Nei libri di storia della filosofia è raro incontrare donne, con qualche sporadica eccezione confinata al Novecento (Hannah Arendt è forse l’esempio più emblematico); ciò non significa che non siano esistite filosofe nel corso della storia, ma piuttosto che esse non hanno trovato spazio nel canone storico-filosofico occidentale. Il pregiudizio secondo cui la filosofia non sarebbe fatta né per le donne né dalle donne trova un’efficace smentita nel volume Corpo Mente. Il dualismo e le filosofe di età moderna (enciclopediadelledonne.it 2022), che attraverso un’interessante rassegna di autrici e testi ha il merito di mettere in luce il contributo delle donne alla storia della filosofia in un periodo in cui tradizionalmente trovano spazio soltanto filosofi. Le quasi quattrocento pagine di quest’antologia, arricchita da puntuali presentazioni delle autrici e delle opere considerate, rappresentano un tassello importante di quel «lavoro di riscrittura della storia della filosofia sulla base di un canone più inclusivo rispetto a quello che ha prodotto le narrazioni tradizionali» (p. 11), iniziato alcuni decenni fa.
La scelta dei curatori è ricaduta su quattordici autrici vissute nel periodo compreso tra il XV e il XVIII secolo, di diversa provenienza, oltre che su un autore – François Poullain de la Barre – degno di attenzione in qualità di singolare precursore del femminismo. Molte di queste scrittrici sono oggi sostanzialmente dimenticate; eppure, i testi qui selezionati testimoniano una consapevole partecipazione ai dibattiti filosofici del tempo. Se la consueta esclusione delle donne dal canone storico-filosofico affonda senz’altro le sue radici in una questione culturale, per cui «alle donne per molti secoli è stato precluso l’accesso all’ampio strumentario di cui disponevano gli uomini, che avrebbe consentito loro di coltivare e affinare le doti intellettuali» (p. 13), tale innegabile svantaggio di partenza non ha impedito ad alcune di loro di sviluppare un proprio pensiero filosofico e di confrontarsi con i filosofi più autorevoli, come dimostrano le loro prese di posizione sul rapporto mente-corpo, cruciale nella filosofia di età moderna.
La prima parte del volume (Da Christine de Pizan a Camilla Erculiani), a cura di Sandra Plastina, si apre con Christine de Pizan, pioniera della scrittura femminile come professione, dell’irrompere del soggetto sulla scena letteraria e del protofemminismo francese. Nata a Venezia intorno al 1365 e trapiantata ben presto in Francia (dove il padre, medico e astrologo, era al servizio del re Carlo V), Christine de Pizan ha consacrato buona parte della sua ampia produzione letteraria, in prosa e in versi, alla questione dell’educazione femminile, interrogandosi anche sulle ragioni dell’esclusione delle donne dal campo della letteratura. Celebre per aver preso fermamente posizione nell’acceso dibattito sul Roman de la Rose, sfociato nella querelle des femmes che avrebbe continuato a infiammare gli animi per secoli, tra il 1404 e il 1405 scrisse il Livre de la cité des dames, incentrato sulla convinzione che nessun ambito dell’attività umana è per natura precluso alle donne.
L’opera è degna di attenzione per molte ragioni; in particolare, merita di essere sottolineato – sulla scia della curatrice – l’abbandono dell’espressione di ascendenza scolastica «nature de femme» a favore di «conditions de femme somme toute» («somma totale delle condizioni femminili», p. 26), che riconduce l’identità femminile all’esperienza e alla storia, lungi da ogni essenzialismo. Aiutata da Dama Ragione, la protagonista della Cité des dames prende coscienza dell’infondatezza dei giudizi di biasimo nei confronti delle donne che gli uomini disseminano copiosamente nei loro libri. Tali giudizi sono definiti contro ragione e contro natura; inoltre, Christine de Pizan non esita a fare appello alle Sacre Scritture per sostenere l’uguaglianza tra uomo e donna: «Dio fece addormentare Adamo e creò il corpo della donna da una delle sue costole, nel senso che gli doveva essere al fianco come compagna e non ai suoi piedi, come una serva, e che egli la doveva amare come la sua stessa carne» (p. 40).
I rapporti sociali generalmente conflittuali tra uomini e donne, con le loro inevitabili implicazioni sulla ricerca della propria identità da parte di queste ultime, sono centrali nell’opera dell’autrice patavina Giulia Bigolina (c. 1518 – c. 1569). Scritto intorno al 1556-1558, in prosa, Urania, nella quale si contiene l’amore d’una giovine di tal nomeè «il primo romanzo scritto da una donna nella storia della letteratura italiana» (p. 45), ma è rimasto inedito fino ad anni recenti: una prima edizione, presto seguita da due traduzioni inglesi, è stata curata da Valeria Finucci nel 2002. Ben inserita nell’ambiente culturale del tempo, Giulia Bigolina mostra nel suo romanzo una notevole profondità psicologica e filosofica, nonché un’indubbia familiarità con la filosofia neoplatonica. Al di là dell’attenzione al tema amoroso, strettamente intrecciato a quello della bellezza dell’anima e del corpo, ampio spazio trova la riflessione sul posto delle donne nella cultura italiana rinascimentale, sulla necessità della loro educazione e sulle molte difficoltà che incontrano quando decidono di consacrarsi alla scrittura.
Un più spiccato interesse per questioni squisitamente filosofiche – e per il rapporto tra mente e corpo – si manifesta nell’opera di Luisa Oliva Sabuco de Nantes Barrera (1562 – c. 1622), autrice della Nueva filosofia della naturaleza de l’hombre (1587) in sette trattati. Mettendo abilmente a frutto gli studi di medicina, botanica e scienze naturali svolti con il padre, Sabuco ha elaborato una riflessione originale dal punto di vista sia della filosofia naturale sia della storia della medicina, senza esitare a prendere apertamente le distanze dal galenismo e dalla medicina a lei contemporanea, di cui critica l’inefficacia. Ai suoi occhi, l’essere umano è un’unica entità psico-fisica e l’alterazione della relazione armoniosa tra il corpo e la psiche – spesso frutto delle passioni – è causa della malattia, della follia e, nei casi più estremi, della morte. L’interpretazione della malattia in chiave psicosomatica – così come la proposta di servirsi della musica come terapia – sono particolarmente innovative. D’altronde l’autrice, nella lettera dedicatoria a Filippo II, non esitò a rivendicare con orgoglio il valore della propria opera, presentandola come necessaria perché «migliora il mondo in molti modi» (p. 98).
Lungi dall’assumere così apertamente la propria autorialità, molte scrittrici nel corso dei secoli hanno cercato di tenersi al riparo dall’esposizione pubblica ricorrendo all’anonimato o a uno pseudonimo. È questo il caso di Modesta Pozzo, vissuta a Venezia tra il 1555 e il 1592 e nota come Moderata Fonte, «una spiritosa trascrizione letteraria, nonché versione eufonica, del vero nome dell’autrice, che faceva pensare a un “modesto pozzo”» (p. 119). Autrice di diverse opere e ben inserita negli ambienti culturali veneziani, Moderata Fonte è oggi ricordata soprattutto per il dialogo Il merito delle donne, pubblicato postumo nel 1600, nel contesto della polemica suscitata dall’opera di Giuseppe Passi I donneschi diffetti. Nel dialogo, prima presa di posizione sulla questione femminile da parte di una donna nell’Italia di fine Cinquecento, l’autrice si avvale di argomentazioni paradossali per confutare la tesi della maggior eccellenza dell’uomo, insistendo sul ruolo fondamentale dell’educazione ai fini dell’emancipazione femminile.
Già da questi primi esempi emergono con forza alcune costanti: la difficoltà per le donne di prendere pubblicamente la parola, l’inadeguatezza della loro educazione, il tentativo di rivendicare la propria parità (talvolta anche la propria superiorità) rispetto agli uomini. Sulla sponda orientale dell’Adriatico, precisamente a Ragusa (odierna Dubrovnik) a farsene portavoce è Marija Ivan Gundulić, o Maria Ivan Gondola. Nella sua sola opera superstite, la lettera di dedica ai Discorsi (1584) scritti dal marito Nicolò Vito di Gozze, ella prese le difese della poetessa Cvijeta Zuzorić e, più in generale, delle donne e delle loro capacità intellettuali, attraverso un curioso rovesciamento del paradigma aristotelico. A suo avviso, infatti, proprio per la mollezza del loro temperamento (a cui solitamente si attribuiva la loro subalternità intellettuale), le donne avrebbero una maggior predisposizione a occuparsi di questioni filosofiche e scientifiche.
La stessa fiducia nelle doti intellettuali femminili si ritrova in Camilla Gregetta Erculiani, «l’unica donna italiana nel XVI secolo a pubblicare un libro di filosofia naturale» (p. 165). Questa speziale padovana, nelle Lettere di Philosophia naturale (1584), dichiarava espressamente di voler «far conoscere al mondo, che noi siamo atte a tutte le scientie, come gli huomini» (p. 166). Lei stessa scrisse di filosofia naturale in volgare, elaborando un’originale teoria sul diluvio universale (attribuito a cause naturali) e ipotizzando la possibilità della generazione spontanea degli uomini in seguito a catastrofi naturali. Sospettata di eresia e interrogata dall’Inquisizione, si difese sostenendo la piena legittimità della sua riflessione, che non riguardava il piano teologico, bensì si limitava a quello puramente filosofico.
L’attiva partecipazione delle donne al dibattito filosofico del loro tempo, anche attraverso il dialogo epistolare con i suoi principali esponenti, emerge ancora più nettamente nella seconda parte del volume (Da Lucrezia Marinella a Catharine Cockburn), a cura di Emilio Maria de Tommaso. In particolare, si rivela cruciale il sostegno di familiari di sesso maschile (si tratti del padre, di un fratello o del marito) per colmare lo svantaggio educativo legato alla condizione femminile e avere l’opportunità di assecondare le proprie aspirazioni. Proprio grazie a un ambiente familiare intellettualmente vivace, Lucrezia Marinella (1571 – 1653) poté dedicarsi alla scrittura e farsi apprezzare nella Venezia del tempo. Ella fu tra coloro che reagirono ai Donneschi diffetti di Passi, dimostrando, nel suo saggio Le nobiltà et eccellenze delle donne (1600), l’erroneità delle conclusioni dell’avversario fino a sostenere la superiorità ontologica, fisiologica e morale della donna, in cui ravvisa l’immagine più nobile della divinità. A tal fine riprende – come già Christine de Pizan – il racconto della Genesi, sulla base del quale «suggerisce che l’uomo sia funzionale alla generazione del corpo femminile, nella misura in cui fornisce la degna materia della produzione della donna» (p. 189).
Marie Le Jars de Gournay (1565 – 1645), nota per il suo stretto legame con Michel de Montaigne, che la considerava la propria figlia spirituale, riprese nei suoi scritti Egalité des hommes et des femmes e Grief des dames le tematiche tipiche della querelle des femmes, esprimendo la convinzione che la disuguaglianza tra uomini e donne non sia biologica ma culturale; «la sua idea filosoficamente più forte, che opera in filigrana negli scritti egualitari, è la neutralità della mente, ossia la sua mancanza di connotazione di genere» (p. 211). L’idea che la mente non abbia sesso è centrale anche nella riflessione di François Poullain (o Poulain) de la Barre (1647 – 1723), filosofo di impostazione cartesiana che in ben tre opere (De l’éducation des dames, De l’égalité des deux sexes, De l’excellence des hommes) denunciò con fermezza l’assurdità dei diffusi pregiudizi nei confronti delle donne. Proprio una donna, Elisabetta di Boemia, discusse alcuni degli aspetti più controversi della filosofia cartesiana – in particolare l’annosa questione dell’interazione tra anima e corpo – in un avvincente carteggio con il suo autore, inducendolo a precisare meglio la propria posizione nel saggio Le passioni dell’anima.
In ambito anglosassone, Anne Finch Conway (1631 – 1679) fu aiutata a coltivare le proprie ambizioni intellettuali prima dal fratello, poi dal marito. Fu allieva – inizialmente per via epistolare – di Henry More, esponente di spicco del platonismo di Cambridge, da cui prese tuttavia le distanze in merito al rapporto tra corpo e spirito. Fautrice di una tripartizione ontologica (Dio, Cristo, le creature, distinti perché diversamente esposti al cambiamento), elabora una nozione di corpo piuttosto originale, sia rispetto al maestro sia rispetto all’ontologia cartesiana, di cui rifiuta il dualismo. Il medico Franciscus Mercurius von Helmont, che la introdusse al cabalismo e al quaccherismo, alla sua morte fece stampare i Principia philosophiae antiquissimae et recentissimae de Deo, Christo et Creatura id est de materia et spiritu in genere (1690), redatti sulla base di un taccuino su cui Lady Conway aveva annotato a matita le proprie riflessioni filosofiche.
La familiarità con l’ambiente del platonismo di Cambridge, a cui il padre Ralph Cudworth apparteneva, si ritrova in Damaris Cudworth Masham (1659 – 1708). Ella intrattenne intensi scambi intellettuali con John Norris, ma anche con Leibniz (di cui criticò il sistema dell’armonia prestabilita) e Locke, con cui condivise una lunga e solida amicizia. Proprio a Locke alcuni attribuirono erroneamente la sua prima opera, pubblicata anonima nel 1696 e intitolata Discourse Concerning the Love of God. Nella sua seconda opera filosofica, Occasional Thoughts in Reference to a Vertuous or Christian Life (1705), Lady Masham prese posizione sulla condizione femminile, attribuendo alle donne un ruolo centrale in ambito educativo e mettendo in luce l’assurdità di non istruirle adeguatamente. La filosofia di Locke influenzò significativamente anche Mary Astell (1666 – 1731), considerata la prima femminista inglese. Non si tratta tuttavia di un’accettazione acritica, come dimostra The Christian Religion, as Profess’d by a Daughter of the Church of England (1705), in cui l’ipotesi lockiana della materia pensante è messa in discussione. Una sintesi dei fondamenti dell’epistemologia lockiana e di alcuni elementi del platonismo di Cambridge trova spazio, infine, nell’opera di Catharine Trotter Cockburn (1679 – 1749), che pubblicò vari scritti in forma anonima, tra cui Remarks upon the Principles and Reasonings of Dr. Rutherforth’s Essays on the Nature and Obligations of Virtue (1747).
La ricca panoramica di testi e autrici di cui si è cercato di dare un’idea in queste pagine (che vorrebbero essere soprattutto un invito a una più approfondita esplorazione) dimostra efficacemente che anche le donne si sono occupate di filosofia, malgrado circostanze poco favorevoli al loro fiorire intellettuale e contrariamente a quanto si tende a pensare sulla base della lettura dei manuali canonici di storia della filosofia. Il contributo delle donne alla storia delle idee europea merita perciò di essere riscoperto e rivalutato; in questa prospettiva, come ha sottolineato Nuria Sanchez nella sua Postfazione, il presente volume rappresenta una «pubblicazione di grandissima utilità per avvicinare studenti e studentesse a opere di donne intellettuali quasi sconosciute nei programmi didattici abituali» (p. 376). Ciò vale anche per un pubblico più ampio: Sandra Plastina ed Emilio Maria de Tommaso, curando questo libro nell’ambito del pregevole progetto enciclopediadelledonne.it, hanno reso accessibili a qualsiasi lettore interessato – non soltanto, dunque, a studenti o specialisti – testi a lungo trascurati. Disseppellirli dall’oblio a cui sono stati ingiustamente condannati, permettendo loro di essere conosciuti e apprezzati, sembra il modo migliore per iniziare a restituire alle donne quel posto nella storia della filosofia che per secoli è stato loro negato.
Nel film Magnifica presenza (Fandango, Faros Film) del regista turco Ferzan Özpetek, il giovane Pietro (Elio Giordano), vive un’esperienza singolare. Egli si accorge infatti, col tempo, di soggiornare in un appartamento infestato da fantasmi. Le misteriose entità, dapprima sfuggenti e timorose, trovano in Pietro un confidente, una figura amica, un tenero protettore. Lo stesso Pietro, che tra gli spiriti incontra Luca, vede in quest’uomo l’espressione più genuina ed autentica del sentimento amoroso, il candore delle prime volte. Sia Pietro che i membri della ‘compagnia Apollonio’ scoprono così un altro modo di vivere, di abitare il tempo, insieme, un tempo ‘ritrovato’, ben distante dalla mera cronologia, dal riepilogo del record quotidiano. I fantasmi che popolano la casa di Pietro non sono infatti ‘invenzioni’, per dirla con Bioy Casares. Non sono nemmeno il frutto di proiezioni sinistre, di spaventose allucinazioni. Lo svolgimento del film mostra che anche Pietro, come i suoi coinquilini, deve perdersi per poi ritrovarsi, per rivedersi, in senso autentico. Rivedere opinioni, correggere i propri giudizi su cose e persone: anche Pietro è un fantasma. Proprio di questa rettifica, di questa rilettura consta l’essenza più segreta della Ricerca.
Di Proust filosofo e della sua relazione con la fenomenologia merleau-pontyana si è scritto molto, nel corso negli anni passati. All’interno del vasto panorama offerto da questi studi, la recente pubblicazione del testo di Franck Robert va ad occupare una posizione di sicuro rilievo, e questo per più di una ragione. In primissimo luogo a colpire è l’ampiezza e la profondità, fisica e tematica, del volume in questione: composto da tredici capitoli (Proust philosophe; Percevoir, le rapport sensible au monde; De l’art; Modernité de Proust; Littérature et réalité; L’homme et l’œuvre; Art et vie; Le style; Vérité et institution; Approche phénoménologique. Temps et subjectivité; Le temps sensible; Écriture et vérité ed Ouvertures)che si dispongono su oltre quattrocentocinquanta pagine di testo, il lavoro di Robert rappresenta, a mia personale conoscenza, lo studio ad oggi più completo dedicato specificamente al confronto tra l’opera di Proust ed il pensiero di Merleau-Ponty, quest’ultimo da sempre affascinato, per confessione del filosofo stesso, dalla prosa dello scrittore e dalla sua ricchissima eredità concettuale. Un ulteriore e pregevole aspetto formale che mi preme rimarcare, in apertura, è la presenza constante, nell’argomentazione di Robert, di richiami teorici e testuali al corso merleau-pontyano Le problème de la parole, tenutosi al Collège de France tra gli anni 1953 e 1954, recentissimamente edito in lingua francese (Métis Presses, 2020, di questo testo mi permetto di segnalare una mia recensione pubblicata in «Studi di Estetica. Italian Journal of Aesthetics», vol. 19, 2021, pp. 237-242). Questa peculiarità, questa scelta speculativa, rappresenta senza dubbio un elemento meritorio e di originalità del già di per sé ricco lavoro di Robert.
La tesi fondamentale del libro è l’affermazione della centralità del ruolo della scrittura al cuore dell’esperienza sensibile. La scrittura non è slegata dalla pratica percettiva, anzi: ne è elemento costitutivo, compimento essenziale, sublimazione. Grazie alla scrittura l’uomo può ritrovare il senso autentico del tempo e dello spazio: tornando sui suoi passi, ripercorrendo a ritroso il cammino della conoscenza, ritrovandosi. Si tratta di un’opinione sostenuta sia da Proust che da Merleau-Ponty, sebbene sia stata comprovata in campi e discipline affatto diverse. Sia lo scrittore che il filosofo, però, hanno fatto della scrittura una vocazione, un mestiere, un modo di vivere ed interpretare il mondo e la propria epoca. Per entrambi la scrittura si spinge, si inoltra dove la percezione sensibile, la nostra prima e fondamentale porta d’accesso al mondo percepito, non può arrivare. Ma perché quest’insufficienza? Cosa serve a giustificare la sua comparsa della ‘grafia’, il suo richiamo, la sua fantasmagoria? Quale logica comanda la dimenticanza, e quale ancoraggio impone, in senso contrario, il percorso, la rotta del ricordo? Robert tenta di rispondere in questo testo a tali domande.
La scrittura, lungi dall’essere banale, sterile, ripetizione del senso, ne sancisce invece la ‘raccolta’, la ‘fissazione’, l’istituzione che non è, però, da intendersi quale esercizio di una qualsivoglia facoltà intellettuale, superiore, di ‘sorvolo’. La scrittura, dice Robert, «apre su di un’universalità che non presuppone, ma che, viceversa, inaugura» (p. 16). Tale affermazione prescrive la primarietà dell’espressione sull’espresso, della comunicazione sul contenuto della comunicazione stessa, facendo allusione ad un’universalità che non può – più – essere quella del concetto (p. 433). La parola non deve essere compresa come «esercizio del concetto, ma rivolta verso l’intersezione dei mezzi espressivi di una pienezza che essi delimitano [qu’ils jalonnent] ma che non contengono», recita Il problema della parola (p. 420; Merleau-Ponty 2020, 143).
Per mezzo dell’espediente letterario proustiano, «la verità che si rivela al narratore nelle reminiscenze della sensazione e nella scrittura – dice Robert – non è un accesso ritrovato a un mondo di idee che l'esperienza sensibile avrebbe coperto, poiché le arti che aprono la strada a questa verità, che abbozzano ciò che la letteratura realizzerà in altro modo, attraverso la scrittura, sono proprio le arti meno concettuali, più vicine al sensibile» (ibid.). Non è la filosofia che conduce alla filosofia, dice Robert, il sapere non si nutre di sapere, autenticamente, in modo univoco, ma è la ‘non-filosofia’, l’esperienza concreta, vissuta, ad indicare la via per il suo superamento non concettuale, laterale. L’intera opera di Proust, sostiene Robert facendo parlare le pagine Merleau-Ponty, può essere intesa allora come un tentativo di rovesciamento del platonismo, dell’idealismo cartesiano e delle sue derive teoreticamente più pericolose. Citando nuovamente Il problema della parola, in questo caso, «l’idea non precede l’espressione, ma è l’espressione ad essere responsabile dell’avvento dell’idea» (p. 108; Merleau-Ponty 2020, 160).
L’ambizioso compito della scrittura, e con essa del linguaggio letterario, è quello di restituire «la modalità di apparizione del mondo sensibile» (p. 221). E proprio «restituendo questo mondo vissuto, pre-nozionale, è possibile effettuare il passaggio all’idea: ovvero, è possibile costruire un ‘equivalente spirituale’ dell’esistenza» (Merleau-Ponty 2020, 178-179). Dunque, ‘spirituale’ ed ‘ intellettuale’ non sono termini coincidenti. Soprattutto, scrive Merleau-Ponty, «le essenze vere – e non quelle intellettuali – si trovano esclusivamente attraverso il chiaroscuro del vissuto, che noi provvediamo a costruire attraverso la nostra vita» (ibid.). La ‘modernità’ proustiana, la sua ‘ricerca’e la sua successiva realizzazione, sta, per Merleau-Ponty, nella sua capacità di rompere con la complicità idealistica con la conoscenza di ‘sorvolo’, la quale «sostituirebbe alle cose allo stato nascente l’idea delle cose», approdando alla dimensione più propria di ricerca dell’«idea sensibile» (p. 419). Quest’indagine si alimenta della proliferazione di «significati nascenti» (p. 435), designati dal criterio della «denominazione» (Merleau-Ponty 2020, pp. 153, 181-182; cfr. Merleau-Ponty 1996, pp. 106-108) e del suo eventuale capovolgimento ‘algoritmico’, – del quale il pittore Elstir è daimon proustiano né A l’ombre des jeunes filles en fleurs, così come, a ben vedere, lo è della reversibilità carnale merleau-pontyana – ovvero di quella logica del rinvio che, nella letteratura latu sensu, consentirebbe alla verità di raggiungere quell’universalità dettata da una progressiva ed inesauribile crescita «laterale» (Merleau-Ponty 2013), contributiva ed intersoggettiva.
Di questo consta la sintesi, passiva, delle ‘cose’ che la prosa di Proust sarebbe in grado di raccogliere, di riunire: la sintesi «risiede – allora – nel modo in cui il corpo riceve il mondo, nella capacità di tracciarvi delle linee che costituiscono un senso, degli assi che il soggetto segue, e che accompagna nel suo modo di abitare il mondo» (p. 435). Menzionando indirettamente il lavoro di Jacques Garelli, la ‘ricerca’ si occupa della raccolta del «logos del mondo estetico (…) delle idee prime che sono sensibili perché, all’interno del sensibile stesso, ne tracciano il senso pur senza apparirvi esteriormente» (ibid.).
Già, ma perché – come anticipato – si continua a parlare insistentemente, nelle pagine di Robert, di raccolta, di recupero del senso? Cosa è andato perduto nella delicata transizione tra percezione ed espressione, seguendo questa volta l’itinerario storico e teorico dell’opera merleau-pontyana? Cosa è andato ‘storto’? La replica a queste domande, sebbene ponderata e testualmente fondata, non può che risultare ambigua. A pagina 255, Robert sostiene che « [m]entre nell'opera di Proust la scrittura ha origine nella perdita, è una ricerca di un significato sepolto nell'esperienza del narratore, una raccolta e uno svelamento del passato, una ricerca di un senso della vita perduta, una vita superiore a qualsiasi vita vissuta, nell'opera di Stendhal la scrittura è identica alla vita stessa, un progetto di esistenza sempre già superato da questa stessa esistenza, un eccesso, un'apertura su un futuro che si inventa mentre si realizza, un'avventura». È una prima risposta, di primo acchito soddisfacente: vi sono molti modi di vivere, di interpretare, e quindi di scrivere il mondo circostante.
Ciò che, a mio parere, Merleau-Ponty individua ed apprezza nell’opera proustiana, ed è un aspetto che Robert coglie appieno, è il ruolo positivo della dimenticanza, dell’oblio, della capacità di allontanarsi dal mondo senza perderlo mai dal personale ‘orizzonte ermeneutico’, direbbe Collot, senza perderlo mai del tutto di vista. Per Proust ogni opera, ogni sforzo, mira ad «accogliere e a raccogliere l’esperienza», attraverso una «conquista differita e sospesa del senso dei fenomeni», la quale si attua per mezzo del «ritorno incessante al concreto, al sensibile» (p. 36). Secondo Proust, e a parere di Merleau-Ponty, l’esperienza, l’erranza avventurosa e, segnatamente, l’errore, la maldestrezza, è necessaria al fine di raggiungere la verità (p. 39). Questo punto è cruciale: il narratore non sarebbe tale senza la distanza, senza la contrarietà, senza la trascendenza che lo allontana da persone e cose, come l’istituzione del sentimento amoroso e la gelosia provata per Albertine nel corso su Istituzione e passività attestano con chiarezza. È come dire che sbagliando si impara o che il viaggio conta almeno quanto la destinazione, il che è condivisibile, detto anche in modo triviale.
La posta in gioco è altissima. Non si tratta più solo, a ben vedere, di riconoscere il proprio favore ad un modo di raccontare le cose, ad un determinato tipo di restituzione degli eventi: ciò che si ridiscute, in queste pagine, è nientemeno che lo statuto dell’idealità, della razionalità, dell’epistemologia platonico-aristotelica che tradizionalmente sostiene l’architettura del pensiero occidentale.
Cercando di riassumere, queste sono le domande che ci si pongono, nuovamente: che tipo di relazione c'è tra l'eternità e la temporalità? La temporalità è un fatto primitivo o derivato? Può qualcosa essere ‘eterno’ e ‘temporale’ allo stesso tempo? Può qualcosa di originariamente ‘temporale’ assurgere al rango di essere ‘eterno’? Intuitivamente, ciò che è temporale può durare ‘per sempre’. Ciò che dura può essere ‘sempiterno’, ma è ancora situato ‘nel tempo’, in quanto radicato in una cornice strettamente temporale, chiariranno le lezioni di Merleau-Ponty su L’origine della geometria husserliano. Ciononostante, a quanto pare, per conferire all'azione temporale un valore autentico, positivo, abbiamo bisogno di una nuova definizione di memoria e di oblio, superando la lezione dello schiavo del Menone.
Nell’ontologia di Merleau-Ponty, «l'oblio ha la priorità» sul ricordo, perché «senza oblio non sarebbe possibile alcun ricordo» (Waldenfels, Calandrella 2000, 114). Dimenticare significa in un certo senso lasciare andare qualcosa, rinunciare al pieno possesso intellettuale del mondo, per conservarlo in altro modo. Il mondo sfugge perché il flusso del tempo influisce sulle capacità del soggetto vivente di trattenere tutte le possibili esperienze che passano, che scorrono, che si confondono l’una nell’altra. Il soggetto a cui pensa Merleau-Ponty non detiene più le prerogative di una coscienza assoluta poiché rivela un'apertura naturale, una disposizione ad accogliere il divenire del tempo e quindi a concedere «una sorta di passività» (Morris 2018, 86). Contestando il concetto di «ritenzione» di Husserl, Merleau-Ponty rimprovera a questi di non aver ammesso con sufficiente chiarezza che la memoria «implica l'oblio», afferma Gallagher (2005, 107).
Questo è un punto essenziale, poiché Merleau-Ponty non può sostenere il fatto che l'oblio possa essere concepito come «un passaggio nel nulla, – come ha fatto il tedesco – (...) ma – al contrario, – un modo di essere a... nell'allontanarsi da...» (Merleau-Ponty 1964, 250). Riprendendo le parole di Gallagher, «l'oblio permette la possibilità dell'intenzionalità; è il necessario rovescio dell'intenzionalità. Se l'intenzionalità è intesa come differenziazione, uno scarto, l'oblio è indifferenziazione» (2005, 107). Nell'ontologia di Merleau-Ponty, nulla è completamente perso, dal momento che nulla è assolutamente guadagnato, acquisito una volta per tutte. La presenza o l'assenza effettiva dell'uomo in questo mondo, la sua presa su di esso è, a ben vedere, solo una questione di variazione tra un modo di agire consapevole, intenzionale, e una modalità involontaria e inconsapevole di indifferenza vitale, un abbassamento, una regressione in qualche modo controllata.
La ritenzione è l'inarrestabile «affondamento graduale» della percezione presente, come hanno sottolineato Waldenfels e Giuliani (2019, 50), ma essa non comporta un eventuale, sciagurato naufragio della memoria. Conservare qualcosa significa invero non lasciar andare, trattenere ciò che l'oblio disperderebbe. Il processo di dimenticanza, proseguono i due studiosi, è «l'inverso dell'attenzione e, in quanto impercettibile, appartiene alla percezione stessa» (ibid.). La ritenzione entra in gioco in qualsiasi momento, poiché l'oblio vero e proprio «inizia ora» (ibid.), nel ‘tutto’ che è ‘ogni’, corrisponde cioè all'ineliminabile lato oscuro della percezione, di ogni atto percettivo. Ma come funziona questo processo di allontanamento? Come può Merleau-Ponty sostenere che la dimenticanza non porta alla completa, diciamo, cancellazione del ricordo, della presenza? Infine, come può il filosofo francese salvare l’essere dal nulla, dall’irrecuperabile?
Ecco che allora l’erranza proustiana insegna propriamente a Merleau-Ponty che è il corpo a custodire i segreti della memoria, ad esserne lo scrigno del tempo il cui sigillo può essere divelto solo a determinate condizioni, che non sono quelle dettate dalle logiche dell’intelletto. L’esperienza principe che testimonia la sussistenza, sotterranea, silenziosa, di questa memoria di permanenza, è offerta già dalle primissime pagine proustiane della Ricerca, dedicate alla descrizione del processo di addormentamento e di risveglio dal sonno del narratore. È la «descrizione del risveglio – dice Robert – e la scoperta della continuità tra il mio essere ed il mondo, che consentono di pensare la memoria del corpo» (p. 372). Questo lungo passo della Ricerca è commentato da Robert all’interno del capitolo Le temps sensible, collocato verso la conclusione del libro, e che ne rappresenta, a parere dello scrivente, uno degli estratti più vividi e riusciti circa l’analisi della comunanza tra i due intellettuali.
Nelle pagine proustiane, Merleau-Ponty coglie infatti quell’onirismo, quell’elemento immaginario, simbolico, proiettivo e retrospettivo, quella poesia o ‘poetica’ della coscienza, quell’affaiblissement dello spirito che stava cercando, quell’«indice» (Merleau-Ponty 1945, 479) che segnala un problema, che, filologicamente, lo interessava già dal 1945: mi riferisco all’attività nella passività, ai movimenti avversi e pur inerenti alla vita stessa, il chiaroscuro che, come detto, costruiamo giorno per giorno (e notte per notte). Quella peculiare azione-passione che è l’addomentarsi, l’‘endormissement’ è la migliore prova, illustra Robert, che una coscienza può perdersi e ritrovarsi «rimanendo se stessa», che essa non è mai pienamente presenza à sé, e che il sogno non incarna l’assenza di ogni coscienza» (p. 366). Al contrario, il sonno, come la veglia, incarna «un modo in cui il corpo dispone per incontrare il mondo» (ibid.).
Assodata la virtualità del sonno, quella cavità che è una possibilità interna all’essere, perché la coscienza «scivola, senza una transizione chiara, nel sonno» (p. 367), altrettanto importante appare il risveglio, nel quale il corpo effettivamente si ‘ritrova’. In Proust, «il tempo ritrovato (…) si delinea innanzitutto nel modo in cui il corpo conserva la memoria del passato (...) il corpo – prosegue Robert – è innanzitutto ciò che riceve, che raccoglie il mondo, ciò che è sensibile al mondo; in esso, nel sonno, come nella vita percettiva, si radica un senso che non proviene dall'attività della coscienza di veglia» (p. 366). Il corpo è un qualcuno, è colui che mantiene e salvaguarda il legame con il cosmo, il tempo e lo spazio. Proprio come Merleau-Ponty, anche Sartre si è cimentato nell’analisi del sonno proustiano, insistendo però grandemente – e colpevolmente, rimarca Robert – «sull’immobilità del corpo, sull’annullamento di ogni motricità e l’abbandono di ogni fascinazione dei pensieri» (p. 370).
È un versante interpretativo che Merleau-Ponty non condivide, e che si impegna a confutare proprio sulla base della lettera proustiana. L’immobilità ipnotica cui pensa Proust, dice Robert leggendo Merleau-Ponty, ricalca infatti di una soppressione diversa, che non è concepita come degradazione, diminuzione della vita della veglia. Nel sonno, si vive in un altro modo, secondo rinnovate coordinate etologiche: l’immobilità è infatti «una possibilità del corpo che si relaziona a delle possibilità altre rispetto alla motricità» (ibid.) e che non è affare di coscienza. Nel sonno, il corpo si ritrova: nel riassorbimento letargico, il dormiente ri-scopre, potremmo dire, la ‘religione’ ed il culto primitivo di un passato carnale dal carattere enigmatico, una liturgia per la quale l’ancoraggio alla profondità, alla stasi del riposo personifica già, forse curiosamente, le virtualità di un progetto, una specifica «iniziazione cinetica» (p. 67), l’attributo di un «movimento imminente» (Merleau-Ponty 2020, 139).
L’esperienza di Pietro perciò si ‘scrive’, si ‘raccoglie’. Nel sonno, nel sogno, in questa dimensione non meglio precisata dell’immaginario, la ‘compagnia Apollonio’ rivive, e Pietro con lei: le sue vicende riecheggiano per i muri dell’appartamento, le voci dei suoi protagonisti lo accompagnano nelle vicissitudini quotidiane, ed il recupero, la raccolta del senso, ‘ritrovato’, la sera, ha il sapore dolce dell’intimità, dell’appuntamento. L’auspicio è che la ricerca possa, in futuro, concentrarsi su quest’ambiguità teorica, quest’anfibolia interna alla vita cosciente, rappresentata dalla dualità sonno-veglia, un aspetto che il libro di Robert ha messo in mostra con singolare fulgore.
di Riccardo Valenti
Bibliografia
Opere merleau-pontyane
M. Merleau-Ponty (1945).Phénoménologie de la perception, Paris, PUF
M. Merleau-Ponty (1964). Le visible et l’invisible. Suivi de Notes de travail, Paris, Gallimard
M. Merleau-Ponty (1996). Sens et non-sens, Paris, Gallimard
M. Merleau-Ponty (2013). Recherches sur l’usage littéraire du langage. Cours au Collège de France. Notes 1953, Genève, Métis Presses,
M. Merleau-Ponty (2020), Le problème de la parole. Cours au Collège de France. Notes, 1953-1954, Genève, Métis Presses
Bibliografia secondaria
S. Gallagher (2005) «Disrupting Seriality. Merleau-Ponty, Lyotard, and Post-Husserlean Temporality», in L. Hass; D. Olkowski (ed.), Rereading Merleau-Ponty. Essays Beyond the Continental-Analytic Divide, New York, Humanity Books
D. Morris (2018). Merleau-Ponty’s Developmental Ontology, Evanston, Northwestern University Press
B. Waldenfels; D. Calandrella (2000), Time Lag: Motifs for a Phenomenology of Time, in «Research on Phenomenology», vol. 30, Leiden, Brill
B. Waldenfels; R. Giuliani (2019) «Vortex of Time: Merleau-Ponty on Temporality», in E. Alloa; F. Chouraqui; R. Kaushik (ed.), Merleau-Ponty and Contemporary Philosophy, Albany, Suny
Mai nella storia si è scritto tanto, e mai, in proporzione, letto così poco. Nel vortice delle pubblicazioni, in una sempre più faticosa ricerca di una (supposta) scientificità fatta di riferimenti e citazioni, in una sempre più marcata parcellizzazione dei campi operativi, in una sempre più feroce protezione di nicchie di competenza esclusiva e autoreferenziale, spesso dimentichiamo che la ricerca è, sempre e di nuovo, una esplorazione.
Naturalmente, le esplorazioni sono faticose e, soprattutto, pericolose. Non sempre portano a qualche risultato e, spesso, ciò che si trova non è ciò che si stava cercando. Ma sono ciò che davvero consente l’avanzamento del pensiero e delle pratiche. Esplorare richiede la capacità di andare oltre il già noto, il coraggio di osare una strada alternativa, la propensione a non dare per scontato esiti e significati, l’attitudine a evadere dalle logiche iterative delle odierne pubblicazioni. Insomma, è una attività rara.
E a questa attività, Philosophy Kitchen ha deciso di dedicare un numero – il primo di una serie, in effetti. È un numero particolare perché non è monografico in senso stretto, cioè “dedicato a un argomento specifico”: anzi ambisce ad avere un’apertura massima verso tutti quei pezzi che, fin troppo spesso, nei casellari delle monografie non riescono a trovare posto. Quegli scartamenti, quei sondaggi dell’inesplorato che hanno davvero il coraggio di proporre interpretazioni inconsuete, ipotesi non scontate e letture transdisciplinari.
Nessuna rilettura, nessuna applicazione su nuovi casi di vecchi metodi, nessun pezzo compilativo, nessun riaffermazione di concetti già diffusi o discussi: solo coraggiose fuoriuscite dai canoni consolidati.
Le strade possono essere molte e riguardare tutti gli ambiti di cui Philosophy Kitchen normalmente si occupa:
- Filosofia teoretica
- Logica, storia e filosofia della scienza
- Filosofia morale
- Estetica e filosofia dei linguaggi
- Storia della filosofia
- Scienze giuridiche
- Architettura
- Scienze politiche e sociali
- Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 30 novembre 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 16 dicembre 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 30 aprile 2023 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2023.
L'Idée de littérature. De l'art pour l'art aux écritures d'intervention (éditions Corti, 2021) propone un’analisi dei tratti costitutivi dell’idea di letteratura attualmente diffusa in Francia, cogliendone l’evoluzione dal punto di vista storico, geografico, tematico e generico. Particolare attenzione è riservata al panorama critico francese e alle influenze dal mondo anglosassone (studi postcoloniali, studi culturali, studi areali), nonché all’apporto di aree come le neuroscienze, l’antropologia e la sociologia. Vengono infine esaminate le attuali pratiche di scrittura, anche non professionale, nel quadro della diffusione delle nuove tecnologie.
Partendo dall’osservazione dei più recenti fenomeni del mondo letterario, come il dibattito suscitato dal conferimento del premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan nel 2016, la scelta di Svetlana Aleksievič per il precedente o le reazioni del movimento #Metoo, l’autore riflette sulla crisi teorica attualmente in corso, che si realizza con il passaggio da una concezione di letteratura come sfera autonoma a una littérature-monde (p. 37), inclusiva e democratica, consapevole del proprio ruolo nella formazione delle coscienze, incline a dar voce alle minoranze e rivolta a un pubblico ampio, libera dai formalismi e dai generi tradizionali e aperta alle contaminazioni con altre arti e discipline. Per Gefen, tale concezione si realizza grazie al superamento di una visione idealista, estetica ed estetizzante della letteratura, nata con il Romanticismo e basata sull’ordine soggettivo, qualificata dalla forma e comprensibile unicamente attraverso una disciplina endogena (la stilistica) o connessa al proprio campo (linguistica, semiologia o narratologia).
Per comprendere questa “rivoluzione silenziosa” (p. 37), l’autore ripercorre l’evoluzione dell’idea di letteratura nella sua accezione moderna a partire dal XIX secolo e dal Romanticismo, periodo del quale la concezione contemporanea è ancora ampiamente tributaria. A partire da questo momento, come noto, la letteratura acquisisce la propria autonomia inserendosi nello spazio dell’estetica, andando incontro alla disgiunzione del concetto di bello dall’oggetto rappresentato e alla liberazione dai canoni classici. La concezione dell’Art pour l’art, con il rifiuto dell’idea di utilità o utilitarismo, costituisce una tappa fondamentale di tale evoluzione. Nel corso del Novecento fino a oggi, l’idea estetica della letteratura ha configurato il campo letterario, determinandone la storia e la geografia, tracciandone la sociologia e influenzando la teoria dei generi e l’analisi delle pratiche di scrittura. Secondo l’autore, la riformulazione di tale paradigma, a cui tendono le opere, le pratiche e le teorie contemporanee, dovrebbe indurre a riconsiderare il progetto di autonomia estetica, riconducendolo a una semplice parentesi nella storia. Dal processo in corso, emerge una concezione dell’opera d’arte come oggetto culturale, nonché un maggiore interesse per le istituzioni e le relazioni di potere. In questo quadro, la critica postcoloniale mette in discussione l’universalità del giudizio estetico, chiedendo la sostituzione di categorie astratte con criteri locali e relativi e contestualizzando le produzioni.
Il secondo capitolo, dedicato all’estensione geografica della letteratura, ripercorre le principali tappe della formazione di un modello storicamente teleologico, elaborato a partire dal XIX secolo e legato alla formazione di nazionalismi letterari, estetici e linguistici. La nascita degli studi di comparatistica e la fabbricazione di un’idea occidentale dell’oriente conducono a un’apertura che resta però tendenzialmente eurocentrica, con metodi difficilmente applicabili in aree culturali lontane e variegate dal punto di vista antropologico. Da questo punto di vista, Gefen sottolinea la necessità odierna di ripensare la letteratura, privandola di modelli unidimensionali, con una temporalità policronologica e multidirezionale, relativizzando la struttura moderna del soggetto e il quadro occidentale in cui esso si esprime.
Sul piano tematico, l’autore individua nella letteratura contemporanea la realizzazione di un nuovo stadio del Realismo delle rappresentazioni, come già Auerbach aveva descritto nel fondamentale saggio Mimesis, qui rievocato (p. 109). Se il XIX e il XX secolo erano incentrati sull’esplorazione dell’esperienza umana nelle sue diverse sfaccettature, il XXI secolo si espande alla sfera dell’agentività non umana. A partire dagli anni 2000, con la globalizzazione e la presa di coscienza ecologica su scala mondiale, il potere di rappresentazione della letteratura viene riattivato per descrivere le forze socio-economiche. Inoltre, la funzione di critica sociopolitica si estende alla questione ambientale e i nuovi temi della letteratura relativizzano l’antropocentrismo precedentemente dominante. Con il rimescolamento ontologico causato dalla rivoluzione digitale, l’estensione del campo mimetico oltre la sfera dell’umano e l’attenzione al mondo della natura e agli oggetti, il campo della letteratura contemporanea si trova ormai di fronte a un “multirealismo”, concetto di Bruno Latour qui ripreso (p. 143). Il fenomeno porta all’indebolimento delle frontiere che separano i diversi generi letterari che, come categorie della percezione estetica, entrano in crisi. A caratterizzare le opere sono le finalità dei dispositivi, la maniera di produrre senso o la specificità cognitiva, i nuovi supporti digitali e l’esplorazione di regimi semiotici originali. Un tale movimento di decomposizione dei generi ha effetto anche sulle frontiere esterne della letteratura, sfumando la linea di demarcazione tra letterario e non letterario. Come sottolinea l’autore, le recenti etichette di neoletteratura (Nachtergael 2017), non-letteratura (Théval 2018) o di mondo postletterario (Colard 2018), testimoniano questo cambiamento.
Il capitolo dedicato all’estensione politica sottolinea come la concezione della letteratura come campo autonomo registri attualmente una perdita di rigidità a favore della nozione di relazione e dell’esigenza di intervento nel mondo. La fecondità morale e l’utilità cognitiva che contraddistinguevano le Belles Lettres in epoca classica rinascono in maniera eclatante nel mondo contemporaneo. Nella genealogia dell’Art pour l’art, le nozioni di désengagement e il principio di inutilità erano centrali per il principio moderno di autonomia della creazione. L’inutilità costituiva una qualità essenziale del campo estetico e lo scrittore era visto come una personalità in rottura con il mondo. Come sottolinea l’autore, la nostra epoca rinnova il legame con un’arte più politica e invita a relativizzare retrospettivamente la portata delle teorie insulari dell’arte. Dietro alla semplice nozione di utilità sociale, rinasce l’idea di una funzione cognitiva, antropologica e politica. Si parla nuovamente di poteri, di virtù, di ruoli, del posto della letteratura nelle questioni del mondo. Gli approcci cognitivisti, che sottolineano la funzione sociale della letteratura, permettono di reintrodurre la psicologia dei personaggi e dell’autore e propongono una descrizione cognitivista degli stili e delle forme. Altro segno dell’evoluzione, secondo Gefen, è l’impegno ritrovato degli scrittori contemporanei, in particolare sul piano dell’analisi del discorso, con lavori d’inventario sociale a favore della democrazia e della difesa delle minoranze. Gli scrittori percepiscono il loro lavoro come un dispositivo performativo che influenza la costruzione della realtà sociale e come un gioco ermeneutico, centrato sul testo e sulla sua enigmaticità. La descrizione a distanza della realtà si riappropria così dell’esigenza di dévoilement assegnatale da Sartre. Gli autori contemporanei si interessano alla questione dei migranti, all’evocazione dei crimini coloniali e delle tensioni sociali contemporanee e mirano ad allontanare i pericoli di un’identità percepita come essenza eterna. Al romanzo viene riconosciuto non solo il potere di riflettere, ma anche quello di informare e di costruire realtà sociali. La nuova fase di democratizzazione della letteratura, che subentra con la fine dell’elitismo, rivede inoltre la questione della responsabilità dell’autore, mentre le figure del dandy e dello scrittore invisibile tendono simultaneamente a scomparire, con la dissoluzione dell’opposizione proustiana tra l’“io sociale” e l’“io profondo” (p. 241).
Per quanto riguarda i più recenti mutamenti che investono le pratiche di scrittura, su cui l’autore si sofferma, si assiste a un processo di democratizzazione, caratterizzato dalla pubblicazione di testi online e dall’emergenza di autori non professionisti, fenomeni che la critica francese tarda a cogliere. L’estensione del campo si scontra con un riflesso culturale di protezione di una letteratura vista come ristretta e fondata sulla padronanza della forma, nella quale qualità e quantità si oppongono strutturalmente. Secondo questa visione, l’arte è concepibile unicamente secondo un regime maltusiano, con un canone di opere selezionate che si distingue da una produzione di consumo e da forme di espressione ordinarie (p. 255).
Il volume si chiude con considerazioni legate alle conseguenze che i fenomeni descritti esercitano sulla critica letteraria. L’autore sottolinea la necessità di adottare approcci idonei ai nuovi oggetti di analisi, con una presa di consapevolezza dei limiti del vocabolario della retorica e della linguistica e l’adozione di una terminologia descrittiva nuova, ad esempio attingendo dall’antropologia come nel caso di “densità” per definire la bellezza. Per rispondere all’estensione del concetto di letteratura e all’interdisciplinarietà che lega gli studi contemporanei e i diversi settori accademici, viene sottolineata la necessità di mobilitare conoscenze e metodi nuovi, come avviene nel passaggio dall’intertestualità di Julia Kristeva all’intermedialità di Jürgen Ernst Müller (p. 283). L’autore promuove una maggiore apertura degli studi letterari, con l’avvicinamento alle scienze sociali, alla teoria dei media, alla filosofia, agli studi culturali, alle scienze cognitive e alla teoria dell’informazione.
L’idée de littérature si presenta come un lavoro originale per la quantità e la qualità delle fonti citate nonché per le riflessioni di natura globale sull’idea di letteratura. L’apertura ad altre discipline, che l’autore condivide, si riflette nell’estensione della ricerca ad aree meno comuni, rievocando, come già sottolineato, metodi e approcci di aree quali la sociologia, la psicologia cognitiva e l’antropologia. Il vasto panorama critico considerato include lavori di ricerca europei e americani, proponendo un fruttuoso canale comunicativo. Attraverso il confronto con gli studi culturali e postcoloniali, lo scritto partecipa al difficile percorso di integrazione di queste correnti in una Francia ancora largamente incentrata sul concetto di francofonia, categoria secondo alcuni da superare in quanto espressione di una visione colonialista (p. 100; Forsdick e Murphy 2003 p.7-8; Moura 2008, pp. 55-61; Genin 2006, pp. 43-55). Con il riferimento alla letteratura mondiale, l’autore si inserisce in un dibattito che da più di due secoli (Goethe, Moretti, Casanova, Spivak, Damrosch) ruota attorno a questo concetto, come descritto da Pradeau, Samoyault (2005) e da David (2011). Gefen rievoca le critiche rivolte all’idea di letteratura universale proposta da Goethe, accusata di eurocentrismo o dominocentrismo ad esempio da Jérôme David (p. 92), e ripropone il dibattito che ha preso forma attorno alla pubblicazione del manifesto “Pour une littérature-monde en français” nel 2007, documento per la liberazione della letteratura dal patto esclusivo con la nazione che rischiava secondo alcuni di promuovere un paradigma unico e una prospettiva americana ed egemonica (p. 100). L’autore si esprime a favore del concetto letteratura mondiale, in grado, come afferma, di liberare la storia letteraria dal suo percorso teleologico (p. 102).
Le riflessioni sul ruolo dello scrittore nella società, sulla transitività e sulla funzione dell’opera letteraria, nonché sulla responsabilità dello scrittore si inseriscono nella ricerca che indaga il rapporto tra il testo narrativo e le idee politiche, le diverse concezioni di engagement e le modalità con le quali esso si esprime nel testo letterario (Suleiman 1983; Denis 2000; Sapiro 2011). Gefen aveva precedentemente esaminato la complessità delle strategie moderne di impegno e individuato alcune tendenze che contraddistinguono l’engagement contemporaneo (2005 p. 75-84). L’idée de littérature affronta il discorso della responsabilità e del ruolo dello scrittore nella società, mostrando come la concezione contemporanea della letteratura inauguri una nuova fase in cui mondo letterario e mondo civile, istituzioni letterarie e vita della comunità politica, economia letteraria ed economia comune cessano di opporsi (p. 241).
Il capitolo sull’estensione sociologica e istituzionale della letteratura si inserisce negli studi sul rapporto con le nuove tecnologie, dalla narratologia transmediale (Ryan 2002, 2018) alle recenti pratiche di scrittura in ambiente digitale, anche ad opera di scrittori non professionisti (Goldsmith 2018; Price e Siemens 2013). Il lavoro si basa su un’osservazione diretta di tali ambienti e pratiche, con particolare attenzione alla piattaforma Wattpad, alla quale l’autore si è ulteriormente interessato («Wattpad et la démocratisation de la littérature par Internet », in corso di pubblicazione). Per gli studi sui temi e sui generi e i contributi sull’apporto di discipline come la sociologia, la psicologia cognitiva e l’antropologia, rimandiamo alla bibliografia a fine volume, che mostra il ricco lavoro di documentazione e costituisce un valido punto di partenza per ricerche aperte al panorama critico internazionale.
David, J. (2011), Spectres de Goethe, Les métamorphoses de la "littérature mondiale", Paris, Les prairies ordinaires.
Denis, B. (2000), Littérature et engagement : de Pascal à Sartre, Paris, Éd. du Seuil, coll. « Points Essais ».
Forsdick, C. & Murphy D. (2003), Francophone Postcolonial Studies. A Critical Introduction, Oxford University Press Inc.
Gefen, A. (2005), « Responsabilités de la forme. Voies et détours de l’engagement littéraire contemporain », in Bouju, E., (dir.), L’Engagement littéraire, Rennes, PUR, coll. « Interférences ».
Id. (in corso di pubblicazione), «Wattpad et la démocratisation de la littérature par Internet », in La Démocratisation de la littérature, Paris, Gallimard, « Cahiers de la NRF ».
Genin, C.(2006), « Les études culturelles: une résistance française ? », MEI, no 24-25 (« Études culturelles / Cultural Studies »), pp. 43-55.
Goldsmith, K. (2018), L’Écriture sans écriture : du langage à l’âge numérique [Uncreative Writing : Managing Language in the Digital Age, 2011], Paris, Jean Boîte éditions.
Moura, J.-M. (2008), Sur la situation des études postcoloniales francophones, «Neohelicon».
Nachtergael, M. (2017), « Le devenir-image de la littérature : peut-on parler de “néo-littérature” ? », in Mougin, P. (dir.), La Tentation littéraire de l’art contemporain, Dijon, Les Presses du Réel, coll. « Figures », pp. 139-152.
Pradeau, C. & Samoyault, T. (dir.) (2005), Où est la littérature mondiale ?, PU Vincennes, coll. «Essais et savoirs».
Price, K. M. & Siemens, R. (dir.) (2013), Literary Studies in the Digital Age : An Evolving Anthology, disponibile online : https://dlsanthology.mla.hcommons.org/
Id. (2018), « Sur les fondements théoriques de la narratologie transmédiale », in Patron, S. (dir.), Introduction à la narratologie postclassique : les nouvelles directions de la recherche sur le récit, Ville-neuve-d’Ascq, Presses universitaires du Septentrion, pp. 147-166.
Sapiro, G. (2011), La responsabilité de l’écrivain. Littérature, droit et morale en France (XIXe-XXIe siècle), Paris, Seuil.
Suleiman, S. R. (1983), Le Roman à thèse ou l’autorité fictive, Paris, PUF, coll. « Écriture ».
Cos’è uno scandalo ̶ a cura di Filippo D’Angelo ̶ raccoglie scritti inediti in traduzione italiana di Roland Barthes. Si tratta di testi composti tra il 1933 e il 1980, anno della morte dell’autore, che percorrono, quindi, tutta la sua vita. Nella raccolta sono presenti testi critici, riflessioni su sé stesso, la letteratura, la scrittura, l’arte, la fotografia, la musica. Nella Postfazione, il curatore sottolinea che «i testi di questa antologia appartengono a una vena apparentemente minore di Barthes, quella che si snoda tra i diversi volumi pubblicati in vita» (p. 210). È probabilmente per tale ragione che gli scritti qui tradotti sono passati a lungo inosservati in Italia, dove, invece, circolano già da tempo in traduzione i saggi più famosi e organici dell’autore. Eppure, nei testi qui riuniti è possibile cogliere un atteggiamento tipicamente barthesiano, cioè il legame della sua scrittura con il frammento, il commento, il diario, la scrittura “minore”, che, come sottolinea egli stesso ne LaCronaca, non indica un genere più basso, ma «un genere come un altro» (p. 190). La stessa scrittura frammentata, che sembra rappresentare il filo conduttore della raccolta, è presente anche nelle opere barthesiane più acclamate dalla critica: per fare un esempio, uno dei testi che ha avuto grande successo è Frammenti di un discorso amoroso, che propone una narrazione spezzata da vocaboli giustapposti in ordine alfabetico su cui Barthes si sofferma e da cui costruisce il suo discorso, rompendo, in questo modo, la narrazione. In Cos’è uno scandalo accade la stessa cosa, le differenze sono nella dilatazione dei tempi di scrittura (poiché il volume percorre tutta la vita dell’autore) e nella grande varietà di temi trattati.
La raccolta si apre con Primo testo, del 1933, anno in cui Barthes aveva appena diciotto anni. L’autore stesso ci ritorna anni dopo, nel 1972, e sottolinea come si tratti di un testo lontano da ciò che egli è diventato negli anni, ma che gli ha permesso di «rappresentare sulla scena di un breve scritto» (p. 13) tutti i linguaggi conosciuti grazie alle letture effettuate. Barthes è un grande lettore: tra 1930 e il 1934 ha già iniziato a leggere i più grandi scrittori francesi, tra cui Mallarmé, Valéry e soprattutto Proust. Primo testo permette, allora, di guardare il primo tentativo di scrittura di un giovane che aveva letto molto, e che si accingeva a diventare un grande saggista.
Un testo che sottolinea la passione di Barthes per la lettura è Il piacere dei classici (1944), in cui sostiene l’idea che i classici abbiano la capacità di parlare al lettore: «Non parlano mai di loro, ma di noi. Hanno posto la propria arte nell’economia dei pronomi personali» (p. 43). Afferma, inoltre, che l’eternità dei classici non sta solo nel contenuto dell’opera, nell’aver «trovato la verità», ma nell’«averla detta bene, ossia in forma incompleta, che è un abile modo di rispettarla» (p. 44). Barthes pone l’attenzione su quanto sia importante scriverebene: «I problemi di retorica non sono né particolari, né accessori, né inutili; l’arte di parlare bene governa in modo determinante le operazioni essenziali della vita: è la chiave di tutte le superiorità» (p. 47). Pur conservando sempre l’interesse per l’attualità e i moderni, Barthes rivela il suo amore per i classici. Per lo scrittore questi ultimi «sono degli inneschi. Conta ciò che promettono» (p. 50). Il suo legame con la letteratura in generale lo porta, inoltre, a scrivere numerosi testi di critica letteraria. Nel presente volume ne sono riportati alcuni, come Appunti su André Gide e il suo Diario (1942), in cui è interessante notare come Barthes preferisca una scrittura frammentata per il «timore di rinchiudere Gide in un sistema» che non l’avrebbe mai soddisfatto (p. 21). Il testo si sgretola, presentandosi come una serie di appunti a margine del Diario. L’attenzione di Barthes per Gide è la stessa che ha per sé stesso: in Barthes di Roland Barthes (1975), dall’idea autobiografica iniziale finisce col comporre una sorta di diario in forma di frammenti e rivendica il suo diritto a essere un soggetto, cercando di distruggere così una certa immagine stereotipata che ci si può fare degli scrittori. Questo tentativo fallisce in Barthes, poiché egli continua a sentirsi incastrato dalla scrittura, ma permette di cogliere il suo interesse per l’uomo in quanto individuo unico, non richiudibile in un sistema ̶ linguistico ̶ predefinito. Il Diario di Gide viene descritto da Barthes come un’opera egoista, un tentativo di riflettere su sé stesso, in cui è possibile cogliere, tra i tanti temi affrontati, il suo amore per i classici, ma anche un elementomistico, il cristianesimo di Gide «legato al suo destino personale» (p. 30). Per Barthes, quindi, «nel Diario di Gide il lettore troverà la sua etica, la genesi e la vita dei suoi libri, le sue letture, i fondamenti di una critica della sua opera; ma anche i silenzi, delicati guizzi d’intelligenza o di bontà, minute confessioni che fanno di lui l’uomo per eccellenza» (p. 21).
Come sottolinea Filippo D’Angelo, una delle due anime di Barthes, insieme con quella gidiana, è rappresentata da Proust. In Cos’è uno scandalo, allora, non possono mancare riferimenti a quest’ultimo, che troviamo in Le vite parallele (1971)e La maionese monta (1979). Nel primo, Barthes analizza e rifiuta l’associazione ̶ che viene spesso compiuta ̶ tra la vita di Proust e la sua opera, fino ad affermare che, in questo caso, «non è la vita a plasmare l’opera, ma l’opera a irradiarsi ed esplodere nella vita» (p. 107) e, di conseguenza, «il mondo non fornisce le chiavi del libro, è il libro che apre il mondo» (p. 107). Barthes ribalta il rapporto tra la vita e l’arte di Proust. Nel secondo testo, si chiede cosa abbia portato il romanziere, che nei primi anni di vita non era riuscito a scrivere, a produrre un’opera di così grande portata, come la Recherche. Barthes confuta l’idea secondo cui il romanzo sia nato come conseguenza del trauma per la morte della madre. Al contrario, sostiene che lo scritto proustiano abbia iniziato a prendere forma attraverso una serie di tecniche come «una certa maniera di dire “io”», «una “verità” (poetica) dei nomi» (p. 195), ma anche l’idea di «conservare gli stessi personaggi» (p. 196). Anche in questo caso è interessante notare come la penna di Barthes vada a rompere quell’immaginario in cui i critici tendono a cristallizzare un autore. È proprio distruggendo quest’ultimo che egli può restituire a Proust la propria individualità. Il secondo testo sullo scrittore della Recherche assume un carattere più personale, perché, negli ultimi anni di vita e in seguito alla perdita materna, Barthes aveva pensato a un romanzo, che si sarebbe dovuto intitolare La vita nova, ma nel suo caso la maionese non è montata.
Un ritratto di Roland Barthes
Tra i testi della raccolta troviamo Michelet, la Storia e la Morte (1951). Si tratta di uno scritto di ampio respiro in cui Barthes si esprime sulla visione della Storia attribuibile a Michelet. Interessante, in tal senso, è l’idea per cui «per Michelet, le radici della verità storica sono i documenti in quanto voci, non in quanto testimoni» (p. 71), perché «più il documento si avvicina a una voce, meno si distacca dal corpo umano che l’ha prodotto, diventando il vero e proprio fondamento della credibilità storica» (p. 72). È attraverso questa voce che lo storico può riportare in vita il corpo del popolo. Egli in questa prospettiva ha il duplice compito di «recitare il dispiegamento della Storia» (p. 73) e di unire «al ricordo dei morti il senso della loro vita, restituendo loro una memoria universale sul piano della Storia» (p. 73). Barthes dà grande importanza a questo legame che intravede tra Michelet, la voce e il corpo dei personaggi storici, perché attratto dal corpo come «fondamento di ogni vera scrittura» (p. 209). Secondo Filippo D’Angelo questo saggio porta Barthes a considerare lo storico «in quanto artefice di una secolarizzata ressurrectio carnis» (p. 209). Anche in questo caso appare evidente la necessità dell’autore di aderire a una scrittura attenta al singolo, al corpo, all’individualità di ognuno, per arrivare a una «scienza del soggetto» che pervenga «a una generalità che non […] riduca e non […] annienti» l’uomo (La camera chiara, Einaudi, 2003, p. 20). Questo saggio, inoltre, come spesso accade nella produzione barthesiana, si riaggancia a opere più strutturate come Michelet par lui-même del 1954.
In Cos’è uno scandalo, oltre a scritti di carattere letterario e storico,sono presenti testi sull’arte e sulla fotografia. Si tratta di Matisse e la felicità della vita (1955), Il grado zero della colorazione (1978), Bernard Faucon (1978). Tali testi permettono di osservare la quantità di ambiti a cui la scrittura di Barthes si apre. In particolar modo è interessante l’attenzione dello scrittore per la fotografia e l’analisi del lavoro di alcuni fotografi. Nel 1980, infatti, due anni dopo il saggio su Bernard Faucon, Barthes dà alle stampe La camera chiara, uno scritto interamente dedicato alla fotografia. Il testo del ‘78 permette di cogliere, allora, il lavoro dello scrittore che si amplia fino a raggiungere la forma di un saggio, quello del 1980, interessato a sua volta a cogliere gli aspetti più importanti della fotografia, partendo proprio dallo studio del lavoro di alcuni fotografi come Faucon.
Il volume non presenta solo testi di critica letteraria, ma anche una lettera, Frammenti per H. (1977), indirizzata a Hervé Guibert. Ritroviamo la forma frammentata, attraverso cui Barthes scrive di argomenti come il desiderio, la sensualità e l’innamoramento. La struttura della lettera sembra permettere all’autore di esprimersi con maggiore libertà, rispettando sé stesso e la chiarezza del suo ragionamento, senza dover incasellare quest’ultimo nelle maglie di un discorso ordinato.
Sempre in forma frammentata, ma di respiro più ampio, è La cronaca (1979). Si tratta di una sorta di diario, in cui Barthes appunta pensieri, sensazioni, idee, richiamando alla memoria, ancora una volta, Barthesdi Roland Barthes (1975). Il testo termina con un frammento intitolato Pausa, in cui l’autore afferma: «queste cronache sono un modo per far parlare (senza esplicitarlo, ovviamente) le voci diverse che mi compongono. In un certo senso, non sono io che le scrivo ma un insieme, volentieri contraddittorio, di voci: voci di esseri che amo e di cui prendo in prestito i valori, voci ideologiche del borghese, piccoloborghese o “brechtiano” che posso essere di volta in volta, voci arcaiche, fuori moda, voci dell’idiozia» (p. 191-192).
Scrivere per Roland Barthes è proprio questo: dare voce a diverse parti di sé, senza costringersi a mettere ordine nei pensieri, o a doverli inserire in un testo organico. E questo perché, come egli stesso puntualizza, ha «concepito la scrittura come la forza del linguaggio che pluralizza il senso delle cose e, alla fine, lo sospende» (p. 192).
Cos’è uno scandalo, nella sua eterogeneità, mette bene in evidenza due elementi appartenenti alla penna e al pensiero di Barthes: da un lato l’attenzione al frammento, dall’altro l’interesse per il soggetto in quanto individuo composito e irriducibile. Questi temi sono due facce della stessa medaglia, perché è proprio attraverso il frammento, spezzettando la scrittura, che l’autore si propone di raggiungere l’obiettivo di non schiacciare l’individualità di ogni uomo nelle maglie del linguaggio. Barthes non può rinunciare alle sue voci, diverse, a volte contraddittorie, e il linguaggio segue questa volontà. È in tale ottica che questi saggi svelano tutto il loro interesse, insieme con la possibilità di seguire le idee e i pensieri di Roland Barthes, mantenendo viva l’attenzione su quello che ancora oggi possono rivelare al lettore.
Uscito nel 2006 per i tipi di Champion, e ripubblicato nel 2021 dalla stessa casa editrice, il saggio di Florence Goyet Penser sans concepts: fonction de l’épopée guerrière. “Iliade”, “Chanson de Roland”, “Hôgen” et “Heiji monogatari” vede nell’epopea guerriera un genere letterario strettamente legato a una crisi della società. In questo senso, la rappresentazione di eventi collocati in un tempo arcaico, o immaginario, altro non è che uno mezzo attraverso cui l’epopea permette di riflettere su un disordine attuale. Così facendo, essa si configurerebbe come un vero e proprio dispositivo riflessivo – una «Machine à penser» secondo la definizione dell’autrice – capace di fornire al pubblico gli strumenti per comprendere e metabolizzare intellettualmente quella crisi di cui la guerra si fa, appunto, espressione metaforica. Ecco perché l’epopea non rappresenta solo la risposta a un mondo in via di cambiamento ma anche, e soprattutto, un tentativo di sublimare la mancanza di adeguate categorie intellettuali – siano esse appartenenti al terreno degli studi storici, delle scienze giuridiche o della riflessione filosofica – che possano consentire di comprenderlo. Una simile tesi, nitidamente espressa già nell’introduzione, è argomentata attraverso l’analisi approfondita delle tre opere presenti nel titolo, a ognuna delle quali è dedicata una parte ben distinta all’interno del testo.
Fin dalle pagine introduttive, volte a fornire non solo una breve disamina delle questioni che il saggio intende affrontare ma anche a illustrare i principali referenti metodologici utilizzati, Goyet si sofferma su quelli che, a suo avviso, costituiscono i due elementi fondamentali ai fini di un corretto approccio ermeneutico all’epopea: la relazione con la Storia e la fiducia nel testo. Sottolineando lo stretto – e articolato – rapporto che l’epopea intrattiene con la dimensione storico-politica a essa contemporanea, il volume entra volontariamente in rotta di collisione con la celebre tesi espressa da Lukàcs nella Teoria del romanzo (1920), dove, a partire da alcune considerazioni di Hegel, l’epopea è interpretata come il genere non-problematico per eccellenza. Secondo l’analisi lukacsiana – com’è noto –, l’epopea si fonda infatti sull’integrazione armonica del singolo all’interno del proprio contesto di riferimento, e ciò in opposizione al romanzo moderno, al contrario luogo dello scarto tra le aspirazioni dell’individuo e il mondo. Goyet riconduce invece l’epopea a un genere statutariamente fondato sulla rappresentazione di un conflitto, interpretandola come riflesso – e insieme risposta – di una crisi politica «où les valeurs qui avaient cours depuis toujours sont battues en brèche, où les solutions politiques classiques deviennent totalement inapplicables».
La rilevanza che la storia riveste nell’elaborazione dell’epopea giustifica certo l’abbondante ricorso che il saggio fa a riflessioni di carattere storico; del resto, Goyet non fa mistero di considerare l’importanza del contesto un elemento fondamentale per una corretta comprensione del genere. Tuttavia, l’interpretazione proposta non si limita a presupporre un rapporto di rispecchiamento tra testo e referenti extra-testuali ma ambisce a sviluppare, prima di tutto, un’analisi di tipo strettamente letterario. Al di là delle diverse questioni filologiche che, del tutto legittimamente, possono guidare l’approccio a queste opere, l’autrice valorizza prima di ogni altro aspetto la coerenza interna del testo, individuando nei suoi principali dispositivi retorici – personaggi, relazione tra le scene etc.– un sistema di senso del tutto autosufficiente. La comprensione della crisi riflessa dall’epopea è, in altre parole, resa possibile dai dispositivi stessi del récit, incaricato di restituire il disordine del mondo e, insieme, di proporre le soluzioni per risolverlo. Da questo punto di vista, un tratto tipico del genere come la moltiplicazione dei personaggi risponderebbe a una necessità di tipo strettamente politico, ovvero quella di rappresentare le varie alternative storiche perseguibili in risposta alla crisi che le epopee analizzate pongono al centro della rappresentazione.
Data l’assenza di altri strumenti concettuali, l’epopea risolve così una crisi politica contemporanea, altrimenti non risolvibile, mettendo a confronto soluzioni antagoniste che si incarnano concretamente nei personaggi. In questo modo, il conflitto tra valori diversi perde ogni consistenza astratta e si inscrive dinamicamente in un racconto, passaggio che permette al lettore una reale metabolizzazione intellettuale del discorso. È proprio il sistema di relazioni che si instaura tra i vari personaggi a occupare un ampio spazio all’interno dell’analisi proposta dal saggio. In particolare, la complessità del disordine tematizzata è restituita attraverso la tecnica del parallelismo, dispositivo che – tanto nell’Iliade quanto ne La Chanson deRoland – è a sua volta configurabile in due varianti, il parallelo-differenza e il parallelo-omologia. Più complesso il quadro che, secondo l’autrice, caratterizza invece le epopee giapponesi Hogen e Heiji monogatari, dove a fare da padrone è soprattutto lo strumento della juxtaposition.
In virtù di queste considerazioni, puntualmente sondate attraverso l’analisi dettagliata dei singoli testi presi in esame, il saggio indica nell’epopea non solo un dispositivo di riflessione sul presente ma anche un luogo testuale dove vengono elaborate soluzioni profondamente nuove. Per l’lliade, cui è dedicata la prima parte del volume, si tratta di affermare i valori della Cité in risposta al declino del sistema patriarcale: «on voit s'élaborer une nouvelle conception de la royauté, celle-là même qui s'affirmera dans les premières Cités, et qui est bien loin de celle qu'avaient connu Mycènes puis l'Âge Sombre d'où le monde grec est en train de sortir».Nella seconda parte, la Chanson de Roland è dal canto suo letta come «la réponse des contemporains au renouveau de la royauté au XIIe siècle». Per Hôgen e Heji monogatari, al centro della terza parte, è in gioco l’affermazione di una feudalità nuova, opposta a quattro secoli caratterizzati dal predominio della corte. L’analisi ravvicinata delle singole opere permette di notare come la soluzione politica elaborata dall’epopea sia, in fin dei conti, quella poi rivelatasi storicamente vincente. Tuttavia, ciò non equivale a vedere nei testi una pura espressione del contesto storico-culturale: lo dimostra, tra l’altro, l’elogio di personaggi che incarnano una posizione perdente – è il caso di Roland – o, viceversa, la morte di un personaggio che incarna i valori politici risultati poi trionfanti – è il caso di Ettore.
Una tale mobilità assiologica permette a Goyet di insistere sulla differenza tra racconto e riflessione, nella misura in cuil’epopea trae la sua forza cognitiva non dalla sua capacità di veicolare concetti astratti ma dal suo configurarsi come narrazione. In questo senso, l’epopea conserva certo un’immagine forte del passato ma contemporaneamente ambisce a costruire valori nuovi; o, per dirla altrimenti, proporre nuovi valori non impedisce di render testimonianza a un passato storicamente in procinto di essere sorpassato dalla Storia. Del resto, Goyet sottolinea come la struttura stessa dell’epopea sia fondata su due movimenti complementari e in parte contraddittori, messi in risalto nei singoli capitoli e poi riassunti nelle conclusioni. Innanzitutto, una tensione all’ordine perseguita attraverso tecniche diverse – su tutte la polarizzazione dei valori grazie al confronto tra due campi chiaramente antagonisti. Se questo sembra ricondurre l’epopea a quel genere aproblematico teorizzato da Lukàcs, il saggio sottolinea come il movimento di semplificazione rappresenti in realtà solo una prima componente presto oltrepassata in virtù di un ritorno alla tematizzazione della crisi.
Le caratteristiche fondamentali dell’epopea qui riassunte permettono ai singoli testi analizzati di trattare una materia storico-politica ben determinata ma rielaborandola in modo complesso e articolato. In questo senso, Goyet conclude la sua riflessione elevando la polifonia a condizione necessaria perché il genere sussista: «Il faut que l’épopée soit capable de développer chacune des positions comme si elle était absolument valide, […] pour que le choix qui s’impose entre les valeurs ne soit entaché d’aucun parti pris ni préjugé». Il riferimento alla polifonia rischia forse di schiacciare eccessivamente l’argomentazione dell’autrice verso la teoria di Bachtin, del resto evocata esplicitamente nelle conclusioni del volume. Se l’argomentazione proposta potrebbe facilmente sussistere anche prescindendo dalle celebri posizioni bachtiniane, resta fondamentale il riferimento all’epopea come testo non partigiano, ovvero come testo in cui la logica stessa della narrazione si presta a invalidare qualsiasi partito assunto aprioristicamente. Per la sua capacità di vedere nell’epopea un modello retorico articolato, il saggio lascia così spazio a nuove prospettive di ricerca, come, ad esempio, quella evocata dall’autrice stessa a proposito dell’Eneide.
Un’indagine sui rapporti tra Jacques Derrida e la letteratura sarebbe necessariamente vastissima. Non basterebbe infatti esaminare il modo in cui il filosofo ha letto determinati autori, sia che abbia dedicato ad essi interi volumi (Joyce, Artaud, Ponge, Blanchot, Celan, Cixous), sia che delle loro opere abbia parlato in capitoli di opere saggistiche (è il caso di Baudelaire, Flaubert, Mallarmé, Valéry, Kafka, Genet, Jabès, Sollers, per fare solo qualche nome). Occorrerebbe anche considerare la maniera in cui egli ha rielaborato e messo in discussione, sul piano teorico, nozioni strettamente connesse alla pratica letteraria, come quelle di «genere», «opera», «libro», «titolo», «firma», «traduzione», «metafora». Inoltre andrebbe affrontato il tema degli stili di Derrida, non in quanto il filosofo abbia voluto presentarsi nelle vesti di letterato, ma perché la singolarità della sua scrittura e l’assidua sperimentazione di forme espositive diverse consentirebbero di guardare alle sue opere sotto questa specifica angolazione.
Si può tentare di ridurre il campo di ricerca limitandosi a considerare il modo in cui Derrida ha riflettuto sulla nozione stessa di letteratura. È questa una tematica che si è imposta alla sua attenzione fin dall’inizio. Interessandosi alla fenomenologia di Husserl e avendo notato che negli scritti di quest’ultimo si parla, in maniera quasi incidentale, del ruolo della scrittura nel «costituire degli oggetti ideali comunicabili», Derrida riteneva di poter giungere al punto che più gli stava a cuore, ossia «l’iscrizione letteraria. Che cos’è un’iscrizione? A partire da quale momento e in quali condizioni un’iscrizione diviene letteraria?»[1]. A tale argomento intendeva dedicare un lavoro specifico: «Verso il 1957, avevo dunque depositato, come si dice, un primo soggetto di tesi. Lo avevo allora intitolato L’idealité de l’objet littéraire. […] Questo titolo si capiva un po’ meglio nel 1957, in un contesto più segnato, rispetto ad oggi, dal pensiero di Husserl. Si trattava allora per me di piegare, più o meno violentemente, le tecniche della fenomenologia trascendentale all’elaborazione di una nuova teoria della letteratura, di quel tipo d’oggetto ideale molto particolare che è l’oggetto letterario. […] Poiché, devo ricordarlo un po’ massivamente e semplicemente, il mio interesse più costante, direi anche prima di quello filosofico, se possibile, era rivolto verso la letteratura, verso la scrittura cosiddetta letteraria. Che cos’è la letteratura? E innanzitutto, che cos’è lo scrivere? In che modo esso giunge a disturbare la stessa domanda “che cos’è?”, e perfino “che significa?”? In altri termini […], quando e come l’iscrizione diventa letteratura e cosa avviene in quel caso?»[2].
La tesi su L’idealité de l’objet littéraire non verrà scritta, ma resta comunque significativo il fatto che Derrida l’abbia progettata. E in ogni caso egli non cesserà mai di interrogarsi sullo statuto del testo letterario, e in particolare sul rapporto che si può individuare fra esso e il testo filosofico. Si tratta di un problema che lo riguarda anche in prima persona, perché, date le modalità assai creative che adotta nella scrittura, deve spesso rispondere alla domanda se il suo intento non sia eventualmente di tipo letterario. Alla domanda egli risponde in questi termini: «Dirò che i miei testi non appartengono né al registro “filosofico” né a quello “letterario”. In tal modo essi comunicano, o almeno lo spero, con altri che, per aver operato una certa rottura, continuano ad essere definiti “filosofici” o “letterari” solo per una sorta di paleonimia» (Derrida 1975, p. 102). Egli si sta riferendo agli scritti di autori quali «Artaud, Bataille, Mallarmé, Sollers. Perché? Per una ragione, almeno, che ci spinge a nutrire sospetti verso la denominazione di “letteratura” e verso quanto ne assoggetta il concetto alle belle lettere, alle arti, alla poesia, alla retorica e alla filosofia. Nel loro stesso movimento, questi testi operano la manifestazione e la decostruzione pratica della rappresentazione che ci si faceva della letteratura»[3].
Ciò tuttavia non va inteso nel senso che egli accolga con favore l’idea che sia lecito e auspicabile confondere i due tipi di discorso:
«Io non ho mai assimilato un testo cosiddetto filosofico a un testo cosiddetto letterario. I due tipi mi sembrano irriducibilmente diversi. Inoltre bisogna sapere che i limiti fra loro sono più complessi […] e soprattutto meno naturali, astorici o già dati di quanto si dica o si creda. I due tipi possono intrecciarsi in uno stesso corpus secondo leggi e forme il cui studio è non soltanto interessante e nuovo, ma indispensabile […]. Non occorre forse interessarsi alle convenzioni, alle istituzioni, alle interpretazioni che producono o mantengono in vita questo apparato di limitazioni, con tutte le norme e dunque tutte le esclusioni che comportano? Non è possibile affrontare tale insieme di questioni senza chiedersi, ad un certo momento: “Che cos’è la filosofia?” e “Che cos’è la letteratura?”. Tali domande, difficili e più aperte che mai, non sono esse stesse (per definizione e perlomeno se vengono poste in maniera effettiva) né semplicemente filosofiche né semplicemente letterarie» (Derrida 1992, p. 230)
Chiedersi cosa sia la letteratura non significa però, alla maniera della filosofia tradizionale, andare alla ricerca di una risposta di tipo essenzialistico. Secondo Derrida, infatti, tale risposta sarebbe indebita perché non terrebbe conto dei fattori di ordine contestuale, che sono invece determinanti per stabilire se un enunciato o un’opera si trovino ad essere ascritti alla letteratura:
«Lo stesso testo, la stessa frase, può in situazioni diverse appartenere ora al campo letterario, ora a ciò che si potrebbe chiamare la lingua ordinaria di tutti i giorni. Per conseguenza, non è una lettura interna di un fenomeno linguistico che consente di riservargli questo o quell’ambito. La stessa frase, in condizioni pragmatiche differenti, tenuto conto di altre convenzioni, può essere una semplice frase di giornale qui, e poi un frammento poetico là, o un esempio filosofico altrove. Ciò dipende dal fatto che la determinazione di tali ambiti non è mai decidibile in una lettura interna o un’esperienza interna della lingua, degli enunciati linguistici, ma a partire da una situazione i cui limiti stessi sono difficili da riconoscere e in ogni caso sono molto mutevoli» (Derrida 1990, p. 396)
Conviene precisare che questo non vale unicamente per i testi scritti, ma per le opere artistiche in generale:
«Non si potrebbe dire che il criterio che definisce la traccia come opera sia un criterio interno: non è analizzando la struttura interna della traccia che possiamo decidere se questa sia un’opera d’arte o meno. Credo che nessuna criteriologia interna, nessuna lettura intrinseca della traccia, ci consenta di farlo. Bisognerà piuttosto introdurre dei criteri esterni che coinvolgano delle convenzioni sociali, delle contestualizzazioni […]. Si ha comunque a che fare con un giudizio: si tratta di un giudizio sociale che implica un linguaggio, delle condizioni, una memoria, una storia, ecc. Un giudizio che trasforma la traccia, o un insieme di tracce, dando loro statuto d’opera» (Derrida 1998, pp. 23-24).
Derrida ha ricordato più volte che la nozione stessa di letteratura non è qualcosa di prestabilito, tale da poter attraversare indenne i secoli e i millenni, bensì un prodotto storico. A suo giudizio, per comprendere la concezione tradizionale della letteratura occorre risalire molto indietro, fino alla filosofia greca: «Platone pone la questione della poesia determinandola come mimesis, e aprendo così il campo nel quale la Poetica di Aristotele, dominata per intero da tale categoria, produrrà il concetto di letteratura che regnerà fino al XIX secolo» (Derrida 1989, p. 187). Per Platone, «la scrittura in generale non è certamente la scrittura letteraria. Ma altrove, nella Repubblica per esempio, il poeta non è forse giudicato, e poi condannato, in quanto imitatore, mimo che non pratica la “narrazione semplice”?» (Derrida 1989, p. 210). Il filosofo greco infatti, pur attribuendo costantemente all’arte un carattere mimetico, opera delle distinzioni. A suo giudizio, l’imitazione assume un valore negativo sia quando il poeta riproduce qualcosa di eticamente riprovevole, sia quando svolge il proprio compito in maniera troppo coinvolgente, adottando la voce del personaggio rappresentato (narrazione mimetica) invece di limitarsi a parlarne dall’esterno (narrazione semplice): «Lo si può verificare rileggendo il passaggio della Repubblica sulla narrazione semplice e sulla mimesis». (Derrida 1989, p. 211)[10]. Certo, non bisogna affrettarsi a confondere i vari generi poetici cui Platone fa riferimento con quello che noi siamo abituati a considerare oggi come l’ambito letterario. Derrida, da parte sua, sostiene «che non c’è – o appena, così poco – letteratura; che in ogni caso non c’è essenza della letteratura, verità della letteratura, essere-letterario della letteratura», ma aggiunge subito che ciò «non deve impedire, anzi tutto il contrario, di lavorare per sapere che cosa si è rappresentato o determinato sotto questo nome – letteratura – e perché» (Derrida 1989, p. 253.
Un modo piuttosto diverso di impostare il problema, da parte del filosofo, emerge in testi posteriori di qualche decennio. Nella parte iniziale di Demeure, Maurice Blanchot, egli si confronta con un classico della critica novecentesca, Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius (Derrida 2001, pp. 99-103 e E.R. Curtius 1992). Nel suo ampio volume, lo studioso tedesco sosteneva la necessità di superare il privilegio, dettato anche da una sorta di miopia nazionalistica, concesso a certi periodi della cultura europea a spese di altri, che venivano per contro ingiustamente trascurati. Di conseguenza, affermava che «solamente chi padroneggia tutte le epoche da Omero a Goethe può acquisire una visione globale della letteratura europea» (Curtius 1992, p. 13). Da parte sua, Derrida ricorda che «letteratura» è una parola latina, quindi ha poco senso far partire, come pretende Curtius, la letteratura europea con Omero (in Grecia non c’era ancora un’istituzione simile a quella che chiamiamo letteratura) né, del resto, farla finire con Goethe. Si chiede pertanto: «Esiste, nel senso stretto e letterale della parola, qualcosa come la letteratura, come un’istituzione della letteratura e un diritto alla letteratura in una cultura non latino-romano-cristiana, e più generalmente, benché le cose siano qui indissociabili nella loro storia, non europea?» (Derrida 2001, p. 100). E pare incline a rispondere negativamente alla domanda.
Secondo lui, infatti, quand’anche esempi di letteratura, nel senso proprio del termine, fossero reperibili in altri continenti, ciò dipenderebbe comunque da un influsso europeo: «Letteratura è una parola latina. Questa appartenenza non è mai stata semplice, essa viaggia, migra, lavora e si traduce. La filiazione latina si esporta» (Derrida 2001, p. 99). Ma in altre occasioni gli capita di esprimersi in termini ancor più drastici:
«Io sosterrò, a rischio di dire una cosa che appaia eurocentrica, che non esiste letteratura non europea. […] Fuori dall’Europa esiste un certo numero di scritti, di opere, che sono forse più interessanti della letteratura stessa, ma non sono, in senso stretto, letterari. […] Ciò che occorre prendere sul serio, non è solo la parola letteratura, ma tutto l’insieme degli assiomi, delle istituzioni, dei presupposti – un certo numero di cose che costituiscono il concetto di letteratura, che non ha alcun senso fuori dall’Europa. Ora, il fatto che oggi, in uno spazio mondiale, abbiamo una letteratura cinese o una letteratura giapponese significa che questo concetto, con tutto l’insieme di assiomi, nomi e presupposti, persino quelli cristiani, sono stati esportati o mondializzati. Ma il concetto, il nome del concetto, di letteratura è, strettamente parlando, non soltanto europeo ma anche cristiano» (Derrida 2007, pp. 406-407)[16].
Tutto ciò rientra dunque, come un caso particolare, all’interno di quel più vasto processo storico che egli designa col neologismo mondialatinisation (Derrida 1995, pp. 3-73).
Non si può certo dire che il suo ragionamento risulti convincente. È vero che parlare della letteratura come si trattasse di qualcosa che è rimasto immutato attraverso i millenni e i continenti (dall’epopea di Gilgameš fino alla poesia e narrativa contemporanee) comporta una forzatura: se lo si fa abitualmente è soprattutto per ragioni di comodo e sulla base di una convenzione. Tuttavia, non appena Derrida si propone di restringere, nel tempo o nello spazio, l’uso che ritiene preciso del vocabolo «letteratura», insorgono problemi di vario genere. Infatti, se si trattasse della parola in sé, non basterebbe neppure lasciare da parte le culture più lontane nel tempo o quelle extraeuropee. Roland Barthes, riferendosi al termine littérature, ricordava che in Francia «l’idea, se non la cosa, non è molto antica; è un’idea storicamente borghese, nata press’a poco al tempo della Rivoluzione (la parola stessa è del 1762 circa)» (Barthes 1966, p. 11). E su questo, come vedremo fra breve, Derrida concorda. Ma se si prende in considerazione, anziché il vocabolo, il concetto di letteratura, secondo lui le limitazioni dovrebbero spingersi ancora oltre: «Sovente io distinguo la letteratura in senso stretto, che è una cosa moderna, relativamente recente, dalle Belle Lettere, dalla poesia, dal teatro o dall’epica in generale» (Derrida 2004, p. 33). Viene allora spontaneo chiedersi perché mai quel che resta della produzione letteraria una volta detratti da essa l’epos, la lirica, il teatro – dunque quasi unicamente i testi narrativi e memorialistici – dovrebbe essere considerato «letteratura in senso stretto», e quale utilità possa avere, sul piano teorico, una simile opzione.
Quanto poi all’idea secondo cui sarebbe stata l’Europa a trasmettere al mondo il proprio sistema di categorie, valori e pratiche, letteratura inclusa, si tratta palesemente, nonostante le denegazioni derridiane, di una concezione eurocentrica, che non manca di precedenti. Ciò vale nel caso che si veda in tale trasmissione una sorta di dono prezioso offerto ai popoli degli altri continenti, secondo le parole di Valéry: «Di tutte queste realizzazioni, le più numerose, le più sorprendenti, le più feconde sono state compiute da una parte piuttosto ristretta dell’umanità, e su un territorio assai piccolo rispetto all’insieme delle terre abitabili. L’Europa è stato questo luogo privilegiato; l’Europeo, lo spirito europeo l’autore di questi prodigi» (Valery 2014, pp. 1426-1442)[20]. Ma vale anche nel caso che, come Heidegger, si guardi con inquietudine all’avvento di «un’epoca in cui devono prepararsi delle trasformazioni, o nella quale, in primo luogo, questo immane processo di europeizzazione del pianeta giunge semplicemente al suo compimento» (Heidegger 1992, p. 203).
Altro tema tipico di Derrida è quello della letteratura intesa come istituzione legata alla democrazia. Il rapporto viene stabilito sulla base del fatto che chi scrive un testo letterario deve poter disporre di una totale libertà enunciativa. Ecco come il filosofo presenta la questione:
«In generale, insisto sulla possibilità di “dire tutto” come diritto riconosciuto in linea di principio alla letteratura, per indicare non l’irresponsabilità dello scrittore, di chiunque firmi della letteratura, ma la sua iper-responsabilità, ossia il fatto che la sua responsabilità non risponde di fronte alle istanze già costituite. Poter dire tutto a titolo di finzione, o perfino di fantasma, significa indicare che […] la letteratura in senso stretto è un’istituzione indissociabile dal principio democratico, cioè dalla libertà di parlare, di dire o non dire ciò che si vuole dire. Naturalmente so che la letteratura non è sempre vissuta in un regime democratico e che rimuovere la censura, massiccia o sottile che sia, è una faccenda molto complicata. Nondimeno il concetto di letteratura è costruito sul principio del “dire tutto”» (derrida 2004, pp. 32-33).
A giudizio del filosofo, dunque, tale concetto e quello di democrazia sono da ritenersi inscindibili: «Non c’è democrazia senza letteratura, non c’è letteratura senza democrazia. Si può sempre non volerne sapere né dell’una né dell’altra, e non si manca di farne a meno sotto tutti i regimi; si può non considerarle come dei beni incondizionati e dei diritti indispensabili. Ma non si può, in alcun caso, dissociare l’una dall’altra. Nessuna analisi ne sarebbe capace. E ogni volta che un’opera letteraria è censurata, la democrazia è in pericolo» (Derrida 2019, p. 85). È interessante notare che Derrida cerca di correlare fra loro l’idea di una letteratura intesa strictu sensu e la possibilità di «dire tutto», a suo avviso tipica della democrazia: «C’è una storia della letteratura, del concetto di letteratura in senso moderno, che si distinguerà forse dalla Poesia o dalle Belle Lettere. In quanto tale, la letteratura è press’a poco contemporanea di una certa autorizzazione a dire tutto e a non cedere a nessuna censura, cosa che non si può scindere da una certa idea della democrazia o dell’Illuminismo» (Derrida 2011, pp. 105-106). Si manifesta qui la coincidenza quasi perfetta fra l’inizio dell’impiego del vocabolo littérature in Francia, la proclamazione di certi valori di libertà da parte dei filosofi illuministi e l’avvio di quella che, secondo Derrida, costituisce la pratica specificamente letteraria.
Il nesso fra quest’ultima e la democrazia non dev’essere pensato soltanto in rapporto agli ultimi secoli, ma va visto anche come proiettato nel futuro. Il «dire tutto» letterario non cessa di far cenno verso possibilità inesplorate. È quanto Derrida afferma in un’intervista, sostenendo che la letteratura è «quell’istituzione della finzione che offre, in linea di principio, il potere di dire tutto, di affrancarsi dalle regole, di spostarle, dunque di istituire, di inventare e persino di mettere in dubbio la tradizionale differenza tra natura e istituzione, natura e legge convenzionale, natura e storia. Occorrerebbe porre qui delle domande giuridiche e politiche. L’istituzione della letteratura in Occidente, nella sua forma relativamente moderna, è legata a un’autorizzazione a dire tutto, e senza dubbio anche al divenire dell’idea moderna di democrazia. Non in quanto essa dipenda da una democrazia già in atto, ma in quanto mi sembra inseparabile da ciò che invoca una democrazia a venire» (Derrida 2009, p. 257). L’idea verrà ribadita, in forma ancor più sintetica, in un volume successivo, Donner la mort: «La letteratura (in senso stretto: come istituzione occidentale moderna) implica in linea di principio il diritto di dire tutto e nascondere tutto, motivo per cui è inseparabile da una democrazia a venire» (Derrida 2002, 184).
Ma come mai il filosofo associa in più occasioni il diritto di dire a quello di tacere, presentando anzi quest’ultimo come uno dei tratti che accomunano la letteratura alla democrazia? Egli chiarisce altrove che solitamente «il concetto stesso di democrazia è basato sulla responsabilità del soggetto, cioè sul suo dovere di rispondere», ma se una democrazia fosse davvero effettiva «dovrebbe garantire, insieme, il diritto di rispondere e quello di non rispondere» (Derrida, Ferraris 1997, p. 24). Per quanto concerne i testi letterari, Derrida si dichiara affascinato dal fatto che implicano cose non dette, che restano segrete: «Se, pur senza amare la letteratura in generale e per se stessa, io amassi in essa qualcosa che soprattutto non si riduca a una certa qualità estetica, a una certa fonte di godimento formale, sarebbe nel luogo del segreto. Nel luogo d’un segreto assoluto. Lì sarebbe la passione» (Derrida 2019, 85). Questo può apparire in contrasto con la totale libertà enunciativa che dovrebbe caratterizzare tali testi, ma secondo il filosofo non è così: «Esiste nella letteratura, nel segreto esemplare della letteratura, una possibilità di dire tutto lasciando intatto il segreto. Quando ogni ipotesi è concessa, senza fondo e all’infinito, sul significato di un testo o sulle intenzioni ultime di un autore […], quando non ha neppure più senso decidere sulla presenza o meno di un segreto dietro la superficie di una manifestazione testuale (ed è tale situazione che io chiamo testo o traccia), quando è il richiamo di tale segreto che […] tiene in sospeso la nostra passione e ci fa dipendere dall’altro, proprio allora il segreto ci appassiona» (Derrida 2019, pp. 87-89).
Esistono un segreto nella letteratura e un segreto della letteratura, che tuttavia in certo modo coesistono: «Come segreto della letteratura, si trova il potere infinito di mantenere indecidibile, e quindi non svelabile, il segreto di ciò che essa, la letteratura, dice […]. Il segreto della letteratura è pertanto il segreto stesso. È il luogo segreto in cui essa si istituisce come la possibilità stessa del segreto» (Derrida 2003, p. 27). Anche quando uno scrittore sembra voler confessare, in un proprio testo, qualcosa che in precedenza aveva tenuto celato, non sapremo mai se ciò che dice è vero o se si tratta di una finzione, e in ogni caso qualcosa di taciuto permane sempre. Il segreto ha dunque a che fare con la letteratura, che lo «custodisce (garde) assolutamente in proprio possesso pur dandovelo da osservare (re-garder), senza lasciarvi la minima possibilità di appropriarvelo» (Derrida 2003, p. 58).
Talvolta, però, il filosofo sembra riferirsi a qualcosa di più o di diverso dal fatto, innegabile, che ogni testo letterario rilevante contiene in sé una riserva di significati e si presta dunque a letture sempre nuove (il che spiega fra l’altro la sua durevolezza attraverso i secoli). «Erede spergiura, in questo, delle Sacre Scritture, erede nel contempo più che fedele e imperdonabilmente blasfema di tutte le Bibbie, la letteratura resta il luogo assoluto […] del segreto come esperienza della legge venuta dall’altro» (Derrida 2003, p. 58). Si ha qui l’impressione che il non-detto inerente alla letteratura si trasformi in qualcosa di mistico o religioso. Ciò comporta dei rischi, poiché se si sacralizza l’opera d’arte anche il compito di interpretarla può suscitare un eccessivo e irragionevole senso di inadeguatezza: «Sono sempre in colpa di fronte a un’opera, […] perché non arriverò mai a esaurirne il senso, in quanto l’opera eccede sempre ogni appropriazione possibile. Per questo spero e desidero che l’opera mi si doni e mi perdoni, là dove ciò è impossibile, là dove io sono imperdonabile. Non posso commisurarmi a essa. Mi eccede infinitamente, e sono colpevole, pur non avendo commesso alcun crimine: sono colpevole a priori» (Derrida 1998, pp. 32-33).
A questo proposito, la posizione di Derrida appare oscillante, perché se da un lato egli dichiara di non voler sacralizzare i testi che commenta, dall’altro ammette, almeno in parte, di farlo: «Beninteso, io tendo a diffidare delle procedure di sacralizzazione, o in ogni caso ad analizzarle, ad analizzarne le leggi e le fatalità. Provo in effetti ad affrontare i testi non senza rispetto ma senza presupposti religiosi nel senso dogmatico del termine. Tuttavia, nel rispetto al quale mi piego, c’è qualcosa che s’inchina davanti a una sacralità, se non proprio davanti al religioso. […] Ho cercato di mostrare, particolarmente in Donner la mort, che la letteratura, nel senso stretto e moderno, europeo, del termine, conserva la memoria (al tempo stesso sacralizzante, desacralizzante, colpevole, pentita) dei testi sacri, in verità biblici» (Derrida 2010, p. 26). Quest’ultima osservazione in certi casi può essere vera, ma resta comunque indebito voler dedurre da essa che chi si confronta con tali opere letterarie debba attribuire loro un carattere di sacralità.
I diversi modi in cui Derrida si rapporta, nei propri libri, alla nozione di letteratura sono senz’altro originali e interessanti, benché risultino spesso poco persuasivi. Un aspetto che appare invece valido e meritorio è la capacità, della quale egli ha sempre dato prova, di saper muoversi «tra filosofia e letteratura, non rinunciando né all’una né all’altra, cercando forse oscuramente un luogo a partire dal quale la storia di tale frontiera potrebbe essere pensata o persino spostata: nella scrittura stessa e non soltanto in una riflessione storica o teorica» (Derrida 2009, p. 254)
di Giuseppe Zuccarino
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[1] Derrida 2004, pp. 28-29; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche.
[2] Derrida 1999, pp. 227-229). Come precisa Benoît Peeters (in Derrida 2010, p. 131), il deposito del titolo era avvenuto nel 1959, non nel 1957.
[3]Ibid., p. 93 (tr. it. pp. 100-101). Saggi su questi scrittori sono compresi nei volumi derridiani L’écriture et la différence (Derrida 1971) e La dissémination (Derrida 1989).
[5] Osservazioni analoghe si leggono in Premier entretien avec Jacques Derrida: «La Solidarité des vivants» (2004), in Derrida 2016, p. 139: «La letteratura, l’invenzione della letteratura, è un fatto europeo, almeno alla sua origine. Non voglio dire eurocentrico, voglio dire che la letteratura in senso stretto è un’invenzione, un’istituzione europea»
[6] Questo passo viene citato in Derrida 1991, p. 20.
Se riconoscere il superamento del progetto artistico dall’alterità di cause determinanti benché inavvertite sembra ormai essere un luogo comune delle rappresentazioni del fare artistico (si pensi alle diverse teorie di ispirazione divina, a quelle di involontario condizionamento ideologico, alla postulazione dell'esistenza di una logica dell'inconscio), l'implicazione del caso quale causa della produzione artistica non consente di accedere a un'interpretazione dell'opera come manifestazione di determinazioni essenziali, sociali o psicoanalitiche. In altre parole, il riconoscimento di una parte di caso nel processo creativo implica modalità di significanza per le quali l'identificazione di un progetto diventa altamente problematica.
Although acknowledging that any artistic project is necessarily exceeded by the alterity of determining causes is quite a mundane way of representing the artistic fact (one thinks of the various theories of divine inspiration, of involuntary ideological conditioning, of the postulation of the existence of a logic of the unconscious, etc.), the implication of chance as the root cause of a work raises a critical issue since it rules out any interpretation of the work either as a manifestation of a truth that would have been pre-existing in god, or as a social or psychoanalytical determination of the forms produced and interpreted. In other words, the recognition or claiming of a measure of chance seems to imply modes of signifiance for which the identification of a project becomes problematic.
A cura di Benoît Monginot, Stefano Oliva e Sébastien Wit
Negli ultimi quindici anni di ricerca e insegnamento i temi e i soggetti a cui abbiamo rivolto la nostra attenzione, a partire da posizioni e con traiettorie indipendenti, hanno mostrato un denominatore comune che si può indicare nel mito. Ogni volta, nell'affrontare con strumenti e sguardi di volta in volta monografici o tematico-discorsivi, oggetti disparati legati alle dimensioni della politica, della società, dell'economia, dell’identità, dell’immaginario, della memoria, della storia, delle credenze, la questione del mito – di cosa fosse, cosa sia, come si generi, come si trasformi, come agisca, cosa produca – si è posta come centrale e urgente. A partire dal 2011 la nostra collaborazione sul tema del mito ha dato vita a una riflessione specifica che si è materializzata nella pubblicazione di un volume collettaneo, curato dai sottoscritti e con circa trenta collaboratori, dedicato al mito nel XX secolo: Filosofie del mito nel Novecento, Carocci, Roma 2015. L'impianto generale di questo numero della rivista e alcuni articoli derivano da quel cantiere di lavoro, inteso come una vasta ricognizione sul mito e sul modo di rivolgersi a esso nella cultura contemporanea. Filosofie del mito nel Novecento, chepuò essere considerato il fratello maggiore di questo numero, consiste in un percorso storico-storiografico per autori e temi, strettamente legato alla filosofia, all'antropologia e alla storia della religioni: diversamente gli articoli qui proposti, dopo un inquadramento filosofico (teoretico e politico al tempo stesso) dei curatori, prendono in considerazione alcuni snodi trasversali della miticità contemporanea, in ambiti diversificati come quelli dell’arte visiva, della critica letteraria, del cinema, delle scienze cognitive, della storiografia, dell’esoterismo. Abbiamo invitato studiosi e studiose di differenti ambiti a scrivere testi relativamente brevi, a metà tra un saggio e una voce di enciclopedia, chiedendo un apporto teorico che non va inteso in senso completistico o riassuntivo. Ogni tema è dunque stato declinato mediante la scelta di un percorso o uno studio di caso, significativo ed esemplare.
Nel caso di arte, letteratura e cinema, curati rispettivamente da Martina Corgnati, Giulia Boggio Marzet Tremoloso e Giampiero Frasca, si tratta, come è immaginabile, di mostrare gli aspetti estetici e poietici del mito nella cultura del Novecento, con tagli e prospettive che sono propri di ogni ambito, nel riferimento al mito come repertorio di soggetti e temi o strumento analitico, ma anche come generatori di nuova e specifica miticità. Il saggio di Gianluca Solla su Kantorowicz, nel contesto del George-Kreis e della cultura nella Repubblica di Weimar, nella sua singolarità mostra come anche la scienza storica, nella sua prassi scritturale e metodologica, possa essere strettamente intrecciata alla dimensione mitologica e si inscriva in cortocircuito tra passato e presente, che richiede anche sorveglianza. In una sorta di antipodo, il saggio di Francesco Baroni illumina in termini storico-storiografici e di storia delle idee un ambito in cui il mito, nella produzione testuale di figure come Guénon e Evola, consuma l'intero spazio del reale, della storia e del divenire fino a trasformarsi in contro-mondo finanche allucinato e ideologizzato, dove la dimensione metafisica tende ad azzerare o sovradeterminare quella sensibile e materiale. Il saggio dedicato alle neuroscienze cognitive, scritto da Edoardo Acotto mostra un'approccio biologico, evoluzionista e in qualche modo neo-trascendentale al mito, innovativo e tendenzialmente recente, almeno per gli standard italiani, che apre prospettive particolarmente interessanti che non possono non essere problematiche per chiunque si rapporti alla dimensione del mito in termini “classici” e metafisici.
Contro i fanatici rimitizzatori e per avvertire gli ingenui demitizzatori, pensiamo sia opportuno guardare al “mito” o meglio al MITO, nelle sue declinazioni – mitologie, miticità, mitopoiesi, mitodinamiche; per tracciarne gli slittamenti, le intermittenze e le folgorazioni, inseguendoli negli ambiti delle pratiche sociali in virtù delle quali i vincoli collettivi trovano stabilità e fondamento. Con l'idea che in questo quadro si inscriva parte significativa del modo in cui i moderni narrano sé stessi e definiscono portata e limiti del luogo, supposto altro, abitato dal mito.
Uno dei primi libri realizzati assieme da Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy è un saggio sui (e un’antologia dei) testi del primo romanticismo tedesco, dal titolo L’absolu littéraire. Théorie de la littérature du romantisme allemand (Lacoue-Labarthe – Nancy, 1978). Si tratta di un volume di grande importanza, purtroppo non disponibile in italiano. Nella raccolta, i due filosofi hanno scelto, introdotto, annotato e tradotto scritti dovuti principalmente ai fratelli Schlegel, a Novalis e a Schelling. La ragione del titolo viene spiegata in maniera sintetica nella quarta di copertina del volume: «Prima di far epoca nella letteratura e nell’arte, prima di rappresentare una sensibilità o uno stile […], il romanticismo è innanzitutto una teoria. E l’invenzione della letteratura. Costituisce anzi, precisamente, il momento inaugurale della letteratura come produzione della propria teoria – e della teoria che pensa se stessa come letteratura. In tal modo, apre l’epoca critica alla quale apparteniamo ancora. Poietica in cui il soggetto si confonde con la propria produzione, e Letteratura chiusa sulla legge del proprio generarsi, il romanticismo (noi, insomma) è il momento dell’assoluto letterario». Si tratta di dichiarazioni a prima vista azzardate, ma in realtà condivisibili. Di fatto, quelle nate in Germania alla fine del Settecento sono, se non proprio la letteratura e la critica tout court, perlomeno la forma autoriflessiva che esse hanno assunto, non di rado, in epoca moderna e contemporanea...Scarica il PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Con La comunità sconfessata (ed. orig. La communauté désavouée, Galilée, Paris 2014) Jean-LucNancy compie un passo avanti nel tentativo di dipanare e allargare le maglie di un gioco di rimandi reciproci che lo connette a Maurice Blanchot a partire da L’absolu littéraire, apparso nel 1978: un rapporto di prossimità che lega Nancy a Blanchot nonostante i differenti percorsi teorici. La risposta di Nancy a La communauté inavouable di Blanchot, uscitonel 1983, si fa attendere trent’anni, anni che sono stati non solo testimoni della morte dello stesso Blanchot, ma anche della reale difficoltà di comprensione del suo testo e, in particolare, di quel segreto inconfessabile che, secondo l’autore, caratterizza propriamente la comunità. Nancy ammette di essere rimasto inizialmente paralizzato nel constatare che un autore del calibro di Blanchot decidesse di rispondere a un “giovane filosofo senza autorità” (p. 32) e con una tale sollecitudine (La communauté inavouable esce infatti lo stesso anno dell’articolo di Nancy intitolato La communauté désoeuvrée, “Aléa”, n. 4/1983). Solo recentemente l’imbarazzo e lo stupore, oltre che una certa prudenza teorica, hanno ceduto il passo all’urgenza etica che il tema della comunità prospetta e all’importanza di un’interrogazione su quel carattere comune delle nostre esistenze che ci consente di essere in rapporto, nell’insieme e nella condivisione (partage) ancora prima che individui o entità discrete.
In questo dialogo “a distanza” compare immediatamente un ulteriore referente, Georges Bataille, le cui opere del dopoguerra, rilette in un’ottica politica comunitaria, diventano oggetto d’interesse tanto per Nancy quanto per Blanchot. Anche in nome dell’amicizia e della fraternità che lo legano a Bataille, Blanchot si convince della possibilità di integrare la nozione di comunità alla luce delle analisi contenute in questi testi, in riferimento ai quali è sviluppata la nozione di “comunità negativa”. Nel corso del terzo capitolo – “Il cuore o la legge” – i rimandi ai testi di Bataille e di Blanchot, echi che ricordano i riferimenti silenziosi ricercati dalla poesia neoterica, si fanno serrati come se tre figure si riflettessero infinitamente su due specchi posti l’uno di fronte all’altro: il rifiuto di consacrare la comunità alla sua propria esistenza è punto di partenza comune tanto aBlanchot quanto a Nancy – che fonda infatti su questo rifiuto la scelta del termine ‘inoperosa’ – ma, se Nancy e Bataille relegano la sovranità a “nulla”, negandone l’essenza primaria (p. 48), Blanchot la consacra invece alla realtà dello Stato moderno, confinandola a un’altezza che nulla può eccedere e collocandola dalla parte degli dèi e degli eroi. Se per Bataille la scrittura resta lacerata nella sua tensione verso un’inaccessibile trasmissione, Blanchot vede nella scrittura stessa la possibilità di trasmettere l’intrasmissibile, offrendo dunque il suo testo come lavoro “dell’inoperosità”. La comunicazione sconveniente di Bataille – chiaro riferimento alla sua attività letteraria notturna di carattere erotico –, occupandosi di diffondere un segreto senza segreto, da un lato delinea una comunità di amici che sembra esprimersi nella forma stessa della “comunità inoperosa” e dall’altro dà voce all’abbandono dell’autore dovuto al movimento della sua stessa comunicazione, al suo comunicare qualcosa di incomunicabile. La produzione notturna di Bataille diventa anche occasione affinché si manifesti l’accortezza di Blanchot nei suoi riguardi che, in quanto amico e membro della comunità, si propone come custode del “cuore o della legge” e si fa portavoce dell’abbandono e dell’isolamento di Bataille tramite l’elaborazione di un’altra scrittura o, meglio, di una scrittura altra. Blanchot realizza infatti La communauté inavouable come tentativo di pensare la comunità lontano dalle semplificazioni operate dalle cause da sostenere, dalle leggi da rispettare e dalla dicotomia comunicativa che relega la scrittura dettata dalla passione “scatenata” o “abbandonata” alla sola sfera privata, allontanandola dalla legge o dalla politica. Scrive Nancy a tale proposito: «Il cuore o la legge: se la legge non può mai decidere del cuore, il cuore in compenso può dettare legge al di là di ogni legge. È forse l’inconfessabile» (p. 55).
La legge dell’abbandono, che per unicità ed eccezionalità può essere paragonata alla legge del cuore o dell’amore, condanna il soggetto a essere “senza ritorno e senza ricorso”. È Bataille dunque a essere in “estasi” (usando un termine caro allo stesso autore), a essere abbandonato e a venir meno come soggetto, rapportandosiin questo modo con l’esperienza della comunicazione e con la sua impossibilità. Blanchot, in quanto amico e membro della comunità, comprende meglio di tutti la solitudine di Bataille: tale aspetto è magistralmente assunto daNancy nel cogliere a sua volta entrambi nel loro abbandono ancora prima che essi si comprendano reciprocamente. In ultima istanza, sembra che Blanchot, ancora prima di affrontare la questione della comunità, ci tenga a farla primariamente vivere e ad affermarla, rimarcando un certo legame continuo, uno slittamento di testi, rapporti e identità, un’immediatezza creativa e segnando, in altri termini, un abbandono stesso della comunità “senza ritorno e senza ricorso”, nonostante la forma d’insieme si mantenga sotto il suo nome. La comunità sconfessatasi presenta quindi come un testo che, più che affrontare il tema della comunità, si pone esso stesso come il soggetto di una comunità invocata, tanto da aprire la riflessione a partire da un “Io” e a concluderla terminando con un “Noi”, e in quanto tale strizza l’occhio in modo tacito, ma perentorio, alla “comunità degli amanti” di Bataille.
Nel quarto capitolo – “La comunità consumata” – Nancy legge nella considerazione sul movimento del ‘68 l’occasione tramite cui Blanchot indaga il popolo che, in quanto istanza o soggetto, mantiene il proprio essere a partire dall’oscillazione continua tra assemblaggio e disassemblaggio; scartando ogni fondazione della comunità di carattere propriamente politico e privilegiandone una di tipo ontologico-sociale – che potremmo definire della Gemeinschaft, più che della Gesellschaft – Nancy vede la comunità, che si sottrae a ogni determinazione, legarsi tramite il proprio slegamento e realizzare il “mondo vero degli amanti”, la cui verità costituisce il cuore o la legge del popolo, «la legge di un popolo che va concepito più come un cuore che batte che come un’associazione» (p. 70). Si noti bene come l’amore, racchiuso nella sfera ristretta della soggettività, sia – nella sua impossibilità – estraneo alla comunità degli amanti, contrariamente alla passione, al conatus,che, simile all’obbligo etico, costituisce uno slancio che istituisce la relazione con l’alterità tramite l’abbandono che porta con sé.
L’ultimo capitolo – “Ciò che essenzialmente sfugge” – attribuisce l’elusività e i toni più marcatamente mistico-cristiani di Blanchot – che affida al suo libro il compito di “parlare” anziché tacere e che lo vede destinatario di un messaggio importante – al suo progressivo avvicinamento al tema, mai svelato, dell’inconfessabile, presenza di colpa politica non-confessabile, forma di indicibile. L’inconfessabile, riscontrabile nell’esperienza della morte, che si comunica senza che si possa decidere della sua comunicazione, consiste nell’impossibilità di determinare sia l’effettività sia la dissoluzione della comunità. In altri termini, l’inconfessabile va ricercato nell’impossibilità di attribuire senso ultimo ai rapporti interni alla comunità e nella necessità che la comunità stessa si mantenga incerta nella propria essenza, al riparo da ogni confessione come da ogni dominio e da ogni solidità, “insubordinata”, non-comune e dunque “sconfessata”.
Uno degli scrittori più presenti nel lavoro di Gilles Deleuze è senz’altro Samuel Beckett. È vero che il filosofo non gli ha dedicato un volume monografico – cosa che ha fatto invece per altri due grandi della letteratura, Proust e Kafka –, ma all’interno dei suoi libri troviamo un elevato numero di riferimenti all’autore irlandese, che mostrano quale importanza particolare egli gli attribuisca. Esistono inoltre due testi (uno breve, l’altro più ampio) esplicitamente destinati a commentare opere beckettiane, e proprio a essi rivolgeremo l’attenzione... Scarica il PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
La rubrica si occuperà dei margini della filosofia, cioè dei punti in cui a essa può accadere di sconfinare, evadendo dal proprio territorio, o all’opposto di subire invasioni da parte di «non addetti ai lavori». Per essere più espliciti, diremo che a essere in causa è il rapporto tra la filosofia e le arti, in particolare la letteratura. Si tratterà dunque di mostrare, tramite esempi significativi, come i pensatori del secolo scorso e di quello presente si siano rapportati alle opere di poeti, narratori o artisti visivi. Ma spesso saranno anche presi in esame casi in cui, viceversa, sono stati gli scrittori a dimostrare interesse per le opere dei filosofi, antichi o recenti. Date le competenze specifiche del curatore, l’attenzione sarà rivolta perlopiù all’area culturale francese.
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Può l’oggettualizzazione essere considerata una parte meravigliosa e inestirpabile della vita sessuale? È questa la spiazzante domanda che Martha Nussbaum si pone in un articolo risalente al 1995, ora disponibile in edizione italiana presso le Edizioni Centro Studi Erickson, dal titolo Persona oggetto. In quell’occasione la filosofa americana si inseriva in un dibattito che trovava quali interlocutrici privilegiate due voci autorevoli e irriverenti del femminismo radicale d’oltreoceano come Andrea Dworking e Catharine MacKinnon. L’oggetto del contendere – mi si perdoni il gioco di parole – consisteva nella ridefinizione di un concetto fondamentale della teoria femminista, per la quale appunto l’oggettualizzazione rappresentava il problema centrale nella vita delle donne – ma anche eventualmente per gli uomini, data la generalità della questione – e contro il quale andava concentrato tutto l’impegno politico. Il testo che qui proponiamo alla lettura tenta di fare chiarezza sul senso del termine oggettualizzazione, non tanto proponendone una definizione chiara ma piuttosto dimostrando la sua ambiguità sia logica che morale attraverso l’esempio fornito da sei estratti di altrettanti romanzi, nei quali sono narrati una serie di comportamenti che oggettualizzano il o la partner sessuale in modi difficilmente giudicabili in maniera univoca. Partendo da Lawrence e Joyce per giungere a Hollinghurst e Henry James, senza dimenticare Playboy e Laurence St. Clair, Nussbaum mostra come la definizione più elementare di tale comportamento, «trattare comeunoggetto ciò che in realtà non è un oggetto, ciò che è, di fatto, un essere umano», non renda la complessità di una simile pratica.
Complessità che affiora invece in maniera evidente dalle molteplici e stratificate connessioni logiche che intercorrono tra le sette nozioni fondamentali (Strumentalità, Negazione dell’autonomia, Inerzia/Passività, Fungibilità, Violabilità, Proprietà, Negazione della soggettività) riconosciute quali modalità determinanti nel trattare una persona come una cosa. Spesso infatti, ammonisce l’autrice, usiamo tale termine come un contenitore approssimativo applicando il quale giudichiamo solo uno di questi tratti, benché più frequentemente siano presenti una pluralità di elementi nel suo verificarsi. Dunque per capire che cosa accade e quando si tratta di oggettualizzazione bisogna chiedersi se ciascuna di queste voci sia una condizione sufficiente perché si possa definire un comportamento oggettualizzante. L’analisi che ne segue mette in luce una grande varietà nelle modalità attraverso le quali ci relazioniamo agli oggetti – tra loro molto differenti come una penna a sfera e un quadro di Monet – ma nello specifico mostra che gli elementi che caratterizzano maggiormente il nostro modo di trattare un oggetto sono la considerazione di nonautonomia e di strumentalità in quanto moralmente più esigenti. In particolare la non strumentalità risulta determinante nel veder garantita l’umanità altrui kantianamente intesa come fine in sé. Del resto trattiamo i nostri figli piccoli come soggetti non autonomi ma sarebbe riprovevole considerarli come meri strumenti per i nostri scopi. Il rapporto tra autonomia e strumentalità è invece messo in evidenza dalla condizione dei lavoratori e da quella degli schiavi.
Questi ultimi due esempi mostrano inoltre che riducendo a mero strumento un altro essere umano, sembra manifestarsi un’automatica tendenza nel produrre altre forme di oggettualizzazione non implicate logicamente dalla prima a causa di un blocco dell’immaginazione. Come se fosse più difficile rendersi conto dell’umanità altrui. Nonostante ciò anche la strumentalità – ci avverte Nussbaum – non risulta negativa in tutti i contesti ma solo quando l’altro viene trattato principalmente o esclusivamente come strumento. Non parleremo infatti di strumentalizzazione in senso negativo qualora usassi la pancia della mia amante come cuscino, a patto di avere il suo consenso naturalmente, ma anche in questa situazione si tratterebbe ugualmente di strumentalizzazione. Ciò che ne emerge è che per determinare un trattamento di oggettualizzazione nei confronti di qualcuno entrano in gioco valutazioni complesse che non si devono limitare all’individuazione di una sola delle nozioni indicate, ma piuttosto distinguere quali di queste si manifestano e in quale relazione si dispongono, con la consapevolezza che prese di per sé singolarmente e fuori contesto non possiedono un carattere intrinsecamente negativo o positivo.
È a questo punto che Nussbaum mostra il suo legame con la teoria kantiana del desiderio sessuale e del matrimonio. La filosofa americana concorda in parte con Kant rispetto all’idea che il desiderio sessuale sia una forza molto potente che contribuisce alla strumentalizzazione delle persone come se fossero cose, mezzi per la soddisfazione dei propri desideri. Nell’atto sessuale – secondo il filosofo tedesco – entrambi i soggetti smettono di considerare l’altro come autonomo e come dotato di soggettività poiché non si domandano più che cosa l’altra persona sente o pensa, protese come sono ad assicurarsi la propria soddisfazione. Al tempo stesso però il forte interesse reciproco di entrambe le parti per la soddisfazione sessuale le spingerà a permettere a se stesse di farsi trattare come cose, farsi cioè deumanizzare per deumanizzare a loro volta l’altro/a. Tale dinamica non presenta connotazioni di genere o asimmetrie gerarchiche di matrice sociale ma è intrinseca all’atto sessuale stesso. La reciprocità diviene dunque elemento rilevatore della natura intrinsecamente ambigua della relazione sessuale, nella quale strumentalizzazione, inerzia, passività etc., possono avere un ruolo positivo a seconda del contesto. «Il contesto è tutto» se affrontiamo un'analisi di questo genere poiché operiamo su di un terreno in cui la psicologia dei particolari individui coinvolti risulta determinante, così come la natura del loro rapporto e le sue dinamiche interne in relazione alle consuetudini culturali nel quale è immerso. Spesso intimi scambi di battute, atteggiamenti e comportamenti tra amanti, se avulsi dalla situazione in cui si verificano o vengono pronunciati, possono essere fraintesi poiché ciò che viene perduto dalla generalizzazione è proprio quella densità significante data dall’interrelazione tra essa e gli elementi che compongono, stratificandolo, il concetto di oggettualizzazione.
A questo livello opera la critica di Nussbaum nei confronti delle posizioni assunte da Dworking e MacKinnon che, se pur fedeli alla visione kantiana dell’incompatibilità tra rispetto e negazione dell’autonomia, della soggettività e strumentalizzazione, non sono disposte a credere che tali negazioni siano intrinseche alla natura stessa del desiderio sessuale, ma fanno pendere l’ago della bilancia interamente verso la socializzazione dell’erotismo in un contesto ricco di gerarchia e dominazione. Ciò impedisce loro di distinguere i differenti aspetti che costituiscono l’oggettualizzazione e che fanno emergere la complessità del desiderio e della sessualità. Questa semplificazione del campo di indagine si riflette soprattutto a livello politico poiché la soluzione addotta per questo stato di cose consisterà in un progressivo disfacimento di tutte le strutture istituzionali che inducono gli uomini a erotizzare il potere. Se pur in parte d’accordo sulla necessità di una profonda riforma sociale e istituzionale, Nussbaum pare meno incline a considerare le istituzioni soltanto in senso negativo; il punto non sembra tanto essere una questione di disfacimento, quanto piuttosto di modifica e riformulazione attraverso la conoscenza di come gli elementi che costituiscono la pratica dell’oggettualizzazione si connettono, interagiscono ed emergono dal contesto.
L’uso della letteratura assume proprio questo scopo, fungendo all’autrice da laboratorio sperimentale nel quale mettere alla prova la sua proposta e la critica alle sue interlocutrici, analisi questa che lasciamo percorrere al lettore.