alla percezione pittorica; è curioso ma non stupisce, stante la primaria importanza della “digitazione minima” che – secondo Penone – basterebbe a che sorga uno scultoreo il quale è gesto di una traccia: un minimo di immagine sorto dalla materia solcata. Tuttavia, Iacobone coraggiosamente si addentra in un carotaggio delle presenze aptiche nel corpus dello scultore: di quelle intersezioni tra vedere e toccare che per Alois Riegl – si scomoda un nobile esempio tra i tanti – ricorrono quando la “forma” (l’«estendersi nelle tre dimensioni» di una cosa nella natura) si fa scultorea, e conseguentemente suscettibile di essere percepita pure come “superficie” («qualcosa di illusorio e apparente, […] che la vista simula davanti a noi») palpabile con gli occhi, come “superficie tattile” (Riegl, 2008, 283, 285). L’autrice scioglie i nodi delle «relazioni inedite» e sperimentali che Penone mira a instaurare tra i due sensi; essi sono, siccome “messi in forma”, indivisi; meglio: suggestivamente «embricati» (Iacobone, 2023, 53, 57), contaminati e sovrapposti reciprocamente. Ne risulta un’apticità che penetra addirittura nelle dimensioni dell’invisibilità e del vuoto cieco, ricomprendendole – specie in alcune opere precise – in proposte percettive che esibiscono il paradosso dell’“immagine apparente”: quello di «un’apparizione in cui ciò che appare dimostra all’improvviso di non essere esattamente un corpo» (Didi-Huberman, 2011, 21) e si manifesta sottile e fragile per eccesso di aderenza.
Il nucleo manifestamente filosofico del libro è quello in cui viene esplicitato il legame diretto tra l’estetica di Luigi Pareyson e l’ambiente dell’Arte Povera; il metodo comparativo della studiosa consente al lettore di appurare concretamente quanto – in ambito artistico e particolarmente nel secondo Novecento – prassi creativa e riflessione teorica possano compenetrarsi scambievolmente: sia per influsso diretto (è il caso di Penone) sia per somiglianza o simmetria di obiettivi. Vale la pena di riassumere la teoria della “formatività” pareysoniana, poiché spicca di parecchio dal panorama culturale italiano dell’epoca e perché rispecchia i fondamenti della poetica penoniana. La proposta estetologica di Pareyson combina due istanze apparentemente inconciliabili: l’autonomia dell’opera d’arte (per sganciarla dalla mimesi riproduttiva) e la sua eteronimia (per ancorarla alla materia che la sostanzia e che le è inerente); tale cortocircuito «sottrae l’arte all’ambito teoretico per riconsegnarla a quello pratico» (Iacobone, 2023, 98). Le sue sono simili alle «forme raffinate e intense di esperienza» (Dewey, 2020, 31) di John Dewey, solo che l’«intento formativo come groppo di possibilità» (Pareyson, cit. in Iacobone, 2023, 100) che le informa è ancora connotato, rispetto alla prassi in sé, di artisticità. Associandole a Penone, Iacobone rimarca quanto queste idee non siano i poli opposti di un’antinomia, bensì le due sponde verso cui costruire un’arte relazionale, che «collega l’uomo all’ambiente» (Iacobone, 2023, 125) tenendo in vita tanto l’opera quanto i suoi dintorni e le sue lontananze; rende bene il concetto una metafora nouveau-romanesque di Nathalie Sarraute: «Ce geste, comme un fil électrique jusqu’ici toujours bien isolé, […] soudain dénudé, branché sur un générateur, […] [est] le meilleur conducteur pour porter, pour transmettre» (Sarraute, 2019, 45-46).
Le traiettoria di relazione tracciata, per opera della materia, dall’artista verso lo spazio culmina finalmente in una «conversione del corpo in paesaggio» affiancata da una «conversione del paesaggio in corpo» (Iacobone, 2023, 135): in un desiderio di estendere lo scultoreo all’“epidermide intiera” (l’autrice mutua l’espressione dal Laborintus sanguinetiano) – di plasmare potenzialmente tutto con i soli mezzi essenziali. Ritornando allo spunto inziale: Quando è scultura in una cornice in perenne espansione? Quando – risponde Iacobone con Penone e i suoi commentatori – si riesce a formulare e a elaborare «un’ontogenesi materiale della forma» (Didi-Huberman, cit. in Iacobone, 2023, 112). Quando si segue il profetico lascito, quasi anti-ilomorfico, di Henri Focillon, che già nel 1934 invitava a non separare forma e materia, a non elevare la prima a prius superiore, «giacché si può pur sostenere che la materia imponga la propria forma a una forma»; è la materia stessa, senza nobili intermediari, ad avere «una certa vocazione formale» (Focillon, 1987, 52).
Oltre a eviscerare limpidamente l’estetica di Penone nello specifico, Per crescita di buio ha il merito di fare chiarezza sulle differenze – elementari ma talvolta incomprese finanche dalla critica specializzata – tra i cardini del poverismo italiano e quelli del minimalismo americano. Entrambi i movimenti hanno in comune un lavoro che muove dalla materia e da essa si espande all’ambiente; al netto di ciò, modi e posizionamenti divergono. L’autrice si è focalizzata su un esponente dell’Arte Povera, ma le sue indagini – perennemente di stampo poetico: teorico e pratico – funzionano anche ex negativo e offrono un utile confronto che, in conclusione, rimane a disposizione di chi legge. La materia dei minimalisti è un “materiale” inerte, che viene messo in opera affinché la sua natura “cosale” schianti contro l’habitus dello spettatore, avvezzo piuttosto “cose vive” a patto che siano incorniciate, staccate dalla realtà; essa è “a matter of fact”, “raw material” in un “environment” in scala umana e urbana. La materia dei poveristi è “materiale organico”, che viene minimamente scalfito da un gesto artistico di modo che si inneschi «una complicità tra materiale che sono tra loro essenzialmente eterogenei e che tuttavia sono capaci, in certe circostanze ambientali, di entrare in rapporti di somiglianza reciproca»; essa è germe che, nelle giuste condizioni, «cresce e concresce» (Iacobone, 2023, 103, 119). Una freccia estetologica puntata precipuamente su Penone, dopo aver girato su sé stessa mira altrove, e indica che – in generale – la stessa cosa, la materia che si allarga sulla forma convoca, per focilloniano “destino”, dissimili giustificazioni della sua legalità.
Marcello Sessa
Riferimenti bibliografici
Baldacci, C. & Ricci, C. (a cura di) (2010). Quando è scultura. Milano: et al.
Daval, J.-L. (1986). The Affirmation of Sculpture(1118-1119). In G. Duby & J.-L-Daval (eds.) (2006). Sculpture. From the Renaissance to the Present Day. Köln: Taschen.
Dewey, J. (2020). Arte come esperienza (1934). Milano: Aesthetica.
Didi-Huberman, G. (2011). La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini. Torino: Bollati Boringhieri.
Focillon, H. (1987). Vita delle forme (1934). Torino: Einaudi.
Iacobone, A. (2023). Per crescita di buio. Estetica e poetica di Giuseppe Penone. Macerata: Quodlibet.
Krauss, R. (2008). L’inconscio ottico (1993). Milano: Bruno Mondadori.
Riegl, A. (2008). Grammatica storica delle arti figurative (1966). Macerata: Quodlibet.
Sarraute, N. (2019). Les Fruits d’Or (1963). Paris: Gallimard.
Souriau, É. (1988). La corrispondenza delle arti (1947, 1968). Firenze: Alinea.
Volponi, P. (2014). Corporale (1974). Torino. Einaudi.
La narratologia oggi, almeno nelle Università italiane e francesi – ma la situazione non è migliore in altri paesi –, soffre anzitutto della mancanza di una chiara identità istituzionale: non dà nome a un settore disciplinare né – se non in casi eccezionali – a insegnamenti curriculari [1]. Per molti la narratologia è morta negli anni Ottanta, con l’esaurirsi dello strutturalismo, ovvero con la corrente critica che per la prima volta le ha dato un nome: narratologie è infatti un neologismo francese coniato da Tzvetan Todorov nel 1969 per indicare una «science du récit» applicabile tanto alla letteratura quanto a tutti gli altri generi discorsivi il cui baricentro è il racconto di una storia («contes populaires, mythes, films, rêves, etc», ); una «théorie de la narration» transdisciplinare (Todorov 1969, p. 10).
Eppure, una teoria della narrazione esiste da ben prima che Todorov le desse un nome consacrandone l’esistenza e la fortuna negli anni Settanta – gli anni di S/Z di Barthes (1970), di Figures III di Genette (1972) e di Logique du récit di Claude Bremond (1973), per limitarci al panorama francese [2]. Nel mondo occidentale, l’archetipo della teoria della narrazione è la Poetica di Aristotele. Si tratta di un fatto noto che troppo spesso viene dato per scontato, al punto che l’invocazione di questo modello è diventata negli anni quasi un luogo comune, un rituale d’obbligo che non necessariamente richiede riflessioni o spiegazioni.
Il libro di Antonino Sorci, La Condition narrative. La fable de l’aristotélisme, uscito per i Classiques Garnier nel 2023, costituisce precisamente un tentativo di rintracciare le radici di questo modello narratologico, di riflettere sulle sue ragioni e, in parte, di interrogarsi sul suo destino: «ce travail se propose de décrire, d’un point de vue nietzschéen, le réseau de concepts et de relations qui s’est formé, au sein de la théorie narrative, autour d’une interprétation partagée de la Poétique d’Aristote» (p. 11). Questa rete di concetti e relazioni che si è formata a partire da una interpretazione condivisa della Poetica viene giustamente battezzata aristotelismo narrativo e l’obiettivo del volume è anzitutto dispiegarla individuandone i punti fermi. Il libro è infatti diviso in due parti: la prima è dedicata alle ragioni storiche che hanno determinato la nascita dell’aristotelismo narrativo e a un suo inquadramento generale; la seconda consiste nell’individuazione e nel dispiegamento di quelli che vengono chiamati «i cinque concetti fondamentali» dell’aristotelismo narrativo: mimesis, mythos, telos, anagnorisis, catharsis. Infine (ma ci torneremo), la prospettiva dalla quale questa storia viene osservata è definita «nietzschiana» perché l’autore stesso non condivide sino in fondo la «favola» dell’aristotelismo cui dedica un intero libro: una prospettiva nietzschiana, dunque, sia perché critica e relativistica nei confronti del suo oggetto di indagine sia perché sorretta dalle critiche che lo stesso Nietzsche fa ad Aristotele nella Nascita della tragedia.
Anzitutto, dunque, nella prima parte del volume Sorci individua tre tappe fondamentali nella costituzione dell’aristotelismo narrativo:
1. La prima è l’esperienza della cosiddetta “scuola di Chicago”, espressione con la quale si indica di solito un gruppo di studiosi riunitisi attorno all’Università di Chicago a partire dal 1930, e a seguire i loro eredi di almeno due generazioni successive. Il manifesto di questa scuola è Critics and Criticism (1952) di Ronald Crane, mentre l’esito più noto e rilevante è The Rhetoric of Fiction (1961) di Wayne Booth: in entrambi, l’esplicito richiamo ad Aristotele serve ad avallare un’idea retorica dell’atto narrativo. Il plot (mythos) non è qui semplicemente una sequenza di eventi, ma un’arte della comunicazione in cui un autore con una precisa intenzione produce sul lettore determinati effetti.
2. La seconda tappa è lo strutturalismo francese degli anni Sessanta e Settanta, dove invece il centro è il mythos in sé, inteso come sequenza di eventi autosufficiente, sia perché autonoma dall’autore che la produce e dal lettore che la fruisce, sia perché indipendente dal vincolo di referenzialità (secondo un’interpretazione parziale del concetto di vraisemblable). Todorov, Barthes e Genette si rifanno continuamente ad Aristotele, ma il momento di consacrazione dell’aristotelismo strutturalista è la pubblicazione della nuova edizione francese della Poetica (Seuil 1980) curata dai filologi Roselyne Dupont-Roc e Jean Lallot e nata dalla loro collaborazione con Todorov e Genette. Traducendo mimesis «rappresentazione» anziché «imitazione», il legame tra mimesis e mythos viene rafforzato, con un gesto di appropriazione della Poetica che offre alla neonata narratologia una radice storica millenaria.
3. La terza tappa è la più recente e consiste nella valorizzazione della dimensione cognitiva ed etica della Poetica compiuta tanto da teorici cognitivisti come Monika Fludernik quanto da filosofe neo-aristoteliche come Martha Nussbaum. Il baricentro si sposta qui sul lettore, sollecitato al contempo nel processo cognitivo dell’esperienza estetica e in quello emotivo di purificazione delle passioni.
Questi orientamenti critici, pur nella diversità a volte anche radicale delle loro posizioni, sono accumunati dalla condivisione dei cinque concetti fondamentali dell’aristotelismo narrativo: mimesis, mythos, telos, anagnorisis, catharsis. Ovviamente, a seconda che l’accento sia posto sull’autore (approccio retorico), sul testo (approccio strutturalista) o sul lettore (approcci cognitivo ed etico), questi concetti chiave possono essere anche profondamente ripensati (l’idea di telos, per esempio, diventerà di volta in volta il telos dell’autore che scrive l’opera, il telos delle funzioni interne al testo, il telos che muove il lettore). Ma non vengono mai meno. La narrazione è una rappresentazione di azioni umane (mimesis) che si dà nella forma di un intrigo (mythos) dotato di un inizio, di un mezzo e di una fine (o meglio, di un fine, un telos); questa rappresentazione, attraverso diversi meccanismi di conoscenza e riconoscimento (anagnorisis), suscita delle emozioni, come la pietà e la paura, e ne garantisce la purificazione (catharsis).
Per Sorci, dei cinque concetti, la catarsi è insieme il più importante e il più problematico. È il più importante perché è quello che più chiaramente ha garantito nei secoli l’efficacia e il valore sociale dell’atto narrativo: è la risposta aristotelica alla condanna platonica della poesia imitativa, bandita dalla Città ideale perché inutile e pericolosa. Il potere catartico delle narrazioni è la garanzia della loro utilità, di qui «l’acquis le plus important de la tradition néo-aristotélicienne de la narrativité : le questionnement des narratologues au sujet des pouvoirs des récits permet de comprendre ceux-ci comme des instruments capables d’éclairer le sens de la condition humaine et du monde dans lequel nous vivons» (p. 288). Se oggi nelle scienze umane e sociali si parla di «svolta narrativa» è anche perché l’aristotelismo ha posto le basi filosofiche per pensare la narrazione come un fenomeno in grado di riconfigurare la nostra esperienza umana (secondo la rilettura della Poetica offerta da Paul Ricoeur in Tempo e racconto). La narratologia diventa così un mezzo per pensare il nostro essere nel mondo. «Le modèle néo-aristotélicien représente de nos jours l’ancre de sauvetage qui a empêché au navire de la recherche narratologique de couler définitivement face à un situation à l’intérieur de laquelle des auteurs n’ont pas hésité à dresser son acte de décès» (p. 12).È solo rivendicando la sua vocazione filosofica che la narratologia ha potuto sopravvivere, uscendo dall’ambito ristretto della critica testuale e dell’analisi del discorso per essere recuperata da altre discipline, come la psicoanalisi, l’antropologia e la sociologia.
Ma a che prezzo?Anzitutto, come ricordavo all’inizio, al prezzo di perdere l’identità e il prestigio che aveva avuto negli anni del suo apogeo in Francia (Baroni 2016, pp. 226-230). In secondo luogo – ed è il punto che spinge Sorci a guardare con sospetto alle proposte fondate sul potere catartico delle narrazioni –, al prezzo di servire da ancoraggio teorico a una visione conciliante ed ecumenica del fenomeno narrativo, secondo l’idea nussbaumiana di una letteratura educatrice e riparatrice, fondata sul caring e sulla reparation (si pensi, in ambito francese, a Réparer le monde di Alexandre Gefen).
Il capitolo sulla catarsi è il più critico ed è l’ultimo del libro prima delle Conclusioni, dove finalmente diventa chiaro quello cui nell’Introduzione Sorci aveva solo accennato: questo è un libro sull’aristotelismo narrativo suo malgrado, perché chi scrive non condivide l’idea della catarsi tragica e preferisce opporgli una visione dionisiaca del fenomeno estetico, fondata non tanto sul piacere del mythos quanto su quello della musica e dello spettacolo, secondo la prospettiva proposta da Nietzsche nella Nascita della tragedia. «Une narratologie non-aristotélicienne me semble nécessaire afin d’explorer toute appréhension du texte qui ne se fonde pas sur la clarification du sens et des émotions. Sans nier la capacité de certains récits à nous éduquer et à nous faire progresser, une narratologie non-aristotélicienne pourrait être utile afin d’explorer les formes d’interaction qui ne sont pas orientées vers le perfectionnement moral des citoyens» (p. 289).
La pars destruens è chiara. Ma la pars construens? Cosa significa sostituire l’aristotelismo narrativo con una visione nietzschiana del fenomeno estetico? Per esempio, cosa vuol dire, concretamente, quando si parla di un un’opera letteraria, preferire a una visione interessata alla coerenza del mythos un approccio che guardi alla musica e allo spettacolo? Aristotele e Nietzsche pensavano alla tragedia come a qualcosa che doveva essere messo in scena, ma di fronte a un racconto scritto, come dobbiamo pensare le idee di musica e spettacolo? Ancora, in che senso il riso è un’emozione non catartica da preferire alla pietà e alla paura?
La brevissima conclusione della Condition narrative lascia aperti troppi interrogativi, abbozza una proposta di cui non si ha però modo di vedere i contorni e, soprattutto, getta una luce negativa su una «favola» che per pagine e pagine ci è stata narrata senza chiederci di sospendere la nostra incredulità (i dubbi di Sorci nei confronti del modello aristotelico sembrano cioè minori delle sue certezze). Ma, appunto, si tratta di una luce troppo flebile per oscurare ciò che l’ha preceduta, perché probabilmente una favola alternativa a quella aristotelica ancora non ci è stata raccontata – e chissà se questa favola sarebbe un mythos auspicabile.
Gloria Scarfone
Note
[1] Su questo problema riflette Baroni 2016.
[2] Negli Stati Uniti sono per esempio gli anni di Cohn 1978.
Bibliografia
Baroni, R. (2016). L’empire de la narratologie, ses défis et ses faiblesses. Questions de communication, 30, pp. 219-238
Todorov, T. (1969). Grammaire du Décaméron. Mouton: La Haye.
Cohn, D. (1978). Transparent Minds. Narratives Modes for Presenting Consciousness in Fiction. Princeton University Press: Princeton.
L’analogia accompagna la storia della filosofia sin dai suoi albori[1]. Questa nozione viene elaborata nel contesto della riflessione matematica greca, in particolare da autori come Euclide ed Eudosso di Cnido, i quali la caratterizzano come un’uguaglianza di rapporti quantitativi, cioè una proporzione per cui A : B = C : D. Nella riflessione filosofica è utilizzata già da Platone, che nel Timeo la definisce “il più bello dei legami” (Plato, Tymaeus 31c) e nella Repubblica delinea la celebre analogia tra il Sole e l’Idea del Bene (Plato, Respublica 508d). Ben presente anche nella riflessione degli Accademici successivi, in particolare Speusippo, essa viene ripresa da Aristotele, che più di tutti ne fa un uso ampio e trasversale, applicandola ai diversi ambiti della sua speculazione filosofica e scientifica. A dispetto delle numerose occorrenze di questo termine negli scritti aristotelici, lo Stagirita ne fornisce una esplicita definizione soltanto in poche occasioni. Ad esempio, nella Poetica, dopo aver menzionato la metafora per analogia, spiega: «per analogia dico quando sono in uguale rapporto il secondo elemento con il primo e il quarto con il terzo. Si dirà allora il quarto per il secondo o il secondo per il quarto» (Aristoteles, Poetica, 21, 57b 16-33.). Nell’Etica Nicomachea, nel presentare il giusto come qualcosa che si stabilisce per mezzo di un’analogia, Aristotele afferma che questa costituisce «un’uguaglianza di rapporti, e si ha tra almeno quattro termini» (Aristoteles., Ethica Nicomachea, V, 6, 1131a 30 – 31). Infatti la giustizia, in modo particolare quella distributiva, si realizza nell’uguaglianza proporzionale tra le persone coinvolte e i beni assegnati. Ancora, nelle opere biologiche si fa un largo uso dell’analogia, intesa soprattutto come identità di funzione tra i termini considerati, al fine di istituire connessioni utili alla comprensione del mondo vegetale e animale:
Intendo per analogia che alcuni animali hanno il polmone, altri non hanno il polmone ma un altro organo che sostituisce la funzione svolta dal polmone negli animali che lo possiedono; ancora, alcuni hanno il sangue, altri qualche cosa di analogo che possiede le stesse proprietà presentate dal sangue negli animali sanguigni (Id., De partibus animalium, I, 5, 645b 6-1).
L’analogia viene chiamata in causa anche in alcuni importanti passi della Metafisica. Nel libro V, trattando dell’uno per sé, Aristotele distingue livelli diversi di unità: per numero, specie, genere e analogia. Quest’ultima è definita come la relazione per cui questo sta a quello come altro sta ad altro, ed è presentata come il tipo più ampio e debole di unità, l’unico in grado di oltrepassare le distinzioni tra le categorie e così abbracciare la totalità dell’essere (Aristoteles, Metaphysica, V, 6, 1016b 30-35). Nel libro IX si afferma esplicitamente che le nozioni di potenza e atto, per via della loro generalità e del loro carattere fondativo, non possono essere definite, ma possono essere comprese soltanto mediante l’analogia. Infatti, è possibile dire che l’atto sta alla potenza come chi costruisce sta a chi può costruire, chi è sveglio a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi pur avendo la vista. Di conseguenza, tutte le cose si dicono in atto non nello stesso modo, ma solo per analogia: «come questo sta in questo o rispetto a questo, così quest’altro sta in quello o rispetto a quello» (Aristoteles, Metaphysica, IX, 6, 1048b 7-8). Alcune cose sono dette atto in quanto movimento rispetto alla quiete, altre come forma rispetto a una certa materia: stati diversi che però condividono il fatto di attualizzare in un determinato modo una potenza. Il libro XII, poi, contiene la famosa dottrina secondo la quale tutti gli enti in un certo senso possiedono i medesimi princìpi, mentre in un altro senso no. Quello che Aristotele intende dire è che tutti gli enti possiedono gli stessi princìpi non secondo il numero, come sostenevano i platonici, bensì soltanto per analogia, nella misura in cui enti diversi hanno princìpi diversi, i quali però svolgono la medesima funzione. Per ogni ente è infatti possibile individuare qualcosa di corrispondente al sostrato, alla privazione, alla forma e alla causa motrice, senza che questi siano numericamente identici per tutte le cose (Aristoteles, Metaphysica, XII, 4, 1070a 30 – 1070b 35).
Questa veloce panoramica ci consente di capire quanto sia pervasiva la presenza dell’analogia nel pensiero aristotelico: questa viene impiegata come una modalità di ragionamento duttile, dinamica, adattabile a contesti diversi e dalla spiccata capacità euristica. Aristotele mantiene comunque sempre fermo il nucleo di fondo della sua concezione dell’analogia, cioè l’idea che si tratti di una relazione che coinvolge due coppie di termini, delle quali si stabilisce l’uguaglianza (quantitativa o qualitativa) di rapporto. La tradizione successiva, tuttavia, finirà con l’attribuire ad Aristotele una concezione molto più ampia dell’analogia, facendovi rientrare anche la situazione descritta in un altro passo della Metafisica, uno dei più celebri dell’opera.
All’inizio del quarto libro Aristotele esordisce affermando che esiste una scienza che studia l’essere in quanto essere. Infatti, benché questo si dica in molti modi, tutti questi sono riferiti a un’unica natura, cioè alla sostanza. Tale relazione pros hen(letteralmente: “verso un’unica cosa”), cioè il riferimento costitutivo alla sostanza che tutte le categorie presentano, è ciò che conferisce all’essere, nonostante la dispersione dei modi in cui si manifesta, quel grado minimo di unità sufficiente a farne oggetto di scienza.
La tradizione esegetica successiva, nel tentativo di fornire una versione il più possibile sistematica del pensiero dello Stagirita, ha riservato un’attenzione particolare al primo paragrafo delle Categorie, dove vengono distinte le cose omonime (aventi lo stesso nome e una definizione diversa, come “animale” detto di un uomo e di un dipinto)[2], quelle sinonime (aventi lo stesso nome e la medesima definizione, come “animale” detto di un uomo e di un bue)[3] e quelle paronime (il cui nome deriva da un altro attraverso la modifica della terminazione, come “grammatico” da “grammatica”). Soprattutto a partire da Porfirio, i commentatori hanno cercato di comporre le indicazioni sparse nel corpus aristotelico circa i diversi tipi di relazione per elaborare una griglia esaustiva, che in seguito Severino Boezio, traducendo e commentando le Categorie, ha contribuito in modo determinante a diffondere nell’Occidente latino medievale:
All’interno di questa griglia è importante osservare principalmente due cose. Innanzitutto, viene sviluppata una suddivisione interna all’omonimia, per cui si distingue l’omonimia casuale (non c’è alcun legame tra l’attribuzione del nome e la definizione della cosa nominata) e quella razionale (c’è un certo legame tra l’attribuzione del nome e la definizione della cosa nominata). Tra i tipi di omonimia razionale compaiono sia l’analogia (cioè la proporzione, ad esempio quella in virtù di cui l’unità e il punto sono entrambi princìpi, rispettivamente del numero e della superficie), sia la relazione pros hen, che esprime il riferimento di tutte le categorie alla sostanza. In secondo luogo, la paronimia comincia a essere interpretata non soltanto come una relazione di tipo grammaticale (così come la intendeva Aristotele), ma, platonicamente, anche come una relazione di partecipazione reale, in virtù di cui, ad esempio, il coraggioso può essere detto tale nella misura in cui partecipa del coraggio.
Le varie riproposizioni e riformulazioni di questo schema avanzate dai commentatori greci tardo-antichi e dai filosofi arabi hanno prodotto, nel lungo periodo, una sovrapposizione tra tipi di relazione che in origine erano distinti: la relazione pros hen e la paronimia finiscono per fondersi, andando a occupare contemporaneamente una collocazione intermedia rispetto alle altre, e in riferimento a esse si comincia a utilizzare il lessico dell’analogia. Questo fatto viene registrato puntualmente nel Liber de praedicabilibus, trattato di logica composto da Alberto Magno:
Analoghi sono i termini che convengono proporzionalmente, come dicono gli arabi: sono intermedi tra gli univoci e gli equivoci e sono imposti a cose diverse nell’essere e nella sostanza in virtù del riferimento a un’unica cosa alla quale essi sono proporzionati (Albertus Magnus, Liber de praedicabilibus, I, 5).
Dalla tradizione araba gli europei ricavano quindi una nuova classe di termini, che non compariva come tale nella griglia elaborata da Porfirio e trasmessa da Boezio. I termini analogici sono presentati come intermedi tra quelli univoci (che Aristotele chiamava sinonimi) e quelli equivoci (omonimi), nella misura in cui sono meno rigidi dei primi e, rispetto ai secondi, garantiscono un grado minimo di unità e coerenza del discorso. I termini analogici sono utilizzati nelle situazioni in cui si riscontra un ordine di anteriorità e posteriorità nelle realtà nominate, dove perciò non è possibile ricorrere alla predicazione univoca. Questo è il caso dell’essere: dal momento che, aristotelicamente, si dice in molti modi, senza che questi possano essere risolti in una forma superiore di unità che li ricomprenda tutti, occorre spiegare in che modo l’essere conservi un certo grado di unità e in che senso sia la sostanza sia le altre categorie possono essere chiamate “enti” nonostante la superiorità della prima, dalla quale le altre dipendono quanto alla loro esistenza. Se Aristotele, come abbiamo visto, aveva giustificato l’unità dell’essere introducendo, nel IV libro della Metafisica, la relazione pros hen, i medievali cominceranno ad affermare che l’essere praedicatur analogice, si predica analogicamente. Oltre a questa applicazione ontologica, l’analogia si afferma anche come strumento fondamentale in teologia. A partire da una tradizione neoplatonica che ha in Proclo il suo punto di riferimento (e che si diffonde in ambito cristiano grazie agli scritti dello pseudo-Dionigi Aeropagita e in ambito islamico grazie al Liber de causis[4]), l’analogia viene impiegata anche per descrivere il modo in cui l’essere e le varie perfezioni vengono comunicate dalla Causa Prima a tutta la creazione proporzionalmente alla capacità recettiva di ogni ente, cioè alla sua maggiore o minore eminenza.
In conformità con questo duplice campo di applicazione, Tommaso d’Aquino è solito introdurre l’analogia distinguendone due accezioni principali:
il Creatore e la creatura si riconducono in unità non per una comunanza di univocità, bensì di analogia. Tale comunanza, però, può essere di due tipi: quello per cui alcune cose partecipano di alcunché di unico secondo anteriorità e posteriorità, come la potenza e l’atto partecipano della nozione di ente, e similmente la sostanza e l’accidente; oppure quello per cui un’unica cosa riceve dall’altra l’essere e la nozione, e tale è l’analogia che intercorre tra la creatura e il Creatore (Thomas De Aquino, Scriptum super I Sententiarum, Prologus, q.1, art. 2, ad 2.).
Tommaso è l’autore di solito accostato più strettamente all’analogia dell’essere, ma bisogna tenere presente che l’espressione analogia entis non compare mai nei suoi scritti. Egli chiama in causa l’analogia occasionalmente, in varie opere, presentandola di volta in volta in modo leggermente diverso in funzione del problema specifico che sta affrontando. Nella maggior parte dei casi, l’Aquinate se ne serve in un contesto teologico, al fine di precisare quale tipo di analogia ci consenta di attribuire a Dio l’essere, la bontà, la giustizia e altri attributi essenziali a partire dal modo in cui li sperimentiamo nelle creature. Nel corpusthomisticum coesistono perciò diverse formulazioni dell’analogia, che hanno posto gli interpreti di fronte alla difficoltà di capire se al riguardo esista effettivamente una dottrina tommasiana ufficiale, e se sì, quale sia. A prescindere da questo annoso problema, è possibile osservare che il maestro domenicano distingue spesso tra analogia duorum ad tertium (di due cose a una terza) e analogia unius ad alterum (di una cosa all’altra): la prima descrive il diverso rapportarsi di due cose a qualcosa di anteriore a entrambe, come quello della sostanza e dell’accidente alla ratio entis; la seconda descrive il rapporto esclusivo di una cosa verso ciò da cui dipende, come avviene per la creatura nei confronti del Creatore. Un’altra distinzione rilevante, che assume un’importanza preponderante all’interno della tradizione tomista successiva, è quella tra analogia di attribuzione (o proporzione) e analogia di proporzionalità. In realtà, questa terminologia non è strettamente tommasiana, ma deriva dall’opuscolo De nominum analogia composto dal commentatore tomista rinascimentale Tommaso De Vio, detto il Gaetano, che per secoli è stato considerato come la presentazione ufficiale della dottrina tommasiana dell’analogia. L’analogia di attribuzione descrive il fatto che tante realtà diverse sono tutte in relazione a un’unica e medesima natura, da cui dipendono; quella di proporzionalità mette in risalto l’identità di rapporto tra coppie diverse[5]. La prima è la relazione pros hen aristotelica, sovrapposta al movimento neoplatonico di exitus e reditus della creazione rispetto alla Causa Prima, che esprime il possesso, da parte delle creature, delle varie perfezioni (essere, bontà, sapienza etc.) pre-contenute in maniera sovraeminente in Dio; la seconda corrisponde al senso originale dell’ἀναλογία aristotelica. Entrambi questi significati, per Tommaso, costituiscono un tipo di analogia:
Costituiscono un’unità per proporzione o analogia tutte le cose che convengono nel fatto che questa sta a quella come una cosa sta a un’altra. Questo, poi, si può intendere in due modi: o nel senso che due cose presentano relazioni diverse a un’unica cosa, come “sanativo” detto dell’urina significa la relazione di segno della salute, mentre è detto della medicina perché significa la relazione di causa rispetto alla stessa. Oppure nel senso per cui si dà un medesimo rapporto tra due cose e cose diverse, come quello della calma rispetto al mare e del sereno rispetto all’aria: infatti la calma è la quiete del mare, il sereno quella dell’aria (Thomas De Aquino, In XII libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, V, lec. 8, par. 879).
La tradizione tomista attribuirà grande importanza al ruolo svolto dall’analogia all’interno del pensiero dell’Aquinate, dando luogo a un dibattito interno, giunto sino ai giorni nostri, circa la superiorità dell’analogia di attribuzione o di quella di proporzionalità[6]. L’analogia in Tommaso è stata a lungo considerata un elemento perfettamente coerente con l’impianto aristotelico del suo pensiero, tanto che si è parlato di “dottrina aristotelico-tomista dell’analogia”. A partire dalla metà del secolo scorso, gli studiosi hanno messo in discussione questo assunto, soprattutto con l’obiettivo di tornare a una lettura diretta di Aristotele senza alcuna mediazione tomistica. Nel far questo, si è cominciato a valorizzare anche la tradizione esegetica antica, tardo antica e medievale araba, al fine di reperire quali slittamenti terminologici e concettuali abbiano reso possibile il progressivo costituirsi di quella che noi oggi conosciamo come la dottrina dell’analogia dell’essere.
di Giovanni Gambi
[1] Per una panoramica generale dei testi relativi alla filosofia antica e medievale e per la bibliografia rimando a G. Catapano, C. Martini, R. Salis (2020).
[2] Il termine zoon in greco significa sia “animale” sia “dipinto”, “ritratto”.
[3] L’uomo e il bue sono specie del genere animale, per cui ad essi il predicato “animale” si applica con lo stesso significato.
[4]Il libro del filosofo Aristotele sull’esposizione del Bene puro, sintesi sincretistica realizzata nel IX secolo nel circolo di al-Kindī sulla base degliElementi di Teologia di Proclo, conoscerà una larghissima diffusione in Europa a partire dal XIII secolo con il titolo di Liber de Causis.
[5] In Quaestiones disputatae de veritate, q. 2, art. 11, Resp. Tommaso distingue tra convenientiaproportionis e convenientiaproportionalitatis; in Summa theologiae, Pars I, q. 13, a. 5, Resp. distingue l’analogia per cui multa habent proportionem ad unum e quella per cui unum habet proportionem ad alterum.
[6] Per un veloce riepilogo delle posizioni sostenute in questo dibattito cfr. A. Donato, Il ruolo dell’analogia di attribuzione e di proporzionalità nella dottrina dell’Essere di Tommaso d’Aquino, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 28 (2003), pp. 163-190; spec. pp. 163-171.
A. Donato, Il ruolo dell’analogia di attribuzione e di proporzionalità nella dottrina dell’Essere di Tommaso d’Aquino, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 28 (2003), pp. 163-190.
Plato, Timæus.
Thomas De Aquinas, Quaestiones disputatae de veritate.