Per tutta la metà del secolo scorso, la nozione di organismo è stata messa da parte al pari di un’anticaglia ottocentesca, schiacciata tra i due pilastri della Sintesi Moderna (genomica ed evoluzionismo), ma anche gravata dalle colpe della sociologia organicista, che tra le due guerre si era messa al servizio delle politiche antiliberali europee. All’inizio del nuovo millennio, tuttavia, l’organismo riappare, in polemica con il paradigma genomico-evoluzionistico e certe sue applicazioni riduzionistiche[1]. Oggi l’approccio organismico ha riguadagnato un solido ruolo esplicativo all’interno delle scienze della vita. La filosofia, da parte sua, ha talvolta recepito e interpretato questa tendenza, recuperando alcuni aspetti delle teorie moderne dell’organismo e del pensiero della complessità.
Anche alla luce del suo rinnovamento in ambito biologico, la nozione di organismo necessita oggi di una rifondazione filosofica. È questo lo sfondo di Organism-Oriented Ontology di Audronė Žukauskaitė, uscito per Edinburgh University Press nel 2023, un confronto chiaro e rigoroso con temi e autori fondamentali alla ridefinizione del concetto. L’orizzonte del libro non è semplicemente quello di un’ontologia dell’organismo, bensì di un’ontologia generale dei sistemi basata sulla nozione di organismo, in linea con le attuali filosofie del processo d’ispirazione whiteheadiana. Questa prospettiva di fondo sembra difatti corrispondere a quella di Gilbert Simondon, a cui è dedicato il capitolo d’apertura: l’ontologia deve diventare ontogenesi, lo studio del quid est deve vertere su processi caratterizzati da molteplicità e potenzialità. Processualità, molteplicità e potenzialità sono i tre cardini della Organism-Oriented Ontology, che da questo punto di vista intende rappresentare un’alternativa alla Object-Oriented Ontology e a certi aspetti del realismo speculativo.
Il punto di fuga del progetto è stabilito sin dall’inizio: una riforma dell’ontologia deve fornire strumenti per la critica del biopotere contemporaneo. Questo aspetto sta alla radice del manifesto biocentrismo che anima la proposta e del taglio interpretativo del libro, centrato su un tentativo di messa a frutto della nozione di autopoiesi e del pensiero sistemico. Žukauskaitė è alla ricerca di una forma di resistenza che non si riduca al potere liberatorio della “vita in sé”, in chiave quindi puramente anti-strutturale, ma resti sufficientemente vicina ai processi di soggettivazione – implicitamente riconosciuti come essenziali in chiave politica – attraverso il gioco della forma e della forza. In questo, la sua interpretazione resta pienamente all’interno del solco aperto da Kant in consonanza con la scienza del suo tempo – come lei stessa sembra riconoscere facendo propria la diagnosi di Yuk Hui sul «paradigma organico» moderno.
Gran parte del libro è dedicata alla ricostruzione di un’altra idea di organismo attraverso gli autori di riferimento della biofilosofia contemporanea: il canone indiscusso costituito da Simondon, Ruyer e Deleuze-Guattari, poi Damasio, Malabou, Stiegler, Yuk Hui, infine l’ipotesi Gaia e le proposte di Stengers, Latour e Haraway. La questione che riunisce queste voci così diverse, ci sembra, si gioca sul crinale tra due diverse sensibilità: quella che gravita attorno al divenire sé (autós) e quella centrata invece sul divenire altro (állos). La prima sottende il paradigma dell’autopoiesi, in cui l’accento è posto sull’avvolgersi del processo in una forma. L’autrice è molto attenta a dimostrare come la teoria dell’autopoiesi non si faccia mai portatrice delle ragioni della chiusura, della stabilità, della totalità e dell’identità: piuttosto, la coappartenenza tra chiusura (operativa) e apertura (strutturale) fornisce la chiave della costituzione dei sistemi, delle forme in cui il processo stesso consiste. «Senza questa chiusura autopoietica auto-referenziale», ricorda l’autrice, «non ci sarebbe ricorsività, e senza ricorsività non ci sarebbe reale capacità di connessione tra un organismo e il suo ambiente» (131). La vita funziona divenendo dei sé.
D’altra parte, alcuni paradigmi attribuiscono maggior peso assiologico al divenire altro da sé – o meglio altro dal sé – del processo. L’accento qui è posto sulla contingenza delle relazioni che costituiscono la forma e sulla necessità della loro costante rinegoziazione: la contingenza non è assorbita dal sistema attraverso dinamiche di ricorsività, ma resta primaria. È questo il caso della simpoiesi, nozione amplificata da Donna Haraway per concettualizzare la qualità allopoietica (ovvero produttrice di alterità) propria della vita. Žukauskaitė si chiede cosa ci sia di vero e cosa invece di meramente poetico in questo paradigma, facendo valere le ragioni di un “realismo” che trova giustificazione solo in una prospettiva prettamente politica. «Quando Gilbert, Sapp e Tauber annunciano che “siamo tutti licheni”», si domanda l’autrice, «o, come dice Haraway, “siamo humus, non umani”, fino a che punto possiamo accettare queste affermazioni? Possiamo rinunciare alla nostra individualità umana e dissolverci nel fango del compost?» (139). Quale soggettività politica ci consegna la simpoiesi?
Pensatori come Simondon e Deleuze-Guattari si erano già trovati dai due lati opposti di questa questione, e ne avevano però anche dimostrato la sostanziale coappartenenza. Nel pensare dalla parte della forma la costituzione dell’autós, Simondon aveva davvero inaugurato una filosofia dei processi e non degli individui; nel pensare dalla parte della forza l’azione dell’állos, Deleuze e Guattari avevano davvero aperto un altro modo di pensare la soggettivazione. Sin dall’inizio allora una concezione post-organicista dell’organismo si vorrebbe al di là di questa dicotomia.
Pur propendendo chiaramente per il paradigma autopoietico, Žukauskaitė offre al lettore un interessante sforzo finale che sembra guardare verso il superamento di questo dualismo. La possibile soluzione è rintracciata nel concetto di «immunità», a cui Roberto Esposito ha dedicato gran parte della sua proposta filosofica. L’immunità sarebbe in grado di fornire il modello di una relazione senza sé, nella misura in cui la risposta immunitaria non è una dinamica a difesa di un’interiorità, ma una dinamica d’interfaccia e negoziazione dell’altro riconosciuto come sé. Il sistema immunitario, infatti, non può reagire a ciò che non ha già in sé come immagine e parte dell’altro. La distinzione tra sé e dell’altro è scardinata a favore della priorità assoluta della relazione; non però – ci sentiamo di aggiungere – relazione univocamente positiva, liberante e creativa, ma relazione negativa, o meglio tensiva, che mantiene ferma la differenza. È il negativo ad essere capace di positivo, non viceversa. La proposta del libro, infine, riecheggia fortemente le critiche a certe ricadute “gioiose” dello spinozismo deleuziano.
L’obiettivo dell’autrice è un’ontologia utile ad una critica reale del biopotere. La risposta contenuta nel libro oscilla tra l’«altra epistemologia» immunitaria (143) e le promesse di un paradigma autopoietico correttamente interpretato. Tali promesse, ci sembra, risuonano ancora e sempre della morale kantiana dell’autonomia e dell’autodeterminazione, anche dopo aver paradossalmente assorbito la demolizione novecentesca del soggetto. Nel puntare al superamento della dicotomia tra autós e állos, Organism-Oriented Ontology accenna a una direzione corretta e promettente, che tuttavia deve ancora riconciliare il primato del negativo con antichi sogni illuministici.
Gregorio Tenti
[1] L’articolo Embracing Complexity: Organicism for the 21st Century di Gilbert e Sarkar (2000) apre quello che Montévil, Longo e altri hanno definito “il secolo dell’organismo”.
La seguente intervista a N. Katherine Hayles è stata organizzata in occasione della pubblicazione dell'edizione italiana di Unthought The Power of the Cognitive Nonconscious per l'editore Effequ. Studiosa di fama internazionale, direttrice e docente del programma di letteratura presso la Duke University ha fornito un contributo fondamentale al rapporto tra letteratura, scienza e tecnologia. Nel suo ultimo saggio l’autrice pone al centro della riflessione un ripensamento radicale della nozione di cognizione, soprattutto attraverso l’elaborazione dei concetti di cognizione non conscia e assemblaggi cognitivi. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, uscito nel 1999 ma ancora oggi riferimento imprescindibile per chi si occupa di postumanesimo e di posthumanities.
Ambra Lulli: Vorrei cominciare facendo un confronto tra il tuo nuovo libro L’impensato e i tuoi lavori meno recenti. In particolare, ho notato che nel L’impensato non viene mai utilizzata la nozione di postumano. Che rapporto c’è tra la riflessione che sviluppi in questo nuovo testo sulla cognizione non conscia e sugli assemblaggi cognitivi e quella sull’interazione tra esseri umani e tecnologia che avevi portato avanti in How We Became Posthuman? Ritieni che le nozioni di postumano e postumanesimo possano essere ancora delle categorie d’analisi critica interessanti o la loro assenza nel tuo nuovo testo indica piuttosto la necessità di un loro superamento?
N. Katherine Hayles: Come sapete, i Posthuman studies sono oggi in una fase molto avanzata e contano dozzine di libri, riviste e raccolte sul tema. Insieme a molti altri autori, considero le categorie di postumanesimo e postumano come d’importanza vitale per l’analisi critica. Al centro del mio interesse per il postumano, iniziato ormai più di vent’anni fa, c’era l’idea che tecnologie computazionali come la realtà virtuale stessero decostruendo il soggetto umanista liberale. Questo processo oggi è in uno stadio ancor più avanzato. Per come lo avevo concepito allora, il postumano non implicava necessariamente un ripensamento delle forme di vita non umane. Gli importanti lavori di Donna Haraway, Cary Wolfe, Timothy Morton e altri hanno reso chiaro che il postumano, come movimento, dovrebbe incidere (e di fatto incide) anche sulle nostre relazioni con altre specie. Se ne L’impensato non menziono il postumano in maniera esplicita è perché il concetto è semplicemente assunto come precursore di nozioni centrali quali l’idea della cognizione nonconscia, dell’emergenza di media computazionali come nostri simbionti contemporanei, dell’importanza degli assemblaggi cognitivi per la vita attuale nelle società sviluppate.
AL: Partiamo dall’inizio del tuo nuovo libro. In particolare, vorrei soffermarmi sul modo in cui inviti a ripensare la cognizione, come sostanzialmente distinta dal pensiero, e in un modo che porta ad estendere questa facoltà a tutte le forme di vita biologiche e a molti sistemi tecnici. In che modo, il ripensamento da te proposto, se da un lato intende avvicinare cognizione umana e tecnica, dall’altro vuole prendere le distanze dal modello cognitivista che interpreta la cognizione come computazione? Inoltre, vorrei soffermarmi sulla nozione di informazione a cui fai riferimento quando proponi questa ridefinizione della cognizione: un “processo che interpreta l’informazione in contesti che la connettono con il significato” (p.45). Mi sembra importante notare che la nozione di informazione a cui fai riferimento si distanzia da quella puramente quantitativa e probabilistica proposta da Shannon e Weaver, per rimanere invece legata a nozioni quali quelle di significato e di interpretazione. Potresti soffermarti anche su questo punto e approfondire la nozione di informazione a cui fai riferimento? Nel testo vengono citati autori come Friedkin e Simondon.
NKH: Fondamentalmente, il paradigma cognitivista affermava che il cervello umano opera come un computer. Io penso invece che questo sia altamente improbabile, considerate le profonde differenze tra media computazionali e cervelli umani dal punto di vista dell’incarnazione [embodiment]. La mia preferenza personale va ai modelli di cognizione incarnata o incorporata, come quelli elaborati da Maturana e Varela in Autopoiesis and Cognition, da Thompson, Varela e Rosch in The Embodied Mind, da Edwin Hutchins in Cognition in the Wild, da Lawrence Barsalou nel suo lavoro sulla “grounded cognition”, per menzionarne solo alcuni. Se certamente sostengo che sia umani che computer abbiano capacità cognitive, d’altra parte però insisto anche sull’importanza della loro diversa incarnazione, che implica maniere differenti di realizzare tali funzioni cognitive. È anche per questo che ho deciso di concentrare la mia ricerca sulla cognizione invece che su, ad esempio, pensiero o intelligenza, nozioni dotate di una lunga storia che le associa esclusivamente all’essere umano. La definizione di cognizione che citate la connette a interpretazione e significato. Sono termini forti nelle discipline umanistiche, e li ho scelti in parte per questa ragione; tuttavia, li uso in una maniera che supera radicalmente le concezioni tradizionali, che storicamente hanno attribuito solo agli esseri umani il diritto di performare l’attività interpretativa e l’attività di significazione. Prendendo le mosse dalla biosemiotica, sostengo che tutti gli esseri biologici, incluse piante e organismi unicellulari, interpretano informazione dai propri ambienti in maniere che sono significative per le loro vite. Come notate, questo uso del termine “informazione” non è lo stesso di quello del concetto promosso da Shannon e Weaver; piuttosto, si avvicina alla “differenza che fa una differenza” di Gregory Bateson e alla nozione di individuazione elaborata da Simondon.
AL: I nuovi materialismi sembrano utilizzare un lessico “deleuziano” (i concetti di forze, affetti, intensità e assemblaggi contingenti) per sottolineare soprattutto il carattere dinamico e profondamente trasformativo della materialità. In questo quadro il soggetto e la cognizione, di cui queste proposte teoriche vorrebbero fare a meno, si configurano come elementi unicamente “conservativi”. Nel quadro teorico da te proposto, e attraverso l’introduzione della nozione di cognizione non-conscia, quale potenziale trasformativo viene affidato invece alla cognizione? Si può sostenere che, attraverso il ripensamento della nozione di cognizione che proponi, è possibile considerare la complessità come il prodotto di azioni/ dinamiche cognitive?
NKH: Dal mio punto di vista, il carattere trasformativo della materialità ha indubbiamente agency, basti pensare a fenomeni che vanno dalla lenta erosione delle rocce fino alle violente eruzioni dei vulcani. Per questo parlo delle forze materiali nei termini di agenti. Ciò che le forze materiali non possono fare, tuttavia, è interpretare l’informazione che viene dai loro ambienti e basare le loro azioni su tali interpretazioni. L’eruzione di un vulcano, le roboanti fratture di una valanga, la violenta formazione di un uragano si possono comprendere come la somma totale delle forze rilevanti che agiscono in quel momento. Queste forze non possono decidere di seguire un percorso differente – di aspettare che gli sciatori abbiano abbandonato le piste, ad esempio, o di investire un campo deserto invece che una città affollata. Manca loro la capacità di selezione e scelta, funzioni che tutte le forme di vita hanno, persino le più umili. In breve, le forze materiali sono agenti ma non attori, precisamente perché mancano di capacità cognitive. Gli organismi certamente hanno una propensione per l’aspetto “conservativo” nella misura in cui mirano a perpetuare la propria esistenza. Tutto lo studio dell’omeostasi è un tributo a questa idea, un’indagine dei modi in cui i corpi viventi si stabilizzano in ambienti in mutamento. Senza dubbio è per questo che Deleuze e Guattari dichiararono che i loro scritti erano contro l’organismo, il segno, il soggetto. Allo stesso tempo, però, gli organismi possono essere infinitamente creativi, come la storia dell’evoluzione ci mostra. Le rocce possono essere compresse o frantumate, traslate o fratturate, ma non possono essere altro che rocce. Gli esseri viventi, al contrario, costantemente divengono altro da ciò che sono, creando nuove cellule mentre quelle vecchie muoiono, producendo nuovi anticorpi per combattere le malattie, inventando nuovi comportamenti al mutare delle condizioni. Più un organismo è dotato di capacità cognitive, più sarà capace di invenzioni radicali. Gli esseri umani sono ovviamente il massimo emblema di questa affermazione, ma anche altre specie esibiscono notevoli capacità di trasformare sé stesse e i propri ambienti, basti pensare ai casi in cui un albero sviluppa una tossina specifica contro un parassita mai incontrato prima. Quando molteplici attori interagiscono gli uni con gli altri nel proprio ambiente, invariabilmente si ottengono delle dinamiche complesse. Questi attori non sono necessariamente dotati di coscienza, possono anche fare uso di cognizione nonconscia. Inoltre, anche per gli esseri umani, la cognizione nonconscia svolge funzioni cruciali affinché la coscienza possa operare. Dal mio punto di vista, la cognizione nonconscia rende conto della maggior parte della cognizione umana, incluse quelle funzioni spesso date per scontate come mantenere una rappresentazione corporea coerente, adattare postura e respiro alle condizioni presenti, rispondere a segni e segnali sotto la soglia della coscienza, coordinare stati emotivi e attenzione.
AL: Quali sono le implicazioni del decidere di utilizzare la nozione di “assemblaggio cognitivo” piuttosto che di rete? Mi sembra che parlare di assemblaggio ci consenta di evitare la reificazione delle interconnessioni tra agenti, considerando gli assemblaggi sempre appunto come “provvisori”, ma al tempo stesso la differenza sta nel tipo di “materialità” coinvolta. Gli assemblaggi, a differenza delle reti, sembrano fare riferimento a una materialità “carnale”, tridimensionale, che oppone resistenza e che ha a che fare con il “toccare, il respingere e il mutare” (p. 209). Potresti approfondire questo punto?
NKH: Come suggerite, un assemblaggio è più flessibile e transitorio di una rete, il che lo rende una scelta migliore dal mio punto di vista. Gli assemblaggi cognitivi sono collettività che includono umani, non umani e media computazionali, che interagiscono tutti grazie alle loro capacità cognitive. Un esempio potrebbe essere quello di quando parli al cellulare, ad esempio al tuo cane quando sei via da casa: qui si uniscono la tua cognizione, le capacità computazionali del telefono e ovviamente il tuo cane, quando inclina la testa in quel suo modo grazioso. Quando chiudi la chiamata e vai al computer, entri in un altro assemblaggio che coinvolge la macchina, le connessioni di rete, un server remoto e così via. Entrando in automobile sei in un altro assemblaggio ancora, che comprende le capacità computazionali dell’auto, i sensori della strada, i tempi dei semafori, eccetera. Come Giano, gli assemblaggi cognitivi hanno due facce. Una faccia è rivolta verso il flusso dell’informazione, l’altra verso la materialità degli enti dell’assemblaggio, ovvero le loro qualità “carnali” (per ciò che riguarda gli enti biologici) e le loro istanziazioni in metallo e silicone (nel caso dei media computazionali). L’incarnazione determina il modo in cui si dà il flusso d’informazione, per questo non possiamo comprendere l’aspetto astratto senza prendere in considerazione il lato materico.
Minerva Juolahti: N. Katherine Hayles (2019)
AL: Con la nozione di assemblaggi cognitivi, sembri soprattutto voler sottolineare la situazione di densa embricazione e simbiosi, di interazione e comunicazione ormai pervasive tra cognizione umana e sistemi tecnici. La cognizione tecnica sembra avere un ruolo cruciale nelle nostre forme di vita (si pensi, ad esempio, alle cognizioni tecniche a cui è interamente affidata la gestione del traffico in una città come Los Angeles) e conseguenze enormi sulle società e le culture umane. La prospettiva sembra quindi essere quella di una coevoluzione, di una relazione simbiotica in cui per ognuno dei simbionti coinvolti risulta impossibile pensare di prosperare senza l’altro. A quali differenti visioni politiche ed etiche portano una concezione, come la tua, che sottolinea la stretta interdipendenza tra cognizioni umane e tecniche, rispetto a una concezione che considera plausibile per il soggetto umano la possibilità di “svincolarsi” dalla fitta rete di cognizioni tecniche che costituiscono la sua ecologia cognitiva? La pervasività della cognizione tecnica e la sempre maggiore autonomia dei media computazionali si associa a forme di controllo sempre più efficaci, con i problemi e i costi che queste implicano. Di fronte a questa prospettiva, non si dovrebbe forse poter pensare alla possibilità di “interrompere” o “disturbare” il flusso continuo di informazioni e di comunicazione? Non si dovrebbe, cioè, pensare il rapporto tra esseri umani e sistemi tecnici anche in termini di conflitto oltre che di simbiosi?
NKH: Tecnicamente, la definizione biologica di simbiosi comprende anche il parassitismo e altre forme di associazione distruttiva. I sistemi tecnici possono indubbiamente essere causa sia di conflitto che di simbiosi. Pensiamo all’operaio lasciato a casa perché un robot industriale ha preso il suo posto in fabbrica, o all’accusato che viene incarcerato ingiustamente invece di essere messo in libertà vigilata perché un algoritmo responsabile delle condanne reputa probabile che sarebbe un recidivo. Dal mio punto di vista, ci sono molti casi in cui dovrebbero essere gli umani, e non gli algoritmi, a prendere le decisioni. Ma dobbiamo anche tenere a mente che pure gli umani sono lungi dall’essere infallibili e sono portatori di pregiudizi espliciti ed impliciti. Per me, la maggiore differenza tra decisioni algoritmiche e giudizio umano rimane quella evidenziata da Hubert Dreyfus quasi cinquant’anni fa: gli esseri umani hanno una più ampia e comprensiva visione del mondo. In realtà, si potrebbe dire con Dreyfus che noi abbiamo un mondo, mentre gli algoritmi hanno solo dati immessi al loro interno. Nei dibattiti contemporanei c’è un gran numero di voci che esortano all’interruzione e all’alterazione, a volte mostrando una scarsa comprensione di cosa i computer realmente fanno. Sono d’accordo sul fatto che questa sia spesso una tattica necessaria, ma penso anche che sia ugualmente importante mettere in atto tattiche e strategie di decostruzione dell’antropocentrismo, compresa la convinzione che gli umani siano superiori ed abbiano il diritto di dominare su tutto il resto, anche sulle altre specie e sulle intelligenze artificiali. Data l’urgenza della crisi ambientale attuale, ci occorrono diversi modi di concepire il mondo e la nostra relazione con esso. Abbandonare l’antropocentrismo è un modo per conseguire questo obiettivo. Lo sostituirei con ciò che chiamo “reciprocità ecologica”, evidenziando le relazioni tra gli esseri umani, i viventi non umani e i media computazionali.
AL: Parlando degli algoritmi di trading automatizzato, metti in luce come l’operare della cognizione tecnica in questo caso avvenga sfruttando temporalità inaccessibili alla cognizione cosciente, e come ciò costituisca un’ “ecologia cognitiva algoritmica di sole macchine”. I modi in cui gli umani possono interagire con queste ecologie di sole macchine, in modo da correggerle secondo criteri etici (penso, ad esempio, all’andamento dei mercati finanziari) hanno più a che fare con l’intervento in quelli che definisci “punti di flesso”, piuttosto che con la regolamentazione. Si tratta di un’opzione di controllo “debole” su processi che rimangono fondamentalmente ingovernabili, contrapposta all’idea di un controllo “forte”? In che modo tutto ciò ci porta a un necessario ripensamento del paradigma cibernetico, che vedeva nei cicli di feedback la chiave per il controllo e l’autocontrollo delle tecnologie cognitive? Sembra che i cicli di feedback di cui parlava la cibernetica abbiano assunto le sembianze di cicli ricorsivi in grado di generare grande complessità e impredicibilità, trasformando gli ambienti in cui queste tecnologie cognitive operano in ambienti fortemente instabili, potenzialmente soggetti a rapide rotture e crisi improvvise.
NKH: Non sono contraria alla regolamentazione, ma tutto dipende dal tipo di regolamentazione proposta e da quali conseguenze, desiderate e indesiderate, essa potrebbe avere. Nel capitolo sugli algoritmi di trading discuto alcune proposte di riforma del processo di trading automatizzato che operano non attraverso la regolamentazione governativa, che si è dimostrata inefficace o addirittura controproducente, ma attraverso il cambiamento delle condizioni in cui si effettuano le transazioni, ad esempio rallentandole intenzionalmente. Immagino che questo si possa chiamare “controllo debole”, ma non sono sicura di come potrebbe configurarsi un “controllo forte” – forse nel modo in cui la Cina gestisce i propri mercati azionari? Come sapete, i cicli di retroazione [feedback loop] del paradigma cibernetico possono essere sia negativi, tendendo ad attenuare e bilanciare le oscillazioni nel sistema, o positivi, accentuando le fluttuazioni fino al punto di rottura. Nei sistemi biologici, si danno entrambi i tipi di feedback loop. Probabilmente un qualche tipo di equilibrio tra i due è necessario per qualsiasi sistema complesso, sia esso biologico o tecnico. La troppa stasi e creatività è repressa; un’eccessiva fluttuazione e l’intero sistema potrebbe collassare. Il trucco è trovare la giusta combinazione che possa portare a trasformazioni positive.
AL: La contingenza e l’imprevedibilità sembrano avere, nel tuo libro, anche un potenziale liberatorio: ciò emerge soprattutto nei capitoli 7 e 8, quando esplori il potenziale utopico degli assemblaggi cognitivi. Come “inconoscibile”, la contingenza al cuore degli assemblaggi cognitivi è al centro della tua interessante analisi del romanzo L’intuizionista di Colson Whitehead. Scegliendo come chiavi di lettura per interpretare il romanzo il problema dell’arresto di Turing e i problemi di incompletezza di Godel, l’ “inconoscibile” e il “non computabile” sembrano investiti della speranza in un futuro più giusto. Potresti soffermarti su questo punto e spiegarci meglio in che modo intendi questo potenziale utopico e liberatorio degli assemblaggi cognitivi?
NKH: Il mondo reale è costellato di contingenze e eventi imprevedibili, che possono essere sia liberatori che devastanti – un vento può permettere al navigante di entrare in porto o può essere così violento da strappare via le case. Nei mondi artificiali dei media computazionali la contingenza e l’imprevedibilità devono invece essere integrate, con un’importante eccezione. Come M. Beatrice Fazi evidenzia, l’impossibilità dimostrata da Turing di trovare una soluzione generale al problema dell’arresto – ovvero, il fatto che non si possa prevedere in anticipo se un determinato algoritmo si fermerà o se verrà eseguito per sempre – apre uno spazio per la contingenza persino entro le operazioni apparentemente deterministiche di un computer. Fazi mette questa contingenza computazionale in relazione con il virtuale di Deleuze e le occasioni reali di Whitehead. Persino le reti neurali non sfuggono al problema dell’arresto, perché ancora lavorano attraverso astrazioni computazionali che cercano di sistematizzare gli aspetti della realtà. È stato mostrato che il teorema di Gödel e il problema dell’arresto sono interconvertibili (cioè, partendo da uno qualunque dei due, l’altro può essere inferito da esso). Lo stesso Gödel ha sottolineato che le limitazioni articolate nei due teoremi si riferiscono solo ai sistemi formali (ad esempio, ai sistemi aritmetici) e non al pensiero umano in sé, che secondo lui potrebbe spaziare liberamente in regioni in cui la computazione non arriva (per come la mette Turing, i numeri incommensurabili). È interessante notare come nel suo articolo del 1936 sul problema dell’arresto, Turing abbia provato che l’insieme dei numeri computabili ha la stessa dimensione dell’insieme dei numeri naturali o contabili. Entrambi sono molto più piccoli dell’insieme dei numeri reali, che è più ampio di vari ordini di grandezza. Da questo punto di vista, il campo del computabile è molto più piccolo del campo del pensabile (per gli umani). Gli esseri umani possono inventare i computer, ma i computer non possono inventare gli esseri umani.
AL: Sembra che il potenziale utopico del non-conscio cognitivo abbia il significato, per te, anche di una “speranza” che riguarda il futuro degli studi umanistici. In particolare, sembri auspicare la possibilità per gli studi umanistici, grazie all’introduzione del non-conscio cognitivo, di uscire dall’isolamento che li caratterizza, e di poter invece cominciare ad apportare decisivi contributi a discipline scientifiche quali ad esempio l’informatica, l’ingegneria elettrica, l’architettura o perfino l’economia. Quali sono esattamente, secondo te, le poste in gioco etiche e politiche di questa ibridazione disciplinare e di questa riarticolazione dei rapporti tra saperi all’insegna della profonda interazione e necessaria interdipendenza? Ciò richiederebbe agli studi umanistici una conversione dei propri paradigmi talmente profonda da poter essere considerata una vera e propria “rottura epistemica”, come tu stessa sostieni. C’è anche qualcosa che potrebbe andare perso per gli studi umanistici, in termini di capacità di incidere sul nostro presente e futuro, all’interno di questa nuova ecologia disciplinare?
NKH: Le scienze si interrogano sempre sul “cosa?” e spesso sul “come?”, ma solo molto raramente si domandano “perché?” o “che cosa significa questo?”. Tradizionalmente queste domande sono appannaggio degli studi umanistici, con lunghe e ricche tradizioni in filosofia, scienze delle religioni, letteratura, etica, e altre discipline. Con l’espansione costante della tecnosfera, le domande legate al “perché?” e al “dovremmo?” (distinte da quelle come “saremmo in grado?”) stanno diventando sempre più urgenti. Gli studiosi di discipline umanistiche hanno la competenza e la conoscenza necessarie per produrre importanti contributi su questi temi. Alcune aree degli studi umanistici che sono in rapida espansione, come gli Animal studies e le Environmental Humanities, hanno già offerto contributi importanti per l’avanzamento in ambito tecnico e scientifico, spaziando dalla gestione degli animali di laboratorio a una più profonda comprensione dell’importanza delle relazioni ecologiche in generale. Tuttavia, gli umanisti devono anche comprendere che intervenire in ambito tecnico e scientifico realizzando interazioni efficaci ha il suo prezzo. Come gli attivisti contro l’AIDS hanno presto capito, interventi riusciti con protocolli tecnici e scientifici richiedono di apprendere le basi del campo d’interesse. La comunicazione richiede un lessico comune, o almeno una zona d’intersezione linguistica. Sono convinta che l’interazione coi saperi tecnici e scientifici contribuirebbe anche a creare un atteggiamento di scetticismo da parte delle discipline umanistiche nei confronti dei loro stessi eccessi, il che dal mio punto di vista avrebbe effetti benefici. In questa prospettiva ci sono dunque vantaggi per le scienze e le tecnologie nel relazionarsi con le discipline umanistiche e vantaggi per le discipline umanistiche nel confrontarsi con le scienze e le tecnologie. Perché non dovremmo volerlo?
Utilizzando come attivatore di ogni capitolo una “specie harawaiana”, Federica Timeto nel suo Bestiario Haraway (Mimesis 2020) analizza e mette a sistema il pensiero di Donna Haraway a partire da una serie di figure zoo-tecnomorfe che hanno accompagnato e inquadrato il lavoro dell’autrice americana in maniera organica nella sua costante mutazione.
Il volume offre una prima sezione introduttiva in cui si presentano le illustrazioni a ogni capitolo di Silvia Giambrone (p. 17); il capitolo 1, “Animali che significano: Note introduttive a un bestiario naturalculturale” (p. 21), è una introduzione generale all’approccio teorico di Haraway, alla sua concezione “dell’animale”. Il libro prosegue poi con “Nella danza del pensare-sentire. Una conversazione con Donna Haraway” (p. 29), una intervista inedita alla teorica americana. Di seguito, ogni capitolo è dedicato a una delle specie significative nella teoria di Haraway, ivi compresi il cyborg (p. 105) e i microorganismi (p.189). Questi capitoli del Bestiario sono strutturati in una breve prima parte in cui Timeto ricostruisce da un punto di vista storico, simbolico, culturale, e della storia della scienza come ognuno di questi animali è stato percepito, classificato, concettualizzato storicamente e filosoficamente per poi entrare in maniera più dettagliata nelle idee ed elaborazioni al riguardo della stessa Haraway.
Nel primo capitolo, Timeto parte dal pensiero “per ecologie” tripartite: tra viventi umani, non umani e tecnologie. È da qui che scaturisce il pensiero antispecista (e non tanto “animalista”) di Haraway che implica un vivere-con l’alterità. Questo pensiero si appoggia su una profonda critica al rappresentazionalismo per quanto questo implica una scissione in soggetto-oggetto che oscura qualsiasi possibilità di ibridazione trans-specie (p. 22). In questo contesto, l’animale diventa sempre «una macchina speculare dell’umano» (p. 22) che lo “riflette” come uno specchio. Ma poiché, come indica Derrida, “l’Animale in generale” non esiste, in realtà il vivente non umano finisce per funzionare come un ventriloquo attraverso il quale «a parlare resta sempre l’umano» (p. 22).
Per contro, nell’approccio harawaiano, gli animali non funzionano come specchi dell’umano, questo sì capace di rappresentazione, ma sono opachi, e bisogna «lasciar rispondere gli animali, dunque, piuttosto che dar loro (la nostra) voce» (p. 24).
Timeto fa poi un percorso “archeologico” in senso foucaultiano e analizza le diverse accezioni del termine bestiario lungo la storia, in rapporto alle quali emerge il concetto di specie compagne definite da Haraway come «un bestiario di agentività, modalità di relazione» (p. 27).
Successivamente, nel secondo capitolo, l’intervista funziona non solo come un mezzo per chiarire i concetti principali delle teorie dell’autrice come introdotti nei suoi libri, ma anche come un aggiornamento di questi agli eventi attuali. Timeto e Haraway discutono quindi della categoria di specie, di estinzione e della difesa dei diritti degli animali (p. 31), un punto questo ultimo abbastanza problematico della visione di Haraway per la maggior parte degli animalisti. Haraway afferma: «Non sono pro-life, non condivido la feticizzazione della nozione di vita proprio perché credo che escluda la considerazione delle specifiche relazioni. Ho un profondo rispetto per gli attivisti animalisti radicali che dicono “Stop, basta uccidere vite animali”. Li rispetto perché sono assolutamente convinta che viviamo in un regime in cui si abusa delle uccisioni di animali non umani per scopi (umani) ingiustificati. […] Viviamo in circostanze complesse, posso uccidere o supportare l’uccisione di un embrione umano, uccidere o supportare l’uccisione degli animali da laboratorio in situazioni che, non definirei inevitabili, ma...il punto è che non possiamo agire innocentemente» (p.35).
E ancora «Non esiste decisione che non implichi una qualche forma di violenza. Ed è una violenza di cui siamo responsabili: potremmo sempre esserci sbagliati, dunque dobbiamo essere pronti a riconsiderare ogni volta le nostre azioni. Comprendere che non era la cosa giusta da fare» (p.35). Questo passaggio permette di identificare una posizione molto simile a quelle di Jacques Derrida: non ci si deve mai adagiare “dalla parte della verità”, ma ci si deve interrogare ogni volta su ogni decisione, su ogni posizione presa (Derrida 2006, p. 182). Questo approccio, che potrebbe essere chiamato un “metodo”, serve a impedire di cadere in un dogmatismo irriflessivo, e assicura, per così dire, una posizione critica; tuttavia occlude, come indica Cary Wolfe (2020) nella sua analisi del pensiero di Derrida, la possibilità di una etica, più o meno universale. Ed è quindi difficile non assecondare Haraway nella sua concezione di adottare posizioni “non innocenti”: perché nessuno è mai innocente, ogni decisione presa implicherà un danno per qualcuno, e come indica ancora Derrida, non c’è bisogno di mangiare la carne per essere carnefici.
Haraway di conseguenza è dichiaratamente contraria agli allevamenti intesivi a prescindere, ma non è contraria alle pratiche, per esempio, dei popoli indigeni di cacciare e mangiare la carne, e delle cerimonie di alimentazione dei nativi che le accompagnano (p. 36).
Timeto sceglie di presentare questa posizione come problematica, così come quella di Derrida citata sopra, in rapporto all’oncotopo e le sperimentazioni e modificazioni genetiche di animali: «Appare certamente problematico confrontare la logica, pur conseguenziale, di questo ragionamento con le odierne pratiche in cui la vita animale è annientata prima ancora di poter essere considerata o lasciata libera di diventare significativa e significante, ovvero di godere delle condizioni per entrare in relazioni effettivamente simmetriche con gli altri umani» (p. 102).
Così come è anche fondamentale, sia per capire il pensiero di Haraway, sia come contributo alle discussioni in corso negli animal studies, la domanda di Timeto riguardo alla concezione di ecologia tripartita menzionata sopra (umani, non umani, macchine) sul fatto che di solito l’accento viene messo sul rapporto umani-macchine o umani-non umani e quasi mai sulle possibilità di ibridazione dei non umani con le macchine in modi che non implichino un abuso o sfruttamento, bensì una qualche possibilità di collaborazione, o in termini harawaiani un divenire-con (p. 37). Questo tema viene ulteriormente approfondito nel capitolo sul cyborg. Segnalando che quando si parla di cyborg si pensa sempre all’intreccio tra umano in macchinino, in una dettagliata analisi Timeto traccia la l’asimmetria nei rapporti tra animali non umani e macchine, e sottolinea come «L’accento posto da Haraway sull’artefattualismo dei collettivi sociali e sulla loro composizione cyborg ha certamente lo scopo di liberare gli animali dallo status di oggetti (materiale passivo, strumenti, origine) cui sono stati relegati dal pensiero e dalle pratiche della tradizione occidentale, mostrando come essi non abitino ‘né la natura (come oggetto) né la cultura (come surrogato umano) ma “un posto chiamato altrove’» (p. 107).
Nel capitolo VI, intitolato “CANE”, Timeto analizza il concetto di specie compagne che Haraway avanza nel suo The Companion Species Manifesto (2003), un concetto che più che segnalare la svolta animalista nel pensiero dell’autrice americana contiene la sua critica della categoria stessa di “specie”. Questa critica si concentra sul fatto che la idea stessa di “specie” tende a semplificare a una unicità la complessità della molteplicità che essa stessa dovrebbe implicare (p. 132). Sia le specie compagne sia il cyborg mettono in evidenza, e si potrebbe dire persino celebrano, le contaminazioni e ibridazioni tra le specie. Il making kin - tradotto con “creare rapporti di parentela” - implica un divenire-con, una respons-abilità condivisa che evita qualsiasi pretesa di innocenza, «nella quale i legami di parentela non dipendono da una medesima genealogia, genetica o ematica, ma emergono piuttosto da storie condivise e dai nodi che si concretizzano nel vissuto in comune» (p. 132).
Sono anche degni di nota nel libro le scelte di traduzione più precise da parte dell’autrice, come per esempio la scelta di tradurre companion species come “specie compagne”, e non seguendo la traduzione originale del 2003 di Roberto Marchesini “compagni di specie”, come anche le precise note a piè di pagina che arricchiscono sia il Bestiario sia la comprensione del pensiero di Haraway, non sempre lineare.
In sintesi, Timeto fa emergere in maniera sottile e quasi impercettibile non solo la sua lettura dei principali concetti dell’opera di Donna Haraway, ma anche la propria posizione rispetto a essi. In effetti, forse uno dei concetti più interessanti tra quelli spiegati nel Bestiario, è la simpoiesi - concetto mutuato dalla Haraway a partire dal lavoro di una sua studentessa, Beth Dempster, che lo ha coniato negli anni 90: la concezione che i sistemi viventi non siano autosufficienti, o autopoietici, ma che il vivente, l’inorganico, la natura e la cultura coevolvano in constante intra-azione (p. 189-90). Come indica Timeto, la simpoiesi implica una respons-abilità condivisa, un divenire-con, ed è quello che in questo caso sembra emergere nel dialogo tra due pensieri.
Nota di lettura di P. Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco, Mimesis, 2019.
Il libro di Prisca Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco. L’orizzonte ecologico dell’esperienza a partire da Merleau-Ponty, edito per Mimesis, è un testo che si presta ad almeno due piani di lettura possibili. Per un lato, si tratta di una monografia attenta ad alcuni sviluppi del pensiero di M. Merleau-Ponty che, ad oggi, restano per lo più ai margini dalla critica esegetica (sia detto a titolo indicativo: la centralità dei corsi dedicati all’apprendimento nel bambino, gli influssi di alcuni inediti husserliani, i rapporti laterali con la psicoanalisi di Winnicott, etc.). D’altro lato, ci troviamo di fronte al tentativo di dare consistenza ad un percorso di pensiero originale. Si tratta quindi, tanto di un libro su, quanto di un cammino con Merleau-Ponty. Vorremmo partire da questo particolare intreccio di esegesi critica e costruzione concettuale per restituire alcuni aspetti che ci sembrano maggiormente rilevanti nel tentativo di inserire questo lavoro in contatto con alcuni dibattiti attuali, come quelli dell’ecologia filosofica e del problema della vita (Cfr. Iofrida 2012; Barbaras 2008). A tal fine, vorremmo prendere l’avvio dal capitolo intitolato Vincoli e improvvisazione (pp. 131 - 135), che si situa nel cuore dell’argomentazione dell’autrice. Questi concetti ci offrono uno spaccato interessante del lavoro svolto nel libro e restituiscono alcune cifre della posta in gioco del tentativo di Amoroso. Il particolare interesse di questo capitolo è dato da una sorta di case study, se è lecito esprimersi in questi termini, riportato dall’autrice e citato dal Merleau-Ponty (2010: 46) de La struttura del comportamento: si tratta degli studi del neurologo tedesco Kurt Goldstein(2010, 198 - 199) sullo scarabeo stercoraro. L’interesse per questo case study deriva dal fatto che tanto Goldstein, quanto Merleau-Ponty - e, con loro, Amoroso - considerano questo animaletto come un esempio di adattamento che potremmo definire contingente. Andiamo con ordine.
L’obiettivo - del capitolo come delle sue fonti - è quello di criticare le concezioni meccanicistiche del vivente, dell’animale e del corpo. Secondo Amoroso, in linea con lo spirito merleau-pontyano, in tali modi di pensare al vivente «non c’è spazio per l’improvvisazione» (p. 131). A partire da questa constatazione, Amoroso sottolinea che l’animale non è assimilabile ad una macchina meccanica in quanto, a differenza di quest’ultima, «non possiede un dispositivo prestabilito» (p. 131) di gestualità e azioni, cioè di forme a priori di comportamento. L’animale non è un oggetto (ma potremmo dire, altresì, che non è un noema), piuttosto è espressione di una variegata capacità d’azione in riferimento ad una serie di contesti. «In altri termini, la vita è caratterizzata da una certa forma di ambiguità, di apertura di fronte allo stimolo, dunque di capacità di improvvisare di fronte al domandare, continuamente rinnovato, del reale» (p. 131).
Vediamo emergere, in questi passaggi, una relazione ambientale che restituisce, almeno in parte, la cifra ecologica di queste analisi. Ma emerge altresì una presa di posizione specifica in merito alla questione del vivente. La vita, ma come vedremo è più consono dire l’atto del vivere, è qualcosa che si situa nell’intermondo (cfr. Merleau-Ponty 2008, 147-148) tra le istanze problematiche sollevate dall’ambiente e le capacità di risposta del vivente, capacità che sono sempre aperte e allo stesso tempo vincolate da una specifica topologia, ad una situazione. Vivere consiste nell’essere situati in questo spazio di gioco, mondo intermedio (Iacono 2010, 67-87) tra le urgenze dell’ambiente e le capacità (o plasticità) del vivente.
Ora, è in questa doppia cattura, in questo chiasma per riprendere la concettualità di Merleau-Ponty, che si pone la questione della vita, ed è qui che diviene centrale il lavoro di Goldstein. Amoroso mutua dal neurologo tedesco una peculiare nozione di adattamento: «[q]uesta idea è tematizzata da Goldstein come venire a patti (coming to terms) del soggetto con la situazione: l’organismo riorganizza continuamente se stesso e il proprio mondo in funzione delle proprie possibilità e necessità» (p. 133). Questo modo di concepire l’adattamento esprime l’idea che tra l’ambiente (il quale, in riferimento a von Uexküll, viene declinatodall’autrice nei termini di Umwelt) e l’individuo non si diano mai relazioni univoche e che nessuno dei due termini possa avere un privilegio ontologico sull’altro. In quest’ottica, l’idea di adattamento è interpretata in chiave non riduzionistica. Riprendendo alcuni aspetti del pensiero francese novecentesco (ma non solo: molti i richiami nel libro a Huizinga, Winnicott, etc.), Amoroso vuol evidenziare che l’adattamento e il chiasma tra individuo e ambiente mette in risalto che è la relazione ad aver valore d’essere, la quale è irriducibile ad uno solo dei due poli: nessuna priorità ontologica dell’ambiente sull’individuo, né dell’individuo sull’ambiente.
Per un verso, infatti, «l’organismo contrae il mondo per adattarlo alla propria condizione» - nel duplice senso del termine contrarre: ridurlo ai dintorni, ma anche assumerlo come abitudine -, mentre per un altro, «il vivente si adatta esso stesso al proprio ambiente, si riorganizza nel proprio rapporto con esso» (p. 134). Per evidenziare questo chiasma tra attività e passività (dell’organismo come dell’ambiente), Amoroso si richiama allo scarabeo analizzato da Goldstein, il quale «deambula, quando è sano, sempre con un’andatura ambiale, e, nel caso di amputazione di una o più falangi, usa alternativamente l’ambio e il trotto, a seconda dell’ambiente in cui si trova» (p. 135). L’esempio è utilizzato, come detto, anche da Merleau-Ponty (2010, p. 46) il quale sottolinea che tale capacità «non si verifica che sotto la pressione delle condizioni esteriori».
Questo doppio vincolo, questa relazione di continui feedback tra individuo e ambiente, è espressione della capacità dell’organismo «di far valere la propria libertà rispetto ad un limite […]. Rispetto ad un problema cui non era destinato dalla propria natura, l’animale dimostra una capacità quasi inventiva, di riassestarsi. Un vivente così pensato non è macchina almeno quanto esso non si costituisce come libertà assoluta» (p. 135).
Torneremo a breve su quest’ultimo passaggio. Per il momento è opportuno sottolineare che la capacità inventiva del vivente è espressione di un processo di adattamento basato su una negoziazione continua tra il dentro e il fuori, tra l’individuo e l’ambiente. Insomma, in primissima istanza vivere è una relazione che si basa sul venire a patti con l’ambiente, con un continuo risolvere problemi o, per dirla con Merleau-Ponty (2003, 293-318), rispondere alle avversità dell’esistenza.
In un’ottica di tal fatta viene a cadere l’idea di un ambiente come Natura Originaria, ovvero come principio Naturante (si tratta dunque di una posizione ecologica e non naturalistica, in quanto predilige le relazioni alle cose [Sachen]). Ma viene meno anche l’idea di un individuo isolato, dato che esso è sempre determinato dai processi di individuazione. Quella tra individuo e ambiente, così, è una relazione ambigua e avversativa che mette in atto processi di individuazione vivente.
Trattandosi di una posizione non naturalistica, la relazione vitale non è qualcosa di naturale, ma va sempre giocata e istituita: essa non è data ma è sempre da farsi. Vivere si presenta così come una prassi e non come l’oggetto di un sapere particolare o un noema: più che al Bìos, vivere rimanda ad un piano agonale, a qualcosa da fare piuttosto che a una mera cosa [Blosse Sache]. La vita, insomma, va praticata.
Con quest’ultima considerazione ci spostiamo su un altro riferimento centrale del libro di Amoroso: il biologo olandese Frederik J. Buytendijk, anch’egli tra le fonti di Merleau-Ponty. L’autrice mutua dallo scienziato l’espressione scandalo biologico dell’allegrezza, che dà il titolo ad un capitolo di poco successivo al primo commentato (pp. 151 - 155). Questa formula esprime l’idea che se il vivere è una prassi - attiva quanto passiva - e non un dispositivo prestabilito comportamentale, allora l’atto del vivere si presenta come una molteplice e variegata ricchezza di espressioni vitali, spesso anche del tutto inattese (mostruose, fuori natura e finanche pericolose per il vivente stesso). Proprio in questa multiforme varietàinattesa consiste lo scandalo della vita: essa non è riducibile ad un meccanismo, ma, mediante la doppia cattura, non è neppure uno slancio vitale, pura libertà assoluta, come abbiamo avuto modo di accennare.
Nell’ottica di uno slancio vitale, infatti, la vita non avrebbe altro senso se non se stessa, riproponendo nuovamente un dualismo tra qualcosa che ha un fine in sé e qualcosa che ha un fine fuori di sé. Si tratta di una prospettiva nella quale la vita ha un valore in sé, come un nuovo imperativo categorico e non ci sarebbe spazio per i singoli viventi poiché avrebbero il fine fuori di sé e dunque sarebbero solo mezzi attraverso i quali la vita esprimerebbe se stessa.
Lo scandalo del vivere, al contrario, è che vi sia la possibilità, nonostante tutto, di una vita. Lo scandalo consiste nel fatto che vivere non è che un continuo processo di indeterminazione e individuazione e che non ci si possa rapportare a questo vivere se non, per riprendere il lessico di Mille piani di Deleuze e Guattari (2015, 51), nella modalità della sottrazione, dell’ N-1. Ecco lo scandalo del vivere: si deve sempre strappare una vita dalle avversità, dalle contingenze, dalle istanze problematiche, perché vivere non è qualcosa che è esente dal fare dei singoli viventi. Vi sono infinite vite possibili e non una Vita Infinita: molteplici viventi infinitamente variegati, affetti in infiniti modi.
Un vivente, una vita è situata sempre nel mezzo dell’attivo e del passivo, dell’azione e della passione, è sempre aperta ai rischi e a forme di resistenza che ne ostacolano lo sviluppo: una vita, un vivente è sempre un paradosso esistenziale. Contro l’imperativo categorico della Vita Infinita, Amoroso tenta di giocare la carta della finalità senza scopo del vivente (pp. 195 ss), un finalismo che determina la dimensione contingente e paradossale di una vita. Vivere non è mai dunque un sostantivo, ma, di nuovo, un verbo, un agire, una pragmatica. Una vita non è che un continuo venire a patti con ciò che c’è, con e dentro l’esistente: un continuo attuare equilibri metastabili. Vivere, quindi, non è che creare delle resistenze nell’esistente.
Radicalizziamo ancora la tesi: vivere significa costringere l’esistenza a trasformarsi. Ciò fa sì che non si vive mai semplicemente contro la morte, vivere non è questione di mera sopravvivenza. Se vivere è un processo di adattamento continuo, questo adattamento non sarà, quanto meno in prima istanza, una lotta per la sopravvivenza (la quale presuppone, come argutamente sottolinea Amoroso, un ultimatum dell’ambiente all’organismo, p. 153), ma una lotta per trasformare l’esistente. Dal venire a patti allo scandalo dell’allegrezza, quindi: riecheggia, nel libro di Amoroso, l’idea che è solo attraverso l’allegrezza che si può vivere, ovvero trasformare l’esistenza.Sono le spinoziane passioni gioiose che aumentano lo spazio di gioco nelle avversità di una vita. Spinoziane, certamente. Ma anche profondamente merleau-pontyane (cfr. Merleau-Ponty 2008, 148 ss; 2003, 277-293): vivere non è la lotta a morte tra rivali, che condurrebbe ad una concezione competitiva della vita, ma la cooperazione tra viventi per trasformare lo stato di cose.
Ecco quindi tre concetti chiave del lavoro di Amoroso: vita, esistenza e trasformazione. Tutti e tre questi concetti necessitano di uno spazio di gioco (Amoroso mutua il termine husserliano Spielraum, pp.127-130) ove far crescere le relazioni, unico oggetto possibile dell’ontologia (la domanda ontologica, merleau-pontyanamente, non riguarda l’Essere, ma l’atto di creazione delle relazioni). Inevitabile, così, che tali riflessioni approdino al problema della soggettività e, con essa, alla critica di alcuni sviluppi della filosofia cartesiana. Con Merleau-Ponty, Amoroso tenta di delineare un’etica della contingenza (pp. 211 - 215), ovvero concepire la soggettività come potenza d’agire e non come interiorità cosciente e pensante: tentare di sostituire all’Ego Cogito, un Ich Kann, un Io posso. Un soggetto non è altrocosì da una vita che si pratica nei meandri delle avversità dell’esistenza.
Queste ultime considerazioni ci riportano al capitolo del libro di Amoroso dal quale siamo partiti, Vincoli e improvvisazione. Qui l’autrice connette la già commentata idea di Goldstein al lavoro del poeta Paul Valèry. Strana unione tra Scienza e Poesia, tra Ragione e Sentimento che ci limitiamo a segnalare e che nei lettori più avveduti non può che risuonare con il lavoro di Merleau-Ponty. In particolare, però, Amoroso rilancia l’importanza della nozione di Implexe «che esprime [la] fondamentale eventualità della vita» (p. 132). L’Implexe, infatti, è per il poeta francese «ciò per cui io sono eventuale» (p. 133). Amoroso fa giocare questa nozione contro l’idea di soggetto come cosa pensante, o, per essere più precisi, contro una concezione sostanzialistica della soggettività. L’autrice rilancia l’idea che una soggettività, in quanto qualcosa che può, non è identificabile col pensiero - non nei termini del Cogito, quanto meno - ma con l’eventualità.
Essere viventi, essere al mondo, divenire una vita significa essere sempre in relazione con qualcos’altro che c’è già, un qualcosa che ci precede e che ci supera. Essere una vita, inoltre, non è mai una condizione solipsistica: si vive sempre in una molteplicità, mai per sé. Una vita è pur sempre un’esistenza collettiva e intersoggettiva, mai meramente individuale. Ma ciò implica anche che, mentre la soggettività non è un per sé, il qualcosa non è neppure un in sé: non è un quid meramente indeterminato, ma un piano di esistenza avversativo che richiede la nostra vita, la nostra opera, la nostra incompiutezza. Essere viventi significa essere eventuali. Ma quest’ultima determinazione ci dice anche che vivere non è un pratica tra le altre. Vivere è una vera e propria ars inveniendi. In questa prospettiva si apre uno spiraglio, un cammino possibile verso una noologia di ispirazione merleau-pontyana, con cui vogliamo concludere.
Il pensiero (un pensiero terrestre, nietzscheanamente fatto di carne e nervi), svincolato dalla forma soggettiva, diviene una specie di virtù e in quanto tale occorre imparare a praticarla. Pensare, nella prospettiva di Amoroso, vuol dire apprendere e imparare a costruire insieme agli altri (umani e non) degli spazi di gioco nei quali poter sperimentare l’eventualità di una vita. Ma pensare vuol dire altresì costringere l’esistente a venire a patti con quella scandalosa allegrezza di una vita collettiva, l’unica soggettività capace di resistere alle avversità di ciò che c’è.
di Gianluca De Fazio
Bibliografia
Barbaras, R. (2008). Introduction à une phénoménologie de la vie. Paris: Vrin.
Deleuze, G. & Guttari, F. (2015). Mille piani. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2010). L’organismo. Trad. it. Di L. Corsi. Roma: Fioriti.
Iacono, A.M. (2010). L’illusione e il sostituto, Milano: Mondadori.
Iofrida, M. (2012). Vita natura soggetto, in M. Iofrida (a cura di), Crisi. Condizione e progetto. Modena: Mucchi.
Merleau-Ponty, M. (2003). Segni. Trad. it. di G. Alfieri. Milano: Net.
Merleau-Ponty, M. (2008). Le avventure della dialettica. Trad. it. di D. Scarso. Milano-Udine: Mimesis.
Merleau-Ponty, M. (2010). La struttura del comportamento. Trad. it. di M. Ghilardi e L. Taddio. Milano-Udine: Mimesis.
La nuova edizione di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 2018) raccoglie tre saggi di Donna Haraway, teorica femminista e storica della scienza allieva di Georges Canguilhem. I saggi in questione sono stati pubblicati la prima volta nel 1991, in Italia nel 1994, all’interno di una raccolta dal titolo Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature (Routledge). L’importanza della riedizione di un testo considerato ormai un classico può ricercarsi nella necessità di rivalutare la portata teorica e filosofica della riflessione di Haraway, portata che fino ad ora sembra essere stata scarsamente considerata. Ciò che andrebbe messo in discussione è un inquadramento “specialistico” del testo, che lo vorrebbe di interesse unicamente per chi si occupa di “questioni legate al genere” e, ancora più nello specifico, per chi nella cornice degli studi di genere riflette sui problemi della scienza e della tecnologia. Nella rivalutazione delle implicazioni teoretiche di Manifesto Cyborg è in gioco, più in generale, la riconsiderazione dell’importanza filosofica dei cosiddetti studi di genere e postcoloniali, che normalmente trovano legittimazione solo se inseriti nella cornice dei cultural studies. Il testo di Haraway eccede queste cornici disciplinari, e con le sue incursioni “spregiudicate” nel terreno delle scienze biologiche, biomediche e delle teorie dei sistemi, può essere considerato un’argomentazione a favore della contaminazione come importante strumento di produzione e creatività teorica.
Fin dalle prime pagine di Manifesto Cyborg è chiara l’urgenza teorica e politica che muove la riflessione dell’autrice: la necessità per il femminismo socialista e in generale per gli allora nuovi movimenti di sinistra di ripensarsi, alla luce del confronto con le profonde trasformazioni globali che segnavano il contesto dell’elezione di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti negli anni ’80. Il cyborg, protagonista dell’opera, rappresentava provocatoriamente quella peculiare “creatura” contraddistinta da un’intrinseca necessità di evadere ogni forma di pensiero dicotomico, ogni forma di razionalità strutturata intorno a stringenti dualismi, in favore di un nuovo punto di vista in grado di rendere conto di una realtà infinitamente complessa ed eccedente che il suo stesso apparire metteva prepotentemente alla ribalta. A quasi trent’anni di distanza, in cui la modalità dominante di gestione della complessità (sociale, psichica, politica, scientifica) sembra ancora rimanere il riduzionismo, in cui lo scenario pare ancora caratterizzato dal riproporsi di un pensiero dicotomico e dall’intensificarsi delle logiche di dominazione patriarcale, razzista e capitalista connaturate a esso, provare a immaginare un modello di razionalità che non evade la complessità ma che se ne fa carico non si rivela meno urgente. La posta in gioco è l’elaborazione di modalità alternative e sfaccettate di gestione della complessità, rifiutando quindi anche quel pensiero che vedrebbe nella postmodernità il terreno in cui si consuma la crisi della razionalità dominante che non lascia spazio a null’altro se non alla contingenza e alla “differenza” irriducibile, intese come negazione dell’elaborazione teorica e della prassi. Manifesto Cyborg riapre invece con forza l’elaborazione teorica, etica e politica, al cuore della postmodernità e lo fa oggi non meno di ieri.
Lo sguardo attraverso cui Haraway analizza le trasformazioni che segnano il suo tempo è quello che deriva dalla sua storia in quanto biologa: in particolare, l’autrice mette in luce la profonda rielaborazione e ripensamento della biologia in relazione all’emergere di nuovi saperi, quali la cibernetica, le teorie dei sistemi, le scienze della comunicazione e dell’informazione. Il ripensamento della biologia in seguito alla contaminazione con nozioni, teorie e concetti provenienti da queste scienze è stato profondo al punto che, secondo Haraway, si può sostenere che l’“organismo” biologico, come oggetto della scienza, abbia cessato di esistere, e sia stato sostituito da sistemi di comunicazione completamente denaturalizzati. Gli organismi sono quindi diventati artefatti, sempre contingenti, le cui modalità di costruzione non sono vincolate da nessun’architettura naturale. Contemporaneamente, le macchine hanno preso vita: se quelle pre-cibernetiche potevano essere ancora distinte dagli organismi in quanto pensate e costruite dall’uomo, le macchine cibernetiche rendono completamente ambigua la distinzione tra autosviluppo e progettazione esterna (p.43).
Le ondate di denaturalizzazione e de-essenzializzazione che secondo N. Katherine Hayles definiscono il postmodernismo hanno quindi investito anche i corpi biologici: se le prime teorizzazioni degli organismi come sistemi cibernetici riposavano ancora su una concezione olistica e mantenevano intorno a questi un certo involucro, le teorie sociobiologiche di uno scienziato dalla sensibilità postmoderna come Richard Dawkins hanno radicalizzato questa tendenza, rompendo definitivamente con i paradigmi olistici e ripensando l’individualità biologica come costrutto contingente ad ogni livello. Come mettono in luce le escursioni di Haraway nel territorio delle moderne biologie della comunicazione, i processi di decostruzione e ricostruzione dei corpi occupano il centro del discorso, non solamente dal punto di vista del critico culturale o dell’archeologo delle scienze umane, ma anche dello scienziato postmoderno: le biologie moderne si occupano di tecnologie d’inscrizione e codici, di processi di disassemblaggio e riassemblaggio, di sistemi di controllo altamente tecnologizzati. La centralità delle tecnologie di scrittura emerge in modo evidente se si considerano i lauti investimenti direzionati a progetti come quello di mappatura e ricostruzione del genoma umano. Questo progetto emblematizza un “umanesimo postmoderno” in cui la ricerca biologica segnata dalla rilevanza sempre maggiore delle tecnologie d’inscrizione è messa al servizio della tradizionale ideologia umanista e del sogno ad essa associato di poter finalmente definire l’umano, di poter finalmente tracciare un confine netto e chiaro, privo di ambiguità e porosità tra il sé e il non-sé.
Il cyborg, segnalando importanti cedimenti di confine come quello tra macchina e organismo e tra umano e animale, si presenta come figurazione non dicotomica della nostra realtà sociale e corporea, che consente quindi di rompere con i dualismi che hanno strutturato la razionalità occidentale: naturale/artificiale, natura/cultura, uomo/donna, mente/corpo, materia/forma, umano/animale, soggetto/oggetto. Come ci ricorda Haraway, queste non sono mai solo opposizioni dicotomiche: attraverso questi dualismi, la razionalità occidentale ha intrecciato il suo destino a pratiche di dominio e di oppressione legate al genere, alla razza e alla specie.
D’altra parte, il cyborg in occidente è anche espressione di una cultura maschilista e guerrafondaia, che concepisce la vulnerabilità che contraddistingue la dimensione corporea come segno di una “mancanza” costitutiva, a cui far fronte attraverso un progressivo miglioramento delle strategie di difesa. Se le individualità cyborg sono per definizione contingenti e instabili, l’immagine della corsa agli armamenti e della guerra perenne lascia trasparire in filigrana il “telos apocalittico” (p. 41) di un sé finalmente libero da ogni forma di dipendenza. La realizzazione di un sé autonomo e integro, che ha “disassemblato” e digerito ogni forma di eterogeneità e alterità si accompagna al dispiegamento di un apparato di controllo diffuso e capillare, che Haraway indica come “informatica del dominio” (p. 55). Con questa figurazione si vogliono mappare i nuovi inquietanti meccanismi di controllo che attraversano il nostro tempo: alle gerarchie che contraddistinguono il “patriarcato capitalista bianco” (p. 57) si sostituisce un sistema polimorfo e reticolare, che agisce attraverso l’allacciamento di connessioni multiple. Ai vecchi sistemi di controllo centralizzato si sostituisce la delocalizzazione, la decentralizzazione, la diffusione e la moltiplicazione dei centri.
Ma il cyborg è anche un costrutto femminista, e in questo senso elicita possibilità oppositive e liberatorie. Cyborg è quel particolare oggetto di conoscenza e pratica femminista, l’esperienza delle donne, che proprio in quanto fatta oggetto di sapere, è ricostruita come aperta, non finita, contestata, vulnerabile, presa in un gioco di perenne decostruzione e riscrittura. Haraway a questo proposito da particolare importanza ai processi di decostruzione e di de-naturalizzazione che hanno interessato il femminismo in seguito al prendere voce di quelle soggettività, come le donne nere, che sfuggono al sistema di categorie attraverso cui i teorici e le teoriche occidentali hanno tentato di rappresentare il mondo degli oppressi. Questi processi hanno consentito al soggetto femminista di riarticolarsi lungo assi inediti, di immaginare e di praticare nuove forme di unità e di identità al di fuori dell’impianto dicotomico e oppositivo che ha strutturato i miti politici occidentali. La critica post-coloniale ha ricostruito le identità femministe come identità sempre parziali, contraddittorie e problematiche, definite dal non poter essere naturalizzate o essenzializzate. Haraway legge in questo senso la Sister outsider della poetessa nera Audre Lorde (p. 74), ovvero come ricostruzione letteraria dell’identità attraverso l’esclusione, la non appartenenza in quanto eccedenza rispetto a categorie prestabilite. Le identità ricostruite nelle pratiche di scrittura delle donne di colore sono identità sempre contraddittorie e frantumate, prive del privilegio dell’identità a sé, prerogativa dei corpi non marcati come quelli maschili e bianchi. Se i processi decostruttivi e de-essenzializzanti impediscono di radicare la politica nelle identità “naturali”, questo non significa che sia stata minata radicalmente la possibilità di legami: la loro ricostruzione implica politiche dell’affinità, che non ripristinano unità naturali, ma non per questo impediscono legami (parziali ma potenti) e comunità per soggetti postmoderni.
Con l’elaborazione della nozione di “saperi situati” Haraway si inserisce in un altro dibattito che attraversa il femminismo: il rapporto con l’epistemologia e la scienza e, strettamente connesso a questo, il dibattito circa lo statuto dell’oggetto di conoscenza. Proponendo “saperi situati” Haraway intende pensare una versione femminista di oggettività scientifica, che consenta di uscire dalla polarizzazione del dibattito attuale, caratterizzato dal contrapporsi di posizioni radicalmente costruzioniste ed empiriste. La rielaborazione della nozione di oggettività che Haraway propone si appoggia a un ripensamento della metafora della visione. Se quest’ultima ha significato, nella storia della razionalità occidentale, la capacità di alcuni corpi (quelli maschili, benestanti e occidentali) di “smaterializzarsi” in uno sguardo venuto dal nulla mentre si inscrivevano i corpi marcati nel mito, con la nozione di saperi situati assume un significato opposto. L’oggettività e la visione non significano più neutralità e distanza, ma corporeità, parzialità, localizzabilità, impegno e coinvolgimento. (p. 115) L’oggettività ha a che fare non con la scoperta distaccata, ma con la strutturazione reciproca e di solito ineguale; solo saperi parziali, vulnerabili e impegnati garantiscono una conoscenza oggettiva, ovvero che non sia un’illusione. Oggettività e visione non segnalano più un “trucco da dio”, che consente di scomparire arrogandosi il potere di rappresentare senza essere rappresentati, ma diventano modi per stare nel corpo, pratiche di assunzione corporea.
In How we became posthuman, Katherine Hayles sostiene che l’affermarsi di quell’entità chiamata informazione si sia accompagnata a processi di “smaterializzazione” dei corpi, di progressivo abbandono e trascendimento dei vincoli della materialità. L’approccio di Haraway ai mondi alto-tecnologici mostra una realtà più complessa: i corpi radicalmente decostruiti e ricostruiti dalle moderne biotecnologie e dalle scienze informatiche non comportano tanto la smaterializzazione di questi in puri flussi informativi, problemi di codifica e di ricerca di un linguaggio comune che permetta la perfetta comunicazione. Anche l’informazione per Haraway ha una specifica dimensione materiale, così come i testi e i codici, che dovrebbero venire ripensati attraverso la nozione di embodiment. Facendo riferimento alla dimensione corporea, Haraway non si riferisce quindi a una dimensione prettamente biologica: le tecnologie di visualizzazione sono ripensate come sistemi di percezione attivi, nelle quali siamo immersi e con le quali siamo inestricabilmente intrecciati nella costruzione di specifiche forme di vita: un aspetto del nostro embodiment.
Il ripensamento della nozione di corporeità consente ad Haraway di riprendere e al tempo stesso di andare oltre l’analisi biopolitica inaugurata da Michael Foucault, ovvero dell’analisi che fa del corpo l’entità bioculturale per eccellenza e che consente di indagare i rapporti di potere che si concentrano direttamente sul soggetto in quanto entità corporea. La decostruzione della corporeità come sistema di comunicazione tecnologico consente di indagare gli effetti del biopotere oltre la sfera organismica: oggetto delle relazioni di potere non è più un corpo organico e organizzato gerarchicamente, ma sistemi cibernetici completamente decostruiti, assemblaggi ricomposti in modo sempre parziale, costrutti contingenti. Le biopolitiche che interessano corpi ricostruiti come sistemi di comunicazione non sono quelle del sesso e della riproduzione, ma dell’immunità, legate ai processi di replicazione di un sé estremamente vulnerabile e contingente (p.159). Quali tipi di sé vengono costruiti dal discorso sul sistema immunitario? L’intento di Haraway è di risignificare il paradigma immunitario: da dispiegamento di una guerra diffusa e capillare, in cui la replicazione del sé è funzione delle sue strategie di difesa e di attacco di fronte a una minaccia costante di “invasione”, a sistema che “apre” il sé e lo mantiene aperto. In quanto dispiegamento di una rete capillare di blackout e crolli delle comunicazioni, di confusione di confini, il sistema immunitario continuamente “disfa” il sé, mantenendolo contraddittorio ed eterogeneo, impedendone la chiusura e l’autonomizzazione. In questa dimensione riposa la “promessa illegittima” (p. 42) del cyborg: la sua natura artefatta, saltando il gradino dell’unità originaria, impedisce la realizzazione del suo telos apocalittico. In quest’ottica, inoltre, la differenza irriducibile con cui obbligano a fare i conti la postmodernità e i processi a essa inestricabilmente connessi, come quelli di decolonizzazione, non segnala tanto la “morte del soggetto”, come vorrebbero alcuni, ma piuttosto ci costringe a ripensare il soggetto come non isomorfico, auto-contraddittorio e multidimensionale.
La conversazione che segue si è svolta il 27 maggio 2017 a Aberdeen, al termine di una settimana di incontri della piattaforma europea Knowing from the inside, animata da attori tanto della pratica quanto della teoria attorno alla questione di una conoscenza viva e immanente. Una questione che Tim Ingold elabora da diversi anni, per lo più in maniera collettiva. All’incrocio tra arte e ricerca, questo gathering ha tentato di praticare e pensare un paradigma epistemologico e deontologico che, insieme a varie di letture dei suoi scritti, ha suscitato in noi una serie di domande relative al comune, alla democrazia e all’attenzione. Tali domande sono emerse nel corso di tale settimana dall’osservazione del percorso verso una « conoscenza dall’interno » intrapreso da Tim e da chi lo accompagnava. Ecco ricapitolati alcuni punti di riferimento preliminari affinché chi non conoscesse l’universo ingoldiano, assai singolare, possa orientarvisi.
Corrispondenze con il mondo
« Gli uomini di scienza non s’interessano semplicemente alle forme finali delle cose », scrive l’antropologo scozzese, « Essi cercano di penetrare al cuore dei processi della loro formazione ». Per cogliere la fabbricazione di un cesto, la costruzione d’un nido d’uccello, l’interpretazione di continuo rinnovata di uno spartito al violoncello, Ingold ha scelto la via dello studio della percezione incarnata dell’ambiente. A partire dal presupposto che ogni gesto emerge in corrispondenza con il mondo, che non può esser il prodotto d’una vuota astrazione impressa su una materia inerte, Ingold ha fatto di un certo paradigma ecologico la colonna vertebrale di un pensiero le cui ramificazioni raggiungono gli ambiti del fare (making), dell’educare, dell’abitare. Fare con (un mondo di materiali-in-divenire), fare lungo (delle linee), tramarsi in (un mondo-metereologico).
Attizzare l’aria immobile
La lettura di Ingold fornisce l’impressione di assistere ad un corpo a corpo ontologico: la trasmissione delle rappresentazioni contro l’educazione dell’attenzione, l’occupazione contro l’abitazione, il trasporto contro l’itineranza, l’hylemorfismo contro la morfogenesi. Nei suoi scritti l’antropologo si scaglia (non senza una certa ostinazione) contro le posizioni concettuali che tenderebbero ad alienare, ovvero a non prestare attenzione all’implicazione d’un organismo nel suo ambiente, a reificare, ovvero a non prestare attenzione al continuo divenire del mondo, a imporre, ovvero a considerare il mondo come un dato, inerte e impassibile, una « superficie di letteralità opaca, piatta e gelata». Ingold invita ad attizzare e nel contempo abbracciare il medium attraverso il quale siamo in divenire, e pensare le continuità che spezziamo piuttosto che sognare cocci da ricomporre.
Controllo e prensilità
Poiché separare gli organismi dal loro ambiente — come abbiamo separato lo spirito dal corpo per poter sovrastare il reale — non ha soltanto implicato un’illusione di controllo delle cose, ma ci ha anche trascinato in un processo opposto di perdita della presa rispetto alle cose, processo che costituisce un perquisito ad ogni ex-powerment radicale. Questa perdita prensile pare esattamente costituire una dei tormenti di Ingold: alimentati da un’interrogazione circa le possibilità e le forme del fare, dell’abitare e dell’educare, i suoi testi rappresentano degli inviti a offrire una presa, a esporsi alle forze e ai materiali che strutturano i nostri ambienti per meglio situarvisi e intesservi le nostre stesse forze e energie.
Ecologie politiche
È qui, sul terreno della percezione ecologica e incarnata dell’ambiente, che sembra prodursi il lavoro propriamente estetico-politico di Tim Ingold. Spesso implicito, poiché inscritto all’interno di scontri epistemologici, esso è divenuto la materia della conversazione che abbiamo avuto con l’antropologo. Come pensa le lotte di potere l’ecologia delle linee? Quali rapporti la poetica dell’abitazione del mondo intrattiene con il pensiero democratico così caro a Ingold? Quali sono le forme d’impegno e le possibilità d’azione dell’antropologia e delle arti in questa lotta?
Lo statuto del corpo in psicoanalisi assume un valore diverso dall’organismo vivente nella sua funzionalità biologica. Freud sin dall’inizio si è preoccupato di sottolineare come l’inconscio abbia effetti sul corpo, e con l’isteria, attraverso l’osservazione dei sintomi presentati nel corpo, giunse alla costruzione della teoria delle pulsioni per spiegare l’eccesso di eccitazione nel corpo e la ricerca di una soddisfazione che si ottiene al di là del soddisfacimento di un bisogno.
Nel testo Introduzione alla Psicoanalisi (1989) Freud scrive: «Una pulsione si differenzia da uno stimolo per il fatto che trae origini da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l’eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene psichicamente attiva» (p. 205). Già in Pulsioni e loro destini (1976) affermava che «la pulsione ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea» (p. 17). Lacan riprenderà la teoria delle pulsioni di Freud articolandola, però, al linguaggio; infatti egli sottolineò come il significante entri nel corpo rendendolo corpo vivente, che diventa quindi sostanza godente. Pertanto, avviene un effetto di scrittura che il significante esercita sulla superficie corporea, e il significante stesso può farsi veicolo di godimento introducendo del godimento supplementare nel corpo vivente. Dunque, quando parliamo di corpo non ci riferiamo all’organismo, a quello che ci viene dato; inoltre è necessario distinguere il corpo dall’organismo biologico e dal soggetto. Uno degli effetti del linguaggio è di separare il corpo dal soggetto; questo effetto di divisione, di separazione tra il soggetto e il corpo è possibile solo attraverso l’intervento del linguaggio: il corpo deve costituirsi, non si nasce con un corpo. Vale a dire che il corpo si costruisce secondariamente, essendo effetto della parola.
Le prime teorie di Lacan sul corpo risalgono al 1949, alla teoria dello stadio dello specchio, in cui egli sostiene che il corpo è determinato dalla sua immagine. Nello stadio dello specchio, Lacan ci mostra che, affinché si riconosca come un corpo intero e unificato, al soggetto è necessario un altro, dunque è solo per identificazione con l’immagine dell’altro che il bimbo acquisisce l’immagine del proprio corpo. Ciò nonostante la condizione per l’identificazione immaginaria è il suo accesso alla struttura del linguaggio, ossia al registro simbolico. Perciò la costituzione dell’immagine corporea è un effetto che viene dal simbolico. L’immagine del corpo è ciò che dà consistenza all’Io che quindi si costituisce per il tramite dell’immagine del corpo. Già Freud nel testo L’Io e l’Es (1977) aveva messo in connessione l’Io con il corpo affermando che l’Io è un’entità corporea ed è il luogo su cui si proiettano le sensazioni provenienti dalla superficie del corpo (cfr. p. 488). L’Io è un Io-corpo dice Freud (ivi, p. 490). Il corpo immaginario è una forma completa, senza fratture, e ciò avviene per mezzo della rappresentazione di sé che il bambino intercetta nello specchio.
Nel 1972-73, nel Seminario XX Ancora (2011), Lacan torna alla questione del corpo intrecciandola con il godimento; infatti introduce il concetto di corpo come sostanza che gode: «[…] non sappiamo che cos’è un essere vivente, sappiamo soltanto che un corpo è qualcosa che si gode», introduce cioè il corpo nella sua dimensione più pulsionale. Il soggetto dell’inconscio, costituito dal significante, lascia il posto al parlessere ovvero a un essere attraversato dal linguaggio e toccato dal godimento del corpo. Il corpo parlante ha due godimenti, il godimento della parola e il godimento del corpo. Nel parlessere, c'è contemporaneamente godimento del corpo e godimento che si relega fuori corpo, godimento della parola.
Nel 1975 Lacan affronta di nuovo il concetto di corpo nel Seminario XXIII, Il Sinthomo(2006) definendo il corpo come supporto dell’immaginario, rimarcandone però la sua posizione nello spazio e quindi la sua consistenza. Lacan utilizza il termine di pelle per indicare che ciò di cui si tratta è una superficie, ma nel senso di sacco, pelle come sacco che avviluppa, che contiene al suo interno gli organi corporei uniti (cfr. p. 61). Il corpo non è soltanto l’immagine, al punto che l’immaginario implica il godimento, il reale. Il reale, il godimento, che è al di fuori del senso, ma non al di fuori del corpo, è la consistenza del parlessere. Il corpo come sostanza godente, luogo del godimento e per godere, è il supporto del parlessere. Il corpo, dunque, come tempio del godimento, e perché sia tempio del godimento, e non tempio del puro significante, il corpo deve essere vivente. Ma che cosa vuol dire corpo vivente? è la domanda di Jacques-Alain Miller nel suo testo Biologia lacaniana. Egli dice che non si tratta unicamente del corpo immaginario (non si tratta cioè del corpo che è operativo nello stadio dello specchio), ma non si tratta neppure del corpo simbolico. In questo contesto, parti del corpo umano possono essere elevate alla dignità di significanti. Come il fallo per Freud e il seno per Melanie Klein. Non si tratta dunque né di un corpo immagine, né di un corpo simbolizzato. Per Miller (2000), si tratta invece di un corpo vivente, e «[…] il godimento stesso è impensabile senza il corpo vivente: il corpo vivente è la condizione del godimento» (p. 20).
Bibliografia:
S. Freud (1989). Introduzione alla psicoanalisi. In Id., Opere, vol. 11: Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1976). Pulsioni e loro destini. In Id., Opere, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1977). L’Io e l’Es. In Id., Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri
J. Lacan (2011), Il seminario, Libro X, Ancora (1972-73). Torino: Einaudi
Id. (2006). Il seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo (1975-76). Roma: Astrolabio
J.-A. Miller (2000). Biologia Lacaniana ed eventi di corpo, “La Psicoanalisi” (28)
Jacques-Alain Miller (2006a), nel commento al Seminario XXIII – Il sinthomo di Lacan (2006a), sottolinea che, da un punto di vista psicoanalitico, «il corpo è paragonabile a un ammasso di pezzi staccati. Non ce ne rendiamo conto tanto che restiamo catturati dalla sua forma, tanto che la pregnanza della sua forma impone l’ideale della sua unità» (p. 13). Lo statuto primitivo del corpo, contrariamente all’evidenza del visibile, è infatti di essere in pezzi staccati e, affinché il bambino possa percepire il proprio corpo come una unità, occorre che sia passato attraverso quello che Lacan (2002a) considera un vero e proprio «crocevia strutturale» (p. 107) nello sviluppo. Nel 1936, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, Lacan indica con il nome di stadio dello specchio quella fase in cui il lattante, tra i sei e i diciotto mesi, ancora immerso in uno stato di frammentazione, impotenza e di prematurazione fisiologica, risponde in modo giubilatorio alla vista della propria immagine riflessa nello specchio. L’immagine speculare permette al bambino un primo riconoscimento, una prima identificazione e, contemporaneamente, segna uno iato incolmabile poiché egli non potrà mai ricongiungersi all’immagine che lo specchio gli rimanda. Scrive Lacan (2002b): «questa Gestalt […] simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante» (p. 89). In questo passo, possiamo già trovare l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan (2002a) sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» (p. 110) in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale.
Da una parte, dunque, lo stadio dello specchio permette quell’operazione simbolica che offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un “io” mentre, dall’altra, è ciò che lo divide irrimediabilmente dalla sua immagine. È a questo livello che si pone la «Spaltung tra il moi che viene a costituirsi e il soggetto dell’inconscio je, che non si lascia reperire nell’immagine speculare, e che troverà modo di presentarsi nei punti di vacillamento dell’io» (Cosenza, 2003, p. 23-24). Nell’analisi di questo momento così importante nella costituzione dell’immagine del corpo Lacan evidenzia il ruolo fondamentale e preliminare svolto dalla madre: ella è colei che tenendo in braccio l’infans gli indica che l’immagine che lo specchio rimanda è la sua. È quindi attraverso l’azione operata da un elemento terzo – in questo caso la madre – eterogeneo alla dimensione della similarità, che «il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema del simbolico» (Lacan, 2006b, p. 66).
Quanto detto mette in rilievo come il corpo si strutturi a partire dall’apporto dell’immagine e l’esperienza del corpo in frammenti, di cui testimoniano i soggetti schizofrenici, si pone come caso paradigmatico degli effetti provocati dal non accesso alla funzione unificante dell’immagine speculare. Per Eva, una ragazza schizofrenica, per esempio il corpo è piuttosto il luogo di un ritorno nel reale della libido: Eva in certi momenti di vacillazione deve cingere la testa con una fascia perché possa avere la tranquillità «che tutto ciò che è all’interno della testa resti dentro». Quando il bambino viene al mondo, viene già al mondo nel campo dell’Altro simbolico ed è il simbolico che per Lacan costituisce uno dei tre registri, oltre all’immaginario e al reale, che presiede alla nascita e alla formazione del soggetto. Il simbolico, in particolare, è ciò che umanizza il soggetto sottraendolo alla condizione di puro vivente per immetterlo nel legame sociale.
Nelle Due note sul bambino, Lacan (1987) ci dice che il bambino diventa soggetto solo tramite il desiderio dell’Altro, cioè a partire dal modo in cui la madre, il suo Altro primordiale, ne ha fatto causa del proprio desiderio. Da ciò si coglie che il corpo per l’essere parlante non è più solo un organismo, prodotto di puri bisogni biologici, ma è la risultante della relazione che intercorre tra l’organismo di un vivente e l’Altro del linguaggio. È quindi il simbolico a trasformare l’organismo in corpo e il parlare di corpo implica una trilogia che comporta, oltre al corpo, la parola e l’essere. Per un verso, l’entrata nel campo del linguaggio fa pertanto perdere all’umano lo statuto di essere naturale ma, contemporaneamente, fa guadagnare al corpo uno statuto inedito perché diviene tempio della pulsione: «Come tempio della pulsione il corpo è libidicamente erotizzato, sublimato, sessualmente portatore di una differenza che fa problema, sede di un desiderio che ha fonte in quella perdita di godimento che è correlativa alla iscrizione stessa del simbolico. Ma il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”. È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan» (Miller, 2006b, p. 8).
Bibliografia:
Cosenza, D. (2003). Jacques Lacan e il problema della tecnica. Roma: Astrolabio.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. La Psicoanalisi, 1, 22-23.
Id. (2006a). Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976). Roma: Astrolabio.
Id. (2006b). Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955). Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Aggressività in psicoanalisi (1948). In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.