-
Nella prefazione delle Ricerche filosofiche, Ludwig Wittgenstein fornisce al lettore due coordinate fondamentali. In primo luogo, Wittgenstein scrive che quest’opera avrebbe dovuto essere pubblicata insieme al Tractatus, perché è solo e unicamente attraverso il confronto con tale lavoro che i nuovi pensieri possono ricevere la giusta luce. In secondo luogo, egli spiega che i “difetti” che contraddistinguono il suo lavoro – l’assenza di sistematicità, l’approssimazione nella formulazione delle idee, l’incapacità di approdare a un’elaborazione compatta - non sono dei veri difetti, e anzi dipendono dalla natura stessa della ricerca che egli intendeva perseguire. Se l’“essenza” del linguaggio non è una unità formale che giace al di sotto dei fenomeni linguistici ma l’insieme multiforme degli usi che ne facciamo e che possiamo farne, il testo filosofico non può che configurarsi come una raccolta di “schizzi paesistici”.
Limitarsi a descrivere è così difficile perché si crede che per comprendere i fatti sia necessario integrarli. È come se uno vedesse uno schermo su cui sono sparse delle macchie di colore e dicesse: così come sono, sono inintelligibili; acquisteranno senso solo se le si integra in una figura. - Mentre quello che io voglio dire è, invece: è tutto qui. (Se lo integri, lo snaturi). (BPP I 257)
Per analogia, si potrebbe dire che le osservazioni filosofiche composte da Wittgenstein dal ritorno a Cambridge nel 1929 fino alla sua morte nel 1951 sono simili a tali macchie di colore su uno schermo. Integrare una parte consistente di queste macchie di colore per estrapolare qualcosa come “la riflessione wittgensteniana sul mentale” corre, dunque, il serio rischio di snaturare tale riflessione. Seguire le tracce di tale riflessione e della sua evoluzione costituisce, tuttavia, l’ambizioso obiettivo che sta alla base di Wittgenstein filosofo della mente - il nuovo libro di Rosaria Egidi edito da Quodlibet.
Se, nonostante la complessità, l’obiettivo viene perseguito con successo, ciò dipende, in prima istanza, dalla flessibilità della struttura del libro. Se è vero, infatti, che l’analisi segue un andamento cronologico - le prime due parti sono dedicate al cosiddetto “Wittgenstein intermedio”, mentre le due parti finali vertono sulla fase più matura della produzione filosofica wittgensteiniana - i capitoli e i paragrafi in cui queste quattro parti si strutturano esaminano da vicino tutti i singoli “nodi” [1] che impegnano Wittgenstein nella sua problematizzazione del mentale. Il successo dipende, in seconda istanza, dalla consapevolezza, dichiarata a più riprese dall’autrice, dell’impossibilità di disgiungere completamente il tema del mentale dagli altri temi che compongono il panorama filosofico dell’opera di Wittgenstein. L’“estrapolazione” di cui si parlava sopra, dunque, è un’estrapolazione solo presunta. Filosofia del linguaggio, filosofia della matematica e filosofia della mente risultano annodati “in una trama inestricabile” [2]. Di qui, ad esempio, l’ampia sezione dedicata ai “Paradossi filosofici del Regelfolgen” nella terza parte, che pur se non direttamente connessa all’area della filosofia della mente, dota il lettore dell’orizzonte di senso e dello strumentario concettuale fondamentali per comprendere appieno gli argomenti “classici” della psicologia filosofica wittgensteniana affrontati nelle sezioni successive.
La filosofia della psicologia - fa notare Rosaria Egidi - è da sempre presente negli scritti di Wittgenstein. Nel Tractatus essa viene etichettata come “Teoria della conoscenza” e viene radicalmente distinta dalla psicologia intesa come scienza naturale della natura umana. La filosofia, dice chiaramente Wittgenstein, nel Tractatus, non è una scienza naturale. La filosofia è “qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali” (4.111). Ciò deve valere anche per la filosofia della psicologia. Al di là di questa dichiarazione programmatica (e di qualche breve scambio polemico con la concezione russelliana degli atteggiamenti proposizionali), comunque, la teoria della conoscenza non viene, in questa prima fase, ulteriormente elaborata. Eppure, prosegue l’autrice, la riflessione sul mondo mentale, nella forma specifica dell’analisi dei fenomeni dell’esperienza immediata, costituisce il terreno su cui emergono i primi grandi sconvolgimenti della logica vero-funzionale del Tractatus. È costitutivamente impossibile, infatti, nota Wittgenstein già in Some Remarks on Logical Form (1929), catturare le relazioni logiche delle forme proposizionali relative ai colori, alle proprietà dello spazio visivo e ai suoni secondo i requisiti di indipendenza e non contraddittorietà che tale logica imponeva. Occorre dunque integrare la logica filosofica del Tractatus con una logica nuova. Occorre riconoscere che la logica delle funzioni di verità è solo una parte della sintassi comprensiva di un linguaggio fenomenologico - di una sorta di “Begriffsschrift” del contenuto sensoriale e rappresentazionale dell’esperienza - di un linguaggio primario che conferisce senso e struttura al linguaggio secondario che impieghiamo quotidianamente nei nostri scambi ordinari. Ma sarà, ancora una volta, l’approfondimento della questione sul mentale - nella forma specifica della questione dell’esperienza immediata -, a portare Wittgenstein a rigettare come un assurdo l’idea stessa di un linguaggio fenomenologico: dal momento che i fenomeni dell’esperienza immediata si sottraggono a ogni determinazione spazio-temporale e sfuggono, costitutivamente, alla logica dell’appartenenza a un determinato possessore, il concetto stesso di linguaggio fenomenologico diviene una contraddizione in termini, giacché il linguaggio, in quanto tale, è inevitabilmente un linguaggio discorsivo. “Il mondo dei dati” - chiosa l’autrice - “è essenzialmente un mondo senza linguaggio” [3]. Significativamente, nel cosiddetto Big Typescript, successivo di qualche anno rispetto a questi primi tentativi di autocritica, l’area tematica della psicologia filosofica viene designata con il termine di “grammatica”. Questo slittamento di terminologia nell’approccio ai problemi del mentale - dalla “Erkenttnisstheorie”, alla “Phänomenologie”, alla “Grammatik” - segna una svolta fondamentale sul piano dell’evoluzione filosofica. Da adesso in poi, comincia ad apparire sempre più chiaro che il grande problema del Tractatus non risiedeva tanto nel tipo di linguaggio primario con cui occorreva sostituire il linguaggio ordinario per portare alla luce la sua forma nascosta, ma nell’idea stessa che ci fosse qualcosa da sostituire. Non dobbiamo, sostiene ora Wittgenstein, postulare due sistemi di linguaggio, l’uno primario e l’altro secondario, che si riferiscono a due specie di oggetti radicalmente differenti, gli uni sensoriali e gli altri fisici; dobbiamo, piuttosto, cessare di pensare che il significato dei dati sensoriali dipenda dal riferimento a un qualche tipo di oggetto [4] e rivolgerci, piuttosto, alle regole grammaticali che definiscono l’uso delle espressioni con cui, nel linguaggio ordinario, parliamo di sensazioni, emozioni, pensieri e intenzioni, e così via. Non abbiamo bisogno di costruire un linguaggio filosofico artificiale che sia in grado di chiarire la struttura dell’esperienza presente. Abbiamo bisogno di una visione chiara del nostro linguaggio. Abbiamo bisogno di rappresentarlo perspicuamente.
Non possiamo parlare dell'immagine visiva più di quanto non faccia il nostro linguaggio. E non possiamo nemmeno intendere (pensare) più di quanto il nostro linguaggio riesca a fare (non intendiamo più di quanto possiamo dire). (BT §101)
L’indagine sulle regole d’uso del nostro linguaggio, la conoscenza di queste regole e la loro rappresentazione perspicua (übersichtliche Darstellung), equivalgono ovvero fanno la stessa cosa di ciò che spesso si vuole fare/raggiungere con la costruzione di un linguaggio fenomenologico. (MS 114, 27)
Questa svolta - la “svolta grammaticale”, la definisce a più riprese Rosaria Egidi nel corso del testo - apre la stagione della formulazione più matura della filosofia della mente wittgensteiniana. Di qui le riflessioni sulla grammatica intransitiva e anti-referenzialista del linguaggio delle esperienze personali, sulla grammatica dell’intenzionalità, sull’asimmetria tra gli asserti in prima persona e gli asserti in terza persona sul linguaggio delle sensazioni, sull’espressivismo linguistico, sulla distinzione tra disposizioni e stati, sul solipsismo, sull’impossibilità del linguaggio privato e di una definizione ostensiva privata, e molto altro ancora.
Non è mia intenzione ripercorrere, in questa sede, la ricostruzione dettagliata che Rosaria Egidi fa di ciascuno di questi snodi teorici nelle 700 pagine e più che compongono il volume e che riflettono un percorso di studio svolto nell’arco di una vita. Mi limiterò a mettere in risalto alcuni dei punti di forza che fanno di questo testo non soltanto una chiave d’accesso di grande valore per coloro che sono nuovi alla filosofia della mente che si delinea nell’opera di Wittgenstein, ma anche un contributo significativo per i lettori “più navigati”.
Il primo di tali punti di forza, a mio avviso, è l’impiego sistematico di un approccio, per così dire, “genetico-filologico”. L’autrice non si limita a fondare le sue interpretazioni su precisi riferimenti testuali, ma mostra anche di riservare una attenzione scrupolosa alle vicende che contraddistinguono la composizione dei manoscritti e dei dattiloscritti che figurano nel Nachlass. A prescindere dal valore dell’interpretazione dei passaggi di volta in volta menzionati, riportare le osservazioni al contesto originario consente all’interprete di collocarsi nella giusta prospettiva per poter effettuare le proprie valutazioni nelle migliori condizioni possibili. Naturalmente, tale principio vale, o dovrebbe valere, per il pensiero di qualsiasi filosofo, ma vale forse ancor di più per il pensiero di Wittgenstein. Nel caso di Wittgenstein, infatti, prima di poter formulare la propria proposta interpretativa su questa o quella osservazione, l’interprete deve comprendere se l’osservazione in questione è un tentativo di chiarificazione che Wittgenstein sta rivolgendo a sé stesso o al lettore, se essa contiene qualcosa che Wittgenstein intende sostenere o se contiene qualcosa che ha sostenuto in passato e ora vuole rigettare e se quella che ci sta parlando è la voce dell’autore o la voce di un qualche interlocutore fittizio. Fare esplicito riferimento ai testi in cui le osservazioni sono riportate e alla collocazione di questi testi nell’orizzonte del Nachlass costituisce una condizione necessaria (per quanto, certo, non ancora sufficiente) per aggirare queste e altre insidie. Tanto per menzionare un esempio di quanto questo modo di procedere sia radicato nel lavoro di Rosaria Egidi, queste sono le parole con cui viene commentata, di sfuggita, l’analisi wittgensteiniana della Farbenmischung, a p. 203: “[…] questa che ho chiamato la versione concettuale della mescolanza di colori appare chiara solo se considerata il punto di arrivo della sequela di passaggi dal I all’VIII volume. È questa una prova, tra l’altro, dell’utilità del ricorso ai manoscritti per far luce sulla scansione degli argomenti e il processo di elaborazione delle analisi wittgensteiniane, non solo su quelle dei colori”.
Un altro importantissimo pregio dell’analisi condotta da Rosaria Egidi è il confronto costante con la storia della filosofia. Una delle ragioni per cui il pensiero di Wittgenstein può risultare molto ostico ai suoi lettori risiede nella difficoltà di comprendere quale sia esattamente il problema filosofico in gioco. Ciò accade perché, come fa notare Stern [5], la preoccupazione principale di Wittgenstein non è l’enunciazione sofisticata dei problemi filosofici e delle soluzioni teoriche a cui conducono, ma il modo (i modi) in cui tali problemi sorgono. Per quanto dunque Wittgenstein sia tutt’altro che un avido lettore dei grandi filosofi occidentali, il confronto con la storia della filosofia puntualmente condotto da Rosaria Egidi può costituire un ottimo varco attraverso cui fare il proprio ingresso nella dimensione problematica dell’autore. Molto calzante, ad esempio, è il confronto con Cartesio e Brentano per delineare la contrapposizione di Wittgenstein alla “Abgeschlossenheit” e alla privatezza degli stati mentali altrui caratteristiche della prospettiva mentalista: Wittgenstein rigetta l’idea del primato della conoscenza della propria mente (Eigenpsychisches) rispetto alla conoscenza del mondo esterno e delle altre persone (Fremdpsychisches) - “quel primato che per Cartesio conferisce il marchio della certezza e dell’indubitabilità alla conoscenza in prima persona e che consente a Brentano di attribuire ai fenomeni psichici l’esclusivo requisito che egli chiama ‘intenzionalità’” [6] - e nega l’idea per cui la conoscenza del mondo esterno e delle altre persone possa essere ottenuta “per analogia” con quella della propria mente. La conoscenza che io ho della mia mente, per Wittgenstein, non è una conoscenza genuina, giacché non può essere messa in dubbio. Nella prospettiva wittgensteiniana, dunque non c’è alcun primato e non c’è alcuna analogia. Ci sono grammatiche differenti. Ci sono criteri di significato e metodi di analisi che sono “incorporati in modi del tutto diversi nei nostri giochi linguistici” (BPP II, §54) e che tuttavia tendiamo erroneamente a omologare.
Il paradosso scompare soltanto se rompiamo in modo radicale con l’idea che il linguaggio funzioni sempre in un unico modo, serva sempre allo stesso scopo: trasmettere pensieri intorno a case, a dolori, al bene e al male, o a qualunque altra cosa. (PU, §304).
Forse la parola “descrivere” si prende gioco di noi. Io dico: “Descrivo il mio stato d’animo” e anche “Descrivo la mia stanza”. Dobbiamo richiamare alla memoria le differenze tra i giochi linguistici. (PU, §290).
L’ascrizione in terza persona delle sensazioni asserisce qualcosa. L’ascrizione in prima persona esprime qualcosa - rimpiazza le espressioni pre-verbali delle sensazioni (grida, esclamazioni, lamenti, sospiri) che abbiamo appreso quando abbiamo appreso l’uso del linguaggio.
Ecco qui una possibilità: Si collegano certe parole con l’espressione originaria, naturale, della sensazione e si sostituiscono ad essa. Un bambino si è fatto male e grida: gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni, e più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore […] l’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive, il grido. (PU, §244).
Una funzione analoga a quella del confronto con la storia della filosofia viene svolta dal confronto con il dibattito corrente. Rosaria Egidi si serve, a più riprese, del confronto con le posizioni contemporanee al fine di (i) elucidare, il più chiaramente possibile, il significato filosofico di alcuni dei movimenti di pensiero messi in opera da Wittgenstein, (ii) illustrare l’impatto che tali movimenti hanno esercitato all’interno del dibattito filosofico contemporaneo [7] e (iii) mostrare come talvolta il pensiero del filosofo austriaco, se correttamente interpretato, contenga implicitamente le premesse per superare l’orizzonte problematico entro cui tale dibattito continua a svolgersi. Un’istanza significativa del punto (iii) è costituita dal confronto tra Wittgenstein e la questione del mito del Dato [8]. Il riferimento diretto, naturalmente, è Empiricism and Philosophy of Mind di Wilfrid Sellars, ma l’autrice menziona anche Strawson, Dummett, Davidson, Evans e Brandom. L’autocritica che Wittgenstein rivolge alla concezione sostenuta nel 1929, durante la breve stagione del suo pensiero in cui aveva assegnato alla fenomenologia il ruolo di una disciplina situata a metà strada tra logica e scienza e avente il compito di descrivere la “Welt der Daten” porta con sé la possibilità di trascendere l’intera questione. Nel percorrere la strada della naturalizzazione delle forme concettuali e quella, diametralmente opposta, della concettualizzazione dei dati sensoriali, Evans e McDowell (e con essi anche tutti quei pensatori che si attestano su posizioni intermedie), avrebbero, nella prospettiva di Wittgenstein, malconcepito il concetto stesso di dato. La prospettiva di Wittgenstein, infatti, “non intende dare alle domande del naturalismo o del trascendentalismo […] una nuova risposta che neutralizzi il mito del Dato”. Essa intende, piuttosto, “riconoscere l’esistenza del mito, la sua pervasività nelle forme del linguaggio in cui sono istituite le vite degli individui e della collettività” [9]. In altri termini, si potrebbe dire, la risposta di Wittgenstein al problema del mito del Dato è che esso non è un affatto un mito. Piuttosto, il Dato - e anzi “i dati” (è la stessa Rosaria Egidi a porre l’enfasi sul plurale [10]) - non sono qualcosa che sta dentro, sotto o dietro ma qualcosa che sta intorno, “nel senso che essi costituiscono il patrimonio di fondo, il background, che non è né vero né falso ma, in quanto depositario di regole del gioco istituzionalizzate, ci permette di distinguere il vero e il falso, il comportamento corretto da quello che non lo è” [11]. Per dirla nella maniera più concisa possibile:
Ciò che si deve accettare, il dato, sono - potremmo dire - forme di vita. (PU, parte seconda, p. 295).
Questi tre aspetti - unitamente al rigore esplorativo, alla presenza costante degli interlocutori filosofici principali di questa fase del pensiero di Wittgenstein (su tutti: James e Carnap), e al confronto con i limiti e i punti di forza che hanno segnato la storia delle interpretazioni filosofiche delle riflessioni di Wittgenstein sul mentale (l’interpretazione di Kripke sulla nozione di regola e sul rapporto di tale nozione con il linguaggio privato, ad esempio) - fanno di Wittgenstein filosofo della mente uno studio di grande spessore e al tempo stesso una risorsa utilissima per tutti coloro che, indipendentemente dal livello di familiarità pregressa, intendano approfondire i temi che compongono la psicologia filosofica wittgensteiniana. L’unico limite che si potrebbe imputare a questo testo è una certa carenza di organicità. Talvolta, leggendolo, si potrebbe avere l’impressione che alla profondità analitica non faccia sufficientemente da contraltare una restituzione dell’orizzonte unitario in cui i singoli problemi sono collocati. Certo, come già messo in luce nella nota introduttiva di questa recensione, questa carenza di organicità rispecchia fedelmente il modo di procedere dello stesso Wittgenstein - la necessità di percorrere una pluralità irriducibile di linee di investigazione “in lungo e in largo e in tutte le direzioni” (PU, prefazione) - e in più riflette, altrettanto fedelmente, la densità di pagine e pagine di manoscritti e dattiloscritti composte nell’arco di più di 30 anni. Eppure, si potrebbe rispondere, un orizzonte unitario, sia pur minimo, potrebbe esserci. Quell’orizzonte unitario, forse, è Wittgenstein stesso - la sua persona, le sue esigenze, le sue sofferenze. Si potrebbe sospettare che la motivazione filosofica profonda al fondo dell’attività filosofica svolta da Wittgenstein - e quindi anche dell’attività filosofica relativa al mentale - risieda in questo: riportare i concetti “a casa”, nel linguaggio ordinario, dove niente è nascosto, per uscire dal tormento a cui la filosofia costringe i filosofi e, in primis, Wittgenstein stesso. Forse, nel non esplicitare tutto questo, Rosaria Egidi è semplicemente più fedele alla lezione del Tractatus: questo ordine di cose non può dirsi, ma può soltanto mostrarsi. È quindi estremamente interessante, credo, notare come questo stesso ordine di cose si mostri, in modo intermittente, nelle pieghe del discorso di Rosaria Egidi. Concludo menzionando una di queste manifestazioni estemporanee, nel bel mezzo dell’analisi che l’autrice conduce sull’argomento wittgensteiniano del linguaggio privato nelle Ricerche filosofiche: “Con la sua confutazione Wittgenstein non intende tuttavia offrire una teoria alternativa ma liberare l’idea stessa di linguaggio privato dai fraintendimenti in cui è invischiato dissolvendo così in un sol colpo i problemi che esso pone. Lo scopo liberatorio che egli persegue il metodo terapeutico da adottare per realizzarlo sono espressi in due frasi lapidarie che compaiono nel testo in modo che può apparire inatteso e tali da figurare come riflessioni fuori contesto. […] L’una frase è posta quasi alla fine come a suggello dei §§243-315: ‘Qual è il tuo scopo in filosofia? - Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola’ (§309); l’altra è collocata quasi all’inizio come a qualificare il metodo terapeutico con cui la filosofia ‘dovrebbe trattare’ i problemi: ‘Il filosofo tratta una questione; come una malattia’ (§255)”.
di Filippo Mosca
Note
[1] Parlo di nodi non a caso. “La filosofia scioglie i nodi del nostro pensiero, che abbiamo aggrovigliato in modo assurdo; ma per farlo, deve compiere movimenti altrettanto complicati dei nodi. Anche se il risultato della filosofia è semplice, i suoi metodi per arrivarci non possono esserlo.” Cf, Big Typescript, §89
[2] Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata, p. 467.
[3] Ibidem, p. 471.
[4] Per dirla con le parole di Rosaria Egidi: “Wittgenstein riconoscerà che nell’adottare il linguaggio fenomenologico come fondamento o base del linguaggio fisico si corre il rischio di essere indotti a costruire i dati come oggetti interni sovrapponendo a essi la terminologia propria dei predicati caratteristici della Dingsprache”.
[5] Stern, D. G. (2004). Wittgenstein's Philosophical investigations: an introduction. Cambridge University Press, p. 74.
[6] Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata, p. 561.
[7] Un esempio importante è il ruolo della nozione wittgensteiniana di “Vorstellung” (rappresentazione) nel confronto tra le teorie rappresentazionali della mente e le teorie normative della mente. Ibidem, pp. 532-536.
[8] Ibidem, p. 608.
[9] Ibidem, p. 608.
[10] Ibidem, p. 606.
[11] Ibidem, pp. 614-15.
Bibliografia
Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata.
Kerr, F. (2006). The Big Typescript TS 213: German-English Scholars’ Edition. International Philosophical Quarterly, 46(3), 372-374. [BT]
Sellars, W. (1956). Empiricism and the Philosophy of Mind. Minnesota studies in the philosophy of science, 1(19), 253-329.
Stern, D. G. (1995). Wittgenstein on mind and language. Oxford University Press, USA.
Stern, D. G. (2004). Wittgenstein's Philosophical investigations: an introduction. Cambridge University Press.
Wittgenstein, L. (1922), Tractatus Logico-Philosophicus, trad. a fronte di C.K. Ogden, London: Routledge & Kegan Paul.
Wittgenstein, L. (1953), Philosophical Investigations, ed. G.E.M. Anscombe e R. Rhees, trad. di G.E.M. Anscombe. Oxford: Blackwell [PU]
Wittgenstein, L. (1983), Remarks on the Philosophy of Psychology, vol. I, ed. G.H. von Wright e H. Nyman, trad. di C. G. Luckhardt e M. A. E. Aue. Chicago: University of Chicago Press, [BPP I]
Wittgenstein, L. (2013). Some Remarks on Logical Form. In Essays on Wittgenstein's Tractatus (pp. 31-37). Routledge.
-
Wittgenstein filosofo della storia
Recensioni / Settembre 2022Alla fine del secolo scorso, l’idea che la storia fosse finita fu salutata con fiducia da molti, nella speranza che la scomparsa dell’Unione Sovietica e il trionfo del capitalismo sancissero l’inizio di una fase di stabilità e armonia in cui l’umanità avrebbe trovato il suo compimento definitivo. Negli anni a venire, quell’idea si è così radicata da diventare di senso comune: il nostro è il migliore dei mondi possibili, mentre il solo pensare a un cambiamento dell’organizzazione politica e istituzionale appare, se va bene, come un anacronismo, se va male, come un rifiuto della realtà. Logica e Tumulti. Wittgenstein filosofo della storia (Quodlibet, 2021) di Marco Mazzeo si oppone con fermezza a questa narrazione. Col pretesto di uno studio sul più grande filosofo del Novecento, l’autore combatte una lotta senza quartiere in difesa della dimensione storica dell’esperienza umana.
Per prima cosa bisogna fugare un equivoco: storia non è il mero scorrere del tempo, il costante succedersi degli eventi. Non va dunque confusa con la filogenesi, né con la deriva dei continenti. È invece «l’insieme delle trasformazioni istituzionali e produttive grazie alle quali gli esseri umani riescono a salvare la pelle. La storia indica, in primo luogo, il modo nel quale i sapiens producono le condizioni di possibilità della propria vita» (p. 10). Indica quei cambiamenti «imprevedibili» – perché non riconducibili a un repertorio d’istinti – e «necessari», senza i quali non riusciremmo a produrre i mezzi della nostra sussistenza. Mentre il tempo dei fenomeni naturali è continuo, storia è sinonimo di discontinuità e fa rima con improvvisi tumulti repressi nel sangue o con una nuova tecnologia che sconvolge l’organizzazione della vita.
Tuttavia, in questa operazione di salvataggio, Wittgenstein non è un alleato. La diagnosi del libro è netta: il filosofo è cieco alla storia. Con un apparato filologico che lascia poco spazio a dubbi (vengono classificati tutti i termini riconducibili alla famiglia della «Geschichte» presenti nel lascito testamentario), Mazzeo dimostra che l’autore delle Ricerche filosofiche prospetta un’«antropologia senza storia» (p. 38): offre istantanee dirompenti, ma non vede la differenza tra il tempo umano e i mutamenti geologici. In questo è un degno «allievo di Spengler» (p. 55), una tra le sue fonti più importanti. Nel secondo capitolo del libro viene soppesato il debito di Wittgenstein con l’autore del Tramonto dell’Occidente il quale, sulla scorta di Goethe, paragona le epoche storiche alle fasi di sviluppo di organismi viventi come le piante, riconducendo la temporalità umana all’andamento ciclico che caratterizza la vita naturale in generale. E così una rivoluzione può diventare un’escrescenza da tagliare, un governo autoritario la piena maturazione di una cultura.
Nell’ipotesi interpretativa di Mazzeo, la discussa amicizia di Wittgenstein con Sraffa (a sua volta amico di Gramsci) sarebbe giunta al capolinea proprio in virtù di questa ritrosia nei confronti della storia. Il primo capitolo è dedicato a una ricostruzione del rapporto tra il logico e l’economista, il quale, oltre a ritenere «insopportabile» che l’amico abbia in Spengler un «punto di riferimento», nei suoi appunti denuncia «in modo esplicito» la «scarsa presenza della dimensione storica» (p. 30) nelle riflessioni dell’interlocutore.
Wittgenstein può però venirci in soccorso quando meno ce lo si aspetterebbe, cioè quando si occupa di matematica. Nelle sue annotazioni sul calcolo e sui teoremi trapela una nozione, quella di storia naturale, che può essere promettente approfondire. È quello che fa Mazzeo nel vertice teorico del volume, il terzo capitolo, in cui propone «una riflessione circa l’intreccio tra natura e storia umana, a prescindere dalla filologia wittgensteiniana» (p. 94) (la filologia tornerà presto, nelle due appendici, dedicate l’una a un confronto tra l’uso filosofico degli scacchi in Saussure e Wittgenstein, l’altra al poco studiato rapporto del filosofo austriaco con la fotografia). L’espressione «storia naturale» è gravata da una lunga tradizione che impedisce di coglierne appieno la portata teorica, e di cui l’Historia naturalis di Plinio il Vecchio costituisce l’illustre testo fondativo. Il paradigma tradizionale, che nel corso dei secoli ha avuto grande fortuna, consiste in una sorta di modello enciclopedico, il cui obiettivo è raccogliere e descrivere gli oggetti che appartengono al regno della natura. La ricerca è simile a quella del collezionista che punta a reperire quanti più documenti possibile, ma senza un vero criterio di selezione. Motivo per cui vi si possono trovare aneddoti circa i lupi mannari accanto a descrizioni di cercopitechi, oppure ipotesi sul senso del pericolo degli elefanti, ma anche cataloghi delle tecniche di cattura da parte degli esseri umani. In tempi recenti questo genere letterario è entrato in una seconda giovinezza: il lemma «storia naturale» figura nel titolo di studi eterogenei, che possono riguardare la morale umana da una prospettiva evoluzionistica, oppure «il profumo, gli alberi, la birra», fino ad arrivare al «concetto di distopia» (p. 83). Al netto delle evidenti differenze tematiche, i corpi che popolano questo variegato firmamento sono accomunati dalla «temporalizzazione dei fenomeni naturali senza un confronto esplicito con la dimensione storica. Si tratta di una disposizione spaziale del sapere scientifico» (p. 87). La temporalità tipicamente umana viene eliminata, annacquando la specificità della nostra forma di vita in un generico calderone in cui tutte le vacche sono nere. Mazzeo propone, al contrario, di prendere sul serio la dicitura «storia naturale», la quale, oltre che un ossimoro, contiene anche un guanto di sfida: come tenere insieme «natura (ontogenesi, filogenesi) e storia (le trasformazioni istituzionali di lingue, riti, forme della tecnica, modi di produzione)» (p. 87)? È possibile un «naturalismo non rinunciatario» (p. 87), che non ceda alla tentazione di nascondere sotto al tappeto le continue trasformazioni culturali che sembrano segnare così profondamente la nostra specie?
La domanda è retorica, alcuni suggerimenti per provare a rispondere ce li fornisce Mazzeo in un elenco di «paradossi» (p. 94), anche se forse sarebbe più corretto chiamarli «tesi sul concetto di storia naturale». Non è in questa sede possibile ripercorrerne l’andamento con dovizia di particolari, mi limiterò a riprendere un punto particolarmente degno di nota, la critica al concetto di adeguatezza. Bersaglio polemico è l’idea ingenua, ma non per questo non diffusa, secondo la quale le condotte umane possono venir lette nei termini di «risposte perfezionate a esigenze precedenti» (p. 98), come se le vicende storiche – ivi comprese le trasformazioni dell’assetto produttivo – non fossero altro che una serie di graduali adattamenti in direzione di una fitness completamente realizzata, di una suprema armonia tra l’anthropos e i suoi bisogni. Wittgenstein è polemico con questa concezione e si chiede, non senza ironia: «viviamo perché è pratico vivere? Pensiamo perché è pratico pensare?» (Wittgenstein 1978, V, § 14) E poi: «è adeguato ai nostri bisogni che noi contiamo come contiamo» (Item 163, p. 30r), cioè in base dieci e non in base sessanta (come, per esempio, facevano i babilonesi)? Il fatto che si calcoli così, o che, più in generale, si viva così, implica che si faccia così e non altrimenti: è sempre possibile una strada alternativa. In altri termini,
«l’insistenza di un gesto che indica cosa facciamo "qui e ora" non esorta a contemplare la bellezza di una sovrapposizione perfetta e atemporale tra la vita e la sua forma, tra la natura e la cultura. Punta a far emergere il carattere contingente di quel che potrebbe essere completamente diverso perché non è chiamato a rispondere a criteri di adeguatezza. Questa contingenza, adeguata solo a cose fatte, si chiama "storia" (p. 99)».
In altri termini ancora, questa volta più filosofico-linguistici, le regole che guidano la nostra prassi – in modo eminente quella verbale – non possono essere considerate alla stregua di leggi biologiche o chimiche. Tra regola e applicazione vi è uno scarto tale che niente obbliga a rispondere a un insulto con un pugno e non con una frase sardonica, a un comando con obbedienza e non con sdegnata insubordinazione.
La storia naturale di Mazzeo è, insomma, un concetto con cui combattere una battaglia ideologica contro una precisa narrativa del potere. Uno strumento di difesa nei confronti di chi fa sua un’idea di natura per nulla innocua, che in fin dei conti uccide una croce, ma anche una delizia, tipica della vita umana, la contingenza. Infatti, se ciò che i sapiens fanno è motivato esclusivamente da un criterio di adeguatezza, da una fatale tendenza all’adattamento, allora è inevitabile che le cose vadano così e non altrimenti, angusto lo spazio per mettere in discussione l’organizzazione della vita caratteristica del mondo contemporaneo. Per chi condivide una simile battaglia, varrà la pena di dare uno sguardo alle criptiche riflessioni del filosofo viennese sulla matematica. Chissà che questo Wittgenstein non possa fornire un prezioso antidoto contro la rassegnazione allo status quo.
di Adriano Bertollini
Bibliografia
Mazzeo, M. (2021). Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia. Macerata: Quodlibet.
Wittgenstein, L. (1988). Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Trad. it. di M. Trinchero, Torino: Einaudi.
Wittgenstein, L. Wittgenstein’s Nachlass, Electronic Bergen Edition, Oxford University Press, Oxford
-
Alla memoria di Giulio Giorello, maestro e amico
La meccanica quantistica, occupandosi delle particelle elementari della materia – della sostanza del mondo, diremmo in termini metafisici –, ha dovuto convenire che a quel livello non si incontrano cose, ma solo relazioni. Non c’è una particella in sé, ad esempio l’elettrone, ma una serie di relazioni tra l’elettrone e tutto ciò con cui interagisce.
La grande popolarità riscossa dai libri divulgativi di Carlo Rovelli ha avuto il merito di sollevare questioni filosofiche di fondo a proposito della ricerca fisica di oggi, anche tra non specialisti.
Rovelli è uno dei massimi esponenti della lettura detta “relazionale” della fisica quantistica. Ovvero, spiega – a un pubblico che non dovrebbe essere il proprio – la propria visione scientifica. Approfitterò allora di questo suo testo, Helgoland (Rovelli 2020), per mostrare l’importanza filosofica di alcuni problemi aperti dalla teoria scientifica più rivoluzionaria del XX° secolo, la fisica dei quanti, soprattutto nella prospettiva della filosofia di Wittgenstein.
Quando il fisico fa buona divulgazione, fa per forza filosofia: potremmo dire che le questioni scientifiche diventano filosofiche quando le si guarda fuori dalla pratica scientifica, e infatti nella divulgazione il fisico guarda la fisica dall’esterno, dal punto di vista di chi sa di non sapere. Non entrerò quindi nel merito dell’elaborazione propriamente fisica di Rovelli, piuttosto discuterò la sua interpretazione filosofica (divulgativa) della sua elaborazione.
1.
La teoria [quantistica] non descrive come le cose “sono”: descrive come le cose “accadono” e come “influiscono l’una sull’altra”. Non descrive dov’è una particella, ma dove la particella “si fa vedere dalle altre”. Il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle interazioni possibili, la realtà è ridotta a interazione. La realtà è ridotta a relazione (Rovelli 2015, loc. 1632)[1].
Ora, Wittgenstein aveva ricordato ai filosofi (e anche agli scienziati) che essi lavorano sempre con parole, e con parole poste in una successione molto particolare: quella della proposizione. Ogni discorso teorico parla per proposizioni, non con parole alla rinfusa. Questo è il succo di quel che poi si è convenuto chiamare linguistic turn in filosofia: questa non deve mai dimenticare di quale materiale è fatta, del materiale proposizionale.
La proposizione è sempre una relazione. Classicamente si dice che una proposizione è formata da un soggetto e un attributo. Ad esempio in “Giulio Cesare morì pugnalato.”, il soggetto è “Giulio Cesare”, l’attributo è “morire pugnalato”. Wittgenstein nel Tractatus ha semplificato la cosa, dicendo che una proposizione è sempre la relazione tra due oggetti, appunto “Giulio Cesare” e “morire pugnalato.” Questo significa che Giulio Cesare non si è limitato a essere ucciso con pugnalate, ma ha fatto tantissime altre cose. Ed è ovvio che siano morte pugnalate molte altre persone oltre Cesare. Ovvero, i due oggetti si combinano nella proposizione, ma si suppone che esistano indipendentemente dalla loro relazione.
Aggiungiamo (perché questo ci servirà dopo) che secondo Wittgenstein ogni proposizione è un Bild, un’immagine dello stato-di-cose del mondo, di “dati di fatto”: la proposizione di cui sopra ci dà una certa immagine non di Cesare e nemmeno dell’essere uccisi, ma del “dato di fatto” (che sappiamo storicamente vero) che Cesare morì pugnalato. Le proposizioni sono immagini del mondo, non immagini delle cose stesse, dato che il mondo è relazione tra cose per Wittgenstein. Del resto “Giulio Cesare” e “morire pugnalato” sono a loro volta delle relazioni (ad esempio “morire pugnalato” è una relazione tra pugnalare e morire), e così via…. All’infinito? Non arriveremo mai a una cosa veramente elementare? No. Ma qui si apre un altro problema che non tratteremo qui.
Potremmo dire allora che, se “Giulio Cesare morì pugnalato” fosse una proposizione della teoria quantistica (secondo Rovelli), avremmo Cesare solo quando viene pugnalato e muore. Non ci sarebbe un Cesare indipendente dal suo venir pugnalato. Come anche non ci sarebbe un morire-pugnalato che non sia cesarista, per dir così. Il che certo cozza con il nostro senso comune riguardo alla significazione del linguaggio. È quel che Rovelli esprime dicendo che nel mondo delle particelle elementari non ci sono entità, ma solo eventi.
Prima che venisse formulata la fisica dei quanti, alcuni scrittori erano giunti abbastanza vicini a una ontologia del genere. Nel 1893 Henry James (1893) aveva pubblicato un racconto, The Private Life. Tra i personaggi di questo racconto c’è Lord Mellifont, un gentleman perfetto, molto socievole, irreprensibile nel comportamento sociale, il miglior host mondano che si possa incontrare. Ma il narratore scopre un piccolo difetto del Lord: che quando non c’è qualcuno in sua presenza, si dissolve. E si ricompone non appena qualche altra persona appare. Quando Lord Mellifont dipinge un quadro davanti a un’altra persona, se questa si allontana, lui scompare; quando l’altra persona torna, troverà il quadro allo stesso punto in cui il Lord l’aveva lasciato. Persino sua moglie pare non essersi accorta di questo handicap del marito, anche se sembra nutrire qualche sospetto…
Insomma, Lord Mellifont anticipa le particelle elementari secondo la fisica quantistica: esiste se si fa vedere dagli altri. Questo racconto può essere preso come un’allegoria della crisi del pensiero proposizionale a opera della fisica quantistica.
In effetti, su un piano filosofico, la teoria relazionale delle particelle elementari di Rovelli dice che la fisica dei quanti trasgredisce la struttura proposizionale del sapere. Perché la proposizione è sempre una relazione tra cose che vengono presupposte come esistenti al di fuori della loro relazione, abbiamo detto.
Quindi, quando la meccanica quantistica giunge alla conclusione che l’elettrone, ad esempio, è un ente solo relazionale, un evento, si varcano i limiti del linguaggio proposizionale stesso. La scienza, come la filosofia, descrive e spiega la natura attraverso proposizioni: ma quando essa raggiunge il livello del più elementare, questa forma linguistica si mostra inadeguata.
Per questa ragione, si dirà, la scienza preferisce sempre più, anziché parlare per proposizioni, parlare con relazioni matematiche, con equazioni. Ad esempio, con matrici matematiche, come fece Heisenberg, o con “le variabili che non commutano” di Dirac. Perché nessuna proposizione del linguaggio comune può dire i fenomeni degli enti più piccoli. Ora però le equazioni matematiche sono anch’esse delle proposizioni, anche se di tipo particolare.
(Il punto è che Rovelli, non appena si impegna a scrivere opere divulgative, non può fare a meno di ricorrere a proposizioni non matematiche. Insomma, deve dare una forma proposizionale alla fisica dei quanti, anche se questa sembra dare un’immagine non proposizionale della natura. Qui tocchiamo una sorta di paradosso. Ovvero, come esprimere con proposizioni ciò che non è proposizionale?)
Per Wittgenstein le proposizioni matematiche e logiche sono proposizioni analitiche, cioè, in fin dei conti, delle tautologie. Di fatto, esse equivalgono a definizioni. Ad esempio
“5 = 2 + 3”
è sì una proposizione (“cinque è la somma di due e tre”), che di fatto è una delle (infinite) definizioni possibili di “5”. Quelle matematiche sono proposizioni tautologiche o definitorie. Ad esempio “scapolo è un uomo non sposato” potrebbe sembrare una scoperta, in realtà è una semplice definizione di ‘scapolo’, è stabilire una sinonimia tra due significanti (‘scapolo’ e ‘uomo non sposato’).
Ricorrendo sistematicamente a equazioni matematiche, o a equazioni in generale, la scienza di fatto traduce le proprie scoperte in proposizioni definitorie. Per esempio,
“acqua = H2O”
È una definizione dell’acqua? Oggi sì, perché crediamo nella chimica odierna e quindi per acqua intendiamo qualcosa che è formato da due parti di idrogeno e una di ossigeno. Ma quando nel 1783 Lavoisier scoprì questa struttura chimica dell’acqua, allora si trattava di una proposizione sintetica, che dava un’informazione precisa sull’acqua. L’equazione, matematica o chimica che sia, è un atto di forza: scommette sul fatto che una relazione scoperta possa valere come definizione. In questo senso, la scoperta scientifica – ad esempio, la struttura dell’acqua – cambia il senso stesso dell’oggetto di ciò che essa spiega[2]. Da Lavoisier in poi, chiamiamo acqua solo H2O; e tutto ciò che sembra acqua ma non è H2O non sarà acqua (e in effetti, distinguiamo l’acqua dai vari sali che vi sono sciolti). Scoprendo certe strutture, la scienza modifica l’assetto semantico dei nostri linguaggi.
Come in ogni proposizione, anche qui abbiamo entità indipendenti tra loro: l’acqua, l’idrogeno e l’ossigeno. Perché questa formula abbia senso, occorre che i suoi componenti siano già noti, che siano insomma delle entità riconosciute. Se un elemento invece non è noto, avremo un’incognita. Nella scienza non si è contenti finché non si dà il nome di un’entità a questa incognita.
2.
In effetti, dimentichiamo che noi interroghiamo la natura – attraverso la scienza, ma non solo - attraverso il nostro linguaggio, che è strutturato più o meno, come ha dimostrato Noam Chomsky (1970), in un modo che alla scuola media studiavamo come “analisi logica”[3]. C’è una logica del linguaggio (proposizionale) che è a priori, un po’ come le sintesi a priori di Kant. Sostantivo, predicato nominale o verbale, complementi, attributi, ecc. È il tipo di rete che gettiamo sulla natura perché essa ci parli. In effetti, questo non lo dice Wittgenstein, lo dico io elaborando quel che lui dice: fare scienza non è dare semplicemente un’immagine della natura, è prima di tutto una serie di domande che poniamo alla natura e ciò che la natura risponde a esse[4]. È un gioco di domande e risposte. Domande secondo una griglia che lo scienziato appronta, e che può dimostrarsi più o meno perspicua o pertinente. È un po’ come quei sociologi e sondaggisti che pongono alle persone domande con risposta multipla: chi risponde può scegliere, ma solo al di dentro di una griglia data. È previsto anche “Non so”. E in effetti la natura spesso risponde “Non so”. O risponde in modo contraddittorio: per esempio, per secoli la luce, alla domanda “sei fatta di corpuscoli?” o “sei fatta di onde?”, in certi casi rispondeva che era fatta di corpuscoli, in altri casi rispondeva che era fatta di onde…
Ora, le domande poste dalla scienza alla natura hanno una forma proposizionale basilare, anche se, come abbiamo detto, il ricorso a vari tipi di matematica consente di domandare in modo variegato. Il nostro concetto di “ente” in effetti è assolutamente inscindibile dalla forma proposizionale, che implica un sostantivo, qualcosa di sostanziale. Anche se possiamo, a rigore, cambiare il ruolo di sostantivo e attributo. Ad esempio, anziché dire “il mio tavolo è verde” potrei dire “la verdità si particolarizza nel mio tavolo”, dove il sostantivo diventa “la verdità”. Perché no? Probabilmente la forma proposizionale – comune a tutte le lingue, come dimostra la grammatica trasformazionale – è non il nostro modo umano di percepire il mondo, ma di interpretarlo, di ordinarlo ab initio. Comunque è il nostro, non è detto che sia quello della natura stessa. In effetti, se – come asserisce Wittgenstein - ogni proposizione è immagine del mondo, la conseguenza è che il mondo stesso ci dà un’immagine di sé come proposizionale.
Qui avvertiamo l’eco delle fondamentali distinzioni kantiane: c’è uno scarto tra il soggetto e il reale che nessun idealismo potrà colmare. Un’eco kantiana che ritroviamo nell’affermazione di Niels Bohr: “Non c’è un mondo quantistico. C’è solo un’astratta descrizione quantistica. È sbagliato pensare che il compito della fisica sia descrivere come la Natura è. La fisica si occupa solo di quanto possiamo dire della Natura”[5]. Ovvero, la Natura è cosa-in-sé, possiamo dire solo come essa si manifesta a noi. O, in altri termini, una cosa è la natura, altra cosa è quel che possiamo dirne. Ma il paradosso è questo: possiamo dire che di una parte della natura non possiamo dir nulla?
E così, tornando al nostro esempio di “Cesare morì pugnalato”, diamo per scontato che Cesare esista anche quando non viene ucciso. Wittgenstein però si chiede: quando dico a qualcuno “Cesare morì pugnalato”, che cosa intendo per “Cesare”? Per me Cesare è il conquistatore delle Gallie, per te è quello che passò il Rubicone, per un altro è quello che dette a Cleopatra un figlio chiamato Cesarione... Al limite, possiamo associare a Giulio Cesare tratti del tutto diversi, in modo che il mio Cesare non avrà alcun tratto in comune col tuo. Possiamo dire che abbiamo allora “comunicato”? Crediamo di capirci perché usiamo le stesse parole, in realtà per ciascuno di noi le parole significano cose diverse. Gottlieb Frege (1892) direbbe: siamo sicuri che al di là dei Sinne (sensi) delle nostre proposizioni, ci riferiamo alla stessa Bedeutung (denotazione)? Da qui la necessità di definire le nostre parole con altre proposizioni, che a loro volta esigeranno altre proposizioni, e così via….[6] Non all’infinito, perché alla base – si pensa - ci sono degli oggetti sostanziali (“oggetti elementari” dirà Wittgenstein nel Tractatus). Ma lo stesso Wittgenstein si renderà conto che questo presupposto della “sostanza” è puramente immaginario. Per cui darà poi una risposta diversa (nelle Ricerche filosofiche): quando parliamo tra noi, ci capiamo nel senso in cui giochiamo a uno stesso gioco. È come giocare a scacchi: se entrambi conosciamo le regole del gioco, possiamo giocare assieme. Alla base del parlare non ci sono “oggetti” comuni ma giochi linguistici comuni. Parlare in modo sensato non è raffigurare, ma giocare assieme.
3.
Che cosa significa che la scienza viene fatta con proposizioni? Ora, come abbiamo visto in Wittgenstein, le proposizioni sono immagini del mondo, che possono essere anche false, ovviamente. Se dico “Cesare morì di tubercolosi”, dò un’immagine falsa del mondo, ma sempre immagine del mondo è. Quindi la scienza, siccome è un sistema di proposizioni, ci dà un’immagine del mondo, vera o falsa che sia (oggi si parla molto di fake news: ovvero, abbiamo un’immagine essenzialmente falsa del mondo). In filosofia queste immagini del mondo si chiamano modelli. La fisica di Newton ci ha dato una certa immagine dell’universo, Einstein ce ne ha data un’immagine un po’ diversa. E Rovelli ci dice: la fisica dei quanti invece non ci dà alcuna immagine del mondo. E questo al dispetto del fatto che per Rovelli – dico: giustamente – la scienza non si limita a fare previsioni. La scienza non dice solo “se riscaldi l’acqua a 100° C od oltre, allora evaporerà”, del resto si sono fissati 100° C della scala Celsius partendo proprio dal punto di ebollizione dell’acqua… Lo scienziato non avrà pace finché non avrà spiegato il perché l’acqua bolle e a quella temperatura. Ovvero, la scienza non si limita a prevedere, ma cerca di darci un’immagine intellegibile dei fenomeni. Quindi, ci fornisce modelli di come funziona il mondo.
Si prenda la teoria darwiniana, che è comunque una teoria scientifica, vera o falsa che sia: essa non prevede assolutamente nulla del futuro della vita (che in gran parte, del resto, dipende ormai da decisioni umane[7]), ma ci offre un modello storico della vita, cioè ci rende comprensibile ciò che è accaduto e ciò che accadrà degli esseri viventi. Ma rendere intellegibile la natura significa appunto costruire un sistema di proposizioni. La teoria darwiniana è un sistema di proposizioni.
Il punto è che la scienza si trova spesso di fronte a enigmi, ovvero non trova alcuna proposizione per certi fenomeni. Prenderò come esempio un enigma risolto (per ora) e due irrisolti: (1) l’attrazione a distanza tra sole e pianeti nella teoria di Newton, (2) il gatto di Schrödinger, (3) il paradosso EPR.
La teoria di Newton della gravitazione universale all’epoca fu criticata – in particolare dai fisici cartesiani – perché essa supponeva che il sole attraesse i pianeti attraverso il vuoto. Ma come facevano i pianeti a sapere che il sole li attraeva, se tra loro non c’era nulla? Newton non lo sapeva, perciò scrisse “hypothesis non fingo”[8], “non avanzo alcuna ipotesi”. In effetti la difficoltà nasceva dal fatto che i fisici all’epoca accettavano il postulato cartesiano secondo cui ci deve essere contatto diretto tra due oggetti perché l’uno influenzi l’altro. E a distanza non può esserci contatto[9]. Ovvero, certe proposizioni di Newton erano in contrasto con un’altra proposizione considerata fondamentale in fisica, quella del contatto tra gli oggetti perché l’uno fosse causa dell’altro. Riprendendo da Jacques Lacan la nozione di reale[10], dirò allora che l’inspiegabile attrazione a distanza segnalava qualcosa di reale, nel senso che nessuna proposizione fisica all’epoca riusciva a darne un’immagine. L’attrazione a distanza era “miracolosa”.
Dovremo aspettare l’elaborazione della teoria del campo grazie a Maxwell e Faraday, e all’uso che Einstein ne ha fatto, perché l’enigma newtoniano fosse risolto: quella che Newton vedeva come attrazione tra corpi celesti, va interpretata ora come percorrenza in uno spazio curvo. La massa solare curva lo spazio attorno a sé e quindi i pianeti, nella misura in cui vanno dritti… girano attorno. Possiamo quindi dire, col senno di poi, che il campo era il reale per la teoria newtoniana. Quando la scienza è stata in grado di descriverlo – cioè di dargli forma proposizionale – ha cessato di essere reale (nel senso lacaniano).
L’esperimento mentale del gatto di Schrödinger (del 1935) era una provocazione, da parte di Schrödinger, nei confronti dei colleghi quantistici, nel senso che esso sfida un punto fondamentale della teoria dei quanti: l’indeterminatezza. Possiamo dire insomma che Schrödinger stava ai quantistici “puri” (come Bohr e Heisenberg) così come i fisici cartesiani stavano a Newton: entrambi sfidarono i loro avversari facendo appello a un sapere che la teoria non ammette: “come le cose fanno a sapere che…?”
Non descrivo qui il “gatto di Schrödinger” perché basta la descrizione di Rovelli[11]. Va detto comunque che è abusivo dire che, finché non si apra la scatola, il gatto sarà allo stesso tempo vivo e morto, perché il gatto è un oggetto macroscopico. Per gli oggetti macroscopici vale il buon senso, cioè il determinismo: se la scatola fosse trasparente, ad esempio, vedremmo bene che o il gatto resta sempre vivo, oppure a un certo punto muore. Resta però un problema per la fisica quantistica: come spiegare il fatto che a livello macroscopico non si riveli la struttura indeterministica delle particelle elementari? In effetti la fisica dei quanti vale per oggetti molto isolati, mentre nel nostro mondo macroscopico tutto risulta deterministico perché tutto è interconnesso. Abbiamo quindi oggi una visione indeterministica a livello delle particelle elementari, e una visione deterministica a livello degli oggetti macroscopici.
Un altro paradosso, elaborato lo stesso anno del gatto di Schrödinger, è l’EPR (Einstein-Podolsky-Rosen 1935). Il problema sollevato da EPR era la violazione del principio di località, in quanto l'entanglement[12] si mantiene indefinitamente anche tra due particelle (dei fotoni, secondo l’interpretazione più corrente) che hanno interagito e si sono allontanate. Ciò implica che se si misura una grandezza fisica di una, risulta determinata istantaneamente anche quella dell'altra, a prescindere dalla distanza. Anche qui: siccome l’informazione non può superare la velocità della luce, come fa la seconda particella a “sapere” istantaneamente la grandezza della prima e a uniformarsi?
Il paradosso era volto a dimostrare l’incompletezza della meccanica quantistica (essa presupporrebbe cioè delle variabili nascoste). In ogni caso, Wittgenstein diceva che ogni teoria fisica è incompleta[13].
Il termine entanglement non viene mai tradotto nelle varie lingue, data l’ambiguità del suo senso in inglese. Non è una semplice correlazione. Il termine indica qualcosa come groviglio, garbuglio. Il termine più appropriato mi sembra: invischiamento. Ma anche – si badi – imbroglio, truffa… Insomma, il termine connota qualcosa di raffazzonato, se non addirittura di fraudolento… La scelta del termine mi pare che la dica lunga.
Di fatto è la riedizione del dibattito sull’attrazione a distanza: come oggetti sanno quel che succede ad altri oggetti distanti? Sottolineo sanno perché la fisica si basa sul presupposto che “sapere” è una nozione che riguarda solo la mente; la nozione di informazione non implica ipso facto che un oggetto sappia di cosa è informato. Ovvero, la scienza – non solo la fisica – separa nettamente l’epistemico (il sapere) dall’ontico (ciò che è). È quel che Einstein chiamava, a proposito del paradosso EPR, realismo: la fisica dei quanti, secondo lui, infrange il presupposto realista della fisica. Degli animali e degli esseri umani possono sapere, ma una sedia, una foresta, una galassia, non possono sapere… a meno appunto di non riformulare completamente il senso del termine “sapere”, come ha cercato di fare la teoria dei sistemi[14], per esempio. Ma allora, si sospetta sempre un po’ la truffa, l’entanglement…
Eppure il concetto di sapere non solo ammette, ma esige una distanza tra chi sa e cosa è saputo. Sarebbe ridicolo pensare che l’orbita della luna sia deviata dal fatto che un astronomo la osservi con un telescopio. Sappiamo che la luna come massa interagisce con la terra, ad esempio producendo maree. Ma come un puro sapere – animale, per definizione – può interagire con la cosa saputa, che appartiene a tutt’altro ordine ontico? Certo, se sono un osservatore posso interagire con la cosa che osservo: se osservo che mi arriva una palla in faccia, interagisco alzando il braccio e deviando la palla. Ma non interagisco in quanto osservatore, interagisco in quanto massa corporea, il che è molto diverso. L’osservatore in quanto puro osservatore non interagisce, eppure la teoria quantistica dice che si interagisce come osservatori.
Ora, se si segue la falsariga di Wittgenstein, si capirà che la funzione del soggetto (parlante, osservante, percipiente…) è inerente allo stesso concetto di proposizione. Non il soggetto psicologico, sottolineerà Wittgenstein, ma un soggetto che chiamerà metafisico (o trascendentale). Ogni proposizione implica un soggetto che la crea, la dice o la scrive, perché ciò è una conseguenza della definizione stessa di proposizione. Prendo un esempio semplice: “X è in relazione con Y”. Appena leggiamo una proposizione di questo tipo, subito ci chiediamo: Chi l’ha scritta? Quando l’ha scritta? Come l’ha scritta? Che cosa voleva dirci? … Ovvero subito supponiamo un soggetto che sia in relazione con la proposizione “X è in relazione con Y”. Diamo per scontato insomma che ogni relazione, descritta da una proposizione, implichi un’altra relazione, tra la proposizione stessa e chi l’ha emessa. Certo, possiamo giungere alla conclusione che quella frase non l’ha emessa nessuno, che un computer casualmente l’ha prodotta. Ma anche quella tra il computer e la frase che esso ha generato è una relazione.
Ora, voler inserire l’osservatore nell’osservato – come propone Rovelli – significa esplicitare questa relazione? Ad esempio, scrivo
“P scrive che ‘X è in relazione con Y’”
E siccome scrivere è una forma di relazione, possiamo dire anche genericamente: "P è in relazione con 'X è in relazione con Y'"
Come si vede, abbiamo messo una bambolina russa dentro un’altra bambolina russa. Ora la nostra proposizione si occupa della relazione tra P e la sua proposizione. Questo significa che il gioco delle bamboline russe può proseguire potenzialmente all’infinito. Noi che ci occupiamo della proposizione (2) potremmo scrivere a nostra volta:
“Noi N siamo in relazione con “P è in relazione con ‘X è in relazione con Y’””
E così via.
Come si vede, ogni proposizione e ogni meta-proposizione implicherà sempre, da qualche parte, un soggetto enunciante che resta sempre al di qua della proposizione stessa. Un soggetto che viene sempre ricacciato all’indietro. Sartre – ad esempio – chiamò coscienza[15] questo soggetto puntuale, un quasi-nulla, direi un non-nulla. Non si tratta di un soggetto concreto ma di una funzione: ogni proposizione, nella misura in cui è immagine del mondo, rimanda a un per chi questa è immagine. Questo per chi non è nessuno di preciso. Certo possiamo creare immagini del mondo in cui il “per chi” è incluso, ma di fatto non esautoreremo mai la funzione soggettiva implicata da ogni proposizione. Un soggetto resta sempre extra, fuori-del-mondo, per il quale il mondo si manifesta. È come nel mondo polare descritto da E.A. Poe (1838) in Gordon Pym, dove nulla è bianco, tutto è nero o scuro. Ma anche se di fatto non c’è alcuna cosa bianca, “il bianco” è sempre presupposto a ogni cosa proprio nella misura in cui ogni cosa è percepita come nera.
Questo del resto è il limite dell’empirismo filosofico. Esso è consistito nel dire che ogni descrizione del mondo va preceduta da una clausola: “Io vedo (o odo, o tocco, od odoro) che ‘X è in relazione con Y’”, ma si tratta solo di un’inscrizione della descrizione del mondo a un altro livello, che non muta affatto la descrizione del mondo. In questo senso l’empirismo filosofico, nato come scettico (Hume), è stato reintegrato dal realismo più severo: l’aggiungere una clausola soggettiva non muta nulla dell’enunciato oggettivo. Trasforma l’enunciato oggettivo in un enunciato-oggetto da parte di un soggetto, ma non ne cambia affatto la struttura. Dire
“Io penso che il mondo è descritto bene dalla meccanica quantistica”
non cambia nulla della valutazione della meccanica quantistica, equivale insomma a dire:
“il mondo è descritto bene dalla meccanica quantistica”[16]
Possiamo togliere benissimo quell’”Io penso che”. Ogni enunciato assertivo implica sempre un “io penso che”, “io credo che”, “io dico che”… che possiamo togliere senza che il senso generale dell’enunciazione cambi. L’empirismo assoluto de facto coincide con un realismo assoluto[17]. E Wittgenstein si situa su questa linea.
Ma è proprio ciò che non vuol dire Rovelli: non crede che introdurre l’osservatore (o l’enunciatore) nella cosa osservata sia costruire enunciati metalinguistici che includano l’osservatore, perché questi, abbiamo visto, sono superflui. Intende dire, al contrario, che l’osservatore modifica sempre l’osservato, quindi ne è parte.
Da notare che Wittgenstein aveva affrontato il problema nel Tractatus, solo che aveva usato una figura visiva (l’occhio) e non una figura enunciativa (chi dice).
5.632 Il soggetto non appartiene al mondo ma è un limite del mondo.
5.633 Dove, nel mondo, un soggetto metafisico andrebbe visto? Tu dici che questo caso è proprio come quello dell’occhio e del campo visivo. Ma tu non vedi realmente l’occhio.
E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.
5.6331 Perché il campo visivo non ha una forma come questa:
5.634 Ciò inerisce al fatto che nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori (Wittgenstein 1922)[18].
Quel che Wittgenstein chiama qui soggetto metafisico è qualcosa che non può mai essere incluso nel campo, perché è presupposto a ogni campo – posto prima di ogni campo. Si ritira sempre più indietro, fino a coincidere con un “punto senza estensione”, come abbiamo già visto. È solo la distanza che c’è in ogni enunciato rispetto al suo enunciatore supposto. L’Io metafisico insomma è vuoto, eppure ineliminabile. Non è parte del mondo perché per Wittgenstein il mondo è sempre relazioni che una proposizione descrive, mentre nessuna proposizione può descrivere questo soggetto al di qua di ogni proposizione. È questa la differenza con la fenomenologia di Sartre, ad esempio, che ha sempre cercato di tematizzare proposizionalmente il soggetto metafisico, chiamandolo per-sé.
Ma cosa succede se proviamo invece a introdurre davvero l’enunciante nella proposizione?
Abbiamo visto come Henry James ci abbia descritto un essere puramente relazionale. Due artisti, Picasso e Braque, hanno anch’essi preceduto la fisica dei quanti con il cubismo (peraltro evocato da Rovelli [2020, p. 46] stesso a proposito del q-bismo). Un quadro cubista è costruito mettendo insieme molteplici punti di vista su uno stesso oggetto: il risultato, come è noto, è che non c’è più “oggetto”. In effetti, provate a descrivere un quadro cubista!
Parliamo di arte figurativa quando siamo in grado di descrivere il contenuto di un quadro, ovvero descrivere (enunciare proposizioni su) un oggetto. Ma con quali proposizioni possiamo descrivere un oggetto cubista?
In realtà, pensiamo che un “oggetto” cubista sia il risultato di svariati punti di vista su un oggetto perché ce l’hanno detto i pittori, ma potremmo vedere quei quadri anche come semi-astratti. Ovvero, l’idea cubista di moltiplicare gli osservatori era un modo per dare senso proposizionale a quello che facevano. Vedremo un’operazione simile anche in Rovelli.
Il punto è che, anche dopo questo primo tentativo, si dissolve l’oggetto figurativo, ovvero ci possono essere parole per descrivere un quadro cubista, ma non proposizioni… Forse dovremmo ricorrere piuttosto alla musica per descrivere un quadro cubista.
4.
Ma cosa significa, in fisica, che ogni oggetto è osservatore rispetto all’altro? Qui si attinge al concetto di informazione: le interazioni fisiche possono essere descritte come scambi di informazioni. Eppure “informazione” resta un concetto, se non antropomorfico, certamente bio-morfico: estendiamo alla realtà inorganica quel che attribuiamo a enti viventi. Il che è perfettamente legittimo.
Ora, Rovelli vuol dare a informazione un senso puramente fisico: esclude che informazione debba presupporre una mente informata. Di fatto, riduce il concetto di informazione a quello di interazione. Eppure ogni tanto usa il termine manifestare: dice anzi che un ente esiste solo se un altro si manifesta a lui. Ma il concetto di “manifestazione”, ancor più di quello di informazione, implica una mente. Dico che, quando non è luna nuova, la luna mi si manifesta perché io la vedo. Possiamo dire che la luna si manifesta all’acqua del mare, quando c’è alta marea? Possiamo dirlo in modo metaforico. Ma la scienza può far passare delle metafore come spiegazioni? A meno di non cambiare completamente il senso di “manifestazione”, ma allora occorre aver scoperto qualcosa che legittimi questa modificazione di senso. Ovvero, non è cambiando il senso di alcune parole del linguaggio comune – o creando sinonimi del linguaggio comune - che possiamo fornire una vera spiegazione scientifica.
Il punto forte del gatto di Schrödinger o dell’EPR è che in entrambi i casi si denuncia, per dir così, un presupposto che nemmeno la fisica quantistica può accettare: l’intersecarsi tra epistemologia e ontologia. Altrimenti sarebbe magia. Il mago pretende di fare proprio questo: usa dei significanti, dei simboli, per influire sulla realtà. Pronuncia alcune frasi tipo abracadabra, e afferma che quelle parole agiscano sulla natura. Ma la fisica parte dal presupposto che il rapporto natura-scienziato non è magico. Il significante deve restare separato dalla cosa.
Sarebbe come se Newton per cavarsela di fronte ai suoi critici, avesse detto “la terra e il sole sono due oggetti entangled”. Ma sarebbe stata questa una vera risposta? Il fatto che siano entangled – invischiati l’un l’altro - è un dato di fatto che dobbiamo spiegare, appunto, è un explanandum (qualcosa che deve essere spiegato), non un explanans (qualcosa che spiega). Altrimenti si è tentati di dare a entanglement il senso che pure il termine ha, di inganno.
[Alcuni non credono che la spiegazione scientifica consista nel determinare le cause dei fenomeni. “La causa”, dicono, è un concetto metafisico, ma non esiste. In realtà dobbiamo considerare, come Aristotele, almeno quattro cause. Il punto non è comunque sapere se la causa esista o meno, il punto è chiedersi: nel linguaggio comune come in quello scientifico, che cosa si intende per causa? Cosa vogliamo dire quando diciamo, ad esempio, “il calore ha causato la dilatazione di quel pezzo di ferro”? Certo non esiste l’ente causa, ma che cosa significa dire quella frase? Un’analisi del concetto di “causa” esigerebbe un libro a sé, per lo meno. Qui mi limiterò a dire quel che, secondo me, intendiamo, sia nel discorso comune che in quello scientifico, per “causare qualcosa”. In “il calore ha causato la dilatazione del ferro” diciamo che assumiamo qualcosa – il pezzo di ferro – come stabile, qualcosa che non muta. Poi a un certo punto questo oggetto muta, ad esempio si dilata. Oppure si muove. Assumiamo che qualcosa di esterno al ferro abbia disturbato il ferro, lo abbia dilatato o lo abbia mosso, e per “causa” intendiamo questa forza esterna che l’ha modificato. Il concetto di causa implica sempre una modificazione, la fine di una stabilità, e pensiamo di aver trovato la causa quando possiamo asserire che una certa cosa ha modificato un’altra cosa. Certo la scienza può trovare eventi senza causa, ma questo non significa che li spieghi altrimenti. L’indeterminazione è un limite della spiegazione, non è una spiegazione di ordine superiore. Se scopro ad esempio che quel pezzo di ferro si dilata due volte al giorno sempre alla stessa ora in assenza di qualsiasi aumento di calore, è certamente un successo aver constatato questa regolarità, ma la regolarità non è la spiegazione della dilatazione. La scienza non è costretta a spiegare tutto – può anche semplicemente descrivere – ma quando essa spiega, diciamo allora che ha trovato una causa. Ovvero, ha messo in relazione due fenomeni, in cui il primo ha modificato il secondo.]
5.
In sostanza, Rovelli propone qualcosa che anche Newton avrebbe potuto fare se avesse risposto ai suoi critici “dobbiamo assumere che nello spazio c’è un’attrazione a distanza”, ovvero viene proposta come soluzione una riformulazione del problema stesso. L’attrazione, da explicandum che era, viene messa in posizione di explicans. Ma Newton non ha fatto così, innanzitutto perché questo avrebbe violato il rasoio di Occam (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem), introducendo un ente particolare come l’attrazione a distanza, e soprattutto perché la cosa sarebbe stata accolta come un trucco. Si sarebbe potuta accostare questa sua “soluzione” alla “spiegazione” data dai medici di Molière: “l’oppio fa addormentare perché possiede una virtus dormitiva”. Quei medici ci fanno ridere perché spacciano come spiegazione una semplice riformulazione del fenomeno che dovrebbero spiegare: il potere dell’oppio di far dormire.
Ma ciò che ci fa ridere nel teatro di Molière, smette di farci ridere quando Rovelli dice che, di fatto, l’entanglement, il garbuglio, fra due particelle non è qualcosa che bisogna spiegare, ma è la spiegazione stessa. L’entanglement è si una relazione, ma speciale: un invischiamento. Se due particelle si influenzano, in qualsiasi modo, pur essendo distanti tra loro, ciò che spiega questa informazione senza informazione è il loro entanglement. Come considerare filosoficamente una manovra del genere?
Di fatto, la fisica dei quanti vince ogni obiezione grazie alla sua forza predittiva. Per esempio, Rovelli parla di un’esperienza con un apparecchio fotonico di cui lui stesso è stato testimone (Rovelli 2020, pp. 34-37). Lo sperimentatore spezza un fascio di fotoni facendoli passare per due percorsi paralleli. Dopo di che i due spezzoni si riuniscono e devono “scegliere” tra due percorsi, diciamo “alto” e “basso”. Si constata che, in questo caso, tutti i fotoni prendono il percorso “basso” e nessuno “alto”, e non metà “alto” e metà “basso” come la probabilità farebbe prevedere. A meno che un osservatore non misuri uno dei due percorsi precedenti: allora effettivamente i fotoni prenderanno metà e metà i percorsi “alto” e “basso”. Anche in questo caso, hypothesis non fingo, ovvero la teoria non ha alcuna spiegazione per questa variazione in cui pare prodursi un corto-circuito tra sapere e realtà (tra significanti e cose).
Quel che conta, allora, è che questa esperienza permetta una previsione precisa. Ovvero: “solo se interferisco con uno solo dei fasci di fotoni divisi in due percorsi, potrò avere una distribuzione eguale di fotoni nei due percorsi divaricati successivi”. Posso fare questa predizione, anche se non so perché accade.
Eppure Rovelli aveva detto che la scienza non si limita a prevedere, vuole anche capire perché, vuole rendere intellegibile il mondo. Ora, mi pare che invece la grande forza della teoria dei quanti sia proprio nella sua potenza predittiva, accanto a un deficit esplicativo. Il che non deve sorprenderci. Questo, ancora una volta, accadde con la controversia tra newtoniani e cartesiani. La fisica cartesiana spiegava tutto ma non prevedeva nulla, la fisica newtoniana aveva grandi falle esplicative ma prevedeva tante cose. Alla fine ha prevalso la fisica newtoniana perché la scienza ha messo la capacità predittiva in una posizione preminente: si è auto-promossa come soprattutto gioco predittivo. Non ha certamente buttato alle ortiche ogni volontà esplicativa, comunque ha messo la prevedibilità in una posizione diciamo dirimente. È quel che si ripete oggi con la fisica dei quanti: la sua straordinaria forza predittiva ne assicura il successo. La prevedibilità compensa, per dir così, l’indeterminazione. La filosofia della scienza e la stessa scienza hanno optato per una visione pragmatista.
Possiamo vedere allora questo deficit esplicativo della fisica dei quanti in due modi. Un modo è quello di aspettarci una soluzione, per dir così, dalla storia. Ovvero, accettare il deficit esplicativo della teoria come un deficit effettivo ma provvisorio, e aspettare un nuovo Einstein il quale troverà un giorno la teoria che finalmente darà una ragione all’indeterminismo quantistico, così come Einstein – quello vero – trovò la risposta all’enigma dell’attrazione a distanza. La fisica dei quanti dovrebbe riconoscere un proprio relativo scacco esplicativo, ovvero un’incompletezza che andrà riparata.
C’è poi un altro modo – quello preferito da Rovelli, suppongo – che consiste invece nel dire (nella nostra terminologia) che l’indeterminazione è reale. Ovvero, non ci sarà mai una teoria più forte della fisica quantistica che darà ragione delle indeterminazioni quantistiche. Che davvero, a livello delle particelle elementari, abbiamo scoperto quella che chiamerei la libertà della Natura dal determinismo. Si ripete spesso la frase di Einstein “Dio non gioca a dadi” come critica della fisica quantistica, e così la risposta che gli dette Bohr: “La vuoi smettere di dire a Dio che cosa deve fare?” Ovvero, Dio è libero, può fare quello che vuole. In questa ottica, potremmo anche accettare che Dio (ovvero la Natura) crei qualcosa dal nulla. Perché proibirglielo? (Ammettere che si crei qualcosa dal nulla non implica che ci debba essere per forza un creatore, del resto.) La scienza non dovrebbe partire da alcun presupposto che ci dica a priori che cosa la Natura può fare o non può fare. Che è poi quel che aveva detto Wittgenstein: “nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori” (vedi più sopra).
Ovvero, potremmo dire che la teoria scopre, a livello delle particelle elementari, qualcosa che dobbiamo presupporre a livello non del molto grande (sistemi solari, galassie), ma del più grande che ci sia: a livello del tutto. La fisica dei quanti ci dice che le particelle non sono entità, ma eventi. Ora, anche l’universo tutto – a meno che non ci siano altri universi a noi ignoti – può essere descritto solo come evento. In effetti, se è il tutto, non può essere in relazione con altro-dal-tutto. Ovvero, l’universo tutto non può essere determinato, insomma non ci possono essere cause dell’universo. È evento perché è absolutus, assoluto, sciolto da qualsiasi altra cosa: altrimenti non sarebbe tutto l’universo, ma solo una parte.
Oggi la maggior parte degli scienziati accetta la teoria del Big Bang, che sembra una teoria implicitamente creazionista. Il Big Bang ci dice che il nostro universo è conseguenza di un evento singolare, un’esplosione che del resto è ancora in corso, a partire da un volume piccolissimo, probabilmente quello di un protone. Ora, questo evento è connesso a un’assoluta singolarità. Con singolarità si intende qualcosa che è impossibile ma che pure esiste (definizione stessa del reale nella nostra accezione ripresa da Lacan). Nessuna teoria fisica può minimamente descrivere cosa abbia provocato quest’esplosione.
6.
Ora, mi distacco da un commento del libro di Rovelli e cerco di rispondere comunque alla questione di fondo che il suo approccio solleva: che cosa significa spiegare qualcosa in fisica, e nelle scienze in generale?
Le scienze esplicative, prima tra tutte la fisica, pretendono fornirci leggi universalmente valide. Secondo molti, queste leggi universalmente valide (che non ammettono quindi eccezioni) descrivono le vere cause degli eventi. (Secondo Koyré [1965, 1966] e Kuhn [1977, pp. 21-30] la fisica moderna privilegia le cause formali, come direbbe Aristotele, distinte dalle cause materiali, efficienti e finali). E le leggi causali sono dei "come" che trovano il loro senso nell'esigenza del "perché?" È questa la molla che fa sì che la scienza non si accontenti mai della propria capacità predittiva, ma si ponga domande sulle cause vere, allargando grazie a questa pretesa il proprio campo predittivo. L’impostazione di Hume, secondo cui la scienza punta alla pura prevedibilità grazie a regolarità riscontrate (ciò che chiamiamo “causa” è di fatto una concomitanza regolare), senza curarsi di ciò che è reale e ciò che non lo è, non coglie il bisogno essenziale alla base della scienza. Un vero scienziato non si accontenta mai della previsione pratica: punta sempre a capire il perché delle cose. Per esempio, Copernico e Kepler avevano descritto con una certa precisione i moti dei pianeti attorno al sole, ma ben presto i cosmologi si sono chiesti: perché girano? Newton fornì la risposta, interpretando quel “girare attorno” come risultato di un “cadere nel”. E poi a sua volta ci si è chiesti: “perché i corpi cadono nel…?” E così via di seguito. All’infinito?
Come abbiamo detto, la fisica di Newton lasciava inesplicata l'attrazione a distanza. Per due secoli, gli scienziati non hanno smesso di cercare il perché (cioè la causa) dell'attrazione a distanza. Da qui l'ipotesi dell'etere cosmico, ecc. Se la scienza si fosse limitata al "come" della gravitazione, ci saremmo fermati alla fisica newtoniana[19]. È vero però che i "perché?" della scienza sono a loro volta strutture di calcoli predittivi. La scienza rimanda sempre più in là la risposta al why? allargando l'ambito del because. Ma la regola delle sequele di because è in un why? trascendentale, potremmo dire.
In un film di Jean-Luc Godard, Alphaville (1965), siamo in una galassia che assomiglia molto alla terra: qui tutto è dominato dalla razionalità scientifica e da un computer tipo Matrix. Così è proibito dire “pourquoi?” (il why? inglese), si può dire solo “parce que” (il because inglese). L’ideale della scienza è esaurire la domanda esplicativa?
Significa questo che la scienza può imbattersi nell'evento puro, cioè in qualcosa senza causa, sine ratione? Wittgenstein nel Tractatus pensava che "il mondo è tutto ciò che accade [o cade][20]"; allora può anche accadere qualcosa senza causa? Per Wittgenstein la scienza non può scoprire un puro evento senza cause per la semplice ragione che questo non fa parte del proprio gioco. In questo senso la scienza non potrà mai legittimare i miracoli, ad esempio; potrà al massimo dire che certi fenomeni sono provvisoriamente non spiegati.
Immaginiamo, disse Wittgenstein (1967, pp. 5-19), che mentre sto qui parlando la testa di uno dei miei ascoltatori si trasformi nella testa di un leone. Sarà mai ciò un miracolo per un uomo di scienza? No, l'uomo di scienza cercherà di trovare le cause del fenomeno - cioè, cercherà di formulare delle leggi in cui quella metamorfosi potrebbe rientrare. Che ci riesca o meno è solo una questione di tempo, si pensa - l'umanità potrebbe estinguersi prima di aver trovato una risposta.
Eppure, in un certo senso, l'essere umano, lo stesso che poi opta per la scienza, è sempre confrontato - nota Wittgenstein - al miracolo: al fatto che esista l'universo. E ciò - nota Wittgenstein - "mi riempie di meraviglia". La causa di tutto ciò che accade è qualche altra cosa che accade, ma qual è la causa dell'accadere delle cose? A questa domanda la scienza non ha risposta, perché tutte le sue risposte sono un avvicinarsi asintotico a questa risposta impossibile. Ovviamente, nemmeno la riflessione filosofica sarà mai in grado di dare una risposta a questa ingenua domanda.
Scrive Rovelli (2020, p. 34), “Una ‘sovrapposizione quantistica’ è quando sono presenti insieme, in un certo senso, due proprietà contraddittorie”. Ora, in logica la contraddizione ha la modalità dell’impossibile: è come dire “piove e non piove”. La fisica quantistica ci dice insomma che “il reale è l’impossibile” (come diceva Lacan). Ma questo reale o impossibile è il limite della spiegazione scientifica (che quindi risulta incompleta), non il suo trionfo. Ed è proprio questa l’importanza della fisica quantistica: che determina i limiti della fisica stessa. La fisica quantistica è una fisica limitativa della spiegazione fisica, così come – suol dirsi – il teorema di Gödel è una limitazione della dimostrabilità matematica: non tutto il vero matematico è dimostrabile.
7.
Popper ha fatto rilevare, contro la tradizione empirista, che l'aumento di contenuto delle teorie scientifiche è inversamente proporzionale al crescere della probabilità che l’evento descritto dalla teoria si produca. Se chiamo a l'enunciato "venerdì pioverà" e chiamo b l'enunciato "sabato non pioverà", la congiunzione ab avrà ovviamente un contenuto più ricco dei due enunciati isolati, è una proposizione più informativa. Ma, fa notare Popper, questo aumento di contenuto - cioè di informatività - implica anche una maggiore improbabilità, e quindi una maggiore rischiosità della previsione. La previsione "venerdì pioverà e sabato non pioverà" è difatti più improbabile (è un pronostico più rischioso) di dire "sabato non pioverà" o “venerdì pioverà”. Da qui la formula:
Ct(a) ≤ Ct(ab) ≥ Ct(b)
Dove Ct(a) è il contenuto di ‘a’, Ct(b) è il contenuto di ‘b’, e Ct(ab) è il contenuto di ‘ab’.
Questa formula, fa notare Popper, è l'inverso della formula classica della probabilità:
p(a) ≥ p(ab) ≤ p(b)
dove p(a) è la probabilità di ‘a’, p(b) è la probabilità di ‘b’, e p(ab) è la probabilità di ‘ab’.
Quindi,
se l'accrescersi della conoscenza significa che operiamo con teorie di contenuto crescente, ciò deve anche significare che operiamo con teorie di decrescente probabilità (nel senso del calcolo delle probabilità). [...] Nella misura in cui la scienza aspira al massimo contenuto, essa aspira all'improbabilità. [...] Il calcolo delle probabilità, nella sua applicazione ("logica") alle proposizioni o asserti, non è altro che un calcolo della debolezza logica, o mancanza di contenuto di questi asserti. (Popper 1972, pp. 373-5).
Il caso estremo sono asserti del tipo
"venerdì pioverà o non pioverà"
Questo asserto è assolutamente vero proprio perché è tautologico, ovvero lapalissiano. I logici di un tempo dicevano che enunciati del tipo (8) sono "veri in tutti i mondi possibili", ovvero hanno probabilità 1 (che equivale alla necessità), ma proprio per questo hanno un contenuto informativo 0. Le verità logiche e matematiche sarebbero di questo tipo: hanno la probabilità massima di essere vere (nel senso che sono necessarie, certe) ma non dicono nulla del mondo esterno, hanno contenuto 0. (Anche se Popper e Wittgenstein si sono sempre cordialmente detestati, bisogna dire che essi danno comunque questo punto come assodato: solo la logica è necessaria, e proprio per questo non dice nulla del mondo.)
Ora, la ricostruzione empirista classica della spiegazione scientifica vedeva le teorie scientifiche come enunciati sempre più probabili, in una convergenza asintotica verso la necessità logica (probabilità 1). Nella filosofia logica moderna è il contrario: le teorie scientifiche, proprio perché mirano a un contenuto più ampio - il cui massimo è il tutto, ovvero l'insieme di tutti gli enti -, tendono a un'improbabilità sempre maggiore, tendono insomma verso l'impossibile, la probabilità 0. "Venerdì pioverà e non pioverà", enunciato sicuramente falso perché enuncia una contraddizione, è ciò verso cui tutte le spiegazioni scientifiche asintoticamente tendono, nel senso che non raggiungono mai questa probabilità zero, questo impossibile. E abbiamo visto, con Rovelli, che la fisica quantistica ci è molto vicina. Ma il fatto che vi tendano presuppone questo evento: è l'evento allo stato puro, senza alcuna causa, più che improbabile. È il fatto che ci sia questo universo di enti e non un altro. Ovvero, il tendervi comporta il fatto che l’universo abbia una storia, piuttosto che essere pura entropia. Il reale come impossibile non è qualcosa che la scienza scopre, insomma, ma qualcosa di presupposto dal suo “gioco”. Così come è presupposto a ogni gioco di scacchi che esso non possa continuare dopo lo scacco matto, per esempio. Il "fatto" che ci siano enti è impossibile, eppure è presupposto dalla scienza. La scienza non può mai porre la creazione, ma deve sempre in qualche modo presupporla – porla come presupposto, porla prima, supporla come precedente - come l’impossibile che contiene le possibilità del mondo.
La scienza biologica, ad esempio, ha eliminato giustamente il vitalismo, che si riduceva a un limite della capacità esplicativa del tutto vivente. La moderna biologia studia i tessuti viventi come fatti chimici, ovvero come fenomeni deterministici. Ma così facendo ha rimandato il paletto all’indietro, dato che la biologia non sa rendere conto come dall’inorganico si passi all’organico nella storia della materia; ovvero, come possa essere accaduto qualcosa di così improbabile, fino a sfiorare l’impossibile, come il formarsi della vita. L’estrema improbabilità della vita – si dice – rende verosimile la tesi che la vita forse si sia sviluppata una volta sola nell’universo, sulla terra.
Ma allora, che cosa succederebbe se tutto l'universo fosse finito[21], e se quindi la scienza ampliasse il proprio contenuto fino a poter spiegare, cioè prevedere, tutto quello che avverrà, da ora in poi, fino alla fine dei tempi, come il Dio di Laplace? Questa amplificazione massima del contenuto coinciderebbe con una probabilità bassissima - e quindi, secondo Popper, con una controllabilità massima? - oppure avverrebbe il salto nell'impossibile? Tutto lascia presumere che saremmo in questo secondo caso. Ergo, è impossibile spiegare il reale, cioè il tutto dell’universo, in quanto reale.
[Qualcuno può obiettare che do l’universo come un tutto, ein Ganz, ma non è detto. Personalmente, non ho alcuna idea di come sia l’universo, se sia finito o infinito, tutto o non-tutto, non so se ci siano infiniti universi o uno solo, ecc. Siccome non sono un metafisico, non ho alcuna idea a priori dell’universo. Considero qui l’universo così come lo concepisce la cosmologia di oggi, 2021, una concezione che un giorno potrebbe dimostrarsi falsa, ovviamente. Che poi nel nostro universo ci possano essere dei buchi che lo mettono in contatto con altri universi, con infiniti universi…. può darsi, ma chi può dirlo? Mi attengo al sapere scientifico, che parla dell’universo come di un tutto chiuso. E che, come tutto chiuso è destinato all’entropia. Tutta la teoria del Big Bang e dell’universo in espansione implica il presupposto che l’universo sia un tutto finito, anche se illimitato].
Prendiamo i dadi. L'enunciato "il dado cadrà su uno dei sei lati" ha probabilità 1 e contenuto informativo 0[22]. Un enunciato che prevedesse il risultato dei prossimi mille miliardi di lanci avrebbe un contenuto esplicativo enorme e una probabilità bassissima. Ma la previsione di tutti i risultati dei lanci possibili sarebbe impossibile, o ancora possibile mantenendo una sua probabilità infinitesima? È una domanda metafisica senza risposta intelligibile?
Ora, spiegare tutto significherebbe anche rispondere alla questione di Leibniz: spiegare perché c'è qualcosa piuttosto che nulla. Il tutto deve restare malgrado tutto contingente, cioè non necessario - altrimenti avrebbe probabilità 1, la sua occorrenza sarebbe certa, e quindi l'onni-spiegazione avrebbe contenuto informativo 0. Questo implica che debba esistere un minimo di non-impossibilità perché appunto il mondo sia. Ma questa infinitesima probabilità che il mondo sia quello che è, che il mondo resti evento - cioè nel suo insieme non necessario - coincide con la differenza infinitesima per cui "spiegare tutto" non sarebbe appunto tale, una spiegazione di tutto. Spiegare tutto – ovvero, rendere ragione del Tutto - è impossibile perché altrimenti il mondo sarebbe necessario, come pensavano le vecchie metafisiche, prima di Kant. E ogni metafisica che voglia spiegare il Tutto finisce sempre con ciò che a Napoli si chiama “finale a tarallucci e vini”, il lieto fine è assicurato: l’ente ha un senso, il mondo è il migliore dei mondi possibili, tutto va bene, Dio è buono…[23] Ma è proprio escludendo la necessità dell'universo nel suo insieme che ha senso la scienza empirica, la scienza tout court. La scienza si sviluppa sulle ceneri di ogni metafisica sorridente che in tutto vede una necessità, dunque un senso, anche nell’orrore della vita.
Il paradosso è questo: che la scienza, escludendo che il mondo sia necessario, ne presuppone l'esistenza come impossibile da spiegare - nel doppio senso, che è impossibile spiegarlo tutto, ma anche un impossibile che pur va spiegato. L'universo nel suo insieme appare alla scienza (questo è corollario del gioco della scienza) come un evento senza probabilità, come uno sprazzo di luce che emerge dalla notte invadente dell'impossibile. L'intero universo risulta, agli occhi della scienza, un’infinitesima differenza dall'impossibile. In questo senso la tesi di Lacan "il reale è l'impossibile" va interpretata come: il reale è impossibile, eppure esiste. Ed è verso questo reale come impossibile - vale a dire il mondo come puro evento - che la spiegazione scientifica si dirige, come Achille di Zenone tende a raggiungere la sua tartaruga, senza raggiungerla mai. La scienza è la corsa infinita che ci avvicina all'impossibile, cioè all'emergenza stessa di ciò che è. La scienza salva il salvabile dell'essere, punta sul resto infinitesimo che separa l'essere dall'assurdo.
di Sergio Benvenuto
.
.
BIBLIOGRAFIA
Benvenuto, S:
(2002). ”Il filosofo nel giardino delle scienze cognitive”, Sistemi Intelligenti, anno XIV, n. 1, aprile 2002, pp. 173-196. https://www.sergiobenvenuto.it/meditare/articolo.php?ID=164
(2013). Lacan oggi. (Milano: Mimesis).
Chomsky, N. (1970). Le strutture della sintassi. Roma-Bari: Laterza.
Einstein, A., Podolsky, B. & Rosen, N. (1935). Can quantum-mechanical description of physical reality be considered complete?, in Phys. Rev., vol. 47, n. 777, 1935.
Frege, G. (1892). “Über Sinn und Bedeutung”, Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik, NF 100, 1892, S. 25-50.
Gribbin, J. (1996). Schrodinger's Kittens and the Search for Reality: Solving the Quantum Mysteries (New York: Back Bay Books).
Hintikka, J:
(1975). Logica, giochi linguistici e informazione (Milano: Mondadori).
(1998). Language, Truth and Logic in Mathematics (Heidelberg: Springer Netherlands).
(1999). Inquiry as Inquiry: A Logic of Scientific Discovery (Heidelberg: Springer Netherlands).
Hume, D. (1748). A Inquiry Concerning Human understanding. In Philosophical Essays Concerning Human Understanding (1 ed.) (London: A. Millar. 2014).
Koyré, A.:
(1965). Newtonian studies (postumo). Tr.it. P. Galluzzi, Studi newtoniani (Torino: Einaudi, 1972).
(1966). Etudes d'histoire de la pensée scientifique (postumo). Tr.it. parziale di A. Cavazzini, Filosofia e storia delle scienze (Milano: Mimesis, 2003).
Kuhn, T. S. (1977). “Concepts of Cause in the Development of Physics”, The Essential Tension. Chicago-London: Univ. of Chicago Press.
James, H. (1893). La vita privata. Parma: Nuova Editrice Berti, 2016.
Luhmann, N. (1986). L'autopoiesi dei sistemi sociali (Napoli: Liguori).
Petersen, A. (1963). The philosophy of Niels Bohr, “The Bulletin of the Atomic Scientists”, September 1963.
Poe, E. A. (1838). The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket. Tr.it. Le avventure di Gordon Pym (Milano: Feltrinelli, 2013).
Popper, K. (1972). Congetture e confutazioni, vol. 1.. Bologna: Il Mulino.
Rovelli, C. (2020). Helgoland. Milano: Adelphi.Sartre, J.-P. (1936). La trascendenza dell’Ego, a cura di R. Ronchi (Milano: Marinotti 2011).
von Bertalanffy, L. (1968). General System Theory: Foundations, Development, Applications (New York: George Braziller).
Waismann, F., a cura di (1975). Wittgenstein e il Circolo di Vienna (Firenze: La Nuova Italia).
Wittgenstein, L.:
- (1922). Logisch-philosophische Abhandlung. Tr.it. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Torino: Einaudi 1964.
- (1967). Conferenza sull’etica; in Lezioni e conversazioni. Milano: Adelphi.
[1] C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano 2015, loc. 1632.
[2] Ho sviluppato questo concetto in Benvenuto (2002).
[3] Il famoso parse tree, albero analitico, di Chomsky ricalca la vecchia analisi logica: ogni frase comprende un Nome e un Tratto verbale, quest’ultimo a sua volta comprende un Verbo e un Tratto nominale (complemento oggetto)….
[4] Mi rifaccio qui alla ricostruzione di Hintikka (1975; 1998; 1999).
[5] Riportato da Petersen (1963, p. 8).
[6] In modo più tecnico, Wittgenstein dice che le proposizioni sono funzioni di verità di proposizioni elementari.
[7] A questo proposito, alcuni filosofi che non hanno capito il darwinismo mi dicono che Homo sapiens avrebbe rotto i meccanismi dell’evoluzione darwiniana, dato che l’uomo decide lui, oggi, quali specie devono sopravvivere e quali no. Ma questo potere di Homo sapiens rientra perfettamente nel gioco dell’evoluzione darwiniana: nella quale ogni specie determina più o meno l’esistenza delle altre (così i predatori regolano la demografia delle prede, ad esempio).
[8] I. Newton, “General Scholium”, Principia, Second edition, 1713. Per una discussione su questo enunciato, cfr. Koyré (1972).
[9] Possiamo dire che la fisica è tornata a questo presupposto cartesiano nel XIX° secolo, quando è stato elaborato l’elettromagnetismo.
[10] Spiego la nozione lacaniana di reale in Benvenuto (2013).
[11] Cfr. Gribbin (1996).
[12] Definizione: “L'entanglement quantistico, o correlazione quantistica, è un fenomeno quantistico, non riducibile alla meccanica classica, per cui in determinate condizioni due o più sistemi fisici rappresentano sottosistemi di un sistema più ampio il cui stato quantico non è descrivibile singolarmente, ma solo come sovrapposizione di più stati. Da ciò consegue che la misura di un osservabile di un sistema (sottosistema) determini simultaneamente il valore anche per gli altri.”
[13] “Se cercavate di concepire la fisica come una mera registrazione su dati osservati fino ad oggi, manchereste il suo elemento più essenziale, la sua relazione al futuro. Sarebbe allora come la narrazione di un sogno. Gli enunciati della fisica non sono mai completi. Assurdo pensare che siano completi.” Waismann (1975, p. 101).
[14] von Bertalanffy (1968). Luhmann (1986).
[15] Si veda in particolare l’opera di esordio filosofico di Sartre (1936).
[16] Ma non nel caso che io dica (6) “Rovelli pensa che il mondo sia descritto bene dalla meccanica quantistica”, perché Rovelli potrebbe non essere affatto d’accordo con questo giudizio. Quando il soggetto è “un altro” esso non può essere eliminato dalla proposizione.
[17] Wittgenstein non parlava di empirismo ma di solipsismo, il che in fondo è lo stesso. Scriveva nel Tractatus (Wittgenstein 1922): “5.64 Qui si può vedere che il solipsismo, quando si seguono rigorosamente le sue implicazioni, coincide col puro realismo. Il sé del solipsismo si restringe a un punto senza estensione, e vi resta la realtà coordinata con esso”.
[18] È una riformulazione della formula empirista essenziale, articolata da Hume (1748): “Non vi è alcuna cosa tale che la negazione della sua esistenza implichi contraddizione.”
[19] Come è noto, la fisica newtoniana lasciava inesplicato solo un piccolo particolare, all’epoca: la precessione o rotazione del perielio di Mercurio, fenomeno che risultava anomalo. La relatività la spiegò. Ben poca cosa. Certo Einstein non aveva elaborato la teoria della relatività per spiegare quella precessione del perielio…
[20] Tractatus, 1, “Die Welt ist alles, was der Fall ist” (Wittgenstein 1922).
[21] Oggi quasi tutti i cosmologi danno per scontato che l’universo che conosciamo è finito. Se non lo fosse, di notte non ci sarebbe il buio dove poche stelle brillano, ma sarebbe tutto un brillare continuo di tutto il cielo. Alcuni pensano che l’universo sia una bottiglia di Klein, figura illimitata ma finita.
[22] Nella realtà, un dado potrebbe cadere su uno spigolo e restare in equilibrio – evento rarissimo, ma non impossibile. Comunque, basta mettere la regola che per “risultato” si intende solo quando un dado cade su un lato solo.
[23] È da metafisico, non da scienziato, che Einstein poté dire: “Raffiniert ist der Herr Gott, aber boshaft ist Er nicht" (frase riferita da Oswald Veblen, aprile 1921), “Il Signore Iddio è sofisticato, ma non è perfido”. La fisica quantistica, per fortuna, non ci autorizzerà mai a dire questo. Ma nemmeno a dire che Dio è boshaft.
-
Sul secolo mistico
Recensioni / Luglio 2021Il campo semantico che gravita attorno alla parola “mistico” è comunemente riferito a riflessioni e, ancor più, a esperienze che sembrano riguardare esclusivamente l’ambito dell’esperienza religiosa o della rivelazione. Il vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani, per esempio, indica come significato primario del termine mistico ciò ch’è relativo alla mistica, una «esperienza di vita interiore che porta il soggetto verso un’intima unione con una realtà superiore, diversa, assoluta, fuori delle forme ordinarie di conoscenza e di esperienza». Poco più avanti, invece, esso è riferito a ciò che potremmo chiamare il “misticismo”, termine con cui s’indicano quegli atteggiamenti e quelle posizioni che interpretano la realtà trascendendo «i dati sensibili» e rapportandoli «con forze soprannaturali». A un primo sguardo, dunque, il termine “mistico” sembra essere direttamente riassorbito nel dominio di pertinenza della mistica e del misticismo, che interseca le sfere del religioso e della metafisica. Uno sguardo più attento, però, è in grado di rivelare una situazione ben più complessa: un filone importante della riflessione filosofica del Novecento ci ha insegnato che con “mistico” si può indicare un’esperienza che non collima necessariamente con questi due significati. E che, anzi, proprio la definizione e l’esplorazione della dimensione aperta da quest’ulteriore esperienza possono condurci al cuore di nodi e problemi teorici cruciali per determinare il senso dell’esperienza umana in genere.
L’ultimo libro di Stefano Oliva, intitolato Il mistico. Sentimento del mondo e limiti del linguaggio, pubblicato per i tipi di Mimesis nel 2021, sembra far propria quest’ultima constatazione, da cui prende le mosse, per proporre un percorso teoretico di ampio respiro e di grande attualità attraverso alcuni fra i principali luoghi teorici del pensiero novecentesco. Come si legge nelle pagine dell’Introduzione, con “Mistico” (la maiuscola ricalca la grafia prediletta dall’autore) si designa qui, innanzitutto e soprattutto, un sentimento «connesso a una specifica modalità di visione del mondo» e «radicato in ciò che più di ogni altra cosa caratterizza la forma di vita umana», ovvero la «facoltà di linguaggio» (p. 9). Tale sentimento non va inteso pertanto nel senso di una rivelazione «riservata a pochi eletti, spiriti elevati o patologicamente eccitabili», bensì dev’essere compreso come una «esperienza paradossale» che «costituisce una possibilità antropologica basilare, inscritta nella stessa articolazione linguistica del pensiero umano» (ibid.). Anche per questo motivo l’interrogazione di Oliva sulla specificità dello sguardo mistico è condotta sempre in relazione a ciò che lo distingue dallo sguardo dell’uomo comune.
Il rapporto fra questi due è uno dei fil rouge più evidenti del libro, continuamente ripreso fino al capitolo conclusivo, in cui l’autore sancisce che la differenza fra il sentimento mistico e lo sguardo comune è dovuta alle rispettive modalità di relazione al mondo che essi dischiudono (cfr. p. 94-98). Più precisamente, nella prospettiva istituita e indagata da Oliva il Mistico possiede alcuni caratteri che in filosofia sono stati a lungo «attribuiti all’esperienza estetica», ovvero «i tratti della riuscita e del compimento» (p. 96). Uno degli aspetti che contraddistinguono la modalità propria del Mistico è, infatti, quello della finalità senza fini, che almeno da Immanuel Kant in poi ha rappresentato per il pensiero critico ed estetico uno dei segni distintivi del bello. Per esempio, immerso nel sentimento mistico è, come si legge nel testo, il camminatore che avanza «con la gratuità di chi è senza meta e può così dedicarsi semplicemente al fatto stesso di camminare» (p. 95), di chi cammina, a rigore, “senza perché”. Similmente, osserva Oliva, l’osservazione del mondo sub specie artis «vuol dire vederlo al di fuori dei consueti interessi pratici che indirizzano la nostra attenzione» (p. 96). Per tale motivo la locuzione “senza perché”, che ricorre sovente in relazione al tema del mistico (in particolare nella mistica renana), possiede una «risonanza» potente con l’ambito estetico e permette pertanto di comprendere il Mistico come un’esperienza la cui possibilità è radicata nella struttura esistenziale dell’essere umano.
Il quotidiano e il Mistico, in altre parole, divergono per atteggiamento, per modalità, e non per essenza, ontologicamente. Così, a nostro avviso il libro di Oliva si propone come una riflessione sul secolo Mistico nel duplice senso cui la parola secolo può rinviare: da una parte, il periodo di riferimento principalmente (ma, come vedremo, non esclusivamente) indagato dall’autore, ovvero il pensiero filosofico del Novecento che sul Mistico è ritornato in numerose circostanze; e, dall’altra, il Mistico nel suo radicamento nella dimensione della quotidianità, dunque di ciò ch’è secolare in quanto contrapposto alla vita spirituale, religiosa o ultraterrena.
Nel primo dei sette capitoli che strutturano il testo, Oliva riprende appunto la distinzione citata in apertura fra mistico, mistica e misticismo per impostare la propria indagine. Questa necessaria operazione preliminare di precisazione terminologica è condotta con riferimento alle opere di Michel de Certeau e alla sua analisi della mistica, ad alcune note di Bertrand Russell sul tema del misticismo e ad alcuni passi di Ludwig Wittgenstein. È il pensiero di quest’ultimo, infatti, a costituire la stella più luminosa della costellazione filosofica che guida il testo: dalle pagine del filosofo austriaco è possibile ricavare strumenti teorici accuratissimi per affrontare una lettura rigorosa e profonda del secolo mistico poiché troviamo in esse, formulato con la massima radicalità, il problema cruciale incarnato dall’esperienza-limite del mistico, quel «sentimento del mondo come totalità delimitata» (Tractatus Logico-Philosophicus, prop. 6.45) indagato da Oliva. Dal momento che l’intenzione di quest’ultimo è di non relegare il Mistico esclusivamente alla sfera dell’estatico e del religioso per indagarlo piuttosto nel campo del quotidiano e, più generalmente, per cogliere il senso ch’esso può rivestire in riferimento alla struttura esistenziale dell’essere umano, allora è proprio Wittgenstein il filosofo che ha inaugurato tale pista interpretativa e più di tutti ha saputo ricavare dall’esperienza del mistico un inedito e proficuo angolo prospettico per osservare la costituzione dell’animal loquens. Tale proficuità è dimostrata dall’autore anche nel capitolo successivo, che insiste e scava ancor più profondamente nella filosofia di Wittgenstein mostrando come non siano soltanto i passi più noti ch’egli dedica al tema del Mistico – con riferimento a das Mystische che appare nelle celebri proposizioni finali del Tractatus Logico-Philosophicus (1921) – a rappresentare un terreno di confronto fruttuoso per una simile indagine, ma rilevando la persistenza, composta beninteso pure attraverso tensioni e slittamenti, di problemi affini a quelli del Mistico anche nella sua produzione successiva, riferendosi per esempio alla Conferenza sull’etica (1929) e ad alcuni passi delle Ricerche filosofiche (1953). Infatti, le occorrenze del Mistico presenti nelle proposizioni finali del Tractatus, che, sottolinea Oliva, si configurano sia in forma di sostantivo sia in luogo di aggettivo (cfr. p. 24), sembrano riflettere e, insieme, istituire i limiti fra il mondo e l’ineffabile lasciando aperto il problema di un sentimento «senza soggetto e senza oggetto, ma che non per questo perde la propria specifica connotazione affettiva» (p. 27). In altre parole, il Mistico nel Tractatus appare connesso a una «visione del mondo sub specie aeterni» (p. 35) senza però che la dimensione dischiusa da quest’ultima sia esplorata fino in fondo, in linea con l’ultima proposizione dello stesso Tractatus la quale prescrive di tacere su ciò di cui non si può parlare. In tal senso, il Mistico rinvia qui a un’esperienza pre-logica, al di qua del linguaggio e al limite del mondo, che precede ogni possibile analisi logico-filosofica. Nel “secondo Wittgenstein”, invece, pur diradandosi i riferimenti espliciti al mistico (in merito cfr. p. 84), sono presenti talvolta passi e considerazioni in cui sembra affiorare una configurazione logica e problematica simile a quella che scaturisce da esso – come nella Conferenza sull’etica, dove il filosofo austriaco si confronta col sentimento di stupore per l’esistenza del mondo e con quello di assoluta sicurezza. Secondo Oliva, la distinzione e la «divaricazione» fra queste due fasi del pensiero wittgensteiniano in merito alle configurazioni problematiche ingenerate dal mistico «si gioca sul terreno logico e modale» (p. 30): il mistico del Tractatus si lega alla «contingenza del mondo […] vista come necessità» (p. 35), mentre la meraviglia per l’esistenza del mondo è un sentimento riconducibile alla “possibilità” dell’esistenza del mondo.
Col terzo capitolo Oliva tenta quasi una prosecuzione delle riflessioni wittgensteiniane attraverso i testi di Simone Weil, autrice che, pur apparendo molto lontana dai temi e dai problemi affrontati dal filosofo austriaco, sembra possedere nondimeno alcuni punti di contatto singolari con la sua produzione che riguardano perlopiù il tema dell’impersonalità e dell’indipendenza dalla forma soggettiva. In primo luogo, la prospettiva adottata dall’autore rileva nel concetto weiliano di persona impersonale «una delle possibili traduzioni» del Mistico wittgensteiniano poiché ne specifica un aspetto caratteristico. Nel Mistico, infatti, sarebbe esibito un «divenire-mondo» dell’individuo che, «coinvolto in un simile processo trasformativo», giunge a deporre la forma soggettiva, «il proprio Io», per divenire «impersonale […] ‘morendo’ come persona» (pp. 40-41). La configurazione logico-sentimentale del mistico, dunque, possiede un carattere impersonale che Weil sembra esplorare laddove l’analisi di Wittgenstein si arresta molto prima. In secondo luogo, nel «sentimento di realtà» che secondo Weil accompagna l’esperienza mistica si ravvisa un movimento concettuale analogo a quello presente nell’analisi wittgensteiniana poiché, similmente a quanto accade per quest’ultimo, nel sentimento di realtà «non vi è più un soggetto che stia lì a provarlo» e, «liberato dalle profondità interiori entro cui viene abitualmente relegato» tale sentimento sprigiona la propria «natura effusiva e atmosferica» (p. 43). Occorre aggiungere, infine, come rileva puntualmente Oliva, che questi accostamenti sono resi possibili anche dai lavori di alcuni allievi di Wittgenstein, come Maurice O’Connor Drury, Drush Rees e Peter Winch, che hanno in qualche misura favorito l’evidenziazione di prospettive teoriche inedite fra le posizioni dei due autori.
Nel quarto capitolo è soprattutto Jacques Lacan a figurare come l’intercessore privilegiato del percorso sulle tracce del Mistico compiuto da Oliva. Da una parte, lo psicoanalista francese ha disseminato qui e lì nel proprio insegnamento e nei propri scritti riferimenti e considerazioni su questo tema. In merito si possono ricordare, per non fare che qualche sparuto esempio, tanto l’affermazione contenuta nel Seminario XX secondo cui i suoi scritti apparterrebbero all’ordine della mistica, quanto le sezioni del medesimo in cui riflette su desiderio e godimento a partire dal Camino de Perfección di Teresa d’Avila, dalla mistica di Hadewijch di Anversa e san Giovanni della Croce; tanto il commento ad alcuni brevi passi del Peregrino Cherubico di Angelus Silesius nel Seminario I, quanto l’idea che l’accesso al godimento sia accessibile soltanto alla mistica esposta fulmineamente con la consueta allusività durante il corso del Seminario VI. Dall’altra parte, invece, la nozione lacaniana di «Reale» e l’insistenza con cui, almeno a partire da un certo momento, egli vi ritorna per svilupparla, rivela dei tratti e delle sfumature che collimano con i caratteri del Mistico indagati da Oliva in questo libro. Entrambe le nozioni, infatti, si situano aldilà di ciò che cattura e costituisce la rete del simbolico e del linguistico; entrambe si determinano come un punto cieco degli strumenti categoriali che il soggetto utilizza per la propria autopoiesi e per la strutturazione del mondo; entrambe sembrano implicare un sentimento, un modo di sentire, come testimoniato dall’analisi della «gioia dolorosa» osservata da Simone Weil (punto di partenza concettuale del capitolo) e dal godimento indagato da Jacques Lacan; entrambe, infine, come mostra Oliva passando attraverso e riformulando un accostamento di Alain Badiou, possono essere accostate grazie al concetto lacaniano di matema, il cui «contatto con il reale […] condivide con il Mistico l’individuazione dei limiti del linguaggio come operazione che ha luogo all’interno del linguaggio stesso» (p. 63). Un paragrafo del medesimo capitolo, inoltre, compie un breve détour che ha per oggetto il «non-sapere» di Georges Bataille, inquadrato criticamente attraverso alcune annotazioni di Alexandre Kojève – secondo il quale è contraddittorio, come fa Bataille, contrapporre l’«esperienza interiore» alla «speculazione filosofica» determinando una sorta di ritiro al di qua della parola per parlare del quale, tuttavia, è necessario l’uso del linguaggio. Secondo Oliva, in tal modo Bataille «scade nel misticismo», secondo l’accezione prima osservata, poiché, diversamente dal Mistico «inteso come mossa integralmente filosofica di ‘interruzione della filosofia’», le sue posizioni compiono un «un passo oltre l’“estremo del possibile”», terreno dove non può darsi alcun progetto, foss’anche «quello di uscire dal campo del progetto» (p. 53).
La sezione successiva, invece, osserva le riflessioni di Martin Heidegger relative alle «tonalità emotive», seguendone le vicissitudini, gli avanzamenti e gli slittamenti sino a sorprendere nel concetto di Stimmung «il limite del domandare e del chiedere ragioni» (p. 79). E il sesto capitolo prende le mosse da questo limite per far ritorno ancora una volta a Wittgenstein e per considerare le proposizioni contenute nella sua ultima grande opera – Della certezza (pubblicata postuma nel 1969) – rilevandone alcune possibili consonanze proprio con la fenomenologia heideggeriana della tonalità emotiva. Tanto nell’indagine heideggeriana sulle tonalità emotive fondamentali – come l’angoscia che appare in Essere e tempo (1927) e in Che cos’è metafisica? (1929) o la noia abbordata nel corso I concetti fondamentali della metafisica (1929-1930) – quanto la riflessione dell’ultimo Wittgenstein, infatti, a tenere banco sono la questione dei limiti del linguaggio e quella della visione del mondo «come tutto concluso» (p. 80). Entrambe “compendiate” nella lettura del Mistico esposta al termine del Tractatus, tali questioni sembrano risuonare in numerosi luoghi degli itinerari filosofici dei due autori, conducendo il lettore al settimo e ultimo capitolo, di cui abbiamo anticipato precedentemente alcune argomentazioni, che si conclude riflettendo sulla modalità che abita intrinsecamente il gesto del Mistico. Come abbiamo visto, per Oliva ciò che tiene insieme tutte queste riflessioni apparentemente disparate che vanno dagli albori agli anni conclusivi del XX secolo è l’aver rilevato, osservato, approfondito e studiato una peculiare modalità di guardare il mondo dischiusa dal mistico. Esso si configura pertanto come un gesto che trasforma lo sguardo comune. In questo esso non è un gesto necessariamente filosofico, eppure è di grandissima pregnanza per la disciplina perché esibisce e suscita esemplarmente alcune questioni al centro dell’interrogazione filosofica del Novecento. In ciò il Mistico figura come «un gesto conclusivo che, in una inaspettata inversione del pensiero wittgensteiniano, non aggiunge nulla sul piano del ‘che’ ma modifica – come in un improvviso cambiamento d’aspetto – la determinazione del ‘come’» (p. 96). In altre parole, nel Mistico non è più ciò che vediamo di fronte a noi a determinare il nostro sguardo, ma è quest’ultimo a presentarsi secondo una modalità radicalmente altra.
Ai sette capitoli sin qui osservati, si aggiungono, inoltre, una postfazione a firma di Daniela Angelucci, la quale sottolinea la pregnanza delle argomentazioni di Oliva per il modo in cui quest’ultimo riconfigura ed elabora la «dimensione estetica» connessa al tema del Mistico rivendicandone «la pesantezza, la necessità, la solidarietà con gli aspetti essenziali della nostra vita» (p. 123); e, soprattutto, un denso Post-scriptum sul quale vogliamo soffermarci per terminare le nostre considerazioni. In questa sede, infatti, Oliva prolunga ulteriormente la riflessione sul “secolo mistico” mostrando la persistenza dell’interesse per il mistico nella filosofia contemporanea più recente.
Il poscritto inquadra il prepotente ritorno, sulla scena filosofica mondiale degli ultimi quindici-venti anni, di posizioni che a vario titolo si richiamano al realismo (dal nuovo realismo di Maurizio Ferraris al realismo speculativo di Graham Harman) concentrandosi in particolar modo su Quentin Meillassoux e il suo libro Dopo la finitudine (2006). La critica al «correlazionismo» avanzata da quest’ultimo, infatti, giunge a considerare il Mistico e dipingerlo come una figura affatto rivelatrice, a suo dire, di alcuni esiti estremi cui la filosofia correlazionista del Novecento può dar luogo. Il Mistico, rileva l’autore, «diviene nelle pagine di Meillassoux la figura di una riduzione della filosofia a pietas, in cui l’accettazione dei limiti della pensabilità si traduce in una apertura nei confronti della credenza irrazionale e del fanatismo» (p. 103). Eppure, a ben vedere, grazie a un’argomentazione puntuale, Oliva rovescia le posizioni del filosofo francese mostrando che, contrariamente a quanto egli afferma, ciò ch’è contenuto nella declinazione wittgensteiniana (quella considerata da Meillassoux) del Mistico «non è il frutto scettico-fideistico del correlazionismo forte», bensì, piuttosto, «l’incarnazione di un realismo ancor più radicale di quello speculativo» (p. 108). Tale rovesciamento è operato da Oliva attraverso la dimostrazione che la maniera adottata da Meillassoux per inquadrare il Mistico (o, perlomeno, la sua declinazione wittgensteiniana) è viziata da un errore piuttosto vistoso. Il filosofo di Vienna, infatti, «non ha mai inteso il Mistico in maniera diversa da un assoluto» (p. 106) e dunque comprenderlo come l’esito di una posizione correlazionista vuol dire, in realtà, non averlo compreso affatto. Il poscritto si chiude con una riflessione che prende le mosse dalla constatazione di Badiou secondo cui in Wittgenstein si disvela il compimento di un atto teorico definibile come «arci-estetico» (cfr. p. 110) e gettare le basi per la formulazione di un «realismo mistico» o «estetico» (p. 113).Il mistico è un testo decisamente rilevante per numerosi problemi che interessano e abitano il dibattito filosofico contemporaneo. Essi vanno dal rapporto fra l’uomo e il mondo, in un’epoca di globalizzazione e crisi ecologica in cui diventa sempre più urgente la riflessione sulle modalità in cui esso si realizza, all’interrogazione della specificità dello sguardo estetico contemporaneo; dalla diatriba contemporanea sui nuovi realismi, sui correlazionismi e sul senso del filosofare oggi, alla discussione dell’eredità filosofica consegnataci dal Novecento; dalle nuove possibili configurazioni della teoria psicoanalitica, alla questione, sempre aperta, relativa ai limiti del linguaggio. Il libro di Oliva pone così il lettore di fronte a un’esperienza radicale, e lo invita a riflettere sui possibili sensi che la determinano e che a partire da essa si dipanano, fedele all’esigenza filosofica di riflettere sui limiti che ci attraversano e ci costituiscono.
di Claudio D'Aurizio
-
I diari segreti di Wittgenstein
Recensioni / Marzo 2021A distanza di oltre trent’anni dalla prima traduzione italiana per Laterza, Meltemi ripubblica i Diari segreti di Ludwig Wittgenstein, formidabile documento di un’epoca, di una temperie culturale, di una vita. Scritte durante la Prima guerra mondiale, mentre il filosofo era impegnato come volontario al fronte, le annotazioni qui pubblicate costituiscono una parte degli appunti presi da Wittgenstein nel periodo 1914-1916. Ma, come suggerisce il titolo, questi diari hanno la particolarità di essere scritti in codice: «dividendo la sequenza alfabetica a metà, Wittgenstein sostituiva simmetricamente le lettere, vale a dire al posto della “a” (prima lettera) scriveva la “z” (ultima), al posto della “b” la “w” ecc., e viceversa» (p. 160). Appunti criptati, dunque, il cui contenuto si rivela da subito molto personale: sfoghi sulle condizioni di vita in guerra, considerazioni sui commilitoni («le persone con cui sto, più che volgari, sono incredibilmente limitate!», 8.5.’16), resoconti sull’avanzamento della riflessione filosofica (indicata da Wittgenstein semplicemente come «il lavoro»), ma anche preghiere («Oggi dormo sotto il fuoco della fanteria, e probabilmente perirò. Dio sia con me! Per sempre. Amen», 16.5.’16), meditazioni sul senso della vita, unitamente a più prosaiche descrizioni delle pratiche igieniche e delle abitudini sessuali del filosofo. La condizione materiale del linguaggio cifrato e la qualità dei contenuti convinsero Elisabeth Anscombe e George H. von Wright, esecutori letterari di Wittgenstein, a non includere queste annotazioni nell’edizione dei Quaderni 1914-1916, i cui appunti provengono dagli stessi taccuini ma sono scritti in chiaro. Come scrive nella prefazione Luigi Perissinotto, la mancata inclusione di questi materiali nell’edizione dei Quaderni costituisce un importante capitolo della ricezione del pensiero di Wittgenstein e risponde a precise scelte di ordine interpretativo: secondo Anscombe evidentemente la biografia doveva essere tenuta ben distinta dal pensiero filosofico, evitando commistioni mosse da indebiti pruriti voyeuristici.
Quello che Anscombe sembra qui suggerire è che solo una malsana e ben poco filosofia curiosità poteva giustificare la pubblicazione di annotazioni che lo stesso Wittgenstein aveva inteso proteggere con un codice, lasciandoci così intendere che esse non dovessero essere divulgate. Non è facile, tuttavia, condividere questo atteggiamento. Innanzitutto, perché esso si basa sull’assunto, tutt’altro che scontato, che nel lascito di un filosofo il materiale privato (il personale) sia sempre facilmente distinguibile dal pubblico (dal filosofico). Forse questo vale per alcuni filosofi o tipi di filosofi, ma non è affatto certo che valga anche per Wittgenstein o per quel tipo di filosofo che egli era o aspirava a essere (p. 14).
Perissinotto argomenta in maniera convincente a favore della ‘filosoficità’ degli appunti personali di Wittgenstein, nell’ottica di una confluenza tra vita e pensiero che tende all’indiscernibilità dei due poli. Sono due in particolare le circostanze riportate nei Diari segreti che vengono indicate come particolarmente significative sul piano teoretico: la lettura di Nietzsche, e più precisamente dell’ottavo volume dell’opere (quello contenente l’Anticristo), e la ‘svolta’ del luglio 1916, in cui Wittgenstein prospetta una connessione tra le sue ricerche sulla logica e la tematica etica, che diventerà preponderante nelle proposizioni conclusive del Tractatus logico-philosophicus.
Partiamo da quest’ultimo punto. Il 6 luglio 1916 Wittgenstein annota in una pagina di quelli che diventeranno i Diari segreti: «Nell’ultimo mese ho avuto colossali strapazzi. Ho riflettuto a lungo su ogni cosa possibile, però stranamente non riesco a stabilire una connessione con i miei ragionamenti matematici». Il giorno dopo però aggiunge: «Ma la connessione verrà stabilita! Ciò che non può dirsi, non può dirsi”». Senza trascurare l’evidente assonanza tra questa ultima esclamazione e la prop. 7 del Tractatus, è interessante qui accostare la pagina criptata alla pagina in chiaro, quella pubblicata nei Quaderni 1914-1916. Già l’annotazione dell’11 giugno introduceva riflessioni su Dio e sul fine della vita apparentemente estranee all’indagine filosofica fino ad allora condotta da Wittgenstein. Gli appunti del 5 luglio e dei giorni immediatamente successivi testimoniano un approfondimento di questo genere di riflessioni, che potrebbero sembrare osservazioni vibranti ma estemporanee o in ogni caso non connesse in maniera organica al resto delle riflessioni, di ordine logico-matematico. La pagina dei Diari segreti in questo caso chiarisce come lo stesso autore considerasse i due versanti del suo pensiero destinati a connettersi. Difficile negare dunque il valore filosofico di un appunto che, sebbene criptato (e dunque, secondo i curatori dei Quaderni, strettamente personale), risulta della massima importanza sul piano interpretativo.
L’altra circostanza cui si faceva riferimento, la lettura di Nietzsche condotta da Wittgenstein al fronte, risulta ancora più evidente e dimostra non soltanto l’interesse filosofico dei Diari, ma anche la già menzionata indiscernibilità tra vita e pensiero. Durante la sua esperienza come volontario, Wittgenstein legge alcuni autori che si riveleranno particolarmente significativi per il suo lavoro. Nei Diari vengono citati Tolstoj, Emerson e, appunto, Nietzsche:
Nella mattina ho marcato visita a causa del piede: distorsione muscolare. Non ho lavorato molto. Ho comprato l’ottavo tomo di Nietzsche e ne ho letto una parte. Sono rimasto fortemente colpito dalla sua avversità al cristianesimo. Perché anche nei suoi scritti è contenuto qualcosa di vero. Certamente il cristianesimo è l’unica via sicura per la felicità. Ma che succede se si rifiuta quel tipo di felicità?! Non sarebbe meglio andare tristemente alla deriva nella lotta senza speranza contro il mondo esterno? Ma una vita del genere è priva di senso. E perché non condurre una vita senza senso? È indegno? Come si accorda questo con il punto di vista rigorosamente solipsistico? Ma cosa devo fare affinché la mia vita non vada sprecata? Devo sempre essere cosciente dello spirito – esserne sempre cosciente – (8.12.’14).
Un filosofo che legge un altro filosofo è una circostanza evidentemente non solo biografica, così come sostiene Perissinotto. Ma un antifilosofo che legge un altro antifilosofo è un evento in cui teoria e vita tendono a coincidere. È questo il punto di partenza dell’interpretazione di Wittgenstein proposta da Alain Badiou, che inserisce l’autore del Tractatus nell’album di famiglia degli antifilosofi, accostandolo in questo modo proprio a Nietzsche e citando esplicitamente la lettura dell’Anticristo condotta da Wittgenstein al fronte. Scrive Badiou, dopo aver ricordato l’appunto wittgensteiniano citato poc’anzi:
La nostra prima domanda sarà: qual è questa “parte di verità” che Wittgenstein riconosce nelle imprecazioni di Dioniso contro il Crocifisso? E la seconda: che cosa può mai essere il cristianesimo di Wittgenstein se, a dispetto di questa “parte”, egli viene profondamente ferito dalla legislazione anticlericale del pazzo di Torino? Domande decisive, se si considera che Nietzsche e Wittgenstein in questo secolo, l’uno dopo l’altro, hanno dato il la a una certa forma di disprezzo filosofico per la filosofia (Badiou 2018, p. 17).
Il nome di questo disprezzo filosofico per la filosofia è, secondo Badiou, antifilosofia; le tre caratteristiche principali di quest’ultima sono rintracciabili, secondo il filosofo francese, tanto in Nietzsche quanto in Wittgenstein: «Una critica linguistica, logica, genealogica, degli enunciati della filosofia […]. Riconoscimento della non riducibilità della filosofia, in ultima istanza, alla sua apparenza discorsiva, alle sue proposizioni, alla sua fallace esteriorità teorica. […] L’appello fatto, contro l’atto filosofico, a un altro atto radicalmente nuovo che verrà detto sia, in modo equivoco, filosofico […] sia, più onestamente, sopra-filosofico e perfino a-filosofico» (Badiou 2018, pp. 18-19). Nel compimento di questo atto che, secondo Badiou, nel caso di Wittgenstein consiste nell’accesso a una «vita santa», si consuma quella perfetta saldatura tra biografia e teoresi che rende la distinzione tra le due inservibile. Di nuovo, sottolinea Badiou, questa saldatura paradossalmente viene suggerita a Wittgenstein da Nietzsche: «il cristianesimo designa la vita ordinata al suo senso indicibile, la vita “bella”, che è la stessa cosa della vita santa. Esso è sinonimo di felicità. Wittgenstein lo scriveva già nel suo diario, a proposito di Nietzsche. Poiché continuava: “Il cristianesimo è l’unica via sicura per la felicità”» (Badiou 2018, p. 24).
Sulla scorta dell’interpretazione di Badiou, e riprendendo le parole di Perissinotto, appare chiaro come la comprensione di quel tipo di filosofo (un antifilosofo?) che Wittgenstein era, o avrebbe voluto essere, non solo non può prescindere dal materiale biografico a nostra disposizione ma, più radicalmente, deve tenere in conto il proposito del pensatore in questione: quello di superare la dimensione esclusivamente teorica della filosofia, in vista della produzione di un atto che coinvolga l’esistenza e la trasformi in una vita santa, vale a dire felice e compiuta. In quest’ottica, la ripubblicazione dei Diari segreti risponde a un bisogno degli studiosi del pensiero (e della vita) di Wittgenstein, un bisogno che non può essere di certo derubricato a mera curiosità. E forse su questo, possiamo aggiungere, lo stesso filosofo che scriveva «sì, il mio lavoro s’è esteso dal fondamento della logica all’essenza del mondo» (Wittgenstein 1964, p. 181) sarebbe stato d’accordo.
di Stefano Oliva
.
.
Bibliografia
A. Badiou, L’antifilosofia di Wittgenstein, traduzione postfazione di S. Oliva, Mimesis, Milano-Udine 2018.
L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964.