Era il Maggio 1942, esattamente ottant’anni fa. A New York si tenne il seminario “Cerebral Inhibition”. Organizzato da Frank Fremont-Smith, allora direttore medico della Josiah Macy Jr. Foundation, il seminario vide tra i partecipanti svariati ricercatori provenienti da diversi ambiti del sapere: oltre agli antropologi Margaret Mead e Gregory Bateson, vi presero parte lo psicanalista Lawrence Kubie, lo scienziato sociale Lawrence K. Frank e due neurofisiologi: Warren McCulloch – che un anno dopo avrebbe pubblicato, insieme a Walter Pitts, un testo pioneristico sulle reti neurali artificiali – e Arturo Rosenblueth. Quest’ultimo, per l’occasione, presentò la ricerca, condotta insieme a Norbert Wiener e Julien Bigelow, che portò alla stesura del celebre articolo Behavior, Purpose and Teleology (1943), nel quale si mostrava l’equivalenza funzionale tra il comportamento finalizzato del vivente e quello esibito dalle macchine auto-regolate tramite retroazione.
Fu da questo nucleo di ricercatori che, finita la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’egida della Macy Foundation, prese vita un ciclo di conferenze interdisciplinari con cadenza semestrale, che si tennero dal 1946 al 1953. Dapprima intitolate “Feedback Mechanisms and Circular Causal Systems in Biology and the Social Sciences”, dopo il 1948, con l’uscita di Cybernetics, or the Control and Communication in the Animal and in the Machine di Wiener, le conferenze presero il nome di “Cybernetics: Circular Causal, and Feedback Mechanisms in Biological and Social Systems”. Tra i partecipanti, vi furono matematici, psicologi sperimentali e gestaltisti, fisici, ingegneri, sociologi, ecologi, antropologi, biologi e linguisti.
Come ebbe modo di ribadire Fremont-Smith in occasione del sesto incontro, l’obiettivo delle conferenze era quello di fondare un ambiente di ricerca interdisciplinare in cui, a partire dalla costruzione di un linguaggio comune, si potessero affrontare problemi che, sebbene sorgessero in contesti disciplinari differenti, presentavano degli isomorfismi tali da renderli trattabili tramite modelli operativi condivisi. In estrema sintesi, i cibernetici perseguivano un ideale di unificazione delle scienze facendo leva su fenomeni e processi trasversali ai vari saperi. La storia delle conferenze di cibernetica fu, in buona sostanza, una ricerca incessante di mediazioni. Non a caso, le nozioni che si affermarono in quel contesto, e intorno alle quali ruotò buona parte delle conferenze, fungevano da mediatori: 1) l’informazione, concepita come entropia negativa, prometteva di mediare tra processi fisici, biologici, psichici e sociali; 2) i meccanismi circolari, fondamentali per comprendere tutti quei processi nei quali l’interazione tra sistemi o sottosistemi produce una dinamica omeostatica, promettevano di mediare tra l’ambito ingegneristico, quello fisiologico e quello sociologico; 3) il calcolatore elettronico – allora allo stato embrionale – prometteva di mediare tra processi mentali – ragionamento logico, comprensione degli universali, ecc. – e processi materiali – trasmissione di segnali elettrici in un circuito.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon (1958, 103) a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. Nel primo capitolo di Cybernetics, intitolato “Newtonian and Bergsonian Time”, Wiener sosteneva che grazie alla cibernetica «the whole mechanist-vitalist controversy has been relegated to the limbo of badly posed questions» (Wiener 2019, 63). McCulloch e Pitts affermavano che la loro rete neurale era, di fatto, una risoluzione del mind-body problem: «[…] both the formal and the final aspects of that activity which we are wont to call mental are rigorously deducible from present neurophysiology […]. “Mind” no longer “goes more ghostly than a ghost”» (McCulloch 1988, 38). La macchina astratta di William Ross Ashby, come ebbe modo di notare Mauro Nasti nella presentazione della traduzione italiana di Introduzione alla cibernetica, sconvolgeva «tutta un’impostazione filosofica tradizionale […] con cui si contrapponeva irriducibilmente il mondo “materiale”, fisico, delle macchine a quello “immateriale” e “libero” della mente» (Nasti 1970, xvii-xviii).
L’ultima conferenza di cibernetica (tenutasi nel 1953), lungi dal coincidere con il dissolvimento dello spirito cibernetico, sancì di fatto la sua diffusione pressoché illimitata. Non vi fu campo del sapere in cui le idee cibernetiche non penetrarono, a volte accolte con entusiasmo, altre con riserva, altre ancora apertamente criticate. Dalla filosofia (Ruyer 1954, Jonas 1953) all’economia (Lange 1963); dalla fisica (de Broglie 1951) all’ecologia (Odum 1963); dalla politologia (Deutsch 1963) alla biologia (Monod 1970, Atlan 1972); dalla cosmologia (Ducrocq 1964) alla gestione aziendale (Beer 1964); dalla letteratura (Calvino 1967) al diritto (Knapp 1963); dall’architettura (Alexander 1964) all’etologia (Hassenstein 1966). La cibernetica trasformò il linguaggio dei saperi in cui penetrò, contribuendo alla nascita di nuovi ambiti di ricerca.
Nel contesto delle scienze della cognizione, nel 1968 Marvin Minsky ratificava che la cibernetica si era differenziata in tre programmi di ricerca oramai pienamente autonomi: 1) la teoria dei sistemi auto-organizzati, basata sulla simulazione di processi evolutivi e adattativi; 2) la simulazione del comportamento umano tramite modelli computazionali; 3) l’Intelligenza Artificiale propriamente detta, cioè la progettazione di macchine intelligenti non finalizzata alla simulazione di processi biologici e cognitivi.
Se gli ultimi due programmi si concepivano come corpi maturi e completamente emancipati dal loro passato cibernetico, il primo programma non smise di rivendicarne le radici, che trovarono nel Biological Computer Laboratory dell’Università dell’Illinois, diretto da Heinz von Foerster, un terreno fecondo in cui attecchire. È in questo contesto che poté nascere un’epistemologia cibernetica – la cibernetica di second’ordine, o cibernetica dell’osservazione dei sistemi che osservano – che favorì l’emergere della teoria dei sistemi autopoietici (Maturana & Varela 1980), della neurofenomenologia (Varela, Thompson, Rosch 1991), della teoria generale della società (Luhmann 1984), dell’elaborazione delle logiche polivalenti e delle ontologie trans-classiche (Günther 1962), della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Bavelas, Jackson 1967), del costruttivismo radicale (Glasersfeld 1974), ecc.
Con la chiusura del Biological Computer Laboratory nel 1974, la cibernetica entrò in una fase diasporica, che dura tutt’oggi. Una diaspora che, a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto le forme di un graduale dissolvimento. La cibernetica appare oggi come un’entità fantasma infestante una moltitudine di discorsi, le cui tracce possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute come tali.
Tuttavia, a dispetto – o forse in virtù – del suo carattere fantasmatico, l’ultimo ventennio ha visto intensificarsi un interesse storiografico per la cibernetica, con la produzione di lavori che hanno ricostruito la storia della cibernetica americana (Kline 2015), britannica (Husbands & Holland 2008), francese (Le Roux 2018), italiana (Cordeschi & Numerico 2013), sovietica (Gerovicht 2002) e cinese (Liu 2019).
Parallelamente al crescente interesse per la sua storia, si è intensificato anche quello per le sue implicazioni teoretiche e politiche – a testimonianza del fatto che non si è smesso di pensare col suo spettro. Un interesse che ha riguardato, tra le altre cose, il rapporto tra la cibernetica e l’ontologia (Pickering 2010), la metafisica(Hui 2019), la filosofia politica (Guilhot 2020; Bates 2020), l’ecologia filosofica (Hörl 2013), la teoria dei media (Hansen & Mitchell 2010), il post/trans-umanesimo (Malapi-Nelson 2017), la french theory (Lafontaine 2007; Geoghegan 2020), ecc.
È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica – il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia – che ci spinge a dedicarle il numero #18 di Philosophy Kitchen. L’obiettivo è quello di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità.
In special modo, le linee che vorremmo esplorare sono:
- Cibernetica nella storia delle idee e nella storia della scienza
- Storia della storiografia cibernetica
- Epistemologia e ontologia della cibernetica
- Teoria generale delle macchine
- Cibernetica e scienza dei sistemi complessi
- Cibernetica nelle scienze biologiche e sociali
- Cibernetica e scienza della cognizione
- Cibernetica nella filosofia contemporanea
- Cibernetica e governamentalità
- Cibernetica, teorie della pianificazione e del progetto
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 30 aprile 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 7 maggio 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 ottobre 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per marzo 2023.
Del modo di esistenza degli oggetti tecnici di Gilbert Simondon, tradotto in italiano da Antonio Stefano Caridi per i tipi di Orthotes (2020), è ormai un piccolo classico. Eppure si tratta di un’opera che non ha quasi nulla del classico: popolato di tubi elettronici e motori di trazione, articolato in tre parti piuttosto disorganiche e solo di rado disposto ad aperture di senso rivelatrici, è un libro quasi contrario alla vocazione del grande saggio umanistico moderno. Quando venne pubblicato nel 1958, diede voce a un certo clima di insofferenza generale verso le Humanités: «più nessuno può vivere una vera cultura umanistica, anche volendo e avendone i mezzi materiali», scriverà qualche anno più tardi Abraham Moles (2012: 32). Simondon fa sua questa diagnosi sin dall’inizio degli anni ’50 – lui che aveva fondato un atelier di tecnologia nel liceo di provincia dove insegnava, che leggeva appassionatamente Louis de Broglie e Norbert Wiener, che studiava psicofisiologia appena uscito dalle aule di filosofia de la rue d’Ulm.
Ciò che l’umanesimo sembrava aver dimenticato è che la nozione stessa di cultura si basa sull’idea che l’uomo vive in un ambiente tecnico e macchinico. Questo dato di artificialità fondamentale del milieu umano funziona come una sorta di messa a terra di quel regno dei fini che, quando viene separato dal dominio dei mezzi, diviene apparato di conservazione dei valori. È invece proprio il regno dei mezzi a produrre umanità: ancora prima del linguaggio e del concetto, la tecnica è per l’uomo «il modo più concreto del potere di evolvere» (Simondon 2017: 266). Essa è innanzitutto potenza produttiva di senso. La nozione di senso, tuttavia, sfugge al dominio esclusivamente umano nel momento in cui si riconosce come trascendentale rispetto all’umano stesso. In altre parole, se il mezzo e la componente materiale assumono un ruolo essenziale e non semplicemente veicolare nella dinamica evolutiva, allora la dinamica riflessiva secondo cui l’uomo costituisce sé stesso raddoppiando la propria natura si rende opaca e si interrompe: il mondo non è più lo specchio dello spirito.
Del modo di esistenza degli oggetti tecnici entra subito in dialogo con l’altra grande opera di Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione. La tesi che in chiave diversa è portata avanti in entrambe le opere è che l’informazione, intesa come regime di atti disparanti generativi, è principio primo della realtà e della conoscenza umana. L’informazione è articolazione ontologica individuante che si esprime nei modi d’esistenza stessi delle forme, intese secondo il loro carattere processuale e diveniente. In Del modo di esistenza degli oggetti tecnici tale paradigma si specifica nel senso delle potenze proprie all’inorganico artificiale, l’oggetto tecnico in quanto campo di affetti ed essenza singolare. Come nota Deleuze a proposito del concetto di dispositivo, «è già molto tempo che pensatori come Spinoza o Nietzsche hanno mostrato che i modi d’esistenza dovrebbero essere pensati secondo dei criteri immanenti, secondo il loro tenore di “possibilità”, di “libertà”, di creatività, senza alcun appello a dei valori trascendenti» (Deleuze 2007: 24).
Halfrain, The machine (2014)
La tesi portata avanti da Simondon è che l’oggetto tecnico è stato sistematicamente trasposto sul piano di valori ad esso trascendenti. La forma tecnica è il terreno in cui si afferma la ragione strumentale tout court, in cui ogni oggetto è inteso sin da subito come strumento e privato di autonomia ontologica. Più un oggetto dipende dall’uso che l’uomo ne fa, più gli si impedisce di esplicare il proprio specifico ambito di potenze. La forma tecnica dev’essere invece compresa come un modo in cui dell’informazione è espressa; così essa si rivela parte di una vicenda che supera sia l’oggetto che il singolo soggetto utilizzatore, una vicenda di transustanziazione di immagini e essenze di utilizzazione. Ogni oggetto tecnico articola un’essenza formativa che implica un numero indeterminato di concatenamenti con il reale; perciò esso porta sempre con sé un «margine d’individuazione» e di formazione ulteriore, analogamente a ogni altra forma reale. Assumere uno sguardo immanente a questi processi, per Simondon, significa smettere di trattare gli oggetti come schiavi e intraprendere una nuova relazione di trasparenza con il mondo.
Ciò che caratterizza questo “platonismo macchinico” di Simondon è il gesto di «convocazione», per dirla con Latour, tramite cui entità ontologicamente neglette vengono infine incluse – seppur nella loro differenza specifica – nel cerchio dei protagonisti della realtà. Lo sfondo di questo gesto è un pluralismo metafisico delle potenze, suggerito dal concetto stesso di “modo di esistenza” ed esplicitato nell’idea di informazione come principio generativo dell’Essere. L’oggetto è un compito formativo, un processo in cui possiamo soltanto innestarci, per intuizione dunque, per conoscenza genetica. «Non basta, in effetti, entrare con l’operaio o lo schiavo nell’officina, o anche prendere in mano lo stampo ed azionare il tutto. Il punto di vista dell’uomo che lavora è ancora molto esteriore rispetto alla presa di forma, che è la sola cosa ad essere tecnica in sé stessa. Occorrerebbe poter entrare nello stampo con l’argilla, farsi insieme stampo ed argilla, vivere e provare la loro operazione comune per poter pensare la propria forma in sé stessa» (p. 261). A questo scopo, l’uomo non può che farsi inventore e, perlomeno in un certo senso, filosofo.
La traduzione di Antonio Stefano Caridi consegna ai lettori italiani un libro che, dopo la sua recente riscoperta, si è rivelato fondamentale per il pensiero contemporaneo. Dal punto di vista strettamente filosofico, tornare a leggere Simondon potrebbe sciogliere tanti falsi problemi intorno alla questione degli oggetti (per esempio quelli sollevati dall’ormai celebre ontologia di Graham Harman 2021). Simondon, inoltre, ci indica un modo per superare non soltanto l’antropocentrismo prometeico più manifesto, ma anche l’antropocentrismo larvato che appartiene alla spiegazione antropologica della tecnica. In tal senso Du mode d’existence rimane inservibile per quella linea – del tutto legittima entro i suoi confini – che va da Ernst Kapp a Bernard Stiegler e che vede nella tecnica un modo tutto umano per elaborare la distanza da un ambiente, ancora inteso come un universo oggettivo da cui distillare senso. Per Simondon, è invece proprio un ambiente informativo ubiquo e compenetrante a fornire il campo della continuità possibile tra umanità e tecnicità. Poche lezioni sulla tecnica risultano ancora così fertili e paradigmatiche dopo più di cinquant’anni dalla loro enunciazione.
di Gregorio Tenti
.
.
Bibliografia
Deleuze G. Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2007.
Harman G. Ontologia Orientata agli Oggetti. Una nuova teoria del tutto, Carbonio editore, Milano 2021.
Moles A. Sociodinamica della cultura, a cura di G. Gamaleri, Armando, Roma 2012.
Simondon G. Cultura e tecnica, in Id., Sulla tecnica, a cura di A.S. Caridi, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
Tra le scuole di pensiero marcatamente connotate dalla presenza di un capostipite fondatore – si pensi alla fenomenologia di Husserl, all’ermeneutica di Heidegger, e alla biopolitica di Foucault – oggi è forse la decostruzione a godere della più vasta pervasività; e non tanto per intensità e clamore mediatico, quanto piuttosto in termini di tacita assunzione e di capillarità. A nostro modo di vedere, ciò è potuto accadere poiché, situandosi a cavallo di istanze epistemologico-metodologiche e di ipotesi ontologiche forti, il pensiero di Derrida ha raggiunto lo statuto di referente teorico ineludibile, sia dal punto di vista dei detrattori sia da quello dei più strenui fautori. Equipaggiando la filosofia di un metodo critico di lettura e riscrittura, così come, al contempo, drenando dai bacini delle filosofie decostruite operatori concettuali dormienti, la decostruzione ha fornito strumenti e spazi di disputa. È divenuta cioè il teatro ideale di animate discussioni, tanto interne, volte ad affinare la lettura degli stessi testi derridiani, quanto esterne, ossia vertenti sulla possibilità o meno di applicare le procedure e le nozioni decostruttive in relazione a prospettive di diverso lignaggio. Ora, è esattamente in direzione di questo doppio binario che si inserisce il recente lavoro di Francesco Vitale, Biodeconstruction. Jacques Derrida and Life Sciences (Suny Press, 2018). Frutto di un’attenta ricerca filologica, capace di coordinare l’approccio storico-ricostruttivo con quello più spiccatamente propositivo, il testo di Vitale si situa a pieno titolo tra i lavori della “scuola” decostruttiva progressista, intendendo con questa espressione quel filone di studi derridiani – di cui Rodolphe Gasché è probabilmente il nume tutelare – impegnati a manifestare fedeltà metodologica alla decostruzione, tramite un’espansione della sua area di operatività. Dopotutto il volume di Vitale, come si vedrà, cerca di assecondare quello che fu l’auspicio stesso di Derrida: preservare la singolarità del gesto decostruttivo tradendone però, di volta in volta, i limiti epistemici.