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L’oggetto della logica: concetto e realtà in Hegel
Recensioni / Luglio 2024Andreas Arndt, dal 2000 al 2018 professore di filosofia presso la facoltà cattolica della Humboldt-Universität di Berlino, nonché dal 1992 al 2016 direttore dell’Internationale Hegel-Gesellschaft, è un punto di riferimento nei campi della filosofia classica tedesca e del marxismo. Già autore di titoli come Karl Marx: Versuch über den Zusammenhang seiner Theorie (1985), Dialektik und Reflexion (1994), Unmittelbarkeit (2003), Die Klassische Deutsche Philosophie nach Kant- in collaborazione con il compianto Walter Jaeschke- (2012), e Geschichte und Freiheitsbewusstsein. Zur Dialektik der Freiheit bei Hegel und Marx (2015), pubblica a dicembre 2023, per i tipi di Felix Meiner, Die Sache der Logik: Begriff und Realität bei Hegel, studio che pone al centro la vexata quaestio circa il rapporto tra logica e realtà all’interno del sistema hegeliano. Il titolo del libro è un riferimento ad un passo della Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico di Marx, in cui viene imputato ad Hegel di aver trascurato la “logica dell'oggetto” in favore dell’ “oggetto della logica” (Die Sache der Logik, per l’appunto): in altre parole, la filosofia hegeliana ricondurrebbe l’intera struttura della realtà alle categorie fondamentali del pensiero come l’essere, la causalità, o la teleologia, privando il mondo della sua indipendenza dalla ragione, e ricadendo in un vero e proprio panlogismo. Obiettivo di Arndt è quello di assolvere Hegel da tali accuse, le quali lo vorrebbero un filosofo dogmatico, nonché ideologo e apologeta ante-litteram delle catastrofi del Novecento.
Il filo conduttore che unisce le tre parti del libro è il concetto hegeliano di infinità, stante ad indicare ciò che è assoluto, non determinato da niente al di fuori di sé, in particolare al di fuori del proprio concetto. Questo si contrappone all’infinito "cattivo” (schlechte Unendlichkeit), rappresentato dal ricorso ad infinitum nelle sue diverse declinazioni. Siccome solo l’idea assoluta espone questa circolarità perfetta è possibile ricondurre il sistema ad una continua approssimazione della realtà effettiva all’assoluto.
La prima parte, dedicata alla Scienza della Logica, si incarica di rispondere alle critiche rivolte all’ambizione hegeliana di fondare la filosofia in totale assenza di presupposti; su nient’altro, cioè, che sul moto perpetuo dell’autodeterminazione del pensiero. Nel secondo capitolo della prima parte, “Die anfangende Reflexion”, Arndt discute alcune delle tesi più rilevanti a sostegno della «plausibilità» (p. 39) dell’inizio della Scienza della Logica, con particolare attenzione a quelle che si fanno carico di rispondere alle accuse di petitio principii sollevate dagli immediati contemporanei come Schelling, Feuerbach, e Kierkegaard. Tra di esse troviamo quelle contenute in Anfang und Methode der Logik (Henrich, 1963) e Sein und Schein (Theunissen, 1978), ma sorprendentemente non nel più recente The opening of Hegel’s Logic (Houlgate, 2005). La risposta dell’autore a questo problema filologico verte su un elemento soggettivo: la decisione stessa di fare coincidere l’inizio del sistema della scienza con qualcosa di assolutamente puro. In particolare, già nelle prime pagine della “Dottrina dell’Essere” Hegel afferma: «non si ha altro, allora, salvo la risoluzione (che si può riguardare anche come arbitraria) di voler considerare il pensare come tale.» (Hegel, a cura di A. Moni, 2008, p.55). L’accusa di aver scelto l’inizio in modo arbitrario sfonda una porta aperta: la scelta libera del soggetto è l’unica forma adeguata al contenuto imposto dal fondamento della scienza pura.
Veniamo al tema centrale del libro: il rapporto della logica con la realtà. In primo luogo Arndt prende in esame la conclusione della Scienza della Logica, in cui l’idea si rilascia (entläßt sich) liberamente nella natura. L’autore si schiera contro qualsiasi interpretazione che intraveda in questo passo una specie di argomento ontologico, se non una vera e propria creatio ex nihilo. Questo tipo di lettura, secondo Arndt, è dovuta ad un fraintendimento del termine realtà (Wirklichkeit): la realtà dell’oggetto, in Hegel, non indica il «meramente esistente» (bloßen Dasein) (p. 10), bensì la corrispondenza degli enti alla forma logica del loro concetto. Stando alla versione di Marx, la Filosofia della Natura sarebbe invece una deduzione metafisica condotta a partire dalle categorie della Logica, cosicché, viceversa, dalla prima sarebbe possibile risalire alla seconda. Secondo Arndt, tuttavia, questo non è il caso: innanzitutto, le determinazioni della logica non sono completamente sovrapponibili a quelle della natura e dello spirito, in quanto nel mondo finito della realtà non vi è niente che rispecchi la ricorsività perfetta dell’idea; in secondo luogo, nell’introduzione all’Enciclopedia, l’idea assoluta è definita come metodo: non un substrato che passa dal «reame delle ombre», per usare un espressione di Pippin (Pippin, 2018), al mondo reale, bensì la forma del pensiero puro che si autodetermina fino a specchiarsi sulla superficie infinita dello spazio, prima determinazione della natura, e sull’individualità monadica dell’anima, suo corrispettivo spirituale. Infine, lo iato che separa logica e realtà effettivamente esistente, ovvero gli elementi contingenti che esulano dalla portata del concetto, è da considerare come insito nell’idea stessa.
A partire dalla seconda parte del libro, l’esposizione si espande fino a toccare i più disparati ambiti del sistema hegeliano, tra cui il diritto, l’economia, e la storia.
Nel caso del riconoscimento, la “lotta tra signoria e servitù”, così come definita all’interno della Fenomenologia dello Spirito, è interpretata da Arndt come una teoria sulla fondazione della società, contrapposta al contrattualismo hobbesiano. Secondo quest’ultimo la libertà sarebbe un diritto naturale dell’uomo, e lo Stato un ente super partes che ne traccia i confini, ma per Hegel questo è inaccettabile: non vi è nessuna libertà prima del diritto poiché non vi è nulla nello stato di natura che possa rendere conto del riconoscimento necessario per la sottoscrizione del contratto sociale. A questo stadio vi è solo la certezza dell’autocoscienza posta davanti al suo omologo, il che costituisce al più un momento necessario ma non sufficiente del processo attraverso cui si formerà la coesistenza degli uomini nello Stato. Qui entra in gioco il principio di ricorsività del concetto: il diritto, inteso da Hegel come esistenza concreta della libertà, deve emergere dall’idea, la libertà stessa, invece che da qualcosa di esterno. Dunque ciò che sostituisce il contratto sociale, inteso come semplice estensione o limitazione della libertà degli individui, è una transizione qualitativa che ha luogo nel momento in cui il soggetto della storia perviene alla consapevolezza dell’oggettività dell’idea.
Per quanto riguarda l’economia, Arndt descrive come il regolamento della tensione tra società borghese e Stato non sia mai definitivo, anzi: le disuguaglianze che portano alla formazione della classe sociale della plebe sono il momento di contingenza necessaria per la definizione della libertà dell’individuo. Qui possiamo osservare come la razionalità del sistema non venga intaccata dal momento della casualità, anzi, sia parte integrante dell’idea che precipita nelle istituzioni umane, andando a comporre lo spirito oggettivo.
Passiamo infine alla relazione della filosofia con la storia. Hegel afferma esplicitamente che la storia è il cammino dell’idea verso il suo compimento, ovvero la consapevolezza di se stessa come libertà. Questo porta gli oppositori di Hegel a concludere che tutto ciò che accade nel corso delle umane vicende sia guidato da una teleologia che finisce per giustificare ogni tipo di nefandezza. Tuttavia, gli eventi che scandiscono questo processo non seguono la stessa linearità delle determinazioni logiche: la storia vera e propria è soggetta a deviazioni, ricadute ed impasse, a riprova del fatto che non vi è totale convertibilità tra la realtà del concetto e ciò che si dà nel mondo.
Nella terza parte del libro, Arndt prende in esame la questione dell’assoluto, e in particolare della fine delle tre forme in cui si presenta allo spirito umano: arte, religione e filosofia. L’autore interpreta la fine evocata da Hegel come un compimento: consegnare alla coscienza la consapevolezza della libertà. Parlando del rapporto tra la religione e lo spirito soggettivo, Arndt si sofferma sul fatto che, secondo Hegel, il mistero della trinità di dio corrisponde alla dialettica del pensiero puro. Questa intima solidarietà tra fede cristiana e ragione segnala che nella prima è insito un processo di secolarizzazione destinato a sfociare naturalmente nel Protestantesimo e nei prìncipi fondanti della Rivoluzione Francese. Così, Hegel supera l’opposizione tra religione e Stato rifugiandosi in una scienza capace di individuare la radice comune di entrambi nell’attività autopoietica dell’idea di libertà.
Nell’ultimo capitolo, il passaggio dell’idea alla natura viene descritto come un ritiro dell’astrazione preliminare posta alla base dell’inizio della logica. Il processo auto-determinato del pensiero conduce al concetto di se stesso, tuttavia, questa ricorsività è ancora racchiusa nell’elemento della mente: nello spostamento verso la natura, invece, la completezza concettuale garantita dalla circolarità del sistema viene meno, poiché la natura non può trattenere in sé l’universale. Arndt rileva un riferimento aristotelico in questo passo, ovvero al fatto che gli universali come genere e specie siano contenuti unicamente negli individui, in quanto nella natura e nello spirito non vi sono altro che particolari e individuali. La Scienza della Logica, dunque, provvede ad apporre agli enti naturali e spirituali il sigillo dell’accessibilità al concetto, unico depositario dell’universalità.
Alla luce di quanto finora riportato, ritengo che l’originalità della proposta di Arndt consista nel fatto che, nella prima parte, troviamo un’interpretazione della Scienza della Logica vicina alla versione di Pippin, ovvero una riduzione soggettivistica e non-metafisica dell’idea assoluta, mentre nella seconda parte, in cui l’argomento centrale è la relazione tra logica e realtà effettiva, l’argomentazione si allinea a quella più classica di Stephen Houlgate, esposta nel recente Hegel on Being (Houlgate, 2021). Questo modello ibrido evoca uno stallo che viene risolto solo nella terza parte, in cui l’autore sembra decidere per un ritorno entro i termini della resa non-metafisica del pensiero hegeliano. Per difendere Hegel dalle accuse di panlogismo e apologia di totalitarismo, Arndt opta per una strategia non conservativa, e riduce la logica ad un Oργανον, uno strumento a cui ricondurre i dati raccolti dalla ricerca empirica ponendo così fine al progresso ad infinito della loro accumulazione. Questa rivisitazione neo-kantiana di Hegel lascia tuttavia inspiegato come sia da intendere il fatto che da un lato abbiamo il sistema come una logica trascendentale che organizza la conoscenza, e dall’altro l’idea come qualcosa in grado di rendere conto non solo delle regolarità della natura e dello spirito, ma anche dei loro momenti di contingenza. A mio modo di vedere, questi due aspetti avrebbero meritato un raccordo più esplicito. Inoltre, l’autore non specifica in quali punti del sistema la realtà come mera esistenza (bloßen Dasein) e la realtà effettiva (Wirklichkeit) si separino in modo più vistoso.
Infine, considerato il duplice intento di demistificare la figura di Hegel e di rivisitare la questione metafisica del rapporto tra logica e realtà, possiamo concludere che il primo è stato raggiunto in modo esaustivo, ma nel processo ha finito, a mio modo di vedere, nel condizionare la trattazione del secondo, segnalando così che la priorità è ricaduta sulla difesa “politica” di Hegel rispetto a quella teoretica.
Luca Montermini
Bibliografia
Arndt, A. (2023), Die Sache der Logik: Begriff und Realität bei Hegel, Amburgo: Meiner.
Hegel, G. W. F. (1830), Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a cura di Verra, V., Torino, Utet.
Hegel, G. W. F. (1807), Fenomenologia dello spirito, a cura di De Negri, E., Roma: Edizioni di storia e letteratura.
Hegel, G. W. F. (1812-16), Scienza della logica, a cura di Moni, A., Roma-Bari: Laterza.
Henrich, D. (1963), Anfang und Methode der Logik, in Hegelstudien, Beiheft 1, a cura di Gadamer, H. G., Amburgo: Meiner, pp.19-35.
Houlgate, S. (2021), Hegel on Being, 2 voll., Londra: Bloomsbury Academic.
Pippin, R. (2018), Realm of Shadows: Logic as Metaphysics in “The Science of Logic”, Chicago: The University of Chicago Press.
Theunissen, M. (1978), Sein und Schein: Die kritische Funktion der Hegelschen Logik, Berlino: Suhrkamp.
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Exploiter les vivants. Une écologie politique du travail.
Recensioni / Febbraio 2024L’idea che la soluzione ecologica al cambiamento climatico possa essere attuata attraverso la raccolta differenziata o un minor consumo di acqua viene fortemente criticata da Paul Guillibert, autore di Exploiter les vivants. Une écologie politique du travail (La Découverte, 2023), che pone al centro della sua riflessione la declinazione dell’ecologia politica in chiave marxista, a partire dai rapporti di produzione e sfruttamento. Infatti, nonostante l’importanza di un’educazione e consapevolezza ambientale, non sarà sicuramente il gesto individuale a salvare il pianeta. Non è un caso che l’enfasi mediatica e la politica istituzionale propongano il gesto individuale come soluzione al cambiamento climatico, allontanando lo sguardo dagli scempi ambientali ed ecologici di cui si macchia il capitalismo. Guillibert critica l’imperativo etico che ci interpella in quanto consumatori e consumatrici a diventare bravi cittadini responsabili (adempiendo dunque all’obbligo morale di cambiare i nostri modi di consumo, acquistare prodotti biologici, ridurre i rifiuti e la dipendenza energetica), poiché tale imperativo tralascia la definizione di un soggetto incarnato, identificando la serie di comportamenti sopra elencati come scelta possibile per qualsiasi individuo (senza considerare, ad esempio, il posizionamento socio-economico del soggetto cui si rivolge). L’astrazione e l’universalità del soggetto “eticamente responsabile nei confronti dell’ambiente” crea, in questo modo, una serie di pregiudizi nei confronti di coloro che non hanno la possibilità di mettere in atto tali comportamenti. Inoltre, è necessario porre l’attenzione sul consumo: consumare meglio, infatti, non significa smettere di consumare. È dunque possibile utilizzare l’espressione “consumatori responsabili” o è un ossimoro?
«Il n’est pas question de récuser l’importance pratique de ce geste mais plutôt de s’interroger sur l’effectivité politique d’une individualisation et d’une moralisation de la transition écologique». [1]
A chi tocca, dunque, la giustizia ambientale? Non a caso la domanda è soggetta ad una duplice interpretazione: se da un lato si riferisce a coloro che vivono direttamente i problemi ecologici (ad esempio chi migra per condizioni ambientali insostenibili o chi vive in banlieu o bidonville dove vengono costruite discariche), dall’altro interpella coloro che hanno la responsabilità di farsi voce e corpo di atti di ribellione per la giustizia climatica. Comprendere da chi sia costituito il movimento ambientalista odierno (in riferimento ai Paesi occidentali), e per quale motivo i componenti del movimento abbiamo difficoltà a portare avanti la causa ambientalista (i cui catastrofici rischi non escludono nessuno) [2], è uno degli obiettivi che si pone Guillibert. Se da una parte, però, Guillibert si sofferma ampiamente sulle categorie sociali che vengono escluse dalla retorica ambientalista borghese, dall’altra non è altrettanto esplicativo rispetto all’utilizzo del capitalismo come condizione di oppressione. Nonostante infatti nel testo ci siano riferimenti ad alcuni elementi dell’analisi marxista (ciclo merce-denaro-merce, surplus, forza-lavoro, lavoro salariato), le condizioni delle categorie socio-identitarie coinvolte (operai, non-bianchi, animali, natura) vengono attribuite ad una forza capitalista quasi astratta, trascurando altri elementi di oppressione che hanno determinato la loro subordinazione.
La proposta di congiungere le istanze del movimento ambientalista con la lotta di classe risulta, per tale motivo, un po’ semplicistica. Secondo Guillibert non è possibile immaginare di risolvere problematiche ecologiche se non si ripensa anche ad una differente organizzazione economica (in questo senso l’appello alla coscienza verde individuale stride, ad esempio, con il sistema di logistica e di infrastrutture verso cui si sta attualmente orientando il capitalismo). Compito della filosofia è fare ordine concettuale per potere ideare nuove strategie di produzione e distribuzione: per questo motivo è necessario partire dal lessico utilizzato dal movimento ambientalista. L’«ambientalismo della classe operaia», che si deve dunque appropriare di un ruolo protagonista nella lotta ambientale, non può che fondarsi sul sabotaggio della produzione e della distribuzione attuale, sullo sciopero come strumento di prassi e sull’organizzazione di contro-poteri per sviluppare beni comuni non fondati sulla moneta come mezzo di scambio, pianificando un’economia della decrescita. Non a caso Guillibert ripropone un lessico familiare al linguaggio marxista, soffermandosi sulle nozioni di proletariato, sfruttamento, surplus e salario, e all’operaismo italiano, in modo particolare al pensiero di Toni Negri, in vista di una trasformazione sociale: se da una parte il contropotere non rappresenta solamente una posizione di antagonismo destituente e di rottura nei confronti del capitale (ad esempio attraverso la pratica del sabotaggio e dello sciopero), dall’altra si propone come prassi per costruire un altro modo di vivere e produrre.
Se ad ora il corpo del movimento ambientalista è costituito da comunità scientifica, giornalisti, studenti e intellettuali, e non da operai, non è possibile definirlo come classe, nel senso inteso da Marx nel Manifesto o nel Capitale, poiché è formato da individui che non partecipano direttamente al processo produttivo (e distributivo) delle merci, ma che condividono solamente la condizione di precarietà lavorativa; la popolazione urbana, cittadina, rimane per questi motivi frammentata rispetto alla frangia radicale degli antagonisti ecologici e coloro che, lavorando, alimentano la crisi ambientale stessa.
La questione climatica dal punto di vista della classe operaia, ossia l’ecologia della classe operaia, non rivendica solamente un lavoro in fabbrica che garantisca delle condizioni di vita decenti, ma anche pratiche di lavoro più rispettose dei corpi stessi degli operai, delle persone che vivono vicino allo stabilimento e all’ambiente circostante. A tal proposito Guillibert propone come esempio la condizione degli operai e dei cittadini di Taranto: l’ILVA rappresenta un’esperienza specifica di ecologia operaia, ossia un lavoro che nel corso degli anni ha contaminato il corpo della classe operaia e della cittadinanza circostante. L’importante mobilitazione operaia, organizzata in sindacati, collettivi di donne, e non solo, ha rivendicato una sanità ambientale e un’organizzazione ecologista locale contro l’inquinamento industriale, fino alla condanna per l’ILVA nel 2012. [3]
Unire le lotte della classe operaia, protagonista della produzione, per creare un’identità più allargata che difenda i diritti dei lavoratori in una prospettiva di transizione ecologica, senza distinguere l’attivismo politico dalla fabbrica è ciò che accade all’ILVA e a GKN. Alla luce della centralità della logistica nel modo di distribuzione attuale delle merci, sono allora anche altri operai che devono guidare il movimento ecologista. Camionisti indipendenti (esempio con cui Guillibert apre la narrazione), operai del settore logistico, che faticano a trovare una propria identità nel luogo di lavoro per la continua precarietà e flessibilità cui sono sottoposti i contratti odierni, trasportatori e caricatori che fanno muovere le merci, possono aggiungersi a coloro che le producono. Non solo movimento di merci, ma anche movimento di lavoratori: flessibilità e precarietà sono infatti due condizioni che costituiscono uno dei nuovi strumenti dell’organizzazione capitalista, rendendo più difficile la creazione di un’identità legata ad un luogo di lavoro e la conseguente possibilità di formazione di una coscienza di classe, che si faccia promotrice di lotte operaie.
I nuovi protagonisti che Guillibert vede in prima linea non sono solamente gli operai, ma anche le donne. Integrando la prospettiva di classe con quella femminista, l’autore non considera solamente il lavoro produttivo, ma anche quello riproduttivo. L’assegnazione del compito riproduttivo alle donne fonda la divisione sessuale del lavoro e, nel momento in cui l’uomo si sedentarizza, la naturalizzazione della procreazione diventa per l’uomo cacciatore un atto di appropriazione gratuita della forza delle donne. Sotto l’egida della tesi naturalista, gli atti di riproduzione e cura vengono privati del riconoscimento lavorativo, in quanto considerati, per natura, propri delle donne, e di conseguenza non vengono retribuiti. [4] Non prendendo un salario per il lavoro riproduttivo, le donne non producono valore di scambio, ma riproducono la forza-lavoro futura (che assicura la produzione di valore). L’appropriazione del lavoro delle donne da parte del capitalismo patriarcale è anche il fulcro dell’ecofemminismo (o femminismo della riproduzione eco-sociale). Non è un caso che per Silvia Federici la svalorizzazione del lavoro riproduttivo femminile sia stata la condizione di possibilità di sviluppo del lavoro salariato. L’appropriazione del corpo della donna come bene comune avviene attraverso il disciplinamento e il controllo del corpo stesso messo in atto dagli uomini (Guillibert si sofferma sulla transizione del potere di controllo delle nascite dalle sages-femmes ai dottori), e la priva di ogni possibilità di rivendicazione, trasformando il corpo in merce all’interno del mercato.
Lo sguardo dell’autore va oltre: non solo gli operai, non solo le donne, ma è necessario includere nella categoria di lavoratori anche gli animali non-umani, sia addomesticati sia selvaggi. Per comprendere il motivo per cui Guillbert include queste categorie nella prospettiva ecologica è necessario definire le condizioni che hanno reso il lavoro tale a come lo identifichiamo oggi.
L’attività lavorativa non ha sempre avuto la stessa definizione nel corso dei secoli: nell’Antica Grecia, ad esempio, l’agricoltura e la politica (entrambi corrispondenti, oggi, alla categoria di lavoro), erano considerate attività di natura differente. Ad un certo punto, per dirla con Guillibert, gli esseri umani, la natura e i suoi viventi sono stati messi al lavoro («mise au travail»). Con il capitalismo il lavoro è diventato un’attività essenziale, di valore superiore rispetto ad altre attività, a tal punto da definire l’identità stessa di una persona. Al lavoro l’umanità (occidentale) consacra molto tempo, dato che esso costituisce un mezzo di sussistenza, dà un riconoscimento simbolico o una condizione di accesso a posti di potere e permette la riproduzione individuale e sociale. Per potere essere così bene identificato, è stato separato dal tempo libero (ossia da momenti non consacrati all’attività lavorativa), e rappresenta un momento in cui l’individuo esercita una forza coercitiva su se stesso (atto che non accade, al contrario, durante la spontaneità del momento del gioco). Il lavoro si caratterizza attraverso sette elementi essenziali: è un’attività tecnica effettuata secondo momenti ordinati, che producono nuove realtà per soddisfare bisogni sociali, implica sforzo e disciplina ed è separato da momenti in cui si svolgono altre attività; richiede inoltre un impiego di abilità cognitive, fisiche e corporali.
È quest’ultimo elemento a costituire la chiave per includere anche un ragionamento antispecista nella categoria dei lavoratori. Ciò che distingue il lavoro da ogni altra attività è l’atto di sapere di stare lavorando: il cane-guida per persone non vedenti sa che il suo lavoro inizia nel momento in cui gli viene infilata la pettorina (e finisce quando viene sfilata); i cani-pastore sanno che il loro lavoro comincia quando vedono e si avvicinano al gregge; il cane da ricerca per persone scomparse sa che il lavoro inizia nel momento in cui sente un determinato odore e riceve un comando dall’addestratore. [5] La coscienza del lavoro implica lo sviluppo di determinate abilità, ad esempio la concentrazione, l’interazione con persone umane, la comprensione di dinamiche generalizzate nell’ambiente circostante, l’autodisciplina e il rispetto di una gerarchia di comando (ulteriore prova di coscienza di lavoro e costrizione sono al contempo le fughe e le rivolte degli animali). [6] Al contrario, Donna Haraway sostiene che gli animali siano strumenti di lavoro e non lavoratori, ossia che siano inseriti nel lavoro umano come strumenti:«Les chiens de travail sont des instruments qui font partie intégrant du stock du capital d’une ferme». [7]
Ma cosa dire di una vacca da latte che produce più latte di quanto servirebbe al suo vitello per crescere? Il latte in più non è forse surplus? Si può quindi dire che la vacca detiene una forza-lavoro? Il pensiero antispecista non è più confinato al contesto accademico (ad esempio nell’indagine filosofica sull’appropriazione dei corpi e delle vite degli animali) [8], ma si sta diffondendo anche nella società civile (l’incremento di scelte alimentari vegane dimostra che l’oppressione animale sta diventando ben visibile).
Il ragionamento di Guillibert viene, infine, esteso alla natura: le forze di produzione del capitale non si fondano solamente sulla riproduzione sociale, ma anche sull’appropriazione del corpo naturale, producendo un ecocidio globale. L’atto di appropriazione gratuita della natura affonda le sue origini nelle prime conquiste coloniali, momento storico in cui si afferma la presa di potere su corpi umani e non-umani. La forza-lavoro umana non retribuita e l’appropriazione delle risorse naturali crescono di pari passo, fino ad impostare un’economia potenzialmente universale e fondare un sistema-mondo, basato sulla divisione razziale del lavoro e sulla semplificazione e strumentalizzazione della natura. [9] Si mettono al lavoro tutti i viventi, umani e non-umani, in un sistema di dominio globale sotto l’egida del capitalismo (trasformando la natura in un’immensa monocoltura su scala globale, atta, nella maggior parte dei casi, ad alimentare l’immensa filiera industriale della carne).
Lo sguardo globale di Guillibert, pur rimanendo vago sulle conclusioni e sulla proposta di pratiche economiche alternative, ha la capacità di creare interconnessioni tra differenti ambiti di critica e studio, comprendendo varie categorie nei rapporti di condizioni lavorative alienanti e saccheggi ambientali. L’idea di una transizione giusta non può che passare attraverso la redistribuzione della ricchezza sociale, mettendo in atto una decrescita economica che deve avere come attori protagonisti proprio i soggetti più alienati e sfruttati (ed ora parcellizzati) dal sistema capitalista. La decrescita della produzione e la trasformazione radicale dell’organizzazione del lavoro sono i pilastri per intraprendere un progetto di comunismo della decrescita e politica della vita (passando dall’eliminazione del profitto alla riduzione dei tempi di lavoro, dalla soppressione della divisione del lavoro all’abolizione della competitività dei mercati). Partire dalla teoria marxista dello sfruttamento come denominatore comune per ripoliticizzare il lavoro in una chiave di ecologia politica: in tutto il mondo, infatti, le lotte ecologiste si oppongono alla logica del capitale, ma mancano di alleanze per diventare una lotta emancipatrice reale.
«Les vivants, les prolétaires, les indigènes, les minorités de genre ne formeront pas une classe au sens marxien parce qu’ils n’affrontent pas les mêmes rapports de domination. Mais une partie d’entre eux pourraient composer une subjectivité politique protéiforme et multispécifique. Car toutes et tous font aussi face à la logique culturelle du capitalisme, une modernité qui fait de la nouveaté technique l’indicateur d’un avenir nécessaire». [10]
Solo l’unione di tutti gli alienati e gli oppressi, nella comprensione dell’universalità della dipendenza al mercato e nelle logiche di sfruttamento, potrà creare un’opposizione unica e ferma alla separazione dei lavoratori e delle lavoratrici messa in atto finora, dando inizio alla lotta dei viventi «messi al lavoro».
Ingrid Alloni
Bibliografia
Adams, C., (1990), Carne da macello. La politica sessuale della carne, tr. it. M. Andreozzi, A. Zabonati, VandA Edizioni, Milano (2020);
Balibar, É., Wallerstein, I., (1988), Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, Roma, Edizioni associate, 1991;
Deplhy, C., (1970), L'Ennemi principal 1, Économie politique du patriarcat, Editions Syllapse, Paris;
Federici, S., (2004), Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano;
Filippi, M., Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Mimesis Edizioni, Milano, 2013;
Foucault, M., (1978-1979), Naissance de la biopolitique: Cours au collège de France, Gallimard, Paris;
Haraway, D., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, tr. it. C. Durastanti, C. Ciccioni, NERO, 2019.
Latour, B., Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000;
Marx, K., (1867), Il capitale, vol. 1, a cura di Aiello, A., Editori Riuniti, Roma, 2017;
Marx, K., Engels, F., (1848), Manifesto del partito comunista, a cura di Donaggio E., Kammerer, P., Feltrinelli, Milano, 2017;
Negri, T., Dominio e sabotaggio, Feltrinelli, Milano, 1974;
Rifkin, J., (2001), Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, tr. it. P. Canton, Mondadori, Milano, 2022;
Wittig, M., (1992), Il pensiero eterosessuale, tr. it. F. Zappino, Ombre corte, Verona 2019.
Note
[1] «Non si tratta di negare l'importanza pratica di questo gesto, ma piuttosto di mettere in dubbio l'efficacia politica dell'individualizzazione e della moralizzazione della transizione ecologica» (la traduzione di ogni citazione di questa recensione è mia).
[2] Ad eccezione di coloro che possono immaginare di migrare sulla Luna o di colonizzare un altro pianeta; non a caso l’autore cita il film Don’t look up di Adam McKay, 2021.
[3] Un altro esempio, rispetto alla riconversione in chiave ecologica, è rappresentato dagli operai della GKN, stabilimento presso Campi Bisenzio (FI), che, a seguito della decisione di delocalizzare e di un licenziamento di massa degli operai nel 2021, si mobilitano attraverso l’occupazione dello stabilimento e intraprendono una battaglia giuridica. GKN diventa una questione sociale collettiva: gli operai coinvolgono infatti ricercatori universitari, giornalisti, studenti, esperti solidali, e insieme a loro portano avanti un’istanza rivendicativa che pone al centro anche la questione ambientale, proponendosi come prima fabbrica socialmente integrata e sostenibile d’Italia.
[4] La rivendicazione del lavoro di gestazione, procreazione e cura viene intrapresa costituisce un dibattito centrale negli anni Settanta, in modo particolare in Francia nelle correnti femministe materialista e marxista.
[5] Guillibert estende l’analisi anche ad altri animali, ad esempio alle vacche da latte.
[6] A tal proposito, una delle ultime notizie in Italia riguarda la fuga di un leone dal circo a Ladispoli (RO): https://www.rainews.it/video/2023/11/il-video-del-leone-libero-per-le-strade-di-ladispoli-sindaco-state-a-casa-520dc2a7-8247-4e40-a0c0-c9914717ccb3.html.
[7] I cani da lavoro sono strumenti che fanno parte integrante del capitale sociale di un'azienda agricola.
[8] Rispetto a ciò, oltre alla categoria di forza-lavoro, il pensiero antispecista si serve della nozione di biopoliticaproposta da Michel Foucault (rispetto al disciplinamento dei corpi e all’imposizione di potere che emerge dalla loro proprietà).
[9] La nozione stessa di “natura” ne denota il suo costrutto sociale, ossia l’incapacità di riconoscimento della particolarità, la perdita di conoscenza dei nomi, e l’atto di uniformità che si dà all’intero corpo naturale. Per la nozione di sistema-mondo si rimanda all’analisi di Étienne Balibar e Immanuel Wallerstein.
[10] Gli esseri viventi, i proletari, gli indigeni, le minoranze di genere non formeranno una classe in senso marxista perché non affrontano le stesse relazioni di dominio. Ma alcuni di loro potrebbero formare una soggettività politica polimorfa e multispecifica. Perché tutti loro si confrontano anche con la logica culturale del capitalismo, una modernità che fa dell'innovazione tecnica l'indicatore di un futuro necessario.
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Isabelle Stengers nel tempo delle catastrofi
Recensioni / Novembre 2022Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire di Isabelle Stengers è un testo scritto nel 2008, recentemente uscito in traduzione italiana per Rosenberg & Sellier (2021). Si tratta, nelle parole del curatore Nicola Manghi, di un “pamphlet politico” (p. 7), scritto con l’intenzione, da parte dell’autrice, di “prendere parola” (p. 43), ossia di intervenire nel dibattito intorno al riscaldamento globale. A corredo del testo troviamo una ricca introduzione firmata dal curatore, insieme a un’intervista all’autrice tenuta nell’agosto del 2020: la prima ha il doppio merito di presentare al lettore da un lato la traiettoria e lo sviluppo del pensiero stengersiano (dall’interesse, pur eccentrico, per l’epistemologia sino alle più mature posizioni cosmologiche) e dall’altro di chiarire alcune questioni culturali (ma anche teoriche) che la voluta brevità del testo rende spesso poco più che implicite – per esempio il riferimento alle cosiddette Science wars, lo stretto rapporto intrattenuto dall’autrice con l’etnopsichiatria, la questione delle pratiche e dei praticiens; la seconda ci permette invece di misurare le intuizioni di Stengers alla luce degli sviluppi posteriori delle questioni connesse all’ecologia, come quella costruitasi attorno al termine passepartout “antropocene”.
È proprio a partire dalla lettura dell’intervista che emerge uno degli aspetti più impressionanti del testo, ovvero la sua capacità di anticipare molte questioni che sembrano effettivamente all’ordine del giorno: pur prendendo le mosse dall’onda lunga dell’altromondismo, degli scontri di Seattle e del dibattito sugli OGM, Stengers sa vedere lontano, ponendosi in una prospettiva deliberatamente “globale”, legata ai cambiamenti climatici e al destino del pianeta Terra, e intende al contempo ricalibrare le lotte che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, perlomeno dal ’68 in avanti, in una dimensione esplicitamente intersezionale (p. 50; p. 161). D’altra parte, l’asfittico scenario che Stengers vede squadernarsi all’orizzonte pare proprio richiedere un impegno di natura globale: si è infatti ormai triangolata un’alleanza «decisiva tra la razionalità scientifica, madre del progresso di tutti i saperi, uno Stato liberato dalle fonti di legittimità arcaiche che impedivano a una tale razionalità di svilupparsi, e lo sforzo industriale che le consente di tradursi in principio d’azione finalmente efficace» (p. 85). “Stato”, “Scienza” e “Impresa”, facendo progressivamente scomparire ogni “commons”, sembrano così perseguire unicamente la logica inflessibile della crescita, muta a qualsiasi riflessione rispetto alle conseguenze cui questa potrà in futuro condurre.
Eppure è proprio questo fosco scenario ad aver fatto germogliare condizioni che possono portare a una riapertura della questione o, per dir meglio, alla presa di consapevolezza della catastrofe imminente cui l’imperativo della crescita sembra ineluttabilmente condurre: si tratta dell’intrusione di “Gaia”, figura o quasi-essere (p. 66) in cui Stengers condensa la situazione propria della contemporaneità, così come l’estrema possibilità di pensare alternative rispetto allo stato di cose presente. Non si tratta tanto di quella “Gaia” ipotizzata dallo scienziato James Lovelock negli anni ‘60, sviluppata dalla biologa Lynn Margulis, e ripresa in tempi più recenti da Bruno Latour (p. 157), ossia di un essere senziente, corrispondente con la Terra e in grado di autoregolarsi, stabilizzando instancabilmente le proprie componenti; la Gaia nominata da Stengers è piuttosto un essere che, pur dotato di una sua propria «tenuta» (p. 66) e capace dunque di porre interrogativi concreti, risulta insensibile rispetto alle risposte da lei stimolate. Con accenti quasi leopardiani (p. 68), Stengers insiste sull’impassibilità di questo essere, pura trascendenza indifferente che non chiede nulla, ma che fa problema, che forza a pensare. È proprio la sua perentoria intrusione, cui dobbiamo dunque apprendere a renderci sensibili, a costituire una sfida decisiva e globale per il mondo contemporaneo.
Il testo – riassunto qui brutalmente – poggia nella sua interezza su un architrave speculativo significativo, che vorrei provare a dissezionare, ponendomi così in dialogo con alcune intuizioni presenti nell’introduzione del curatore (p. 9). Stengers convoca costantemente sulla scena due orientamenti ontologici “forti” che, tradizionalmente, si sono posizionati agli antipodi del pensiero occidentale, ovverosia il costruzionismo e il realismo. Da un lato, infatti, il testo è puntellato dal constante riferimento a una semantica della costruzione, della finzione e della composizione: Stengers ripete a più riprese che si tratta di «comporre con Gaia» (p. 75), di creare e inventare gli artifici (p. 142) e le condizioni per nuove lotte e pratiche che non siano il semplice prolungamento di quelle realizzate in passato. È infatti proprio la capacità di invenzione – che Stengers ha evidentemente mutuato dai propri studi epistemologici – ad aver fatto sviluppare la scienza moderna e l’intero mondo ad essa connesso, dal caso Galilei (p. 88) in avanti. Allo stesso tempo, però, il riferimento a Gaia come a una “intrusione” nel mondo contemporaneo conduce il discorso stengersiano nei pressi di un deciso realismo: Gaia è infatti un ostacolo reale, un essere che, seppur non direttamente interessato alle nostre risposte, pone delle domande cui dobbiamo provare a corrispondere, per evitare la catastrofe. Più in generale, è la contingenza del reale, per Stengers, a poter stimolare la capacità del pensiero di attivarsi, di uscire cioè dall’impasse della “stupidità”: qui il riferimento esplicito sono ovviamente le riflessioni che Gilles Deleuze (e prima di lui Antonin Artaud) ha dedicato al tema della genesi del pensiero (pp. 124-125), intesa come attività che si realizza solo “da fuori” a partire da uno stimolo dotato di forza vincolante. Costruzionismo e realismo trovano così, nel testo di Stengers, ma più in generale nella sua opera, un produttivo punto di indistinzione: ciò che si deve poter inventare (un nuovo “possibile”, inteso come creazione irriducibile a ogni suo precedente o condizione) coincide con ciò che siamo costretti e forzati a costruire a partire da una contingenza che ci viene incontro (l’intrusione di Gaia).
Ecco allora che, una volta perimetrato l’orizzonte entro cui muoversi, con altrettanta chiarezza a emergere saranno gli antagonisti, rispettivamente o eccessivamente realisti o esclusivamente costruzionisti. A venir criticate sono innanzitutto le posizioni relativiste, cui spesso il pensiero di Stengers è stato associato con intento denigratorio (p. 27): l’insistenza sulla natura “costruita” delle teorie scientifiche e sulle domande di senso che non preesistono e devono dunque essere “fabbricate” a partire dall’intrusione di Gaia non implicano ipso facto una logica di tipo relativistico. La capacità di corrispondere alla contingenza non ha nulla di relativo, poiché impegna chi cerca a trovare la soluzione che abbia la migliore “efficacia” possibile. Detto in altri termini, è la contingenza a richiedere una serie di pratiche concrete e che siano in grado di funzionare adeguatamente, le quali si sganceranno così inevitabilmente da qualsiasi riferimento ad astratte e/o pacificate posizioni relativistiche. Il trattamento più ostico è però riservato a quanti si richiamano oggi acriticamente alla stagione illuminista e al pensiero di Marx: invece che rinvigorirne l’eredità, neoilluministi e marxisti si sono progressivamente trasformati in rentier (p. 125), tramutando nel privilegio di un realismo testardo ma inefficace l’originaria potenza creativa propria di questi due movimenti culturali. Con raffinatezza teorica, Stengers raccoglie sotto una stessa categoria quanti oggi si contrappongono frontalmente alle politiche economico-sociali, vagheggiando sterili pretese utopistiche a coloro che, animati da una passione triste per l’oggettività della Verità, si impegnano nel continuo smascheramento dell’irrazionalità propria di ciarlatanerie, imposture e inganni (p. 126). Ad accomunare queste due posizioni è una stessa storia, quella della nascita della modernità, tesa su un asse che produce da un lato il racconto «epico» (p. 143) dell’uomo che illumina il mondo con i raggi della propria ragione neutra e universale e, dall’altro, con uno stesso gesto, esclude e disprezza inesorabilmente il suo “altro”, d’ora in avanti liquidato come irrazionale. Si direbbe così che dove il relativismo esprime l’inventiva di costruzionismo poco incline alla contingenza del concreto, la tradizione illuminista e marxista commette l’errore opposto, incagliandosi nell’angusto spazio di un realismo “critico” che, senza l’ausilio di una matrice creativa, si rovescia in definitiva in uno sterile «canto di morte» (p. 121)
Si potrebbe dire, allora, che Stengers propone una via autonoma, tesa a trovare un equilibrio tra la componente di critica nei confronti dell’ipertrofia del capitalismo (p. 73) e il tentativo di non farsi catturare da una contrapposizione frontale che denuncerebbe un frettoloso tentativo di fornire risposte certe senza aver adeguatamente formulato il problema da cui partire (p. 59). Si tratta di una posizione la cui ambiguità Stengers non intende celare e che viene anzi definita come intimamente «preziosa» (p. 101). Non si può tuttavia negare, in questo contesto, una serie di debolezze cui la proposta dell’autrice va inevitabilmente incontro: in primo luogo con il riferimento un poco vago alla capacità di «fare attenzione» (p. 81) e la conseguente «arte del pharmakon» (p. 111), la capacità cioè di saper calibrare in giusta proporzione veleni e rimedi nei differenti tentativi di rispondere a Gaia; in secondo luogo nel riportare alla stregua di casi emblematici – esperienze certo interessanti ma forse non così pregnanti – le giurie di cittadini “sorveglianti” che tentano di monitorare il lavoro (spesso economicamente interessato) dei cosiddetti “esperti”. Più in generale, si ha talvolta l’impressione, leggendo Nel tempo delle catastrofi, che all’appello alla concretezza delle pratiche – che dividerebbero le scienze e le pratiche “viventi” dalla Scienza, dallo Stato e dell’Impresa capitalisticamente orientati – corrisponda spesso un lessico che tradisce una certa evanescenza e una natura gergale, chiusa nei suoi riferimenti e dunque poco intellegibile per chi non abbia dimestichezza con gli autori e i dibattiti al cui interno si inserisce la prospettiva stengersiana.
Ciononostante Nel tempo delle catastrofi è un saggio certamente significativo poiché prova a concettualizzare in modi innovativi la maniera in cui rispondere ai problemi posti dalla contemporaneità senza richiamare in causa la grande narrazione dell’uomo emancipatore – come nel caso della modernità illuministica che si nasconde ancora oggi dietro il dibattito sull’antropocene – e senza, al contempo, ricadere in sterili e regressive forme di preservazionismo ecologico. Per fare ciò, Stengers ha in fondo scritto un testo squisitamente filosofico, per tre ragioni essenziali: in primo luogo perché «saggia» (p. 52) il modo in cui tenere insieme concettualmente creazione e resistenza, percepito e percipiente (p. 35); in secondo luogo perché ci mostra come alla base di ogni trasformazione del mondo non debba risiedere la veemenza con cui si intende imporre una risposta certa quanto prima di tutto la capacità di saper porre la giusta domanda alla realtà (p. 51); infine, perché collega l’esperienza tutta politica della sperimentazione a quella «gioia-evento» (p. 152) che già Spinoza aveva rinvenuto quale motore per la “produzione-scoperta” (anche qui, costruzionismo-realismo) del proprio adeguato modo di vita.
di Giulio Piatti
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Che la teoria sia sede di conflitti, anche aspri, esiziali e ultimativi, tanto da trascinare con sé e pregiudicare in profondità l’obiettività (presunta) dei contendenti, è cosa nota da almeno duecento anni a questa parte (da Hegel in poi). Che il sapere, allo stesso modo, configuri un’occasione per la riproduzione di sistemi di dominio di varia natura, facendosi spesso occasione di esclusione, marginalizzazione e oppressione, anche questo è diventato ormai un truismo della teoria critica contemporanea, informata come è, persino quando non lo dichiara apertamente, da marxismo, freudismo e nietzschianesimo (i quali hanno fatto nello scorso secolo il loro lavoro di decisiva persuasione). Che questa consapevolezza diffusa e diversamente articolata vada poi trasformata in una pratica pedagogica alternativa, incentrata sulla funzione guaritrice della teoria, è invece cosa ben meno scontata e largamente disattesa, nei fatti, da coloro che coltivano e insegnano discipline teoriche in ambito umanistico. Ora, è di questa esigenza, elevata a principio euristico cardinale, che si fa portatore Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà di bell hooks, recentemente pubblicato in italiano da Meltemi (2020, 18 euro). Il volume, tradotto da feminoska, nota attivista transfemminista nostrana, prefato da Rahel Sereke e Mackda Ghebremariam Tesfaù, anche loro attiviste della blackness italiana, e seguito da un breve intervento del Gruppo Ippolita, che dirige la collana di Culture radicali in cui è apparso, si segnala innanzitutto per il tono, caratteristico della scrittura saggistica dell’autrice, lontano anni luce dagli stilemi e dai tic della ricerca accademica standard. Al secolo Gloria Jean Watkins, l’autrice, femminista africano-americana, è infatti la rappresentante forse più esemplare di un orientamento della ricerca contemporanea che incentra la propria operatività sull’«enfasi sulla voce» (p. 183) personale e che concepisce, di conseguenza, la «teoria come pratica sociale dal valore libertario» (p. 99). Partendo dalla constatazione di una discrasia fondamentale tra pratica e teoria che affligge il pensiero occidentale, riflessa oggigiorno nell’introduzione nei programmi educativi di argomenti progressisti a cui non fa seguito tuttavia un adeguato mutamento del processo pedagogico, bell hooks discute infatti in maniera dettagliata il modo in cui ogni soggetto, e anzi, meglio: ogni corpo, è sempre implicato in un vissuto che lo colloca necessariamente da una certa parte della barricata, con buona pace di quell’universalità del sapere che è spesso null’altro che il nome attribuito al posizionamento dell’uomo bianco occidentale eterosessuale.
Il libro è articolato in saggi, i quali procedono in maniera concentrica intorno a uno stesso perno: dare spazio, letteralmente e metaforicamente, a coloro che un certo regime di verità – quello, appunto, dei saperi accademici – ha espulso con certosina meticolosità dal novero dei soggetti autorizzati a far risuonare la propria esperienza, i soggetti supposti non sapere. Il piano autobiografico diventa così terreno di verifica sperimentale della proposta di bell hooks, fondata come è sulla rivendicazione di un «accesso significativo alla verità» (p. 61) per tutti/e coloro ai quali e alle quali esso è stato in qualche modo negato. Il racconto della propria formazione prima nelle scuole nere degli anni Sessanta, dove «l’apprendimento e la vita della mente» erano «un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca» (p. 32), poi nelle scuole desegregate, dove al contrario «improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione» (p. 33), così come la sua esperienza diretta di insegnante, dapprima nelle università private e poi in quelle statali, diventa perciò il filo conduttore di un’inchiesta sulla necessità di abbandonare la concezione «depositaria dell’educazione» in favore di una pratica dell’istruzione in cui «la volontà di sapere» va sempre a braccetto con «la volontà di diventare» (p. 51). Di diventare che cosa? La risposta è netta: capaci di vivere più intensamente la propria esistenza perché, infine, più liberi/e. Il nome di questa pratica, «pedagogia impegnata», va allora inteso nel suo duplice senso: impegnata nei temi e nelle forme, sul piano dell’enunciato ma anche, ancora più significativamente, sul piano dell’enunciazione, dell’insieme dei presupposti pragmatici grazie ai quali parlare non è mai un atto neutro, un semplice comunicare contenuti cognitivi resecati dal resto della vita delle persone, ma sempre anche un atteggiarsi concretamente rispetto alle costellazioni di poteri che informano ogni società. La «narrativa confessionale» e la «discussione digressiva» diventano allora, nel concreto della scrittura come dell’insegnamento, lo strumento principale di tematizzazione della propria condizione, ciò mediante cui «rivendicare una forma di conoscenza» (p. 183) di cui tutti e tutte, studenti e studentesse compresi, possono parlare, sentendosi autorizzati a farlo. D’altronde, ne va di una messa in mora della stessa logica dicotomica che organizza le nostre società, in cui sembra si debba sempre sacrificare qualcosa per accedere al potere che le diverse istituzioni (educative, economiche, politiche ecc.) consentono di beneficiare a chi ne fa parte: «questo processo [l’essere partecipanti attivi nel percorso pedagogico] non è semplice: ci vuole coraggio per abbracciare una visione di completezza dell’essere che non rafforza la narrazione capitalista che suggerisce, invece, che sia sempre necessario rinunciare a qualcosa per ottenerne un’altra» (p. 217).
Ecco allora che uno dei meriti di bell hooks consiste nella capacità di mettere sistematicamente in tensione due aspetti, la razza e il genere, i quali si intersecano spesso, anche all’interno degli ambienti femministi, secondo geometrie tutt’altro che invariabili. Come racconta ampiamente la studiosa, questa linea di frattura interna al campo femminista ha determinato in passato una esclusione programmatica dell’esperienza femminile nera, che, con le sue peculiarità, di razza e di classe, non risponde al tipo della femminista bianca, spesso proveniente da contesti economici e culturali privilegiati. «Eravamo prima donne o nere?» (p. 158), si chiede allora sintomaticamente bell hooks, dando un contributo imprescindibile anche alla «decostruzione della donna come categoria analitica», alla critica dell’«esperienza della donna universalizzata» (p. 124). Il suo invito è dunque a parlare di genere in modo più complesso, tenendo conto della doppia emarginazione, da parte delle femministe bianche e del patriarcato nero, di cui sono state vittime le donne nere (e di colore in generale) nel momento in cui hanno, anche a livello accademico, rivendicato il proprio punto di vista. Scritto in una forma quasi diaristica, Insegnare a trasgredire conduce perciò il lettore in una sorta di progressiva coscientizzazione – termine che la scrittrice riprende dalla pedagogia libertaria di Paulo Freire, vero e proprio punto di riferimento della sua riflessione – concernente il proprio posizionamento nei riguardi del sapere, costringendo chi scrive a chiedersi in che misura possa essere titolato a esprimersi su un libro simile, senza arrogarsi al contempo un diritto di parola che non muove, almeno di primo acchito, da un’esperienza in prima persona analoga a quella evocata dall’Autrice.
Il percorso, pacato e graduale, verso l’acquisizione di un’evidenza che, nel suo carattere meta-teorico, sembra sospendere la vigenza delle prerogative e dei privilegi del discorso universitario, richiede dunque di essere attentamente valutato e meditato, a scanso degli equivoci che potrebbe in prima istanza ingenerare. Nella misura in cui enuncia che ogni teoria risponde sempre anche a un’esigenza singolare, calata nel vivo di un’esistenza materiata, e che non c’è punto di vista universale che non sia comunque anche particolare – che il soggetto del sapere, in altre parole, è sempre un soggetto orientato, incapace di ergersi una volta per tutte al di là di se stesso, per valutare in modo neutrale il punto di vista dell’altro – sembrerebbe, banalmente, autorizzare una forma di relativismo generale sub specie subalternitatis. Al rischio di auto-confutazione che una simile enunciazione comporta, in quanto essa stessa teorica, l’Autrice oppone però un punto fermo invalicabile, che sembra riecheggiare, senza citarlo (almeno in queste pagine), il celebre motto foucaltiano sul sapere – il quale non sarebbe fatto per comprendere, ma per prendere posizione. Con un fondamentale distinguo, però, che anche il “comprendere” – pratica pedagogica se mai ce n’è stata una – è una delle forme del prendere posizione e, per certi versi, la forma per eccellenza con cui ci si atteggia praticamente nel reale, per modificarlo, modificando la propria stessa esistenza (aspetto sul quale, ipotizziamo, il Foucault più tardo, quello dell’estetica dell’esistenza, avrebbe convenuto). Contro quindi chi ritiene che l’alternativa tra pratica e teoria sia inaggirabile, come quella tra verità ed esperienza, e che si tratti, riprendendo la tesi marxiana, di interpretare o di trasformare il mondo, disgiuntivamente, la teoria è presentata da bell hooks come un «luogo di guarigione» (p. 95) a tutti gli effetti: come, in breve, «forma di azione» (p. 99), innanzitutto su se stessi e poi, inevitabilmente, anche sul circostante. Solo un teorico privilegiato, rappresentante del patriarcato capitalista e colonialista bianco, può credere infatti che la teoria sia senza effetti immediati e che vada dunque coltivata a riparo da perturbazioni pragmatiche ed esperienziali d’ogni sorta, con l’esclusione, naturalmente, di quelle che contribuiscono inavvertite alla riproduzione del sistema di dominio vigente. «Penso che uno dei disagi inespressi relativi al modo in cui il discorso su razza e genere, classe e pratica sessuale ha portato scompiglio nell’accademia è proprio la sfida a quella divisione tra mente e corpo. Chi è potente ha il privilegio di negare il proprio corpo» (p. 172). Senza nulla togliere, perciò, al valore più-che-personale del sapere (al suo portato, appunto, in senso proprio scientifico: vale a dire, intersoggettivo e transculturale), dato anzi esattamente dal suo sprofondare nelle proprie condizioni ‘carnali’ di possibilità, bell hooks ci invita a tenere sempre conto della situazionalità in cui ogni atto teorico è fattivamente inserito, senza far finta che se ne possa fare tranquillamente a meno, come si trattasse di scorie da eliminare il prima possibile, perché per il resto non fanno che inquinare (inquietare) la trasparenza cristallina della ragione. La ragione militante – e ogni ragione in un certo senso lo è, anche senza saperlo – è tanto più lucida quanto più si fonda consapevolmente sulle proprie radici auto-biografiche, quanto più espone, nel corpo della sua articolazione logico-concettuale, i segni dell’oppressione che tenta proprio per ciò di scardinare, facendoli diventare il punto di partenza di una vera e propria «comunità di apprendimento». È qui che, credo, anche l’esperienza di un o una non marginalizzato/a, almeno a prima vista, può trovare non solo di che imparare, il che è ovvio e auspicabile, ma anche di che entrare in risonanza, per reperirsi sul limite della propria esperienza di soggetto di sapere che è spesso, nondimeno, soggetto alsapere altrui. Se ci si incunea negli interstizi della propria esistenza in cui si è sperimentato (e chi, in qualche modo, non l’ha fatto?) una qualche forma di esclusione dettata dalla propria appartenenza, anche temporanea, a una categoria non egemonica, la necessità di partire dal sé, per raggiungere il prossimo, diventa inaggirabile. Come discenti, d’altro canto, abbiamo tutti attraversato quella situazione specifica in cui il sapere sembra provenire immancabilmente dall’Alt(r)o, da una fonte esterna sulla quale non si ha il minimo controllo e dalla quale, in ultima istanza, ci si sente sempre giudicati/e. È come operatori di conoscenza che, in primis, si è costretti a riconoscere che il sapere non è un’operazione priva di attriti concreti, a cui ciascuno/a accede sempre da una posizione di relativa marginalizzazione e la cui costruzione avviene però davvero soltanto nello spazio tra le persone, tra i corpi, tra le esperienze, anche le più negative.
L’evidenza al cospetto della quale ci conduce hooks è dunque la seguente: non c’è teoria in ambito umanistico che non si radichi in un vissuto singolare, senza con ciò erodere tutta la sua eventuale portata veritativa; non c’è concetto che non abbia la sua scaturigine in un affetto situato, che non sia enunciato dalla bocca o esca dalla penna di una persona in carne e ossa, promanando così da un io concreto, incistandosi sempre in una materia viva, senziente, desiderante e, quando è il caso, persino dolente, senza per questo diventare l’incarnazione di una prospettiva solamente idiosincratica, privata, collettivamente inaccessibile. Anzi, è il dolore – quel dolore che un ‘malato’ come Ottiero Ottieri definiva «il problema filosofico più serio» – a essere l’elemento che articola il pensiero all’esistenza, che congiunge il logos al pathos e viceversa: che lega insomma la Ragione, con la maiuscola a capolettera, al corpo (alle ragioni, al plurale, dei corpi), rendendola appunto frequentabile anche dal prossimo e al suo bagaglio di esperienze singolarizzate. Rendendola vera, in un senso al contempo epistemico ed etico. Ecco la consapevolezza di cui una pratica del sapere informata a criteri di unilaterale ‘scientificità’ vorrebbe fare piazza pulita, in quanto ritenuta incompatibile con il ‘rigore’ altrimenti esigito dalla teoria, e della quale sono innanzitutto i cosiddetti “subalterni” a essere i depositari. È nei comportamenti degli ‘anormali’, per usare una categoria di vaga eco foucaultiana, che fa capolino, in modo senz’altro urticante ma indiscutibile, l’implicatura necessaria che ogni atteggiamento epistemico intrattiene con quanto, faute de mieux, si può chiamare la prospettiva in prima persona. Sono loro i tenutari del sapere di secondo livello, e invero di ultimo livello, concernente il radicamento storico e carnale del sapere, l’unico in grado di estrapolarsi dalle proprie condizioni di emersione e di additare se stesso, restando vero. Come scrive bell hooks: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione» (p. 93). Esiste insomma un sapere, minoritario per definizione, che concerne la centralità inaggirabile del dolore, un sapere che riguarda la necessaria implicatura (uso un termine della pragmatica non a caso) soggettiva della conoscenza, quale che sia la sua forma, per quanto possa essa presentarsi in una veste intenzionalmente avalutativa, neutrale: in una parola, “scientifica”. E questo per un motivo molto semplice: donne, soggetti razzializzati, persone neuro-atipiche, trasgressori della norma eterosessuale, sfruttati d’ogni tipo, malati in generale, coloro che, in un modo o nell’altro, sono considerati innanzitutto come oggetti, prima ancora che come soggetti, e il cui corpo o comportamento non sono mai del tutto invisibili, non possono mai, in forza di quello che subiscono, prescindere dalla loro situazione concreta, segnata invariabilmente da un certo coefficiente di sofferenza. L’invisibilità – come il silenzio degli organi per la salute – è infatti un privilegio dei ‘normali’: l’incorporeo è il prodotto di un modo di esistenza che non conosce (troppi) limiti. «La cancellazione del corpo incoraggia a pensare che stiamo ascoltando fatti neutrali e oggettivi, fatti che non sono legati a chi condivide le informazioni. Siamo invitati a insegnare come se le nozioni non emergessero dai nostri corpi. È significativo che quelli di noi che cercano di criticare i pregiudizi in classe sono stati costretti a tornare al corpo per parlare di noi stessi come soggetti nella storia. Siamo tutti soggetti nella storia. Dobbiamo tornare allo stato di esseri incarnati per decostruire il modo in cui il potere viene tradizionalmente utilizzato in classe, negando la soggettività ad alcuni gruppi ed accordandola ad altri. Riconoscendo la soggettività e i limiti dell’identità, interrompiamo quell’oggettivazione che è così necessaria in una cultura del dominio» (p. 174).
All’alternativa secca di verità ed esperienza, e alla «svalutazione paternalistica» (p. 122) della seconda, bisogna opporre dunque, seguendo bell hooks, la consapevolezza che la verità ultima dell’esperienza (personale) consiste in un'esperienza (interminata e collettiva) di verità: in un apprendimento «senza limiti» (p. 235) in cui pratica e teoria convergono senza mai arrivare a suturarsi definitivamente l’una all’altra, restando aperte a nuovi contributi, sempre. In cui il limite – incontrato ed esperito proprio malgrado – gioca insomma la funzione di ostacolo e di rilancio, al contempo: «anche desiderare è un modo di conoscere» (p. 126). Non si tratta quindi di cedere a forme autoconsolatorie di whisful thinking, ma, si potrebbe dire, di rintracciare nel desiderio stesso una forma di sapere imperniata sulla sua capacità di eccedersi di continuo, nel confronto con la diversità e la difficoltà. Di superare insomma ogni status quo, anche epistemologico, in vista della sua riformulazione condivisa, grazie al pungolo del dolore, di cui una teoria estranea alla vita vorrebbe rimuovere toto cælo la presenza, rinchiudendo ciascuno e ciascuna in se stesso/a, e del quale invece una pratica libertaria dell’educazione non può non tenere conto, per farne il proprio atout fondamentale, risolvendolo nell’esperienza comune dell’imparare. Qui habet aures audiendi, audiat…
di Daniele Poccia