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Se si considerano le già numerose traduzioni italiane dell’ingente corpus di Bernard Stiegler, colpisce come soltanto recentemente sia stato tradotto il primo volume di Tecnica e tempo, La colpa di Epimeteo (Luiss University Press 2023), uno dei suoi testi principali. La pubblicazione, considerando il valore fondativo che riveste nella produzione stiegleriana, rappresenta – riprendo l’espressione di Paolo Vignola, curatore del testo, nonché di molte altre opere di Stiegler – un “supplemento necessario” per la comprensione del filosofo da parte del lettore italiano. Come osserva Vignola nella prefazione, le numerose traduzioni già presenti in Italia si sono spesso limitate a testi autobiografici o di occasione, causando nel lettore «un appiattimento del pensiero stiegleriano sulla sua componente più sensazionalistica, di attualità o in certi casi militante» (Vignola 2023, p. 10), oscurando però la dimensione schiettamente filosofica da cui traggono origine. Data questa particolare situazione editoriale, la traduzione italiana di La colpa di Epimeteo permette al lettore di affrontare la componente strettamente teoretica del pensiero di Stiegler.
Pur rappresentando solamente la prima parte della monumentale serie Tecnica e tempo – in tutto sette libri, di cui tuttavia sono stati pubblicati solamente i primi tre (Stiegler 2018) –, La colpa di Epimeteo contiene il nucleo più strettamente teorico del pensiero di Stiegler, ossia la proposta di rendere la «techne il terzo incomodo tra Natura e Cultura, ma anche tra physis e bios» prendendo quindi in considerazione «contro o al di là della tradizione filosofica, […] questo “altro inorganico”, ossia la materia degli enti tecnici. Si tratta, per Stiegler, della materia inorganica che, nell’essere organizzata dall’uomo, inventa e reinventa costantemente e dall’interno la natura di quest’ultimo, rendendo impossibile stabilire quelle opposizioni dicotomiche di cui si nutre la metafisica occidentale» (Vignola 2023, p. 11). Se fin «dalla sua stessa origine, e fino a ora, la filosofia ha rimosso la tecnica come oggetto di pensiero» (Stiegler 2023, p. 45), l’intento di Stiegler è «pensare in un unico movimento (l’“origine” della) tecnica e (l’“origine” dell’) uomo» (p. 175). Tale movimento – già rintracciabile nella différance derridiana, di cui Stiegler offre una rilettura originale – non si limita a concepire la tecnica come rottura all’interno della vita pura in generale (Derrida 2021), quanto di indicare in questa rottura la genesi stessa dell’uomo come «continuazione della vita con altri mezzi rispetto alla vita» (Stiegler 2023, p. 64). In altri termini, l’uomo compare nel momento in cui compare la tecnica e viceversa. Questa correlazione rappresenta per Stiegler la particolarità dell’homo sapiens, aspetto che forse Derrida avrebbe ritenuto ancora troppo tradizionale (Derrida 2020).
Debitrice di Derrida (Derrida 2015) è invece la strategia messa in atto da Stiegler di leggere in maniera decostruttiva il rapporto che la filosofia occidentale ha intrattenuto – o, meglio, non intrattenuto – con la tecnica, da sempre relegata al polo deteriore di ogni dicotomia, quello fuori dal privilegio spirituale del logos, senza assurgere mai quindi alla piena dignità di una questione filosofica. L’obiettivo è perseguito in particolare attraverso un’approfondita lettura di Heidegger, di cui il titolo della serie – Tecnica e tempo, da accostare a Essere e tempo – sembra essere testimone. Ciò è dovuto alla posizione teorica di Heidegger, a cui Stiegler ascrive il merito di aver indicato l’insufficienza di una «definizione strumentale e antropologica della tecnica» (Heidegger 1976, p. 5). Nell’ottica del filosofo francese, Heidegger non avrebbe tratto tutte le conclusioni del passaggio da una considerazione di quest’ultima come semplice mezzo alla comprensione della sua importanza ontologica: la tecnica rimane comunque identificata come il polo deteriore all’interno della dicotomia con la physis, su cui la tecnica si imporrebbe con violenza. Heidegger rappresenta quindi il pensiero che più di tutti va affrontato e decostruito per ottenere una più profonda comprensione della tecnica. Se per Heidegger alla tecnica è escluso il ruolo di originario, lo scopo di Stiegler è proprio quello di «pensare il tempo nell’orizzonte di una tecnicità originaria come oblio originario dell’origine» (Stiegler 2023, p. 52).
Se tale lettura verrà completata nella seconda parte, la prima, L’invenzione dell’uomo, ne prepara il terreno. Proprio in quest’ultima, attraversando autori come Gille, Simondon, Rousseau e Leroi-Gourhan, Stiegler realizza il definitivo distacco dalla “definizione strumentale della tecnica”. Ciò permetterà di rileggere la tecnica come materia inorganica organizzata, tertium tra materia e forma capace di incrinare l’ilemorfismo, il quale oppone ad una materia inerte e docile la superiorità del logos sovrano che la plasma. Come nel Derrida della Grammatologia, anche qui Rousseau è preso come fulgido esempio delle configurazioni storiche di questa opposizione, diventando il simbolo dell’uscita dell’uomo dalla purezza dello stato di natura. Ecco che la lettura di Rousseau permette così a Stiegler di indicare «per antitesi come tutto ciò che è nell’ordine di quello che di solito si considera propriamente umano sia immediatamente e irrimediabilmente legato a un’improprietà, a un processo di “supplementazione”, protesizzazione o esteriorizzazione, […] dove tutto è mediatizzato e strumentalizzato, tecnicizzato, disequilibrato» (p. 174).
Ciò può avere un valore deteriore soltanto qualora si leggano queste parole alla luce di una comprensione dell’oggetto tecnico come semplice strumento. Qualora invece ci si volga, come fa Stiegler, verso Leroi-Gourhan, si arriva a vedere la questione in altri termini: lo sviluppo della selce è inscindibile dallo sviluppo della corteccia cerebrale; proprio questo «rapporto co-evolutivo dell’uomo e della tecnica» (Vignola 2023, p. 31) è il livello in cui Stiegler situa la différance. Se l’intento di questa prima parte consisteva nell’invenzione dell’uomo, la rilettura della différance permette di approfondire la questione: come va intesa l’ambiguità del genitivo nell’espressione “l’invenzione dell’uomo”? Fra la tecnica e l’uomo, chi occupa il posto del “chi” e del “cosa”? Ecco che la différance permette di pensare al rapporto tra questi termini evitando di dare il primato, qualunque esso sia, a uno dei due: non c’è “chi” senza “cosa”, non si dà cioè un’interiorità spirituale che, intatta e già completamente realizzata, si volge all’esterno per modellarlo. Semmai, quanto appena detto va compreso come il risultato di un unico processo, i cui risultati sono quindi dipendenti, e non opposti, l’uno dall’altro. Come conclude molto chiaramente Stiegler, «l’interno è inventato da questo movimento: non può quindi precederlo. Interno ed esterno si costituiscono quindi in un movimento che li inventa entrambi: un movimento in cui si inventano l’uno nell’altro, come se ci fosse una maieutica tecno-logica di ciò che chiamiamo uomo» (Stiegler 2023, p. 184). L’uomo quindi esteriorizza, tramite lo strumento tecnico, un’interiorità che non preesiste a questa stessa esteriorizzazione.
Epifilogenesi è il nome che viene dato a questa dinamica, ossia lo strappo che separa la nascita stessa e lo sviluppo dell’uomo dalla pura vita organica per affidarlo costitutivamente al tecnico. Se lo strumento tecnico è esteriorizzazione, protesi, questo è per Stiegler memoria esteriorizzata. Ciò significa che accanto alla memoria genetica della specie, e a quella epigenetica dell’individuo, si pone il terzo termine della memoria epi-filo-genetica, cioè appunto lo strumento tecnico, «l’accumulo ricapitolativo, dinamico e morfogenetico (filogenesi) dell’esperienza individuale (epi)» (p. 218) indicando così «la comparsa di una nuova relazione tra l’organismo e il suo ambiente, che è anche un nuovo stato della materia: se l’individuo è una materia organica e quindi organizzata, il suo rapporto con l’ambiente (con la materia in generale, organica e inorganica), quando è un chi, è mediato da questa materia organizzata anche se inorganica che è l’organon, lo strumento con il suo ruolo istruttore (il suo ruolo di strumento), il cosa. È in questo senso che il cosa inventa il chi tanto quanto è inventato da esso» (ivi). Di conseguenza, se non è possibile parlare dell’uomo senza le sue protesi tecniche, e se queste rappresentano la sua memoria epifilogenetica, ciò segnala non solo l’impossibilità di ridurre lo strumento a mezzo, ma anche l’obbligo di concepire la temporalità a partire dalla sua stessa articolazione tecnica, cioè «pensare la relazione tra essere e tempo come una relazione tecno-logica, se è vero che essa si tesse unicamente nell’orizzonte “originario” della tecnica» (p. 175).
La prima parte del testo si chiude, quindi, con la messa in campo di questi strumenti teorici, introducendo così una lettura decostruttiva di Heidegger, compiuta nella seconda e ultima parte del testo. Essa sarà volta a rintracciare in Heidegger l’estremo esempio dell’esclusione della tecnica dal pensiero, dove vengono opposti il «tempo del calcolo (tempo inautentico della misura, del tentativo di “determinare l’indeterminato”) e [il] tempo autentico come rapporto alla morte» (p. 220). Ma Stiegler non si ferma a questo punto, in piena consonanza con l’eredità del maestro (Derrida 1997, 2010) bensì ricava dalla decostruzione di questi concetti heideggeriani lo spazio per un’analitica esistenziale della tecnica, «un’analisi della protesicità» (Stiegler 2023, p. 2020) capace di mostrare come lo strumento tecnico sia inscritto nella costituzione stessa dell’esserci.
Questa nuova analitica della protesicità non potrà più fondarsi, come in Heidegger, sulla favola di Igino, che rintraccia nella Cura la costituzione fondamentale dell’esserci (Heidegger, 2005a, §42), bensì sul mito di Prometeo, e in particolare sulla figura del fratello Epimeteo. Nel mito, e specialmente nella versione del Protagora platonico, Stiegler ravvisa il «legame originale» (Stiegler 2023, p. 223) che tiene uniti tecnica e tempo. Se può stupire che Heidegger non abbia mai parlato di questo mito, se non in maniera cursoria (Heidegger 2005b), maggiormente colpisce la dimenticanza della figura stessa di questo oblio, Epimeteo. È proprio nella vicenda del mito che Stiegler vede la conferma e l’approfondimento di quanto trattato finora: la nascita dell’uomo è dovuta alla colpa di Epimeteo, che dimentica di fornire all’uomo le δυνάμεις per vivere, donandole tutte agli altri animali. Questa dimenticanza è l’origine dell’uomo: «all’origine ci sarà stato solo il difetto, che è appunto il difetto d’origine e l’origine come difetto» (Stiegler 2023, p. 228). Ma Epimeteo, “colui che pensa dopo”, figura della dimenticanza e dell’oblio, è soltanto uno dei due poli dell’origine: questa mancanza viene raddoppiata dall’accorto fratello Prometeo che, rubando il fuoco, dona la tecnica all’uomo. Questo dono porta con sé i tratti del suo donatore: tramite la tecnica l’uomo si costituisce, può prevedere e progettare il proprio esistere, essendo entrato nel tempo. Ecco che il dono di progettare, quel legame che Heidegger rintraccia tra il Dasein e la propria la morte, non viene soltanto legato alla tecnica, ma indicato altresì come risultato di questo oblio, cioè la colpa di Epimeteo. Il tecnico si riconferma così come inscindibilmente legato alla temporalità, questa declinata nelle figure dei due fratelli come oblio e preveggenza, ma quindi anche come mortalità. Se Heidegger si incentra, per il privilegio dell’essere-per-la-morte e quindi del futuro, sul lato Prometeico dell’esserci, la lettura di Stiegler del testo heideggeriano punterà a rintracciare l’originario oblio epimeteico. Porre questo oblio all’origine dell’uomo significa, seguendo il mito, mostrare l’impossibilità di una separazione netta tra l’autentico e l’inautentico, cioè tra costituzione dell’esserci e tecnica. In altre parole, questo oblio rappresenta l’origine della stessa “storia dell’essere”, di cui la tecnica non è l’esito ma la condizione di possibilità: la condizione del fatto che ci sia, in generale, una storia: «la fatalità dell’eredità è il significato profondo della figura di Epimeteo. Come accumulo di colpe e dimenticanze, come eredità e trasmissione, sotto forma di sapere riflessivo e smemorato, l’epimetheia dà anche il senso della tradizione» (p. 245).
Data la recente scomparsa di Stiegler, la traduzione di questo testo ci può aiutare ad affrontare nuovamente, con nuove domande e necessità teoriche, non solo la tradizione filosofica occidentale, bensì anche l’eredità stessa di Stiegler; pertanto, l’apertura del cantiere di traduzione di Tecnica e tempo avrà sicuramente importanti effetti.
Pietro Prunotto
BIBLIOGRAFIA
Derrida, J. (1997). Ousia e grammé. Nota su una nota di Sein und Zeit. in Margini della filosofia. ed. it a cura di M. Iofrida. Torino: Einaudi.
Id. (2010). Dello spirito. Heidegger e la questione. ed. it a cura di G. Zaccaria. Milano: SE.
Id. (2015). La farmacia di Platone. ed. it a cura di S. Petrosino. Milano: Jaca Book.
Id. (2020). L’animale che dunque sono. ed. it a cura di M. Zannini. Santarcangelo di Romagna: Rusconi.
Id. (2021). La vita la morte. Seminario 1975-1976. ed. it. a cura di F. Vitale. Milano: Jaca Book.
Heidegger, M. (1976). La questione della tecnica. in Saggi e discorsi. ed. it. a cura di G. Vattimo. Milano: Mursia
Id. (2005a). Essere e Tempo. ed. it. a cura di F. Volpi. Milano: Longanesi.
Id. (2005b). L'autoaffermazione dell'università tedesca. In Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976. ed. it. a cura di N. Curcio. Genova: Melangolo.
Stiegler, B. (2018). La technique et le temps. 1. La Faute d’Épiméthée – 2. La Désorientation – 3. Le Temps du cinéma et la question du mal-être. Paris: Fayard.
Id. (2023). La tecnica e il tempo. Vol. 1. La colpa di Epimeteo. ed it. a cura di P. Vignola. Roma: Luiss University Press.
Vignola, P. (2023). Il ritardo dell’anticipazione. in B. Stiegler, La tecnica e il tempo. Vol. 1. La colpa di Epimeteo. ed it. a cura di P. Vignola. Roma 2023: Luiss University Press.
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Sul secolo mistico
Recensioni / Luglio 2021Il campo semantico che gravita attorno alla parola “mistico” è comunemente riferito a riflessioni e, ancor più, a esperienze che sembrano riguardare esclusivamente l’ambito dell’esperienza religiosa o della rivelazione. Il vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani, per esempio, indica come significato primario del termine mistico ciò ch’è relativo alla mistica, una «esperienza di vita interiore che porta il soggetto verso un’intima unione con una realtà superiore, diversa, assoluta, fuori delle forme ordinarie di conoscenza e di esperienza». Poco più avanti, invece, esso è riferito a ciò che potremmo chiamare il “misticismo”, termine con cui s’indicano quegli atteggiamenti e quelle posizioni che interpretano la realtà trascendendo «i dati sensibili» e rapportandoli «con forze soprannaturali». A un primo sguardo, dunque, il termine “mistico” sembra essere direttamente riassorbito nel dominio di pertinenza della mistica e del misticismo, che interseca le sfere del religioso e della metafisica. Uno sguardo più attento, però, è in grado di rivelare una situazione ben più complessa: un filone importante della riflessione filosofica del Novecento ci ha insegnato che con “mistico” si può indicare un’esperienza che non collima necessariamente con questi due significati. E che, anzi, proprio la definizione e l’esplorazione della dimensione aperta da quest’ulteriore esperienza possono condurci al cuore di nodi e problemi teorici cruciali per determinare il senso dell’esperienza umana in genere.
L’ultimo libro di Stefano Oliva, intitolato Il mistico. Sentimento del mondo e limiti del linguaggio, pubblicato per i tipi di Mimesis nel 2021, sembra far propria quest’ultima constatazione, da cui prende le mosse, per proporre un percorso teoretico di ampio respiro e di grande attualità attraverso alcuni fra i principali luoghi teorici del pensiero novecentesco. Come si legge nelle pagine dell’Introduzione, con “Mistico” (la maiuscola ricalca la grafia prediletta dall’autore) si designa qui, innanzitutto e soprattutto, un sentimento «connesso a una specifica modalità di visione del mondo» e «radicato in ciò che più di ogni altra cosa caratterizza la forma di vita umana», ovvero la «facoltà di linguaggio» (p. 9). Tale sentimento non va inteso pertanto nel senso di una rivelazione «riservata a pochi eletti, spiriti elevati o patologicamente eccitabili», bensì dev’essere compreso come una «esperienza paradossale» che «costituisce una possibilità antropologica basilare, inscritta nella stessa articolazione linguistica del pensiero umano» (ibid.). Anche per questo motivo l’interrogazione di Oliva sulla specificità dello sguardo mistico è condotta sempre in relazione a ciò che lo distingue dallo sguardo dell’uomo comune.
Il rapporto fra questi due è uno dei fil rouge più evidenti del libro, continuamente ripreso fino al capitolo conclusivo, in cui l’autore sancisce che la differenza fra il sentimento mistico e lo sguardo comune è dovuta alle rispettive modalità di relazione al mondo che essi dischiudono (cfr. p. 94-98). Più precisamente, nella prospettiva istituita e indagata da Oliva il Mistico possiede alcuni caratteri che in filosofia sono stati a lungo «attribuiti all’esperienza estetica», ovvero «i tratti della riuscita e del compimento» (p. 96). Uno degli aspetti che contraddistinguono la modalità propria del Mistico è, infatti, quello della finalità senza fini, che almeno da Immanuel Kant in poi ha rappresentato per il pensiero critico ed estetico uno dei segni distintivi del bello. Per esempio, immerso nel sentimento mistico è, come si legge nel testo, il camminatore che avanza «con la gratuità di chi è senza meta e può così dedicarsi semplicemente al fatto stesso di camminare» (p. 95), di chi cammina, a rigore, “senza perché”. Similmente, osserva Oliva, l’osservazione del mondo sub specie artis «vuol dire vederlo al di fuori dei consueti interessi pratici che indirizzano la nostra attenzione» (p. 96). Per tale motivo la locuzione “senza perché”, che ricorre sovente in relazione al tema del mistico (in particolare nella mistica renana), possiede una «risonanza» potente con l’ambito estetico e permette pertanto di comprendere il Mistico come un’esperienza la cui possibilità è radicata nella struttura esistenziale dell’essere umano.
Il quotidiano e il Mistico, in altre parole, divergono per atteggiamento, per modalità, e non per essenza, ontologicamente. Così, a nostro avviso il libro di Oliva si propone come una riflessione sul secolo Mistico nel duplice senso cui la parola secolo può rinviare: da una parte, il periodo di riferimento principalmente (ma, come vedremo, non esclusivamente) indagato dall’autore, ovvero il pensiero filosofico del Novecento che sul Mistico è ritornato in numerose circostanze; e, dall’altra, il Mistico nel suo radicamento nella dimensione della quotidianità, dunque di ciò ch’è secolare in quanto contrapposto alla vita spirituale, religiosa o ultraterrena.
Nel primo dei sette capitoli che strutturano il testo, Oliva riprende appunto la distinzione citata in apertura fra mistico, mistica e misticismo per impostare la propria indagine. Questa necessaria operazione preliminare di precisazione terminologica è condotta con riferimento alle opere di Michel de Certeau e alla sua analisi della mistica, ad alcune note di Bertrand Russell sul tema del misticismo e ad alcuni passi di Ludwig Wittgenstein. È il pensiero di quest’ultimo, infatti, a costituire la stella più luminosa della costellazione filosofica che guida il testo: dalle pagine del filosofo austriaco è possibile ricavare strumenti teorici accuratissimi per affrontare una lettura rigorosa e profonda del secolo mistico poiché troviamo in esse, formulato con la massima radicalità, il problema cruciale incarnato dall’esperienza-limite del mistico, quel «sentimento del mondo come totalità delimitata» (Tractatus Logico-Philosophicus, prop. 6.45) indagato da Oliva. Dal momento che l’intenzione di quest’ultimo è di non relegare il Mistico esclusivamente alla sfera dell’estatico e del religioso per indagarlo piuttosto nel campo del quotidiano e, più generalmente, per cogliere il senso ch’esso può rivestire in riferimento alla struttura esistenziale dell’essere umano, allora è proprio Wittgenstein il filosofo che ha inaugurato tale pista interpretativa e più di tutti ha saputo ricavare dall’esperienza del mistico un inedito e proficuo angolo prospettico per osservare la costituzione dell’animal loquens. Tale proficuità è dimostrata dall’autore anche nel capitolo successivo, che insiste e scava ancor più profondamente nella filosofia di Wittgenstein mostrando come non siano soltanto i passi più noti ch’egli dedica al tema del Mistico – con riferimento a das Mystische che appare nelle celebri proposizioni finali del Tractatus Logico-Philosophicus (1921) – a rappresentare un terreno di confronto fruttuoso per una simile indagine, ma rilevando la persistenza, composta beninteso pure attraverso tensioni e slittamenti, di problemi affini a quelli del Mistico anche nella sua produzione successiva, riferendosi per esempio alla Conferenza sull’etica (1929) e ad alcuni passi delle Ricerche filosofiche (1953). Infatti, le occorrenze del Mistico presenti nelle proposizioni finali del Tractatus, che, sottolinea Oliva, si configurano sia in forma di sostantivo sia in luogo di aggettivo (cfr. p. 24), sembrano riflettere e, insieme, istituire i limiti fra il mondo e l’ineffabile lasciando aperto il problema di un sentimento «senza soggetto e senza oggetto, ma che non per questo perde la propria specifica connotazione affettiva» (p. 27). In altre parole, il Mistico nel Tractatus appare connesso a una «visione del mondo sub specie aeterni» (p. 35) senza però che la dimensione dischiusa da quest’ultima sia esplorata fino in fondo, in linea con l’ultima proposizione dello stesso Tractatus la quale prescrive di tacere su ciò di cui non si può parlare. In tal senso, il Mistico rinvia qui a un’esperienza pre-logica, al di qua del linguaggio e al limite del mondo, che precede ogni possibile analisi logico-filosofica. Nel “secondo Wittgenstein”, invece, pur diradandosi i riferimenti espliciti al mistico (in merito cfr. p. 84), sono presenti talvolta passi e considerazioni in cui sembra affiorare una configurazione logica e problematica simile a quella che scaturisce da esso – come nella Conferenza sull’etica, dove il filosofo austriaco si confronta col sentimento di stupore per l’esistenza del mondo e con quello di assoluta sicurezza. Secondo Oliva, la distinzione e la «divaricazione» fra queste due fasi del pensiero wittgensteiniano in merito alle configurazioni problematiche ingenerate dal mistico «si gioca sul terreno logico e modale» (p. 30): il mistico del Tractatus si lega alla «contingenza del mondo […] vista come necessità» (p. 35), mentre la meraviglia per l’esistenza del mondo è un sentimento riconducibile alla “possibilità” dell’esistenza del mondo.
Col terzo capitolo Oliva tenta quasi una prosecuzione delle riflessioni wittgensteiniane attraverso i testi di Simone Weil, autrice che, pur apparendo molto lontana dai temi e dai problemi affrontati dal filosofo austriaco, sembra possedere nondimeno alcuni punti di contatto singolari con la sua produzione che riguardano perlopiù il tema dell’impersonalità e dell’indipendenza dalla forma soggettiva. In primo luogo, la prospettiva adottata dall’autore rileva nel concetto weiliano di persona impersonale «una delle possibili traduzioni» del Mistico wittgensteiniano poiché ne specifica un aspetto caratteristico. Nel Mistico, infatti, sarebbe esibito un «divenire-mondo» dell’individuo che, «coinvolto in un simile processo trasformativo», giunge a deporre la forma soggettiva, «il proprio Io», per divenire «impersonale […] ‘morendo’ come persona» (pp. 40-41). La configurazione logico-sentimentale del mistico, dunque, possiede un carattere impersonale che Weil sembra esplorare laddove l’analisi di Wittgenstein si arresta molto prima. In secondo luogo, nel «sentimento di realtà» che secondo Weil accompagna l’esperienza mistica si ravvisa un movimento concettuale analogo a quello presente nell’analisi wittgensteiniana poiché, similmente a quanto accade per quest’ultimo, nel sentimento di realtà «non vi è più un soggetto che stia lì a provarlo» e, «liberato dalle profondità interiori entro cui viene abitualmente relegato» tale sentimento sprigiona la propria «natura effusiva e atmosferica» (p. 43). Occorre aggiungere, infine, come rileva puntualmente Oliva, che questi accostamenti sono resi possibili anche dai lavori di alcuni allievi di Wittgenstein, come Maurice O’Connor Drury, Drush Rees e Peter Winch, che hanno in qualche misura favorito l’evidenziazione di prospettive teoriche inedite fra le posizioni dei due autori.
Nel quarto capitolo è soprattutto Jacques Lacan a figurare come l’intercessore privilegiato del percorso sulle tracce del Mistico compiuto da Oliva. Da una parte, lo psicoanalista francese ha disseminato qui e lì nel proprio insegnamento e nei propri scritti riferimenti e considerazioni su questo tema. In merito si possono ricordare, per non fare che qualche sparuto esempio, tanto l’affermazione contenuta nel Seminario XX secondo cui i suoi scritti apparterrebbero all’ordine della mistica, quanto le sezioni del medesimo in cui riflette su desiderio e godimento a partire dal Camino de Perfección di Teresa d’Avila, dalla mistica di Hadewijch di Anversa e san Giovanni della Croce; tanto il commento ad alcuni brevi passi del Peregrino Cherubico di Angelus Silesius nel Seminario I, quanto l’idea che l’accesso al godimento sia accessibile soltanto alla mistica esposta fulmineamente con la consueta allusività durante il corso del Seminario VI. Dall’altra parte, invece, la nozione lacaniana di «Reale» e l’insistenza con cui, almeno a partire da un certo momento, egli vi ritorna per svilupparla, rivela dei tratti e delle sfumature che collimano con i caratteri del Mistico indagati da Oliva in questo libro. Entrambe le nozioni, infatti, si situano aldilà di ciò che cattura e costituisce la rete del simbolico e del linguistico; entrambe si determinano come un punto cieco degli strumenti categoriali che il soggetto utilizza per la propria autopoiesi e per la strutturazione del mondo; entrambe sembrano implicare un sentimento, un modo di sentire, come testimoniato dall’analisi della «gioia dolorosa» osservata da Simone Weil (punto di partenza concettuale del capitolo) e dal godimento indagato da Jacques Lacan; entrambe, infine, come mostra Oliva passando attraverso e riformulando un accostamento di Alain Badiou, possono essere accostate grazie al concetto lacaniano di matema, il cui «contatto con il reale […] condivide con il Mistico l’individuazione dei limiti del linguaggio come operazione che ha luogo all’interno del linguaggio stesso» (p. 63). Un paragrafo del medesimo capitolo, inoltre, compie un breve détour che ha per oggetto il «non-sapere» di Georges Bataille, inquadrato criticamente attraverso alcune annotazioni di Alexandre Kojève – secondo il quale è contraddittorio, come fa Bataille, contrapporre l’«esperienza interiore» alla «speculazione filosofica» determinando una sorta di ritiro al di qua della parola per parlare del quale, tuttavia, è necessario l’uso del linguaggio. Secondo Oliva, in tal modo Bataille «scade nel misticismo», secondo l’accezione prima osservata, poiché, diversamente dal Mistico «inteso come mossa integralmente filosofica di ‘interruzione della filosofia’», le sue posizioni compiono un «un passo oltre l’“estremo del possibile”», terreno dove non può darsi alcun progetto, foss’anche «quello di uscire dal campo del progetto» (p. 53).
La sezione successiva, invece, osserva le riflessioni di Martin Heidegger relative alle «tonalità emotive», seguendone le vicissitudini, gli avanzamenti e gli slittamenti sino a sorprendere nel concetto di Stimmung «il limite del domandare e del chiedere ragioni» (p. 79). E il sesto capitolo prende le mosse da questo limite per far ritorno ancora una volta a Wittgenstein e per considerare le proposizioni contenute nella sua ultima grande opera – Della certezza (pubblicata postuma nel 1969) – rilevandone alcune possibili consonanze proprio con la fenomenologia heideggeriana della tonalità emotiva. Tanto nell’indagine heideggeriana sulle tonalità emotive fondamentali – come l’angoscia che appare in Essere e tempo (1927) e in Che cos’è metafisica? (1929) o la noia abbordata nel corso I concetti fondamentali della metafisica (1929-1930) – quanto la riflessione dell’ultimo Wittgenstein, infatti, a tenere banco sono la questione dei limiti del linguaggio e quella della visione del mondo «come tutto concluso» (p. 80). Entrambe “compendiate” nella lettura del Mistico esposta al termine del Tractatus, tali questioni sembrano risuonare in numerosi luoghi degli itinerari filosofici dei due autori, conducendo il lettore al settimo e ultimo capitolo, di cui abbiamo anticipato precedentemente alcune argomentazioni, che si conclude riflettendo sulla modalità che abita intrinsecamente il gesto del Mistico. Come abbiamo visto, per Oliva ciò che tiene insieme tutte queste riflessioni apparentemente disparate che vanno dagli albori agli anni conclusivi del XX secolo è l’aver rilevato, osservato, approfondito e studiato una peculiare modalità di guardare il mondo dischiusa dal mistico. Esso si configura pertanto come un gesto che trasforma lo sguardo comune. In questo esso non è un gesto necessariamente filosofico, eppure è di grandissima pregnanza per la disciplina perché esibisce e suscita esemplarmente alcune questioni al centro dell’interrogazione filosofica del Novecento. In ciò il Mistico figura come «un gesto conclusivo che, in una inaspettata inversione del pensiero wittgensteiniano, non aggiunge nulla sul piano del ‘che’ ma modifica – come in un improvviso cambiamento d’aspetto – la determinazione del ‘come’» (p. 96). In altre parole, nel Mistico non è più ciò che vediamo di fronte a noi a determinare il nostro sguardo, ma è quest’ultimo a presentarsi secondo una modalità radicalmente altra.
Ai sette capitoli sin qui osservati, si aggiungono, inoltre, una postfazione a firma di Daniela Angelucci, la quale sottolinea la pregnanza delle argomentazioni di Oliva per il modo in cui quest’ultimo riconfigura ed elabora la «dimensione estetica» connessa al tema del Mistico rivendicandone «la pesantezza, la necessità, la solidarietà con gli aspetti essenziali della nostra vita» (p. 123); e, soprattutto, un denso Post-scriptum sul quale vogliamo soffermarci per terminare le nostre considerazioni. In questa sede, infatti, Oliva prolunga ulteriormente la riflessione sul “secolo mistico” mostrando la persistenza dell’interesse per il mistico nella filosofia contemporanea più recente.
Il poscritto inquadra il prepotente ritorno, sulla scena filosofica mondiale degli ultimi quindici-venti anni, di posizioni che a vario titolo si richiamano al realismo (dal nuovo realismo di Maurizio Ferraris al realismo speculativo di Graham Harman) concentrandosi in particolar modo su Quentin Meillassoux e il suo libro Dopo la finitudine (2006). La critica al «correlazionismo» avanzata da quest’ultimo, infatti, giunge a considerare il Mistico e dipingerlo come una figura affatto rivelatrice, a suo dire, di alcuni esiti estremi cui la filosofia correlazionista del Novecento può dar luogo. Il Mistico, rileva l’autore, «diviene nelle pagine di Meillassoux la figura di una riduzione della filosofia a pietas, in cui l’accettazione dei limiti della pensabilità si traduce in una apertura nei confronti della credenza irrazionale e del fanatismo» (p. 103). Eppure, a ben vedere, grazie a un’argomentazione puntuale, Oliva rovescia le posizioni del filosofo francese mostrando che, contrariamente a quanto egli afferma, ciò ch’è contenuto nella declinazione wittgensteiniana (quella considerata da Meillassoux) del Mistico «non è il frutto scettico-fideistico del correlazionismo forte», bensì, piuttosto, «l’incarnazione di un realismo ancor più radicale di quello speculativo» (p. 108). Tale rovesciamento è operato da Oliva attraverso la dimostrazione che la maniera adottata da Meillassoux per inquadrare il Mistico (o, perlomeno, la sua declinazione wittgensteiniana) è viziata da un errore piuttosto vistoso. Il filosofo di Vienna, infatti, «non ha mai inteso il Mistico in maniera diversa da un assoluto» (p. 106) e dunque comprenderlo come l’esito di una posizione correlazionista vuol dire, in realtà, non averlo compreso affatto. Il poscritto si chiude con una riflessione che prende le mosse dalla constatazione di Badiou secondo cui in Wittgenstein si disvela il compimento di un atto teorico definibile come «arci-estetico» (cfr. p. 110) e gettare le basi per la formulazione di un «realismo mistico» o «estetico» (p. 113).Il mistico è un testo decisamente rilevante per numerosi problemi che interessano e abitano il dibattito filosofico contemporaneo. Essi vanno dal rapporto fra l’uomo e il mondo, in un’epoca di globalizzazione e crisi ecologica in cui diventa sempre più urgente la riflessione sulle modalità in cui esso si realizza, all’interrogazione della specificità dello sguardo estetico contemporaneo; dalla diatriba contemporanea sui nuovi realismi, sui correlazionismi e sul senso del filosofare oggi, alla discussione dell’eredità filosofica consegnataci dal Novecento; dalle nuove possibili configurazioni della teoria psicoanalitica, alla questione, sempre aperta, relativa ai limiti del linguaggio. Il libro di Oliva pone così il lettore di fronte a un’esperienza radicale, e lo invita a riflettere sui possibili sensi che la determinano e che a partire da essa si dipanano, fedele all’esigenza filosofica di riflettere sui limiti che ci attraversano e ci costituiscono.
di Claudio D'Aurizio
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#philosophers #5 – Tonino Griffero
#philosophers, Serial / Marzo 2016Nella quinta puntata di #philosophers, abbiamo incontrato Tonino Griffero, professore di Estetica presso l'Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Abbiamo discusso di libri che cambiano la vita, atmosfere, Nuova Fenomenologia e "Quasi-cose".