Alla fine del secolo scorso, l’idea che la storia fosse finita fu salutata con fiducia da molti, nella speranza che la scomparsa dell’Unione Sovietica e il trionfo del capitalismo sancissero l’inizio di una fase di stabilità e armonia in cui l’umanità avrebbe trovato il suo compimento definitivo. Negli anni a venire, quell’idea si è così radicata da diventare di senso comune: il nostro è il migliore dei mondi possibili, mentre il solo pensare a un cambiamento dell’organizzazione politica e istituzionale appare, se va bene, come un anacronismo, se va male, come un rifiuto della realtà. Logica e Tumulti. Wittgenstein filosofo della storia (Quodlibet, 2021) di Marco Mazzeo si oppone con fermezza a questa narrazione. Col pretesto di uno studio sul più grande filosofo del Novecento, l’autore combatte una lotta senza quartiere in difesa della dimensione storica dell’esperienza umana.
Per prima cosa bisogna fugare un equivoco: storia non è il mero scorrere del tempo, il costante succedersi degli eventi. Non va dunque confusa con la filogenesi, né con la deriva dei continenti. È invece «l’insieme delle trasformazioni istituzionali e produttive grazie alle quali gli esseri umani riescono a salvare la pelle. La storia indica, in primo luogo, il modo nel quale i sapiens producono le condizioni di possibilità della propria vita» (p. 10). Indica quei cambiamenti «imprevedibili» – perché non riconducibili a un repertorio d’istinti – e «necessari», senza i quali non riusciremmo a produrre i mezzi della nostra sussistenza. Mentre il tempo dei fenomeni naturali è continuo, storia è sinonimo di discontinuità e fa rima con improvvisi tumulti repressi nel sangue o con una nuova tecnologia che sconvolge l’organizzazione della vita.
Tuttavia, in questa operazione di salvataggio, Wittgenstein non è un alleato. La diagnosi del libro è netta: il filosofo è cieco alla storia. Con un apparato filologico che lascia poco spazio a dubbi (vengono classificati tutti i termini riconducibili alla famiglia della «Geschichte» presenti nel lascito testamentario), Mazzeo dimostra che l’autore delle Ricerche filosofiche prospetta un’«antropologia senza storia» (p. 38): offre istantanee dirompenti, ma non vede la differenza tra il tempo umano e i mutamenti geologici. In questo è un degno «allievo di Spengler» (p. 55), una tra le sue fonti più importanti. Nel secondo capitolo del libro viene soppesato il debito di Wittgenstein con l’autore del Tramonto dell’Occidente il quale, sulla scorta di Goethe, paragona le epoche storiche alle fasi di sviluppo di organismi viventi come le piante, riconducendo la temporalità umana all’andamento ciclico che caratterizza la vita naturale in generale. E così una rivoluzione può diventare un’escrescenza da tagliare, un governo autoritario la piena maturazione di una cultura.
Nell’ipotesi interpretativa di Mazzeo, la discussa amicizia di Wittgenstein con Sraffa (a sua volta amico di Gramsci) sarebbe giunta al capolinea proprio in virtù di questa ritrosia nei confronti della storia. Il primo capitolo è dedicato a una ricostruzione del rapporto tra il logico e l’economista, il quale, oltre a ritenere «insopportabile» che l’amico abbia in Spengler un «punto di riferimento», nei suoi appunti denuncia «in modo esplicito» la «scarsa presenza della dimensione storica» (p. 30) nelle riflessioni dell’interlocutore.
Wittgenstein può però venirci in soccorso quando meno ce lo si aspetterebbe, cioè quando si occupa di matematica. Nelle sue annotazioni sul calcolo e sui teoremi trapela una nozione, quella di storia naturale, che può essere promettente approfondire. È quello che fa Mazzeo nel vertice teorico del volume, il terzo capitolo, in cui propone «una riflessione circa l’intreccio tra natura e storia umana, a prescindere dalla filologia wittgensteiniana» (p. 94) (la filologia tornerà presto, nelle due appendici, dedicate l’una a un confronto tra l’uso filosofico degli scacchi in Saussure e Wittgenstein, l’altra al poco studiato rapporto del filosofo austriaco con la fotografia). L’espressione «storia naturale» è gravata da una lunga tradizione che impedisce di coglierne appieno la portata teorica, e di cui l’Historia naturalis di Plinio il Vecchio costituisce l’illustre testo fondativo. Il paradigma tradizionale, che nel corso dei secoli ha avuto grande fortuna, consiste in una sorta di modello enciclopedico, il cui obiettivo è raccogliere e descrivere gli oggetti che appartengono al regno della natura. La ricerca è simile a quella del collezionista che punta a reperire quanti più documenti possibile, ma senza un vero criterio di selezione. Motivo per cui vi si possono trovare aneddoti circa i lupi mannari accanto a descrizioni di cercopitechi, oppure ipotesi sul senso del pericolo degli elefanti, ma anche cataloghi delle tecniche di cattura da parte degli esseri umani. In tempi recenti questo genere letterario è entrato in una seconda giovinezza: il lemma «storia naturale» figura nel titolo di studi eterogenei, che possono riguardare la morale umana da una prospettiva evoluzionistica, oppure «il profumo, gli alberi, la birra», fino ad arrivare al «concetto di distopia» (p. 83). Al netto delle evidenti differenze tematiche, i corpi che popolano questo variegato firmamento sono accomunati dalla «temporalizzazione dei fenomeni naturali senza un confronto esplicito con la dimensione storica. Si tratta di una disposizione spaziale del sapere scientifico» (p. 87). La temporalità tipicamente umana viene eliminata, annacquando la specificità della nostra forma di vita in un generico calderone in cui tutte le vacche sono nere. Mazzeo propone, al contrario, di prendere sul serio la dicitura «storia naturale», la quale, oltre che un ossimoro, contiene anche un guanto di sfida: come tenere insieme «natura (ontogenesi, filogenesi) e storia (le trasformazioni istituzionali di lingue, riti, forme della tecnica, modi di produzione)» (p. 87)? È possibile un «naturalismo non rinunciatario» (p. 87), che non ceda alla tentazione di nascondere sotto al tappeto le continue trasformazioni culturali che sembrano segnare così profondamente la nostra specie?
La domanda è retorica, alcuni suggerimenti per provare a rispondere ce li fornisce Mazzeo in un elenco di «paradossi» (p. 94), anche se forse sarebbe più corretto chiamarli «tesi sul concetto di storia naturale». Non è in questa sede possibile ripercorrerne l’andamento con dovizia di particolari, mi limiterò a riprendere un punto particolarmente degno di nota, la critica al concetto di adeguatezza. Bersaglio polemico è l’idea ingenua, ma non per questo non diffusa, secondo la quale le condotte umane possono venir lette nei termini di «risposte perfezionate a esigenze precedenti» (p. 98), come se le vicende storiche – ivi comprese le trasformazioni dell’assetto produttivo – non fossero altro che una serie di graduali adattamenti in direzione di una fitness completamente realizzata, di una suprema armonia tra l’anthropos e i suoi bisogni. Wittgenstein è polemico con questa concezione e si chiede, non senza ironia: «viviamo perché è pratico vivere? Pensiamo perché è pratico pensare?» (Wittgenstein 1978, V, § 14) E poi: «è adeguato ai nostri bisogni che noi contiamo come contiamo» (Item 163, p. 30r), cioè in base dieci e non in base sessanta (come, per esempio, facevano i babilonesi)? Il fatto che si calcoli così, o che, più in generale, si viva così, implica che si faccia così e non altrimenti: è sempre possibile una strada alternativa. In altri termini,
«l’insistenza di un gesto che indica cosa facciamo "qui e ora" non esorta a contemplare la bellezza di una sovrapposizione perfetta e atemporale tra la vita e la sua forma, tra la natura e la cultura. Punta a far emergere il carattere contingente di quel che potrebbe essere completamente diverso perché non è chiamato a rispondere a criteri di adeguatezza. Questa contingenza, adeguata solo a cose fatte, si chiama "storia" (p. 99)».
In altri termini ancora, questa volta più filosofico-linguistici, le regole che guidano la nostra prassi – in modo eminente quella verbale – non possono essere considerate alla stregua di leggi biologiche o chimiche. Tra regola e applicazione vi è uno scarto tale che niente obbliga a rispondere a un insulto con un pugno e non con una frase sardonica, a un comando con obbedienza e non con sdegnata insubordinazione.
La storia naturale di Mazzeo è, insomma, un concetto con cui combattere una battaglia ideologica contro una precisa narrativa del potere. Uno strumento di difesa nei confronti di chi fa sua un’idea di natura per nulla innocua, che in fin dei conti uccide una croce, ma anche una delizia, tipica della vita umana, la contingenza. Infatti, se ciò che i sapiens fanno è motivato esclusivamente da un criterio di adeguatezza, da una fatale tendenza all’adattamento, allora è inevitabile che le cose vadano così e non altrimenti, angusto lo spazio per mettere in discussione l’organizzazione della vita caratteristica del mondo contemporaneo. Per chi condivide una simile battaglia, varrà la pena di dare uno sguardo alle criptiche riflessioni del filosofo viennese sulla matematica. Chissà che questo Wittgenstein non possa fornire un prezioso antidoto contro la rassegnazione allo status quo.
di Adriano Bertollini
Bibliografia
Mazzeo, M. (2021).Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia. Macerata: Quodlibet.
Wittgenstein, L. (1988). Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Trad. it. di M. Trinchero, Torino: Einaudi.
Wittgenstein, L. Wittgenstein’s Nachlass, Electronic Bergen Edition, Oxford University Press, Oxford
Nella metro berlinese si aggira uno spettro, che sussurra: Ich bin, was ich höre.
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La fisiognomica della bambina ci illumina su quel che accade: «Sorriso autoprofetico, come tutti i segnali pubblicitari: sorridete, vi si sorriderà. Sorridete per mostrare la vostra trasparenza, il vostro candore. Sorridete se non avete niente da dire, soprattutto non nascondete il fatto che non avete niente da dire, o che gli altri vi sono indifferenti. Lasciate trasparire spontaneamente questo vuoto, questa indifferenza profonda nel vostro sorriso, fate dono agli altri di questo vuoto e di questa indifferenza, illuminate il vostro volto del grado zero della gioia e del piacere, sorridete, sorridete...» (J. Baudrillard, America)
Il grado zero di questa bambina è la sua insoddisfazione, da qui inizia il messaggio. Il suo vuoto prima di capire che ella può ambire a tanto – cioè a poco. Il suo sorriso ambiguo, leonardesco ci dice che lei sente di avere la possibilità di oltrepassare la sua accidia semplicemente mettendosi le cuffie. Ma il rapporto che lei ha con le sue cuffie non è solo, quindi, quello che un umano ha con la (sua) macchina. La macchina risponde esattamente al «sostentamento» della bambina, la macchina la ascolta – gli altri, le non-macchine, no. Io sono quello che ascolto perché quello che mi permette di ascoltare, a sua volta, è poroso. Io sono (anche) la macchina che mi isola – che suggella il mio isolamento e lo certifica ufficialmente. Tutti vedranno in tal modo che «io voglio isolarmi». Ma qui non è suggerito solo questo: il legame così forte che ha la musica con il sorriso, con l’emozione è, per l’appunto, qualcosa di talmente banale da risultare infantile. Date a vostra figlia le sue cuffie, lei sorriderà. In tal modo avrà la possibilità di ascoltare senza farsi ascoltare. Vi è un qualcosa di arcaico, di sinuoso, nel legame che si ha con la propria musica. Questo legame originario – che andremo ad investigare – va a cozzare contro la visualizzazione della sensazione musicale (sorridere per quello che si ascolta), con il tentativo di trasformare anche l’ineffabile musica in un dattiloscritto. La bambina sembra un contenitore, un vaso che viene riempito dalla musica. Cosa si aspetta? Lei aspetta di essere cantata.
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Peter Sloterdijk si è concentrato a lungo sul tema dell’ascolto e della costituzione della soggettività. Nel primo volume della sua microsferologia, Sloterdijk riprende le ricerche psicoacustiche di Alfred Tomatis. Se la ricerca di Sloterdijk è una genealogia della nozione di intimità, la chiave di volta è sicuramente il cosiddetto stadio delle sirene.
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La storia occidentale potrebbe essere interpretata come un percorso verso la defascinazione. Da quando Odisseo ha deciso di farsi legare dai suoi compagni per resistere al canto mortale delle sirene, si è costituita implicitamente un’equivalenza di carattere ontologico: solo chi resiste, chi sviluppa «una relazione non-commossa con le prestazioni retoriche e musicali che fanno appello al suo accordo” sarà degno della vita: «essere soggetto vuol dire soprattutto: poter, in primo luogo e più spesso, resistere alle immagini, ai testi, ai discorsi e alle musiche che si incontrano».
Nel condotto acustico si insinua il canto delle sirene. Qual è il legame tra questo suono e la morte? Come ricorda Sloterdijk, sembra strano che la questione del come si muoia ascoltando le sirene non sia mai stata discussa, come se fosse un dato di fatto il legame tra questo canto e la necessità di morire. Ciò che sconvolge l’equilibrio psico-fisico del viaggiatore è che le sirene non cantano qualcosa dal loro repertorio: esse si adattano perfettamente a quello che il viaggiatore vuole ascoltare. «Il loro segreto è di cantare esattamente i canti nei quali l’orecchio del viaggiatore in transito desidera precipitarsi. Ascoltare le sirene significa, di conseguenza, essere entrato nello spazio centrale di una tonalità che ci chiama internamente e, ormai, voler rimanere nella fonte emozionale di questo suono di cui non si può fare a meno».
Forse dovremmo immaginare il loro canto come un lento silenzio. Nel Silenzio delle sirene, Kafka ribalta completamente la descrizione di Omero. Addirittura, Kafka sembra commettere un errore grossolano nell’associare lo stratagemma della cera anche a Odisseo, che proprio alla cera ha rinunciato per poter ascoltare liberamente il canto delle sirene. Omero, d’altronde non si dilunga sul messaggio delle sirene. Come potrebbe, d’altronde, se nessun uomo gli è mai sopravvissuto? Le sirene sono un’entità metapoetica, sono più grandi di Omero, di Ulisse, della storia. Ecco allora che Kafka racconta che la verità è inenarrabile, che quello che deve essere veramente successo è un grande inganno, un’invenzione di Odisseo, un’escogitazione.
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Di cosa vorrebbe sentire parlare un viaggiatore, che non sa ancora quando farà rientro a casa, se non del suo interminabile viaggio, delle sofferenze che lo hanno condotto fin là? Ogni uomo vuole diventare una canzone che abbia sé al centro. Sentire delle voci che ci cantano significa che la nostra vita è finalmente «diventata un argomento di conversazione alla tavola degli dei». Ecco spiegata l’inesorabilità delle sirene: esse sono quel dispositivo che ci isola in noi stessi. Il risultato è il tramortimento, l’essere imbevuto di sé. L’atto delle sirene è un richiamare l’animo all’intonazione, un accordarsi inconscio che non è possibile evitare poiché si tratta di un solco preesistente, un cammino percorribile perché già percorso in precedenza. Ma in che tempo si è svolta questa alleanza inconscia?
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Accordo, armonia: l’origine della musica ha una sfumatura politica, relazionale. Sin da Esiodo, il canto poetico si è posto tra l’uomo e il divino, e ogni aedo che desiderasse iniziare un racconto si riferiva alle Muse. Esse si invocano perché sono foriere di garanzia di verità. Non è pensabile un’arte della parola che abbia una certa rilevanza senza un accompagnamento musicale; in tal senso, anche il termine «accompagnamento» risulta inesatto: in quanto cantata, tutta la poesia greca del periodo arcaico e classico è fatta di musica.
«Risulta di qui che chi dice che dal movimento degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e questi suoni sono consonanti, dice certamente con singolare eleganza, ma non dice il vero. C’è infatti chi crede che, movendosi corpi così grandi, ne nasce un suono, perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che sono quaggiù, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può, dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta velocità. Così essi credono, e che i rapporti della velocità degli astri in relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò dicono che è armonico il suono degli astri rotanti. Poi a giustificare il fatto che questo suono noi non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò che esso c’è sempre dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e quindi non possiamo distinguerlo ché suono e silenzio si discernono appunto perché sono in contrasto […]». Aristotele, De Cælo.
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Il piacere, nell’ascoltarla, non è altro che l’indice della facilità con cui la musica penetra in noi, oltrepassando ogni sorta di difesa. Per questa ragione essa veicola, ed è la parola che si piega alla musica, che diviene ritmata per assecondarla. Unificazione, congiungimento: l’anima è in sé armonia, essa contiene già in sé la possibilità di un ricongiungimento con quello che è armonico fuori di lei. Il cosmo è armonico, come l’anima; l’anima partecipa dell’armonia del cosmo tramite la musica. Perciò la musica ha potere taumaturgico, essa rappacifica l’anima che finalmente si ricongiunge con il posto che le spetta.
Platone testimonia il terrore di una musica non accompagnante ma dominante, quando nella Repubblica (400d-e) propugna, per l’educazione dei giovani, solo quella musica che segua il buon discorso – poiché un buon discorso viene solo da una buona anima. «Tra filosofia e musica esiste un disaccordo antico», ma è anche vero che la musica più alta, per Platone, non ha niente da invidiare alla filosofia. Non è un caso che, nel Fedone, Socrate dica di essere stato visitato tante volte dallo stesso sogno, che gli suggeriva di comporre musica. Eppure, Platone si riferisce alla musica astratta, spogliata da ogni arbitrarietà e velleità – non quindi a quella realizzata praticamente dagli strumentisti.
Il timore di Platone per una musica ricca di particolarità e casistiche, di una musica non prevedibile e incontrollata, - che è lo stesso timore che egli aveva verso la parola deformata dei/dai Sofisti – prende la forma delle ingannatrici Sirene; tramite esse, la musica paventa un lato sinistro e pericoloso, proprio in forza della sua pervasività. Poiché dopotutto, le Sirene sono onniscienti, proprio come le Muse, e promettono al viaggiatore una verità assoluta. Le Metamorfosi (v, 294-331; 662-678) narrano persino della vendetta delle Muse a discapito di nove fanciulle che avevano tentato di imitarle: queste vengono trasformate in gazze (le Sirene, secondo alcune mitologie, sono presentate anche come esseri alati). Orfeo, figlio di Calliope, riesce a sovrastare con la sua lira il suono del canto delle Sirene, salvando gli Argonauti (gli unici ad essere scampati, insieme ad Odisseo, al sortilegio). La dialettica tra Muse e Sirene, tra verità e illusione, pervade tutta la storia dell’uomo. Se vi era stato, a partire da Aristosseno, un tentativo costante di far collimare la musica al problema etico, era perché si scorgeva quella che era la voragine verso la quale il reale può scivolare. Se Platone ammonisce i poeti che «soggiacendo ai gusti della folla, divengono maestri di disordinate trasgressioni, ispirandosi, come baccanti, più del dovuto al piacere» (Leggi 700d) è perché questo dovuto non lo è per tutti.
Le orecchie sono bersagli facili, e non offrono alcun riparo naturale all’uomo. Ecco che Cristo assume spesso proprio le forme di Orfeo, poiché le Sirene rimangono le devianti, quelle che l’uomo deve rifiutare categoricamente perché lo distolgono dal sentiero della virtù. La seduzione del demonio è rappresentata, nelle miniature medievali come un’invasione sonora. Poiché, «il demoniaco non esiste fuori di noi. Se esiste è in noi» (Enrico Castelli, 1952). Ancora una corrispondenza, dunque, tra ciò che è fuori e quello che risiede internamente. Dopotutto, «se il demoniaco fosse una sorpresa assoluta, sarebbe invincibile. L’urto travolgerebbe». Ma non lo è, esso fa leva sulla curiositas, su un deposito nell’animo, che va solo sospinto.
Il male nella concezione medievale non è altro che la perdita di questa distinzione, poiché «l’impeto demoniaco ha scisso.” Il cerchio e la scissione: le Sirene portano alla circolarità originaria (Sloterdijk), ad un’orbita che ricongiunge (solo) a se stessi, ma è una circolarità fittizia, cosparsa di frammenti, di particolarità. Si perde l’unità poiché se ne perde il controllo.
Così, io non sono quello che ascolto. Voglio, al contrario, che quello che ascolto sia l’io. Che quello che io ascolto, cioè, comprenda già quello che in me è celato, che mi aiuti a ricongiungermi con questa parte. Ecco che la bambina ci sorride ancora:
«Specchio deformante, schermo mutevole di ogni possibile metamorfosi, folgorazione, esse parlano di morte ad una civiltà che non vuole parlarne […]. Perciò ogni loro fulminea comparsa sonora comporta una vaga premonizione, un sentore di minaccia, provocando in noi quell’emozione intramontabile e universale che fa liberare sostanze chimiche e accelerare i battiti del cuore. Reazione del cervello limbico e, forse, di quello rettiliano. Risposte del nostro proprio ibrido interno. Inquietudine sommersa, rivoli di insicurezza che si infiltrano, devastanti» (Meri Lao, 2000). Siamo ancora tra le Sirene. Il nostro mondo è essenzialmente uno spazio ritagliato tra le Sirene degli altri. Quelle che sanciscono la proprietà – la propria ietà– di ciascuno, che sanciscono i limiti e i confini che non riusciremmo ad indicare altrimenti.
Il volume Scienza Politica e forme dell’egemonia raccoglie tre studi di Luca Basile uniti da un tema comune, quello del rapporto fra governanti e governati e della teoria politica come sapere preposto all’interpretazione e gestione di tale rapporto. I tre saggi sono dedicati rispettivamente alla figura di Gaetano Mosca, al rapporto dialettico e polemico fra il pensiero di Gramsci e le posizioni di Mosca e al ruolo che il confronto con Robert Michaels ha avuto nel pensiero di Gramsci rispetto all’analisi del fascismo. Benché ogni saggio sia in sé compiuto e organizzato intorno a un tema centrale, essi costituiscono nel complesso un tentativo di fornire al lettore una prospettiva più ampia della rilevanza complessiva che il confronto con la tradizione dell’elitismo italiano ha rivestito per l’evoluzione e lo sviluppo del pensiero di Gramsci. Proprio a partire dai temi e dai contenuti di tale tradizione, diversamente interpretati da Mosca e Michaels, emergono influenze determinanti e obiettivi polemici nella riflessione gramsciana che coinvolgono sia il piano della riflessione epistemologica sullo statuto del sapere politico sia il tema specifico della classe dirigente, della sua composizione e trasformazione, che avrà un esito decisivo per il filosofo comunista nella teoria dell’egemonia.
Il primo dei tre testi raccolti esamina la riflessione di Mosca sulla classe politica. Attraverso la complessa intersezione fra la categoria di scienza politica e quella di teoria della storia, Mosca tenta di mettere a punto un repertorio di strumenti teorici capaci di rendere conto da un lato della produttività della democrazia rappresentativa e del ruolo cardine che al suo interno può essere svolto unicamente dalla classe media, dall’altro dei rischi che tale modo di organizzazione sociale dello Stato correva all’inizio del Novecento. La riflessione dunque si muove fra due strati: da una parte la concretezza della storia, a cui la politica non può che appartenere (Mosca a tal proposito rigetta esplicitamente la posizione di Taine relativa a un calcolo extrastorico delle forme politiche); dall’altra la necessità di una riflessione che identifichi i princìpi e le tensioni che, se possono ritrovarsi secondo diversi gradi di sviluppo e forme di congiunzione nella concretezza di situazioni storiche differenti, sono nondimeno abbastanza generali da garantirne una tipizzazione affidabile, utile anche a interpretarne gli sviluppi e a garantirne la stabilità nella pratica.
A questa ambiguità ineliminabile nello statuto della scienza politica Mosca fa fronte identificando due princìpi, quello autarchico e quello liberale, e due tensioni, democratica e autoritaria, che risultano variamente combinati nel prodursi storico delle forme statuali. La scienza politica proposta da Mosca assume come suo compito appunto quello di governare sapientemente l’incessante fluttuazione fra principio autarchico e liberale, fra tensione democratica e autoritaria, evitando le ossificazioni eccessive quanto le trasformazioni incontrollate, alla ricerca di un equilibrio dinamico in cui la capacità di trasformazione del sistema faccia da necessario contrappunto e sostegno alla sua stabilità. Il sapere della scienza della politica è dunque chiamato allo stesso tempo ad assicurare e precisare il proprio statuto epistemologico, assumendo una nuova organicità che sia capace di rilevare i temi e gli sviluppi storici della prudenza politica nella gestione dello Stato ma al tempo stesso a rispondere concretamente alla congerie storica. Se infatti da un lato Mosca vede negli sviluppi delle scienze sociali descrittive l’emergere di un sapere capace di produrre infine una “politica scientifica”, è alla situazione contingente della crisi dello Stato liberale che tale politica dovrà rispondere.
A partire dall’assunzione del suffragio universale, infatti, il politologo palermitano vede emergere una tendenza che, consentendo l’ingresso delle masse e dei loro rappresentanti eletti sulla scena politica, mette seriamente in pericolo la struttura statuale. Per caratterizzare tale pericolo bisogna ricordare in primo luogo il ruolo strategico che egli attribuisce alla classe media come classe politica e in secondo luogo l’importanza che egli assegna, nella composizione della classe dirigente, alla funzione di diversi modi di selezione in concorrenza fra loro (per esempio, la classe burocratica e i rappresentanti eletti) in rapporto al mantenimento dell’equilibrio giuridico. La classe media è per Mosca quello strato sufficientemente grande della popolazione che, dotato di strumenti intellettuali e morali adeguati e di una relativa indipendenza economica dal potere, può interpretare gli interessi della totalità dello Stato e farsene portatore, mentre di contro le masse, prive di tali caratteristiche, sono unicamente capaci di esprimere attraverso i propri rappresentanti punti di vista e interessi particolari.
Indagando il punto di vista di Mosca rispetto alla relazione governanti-governati, allo statuto della scienza politica da costruirsi e al suo soggetto preferenziale da individuarsi nella classe borghese, Basile prepara poi il terreno per il confronto con la posizione e la critica di Gramsci. Per questi infatti, se è necessario riconoscere la realtà della relazione governanti-governati come fondante, è altrettanto fondamentale preoccuparsi di sviluppare una riflessione critica, che non guardi alla crisi del parlamentarismo liberale come a una soglia catastrofica che lo scienziato politico deve evitare, ma come la possibilità di una radicale trasformazione del rapporto fra le classi. La divaricazione che ne risulta non è solo politico-ideologica, ma anche epistemologica: si può dire che la riflessione di Gramsci intende iniziare proprio laddove quella di Mosca pone il suo estremo limite, vale a dire l’ingresso delle masse nella storia.
La prospettiva gramsciana ribalta il piano di una scienza della politica capace di prevedere e sopratutto gestire gli andamenti politici della società con un gesto deciso, attraverso una “storicizzazione integrale” della lettura politica a partire dalla quale l’apparente neutralità scientifica – o quantomeno i tentativi di neutralizzazione – che costituisce il nerbo della proposta moschiana appare ormai come dipendente dalla ipostatizzazione dello Stato liberale classico e incapace di sopravvivere alla sua crisi, della quale non può dunque riconoscere le potenzialità emancipative.
Il terzo saggio, il più corposo dei tre, intitolato Direzione Charismatica e primitivismo politico è dedicato secondo quanto afferma l’autore ad «avanzare una ricostruzione dello specifico del confronto di Gramsci con Robert Michels, prestando peculiare attenzione a come esso si riveli intrecciato, nelle sue implicazioni, alla enucleazione di alcune categorie portanti del lessico del dirigente comunista (‘bonapartismo’, ‘cesarismo’, ‘rivoluzione passiva’ etc.) in ordine agli snodi fondamentali della comprensione del fenomeno del “leaderismo carismatico”, commisurata all’analisi di insieme dell’affermazione del fascismo» (p.62). Rispetto a tale progetto, condotto con precisione attraverso un confronto serrato con i testi, l’autore dispone una contestualizzazione fondamentale rispetto al pensiero di Gramsci che mette in luce sia l’attenzione di Gramsci per i temi e gli snodi principali della tradizione elitista sia le numerose divergenze e critiche che proprio attraverso la consapevolezza di tale tradizione il filosofo comunista ha modo di formulare.
Senza poter in questa sede ripercorrere l’argomentazione, dobbiamo però sottolineare che in esso l’attenzione per gli aspetti epistemologici e metodologici relativi allo statuto della riflessione politica è costantemente intrecciata con le osservazioni e i temi tratti dalla contingenza storica. In Michels, infatti, l’interpretazione della leadership carismatica dipende strettamente dalla legge dell’oligarchia, secondo la quale i governati, costitutivamente incapaci di governarsi da sé, si rivolgono a una personalità dotata di determinate caratteristiche nel momento in cui il sistema che disponeva della divisione e della relazione fra governanti e governati si incrina. Per Gramsci è da criticare sia lo statuto ipostatizzato e astorico delle leggi e delle tendenze sociologiche per come esse appaiono nella prospettiva michelsiana sia, su un piano più concreto, l’immutabilità della relazione fra governanti e governati, che porta secondo Michels all’inevitabile ineguaglianza e acquisizione progressiva di autorità degli uni sugli altri. Di contro Gramsci, che inserisce Michels nel suo programma di letture relative ai Quaderni in vista di una rilettura della storia italiana che si concentri in particolare sull’evoluzione delle classi dirigenti, è motivato proprio dalla ricerca di una possibile trasformazione del rapporto fra governanti e governati, che, se parte dal riconoscere come fatto storico la presenza e l’influenza delle élite, deve informare l’azione di queste in direzione di una organicità armonica e non di una burocatizzazione autoritaria nei rapporti con le masse.
Solo a partire dall’analisi degli strumenti concettuali e delle costruzioni teoriche che informano questo tentativo si potrà tuttavia rendere giustizia al tentativo gramsciano e per tale compito la linea interpretativa che Basile intraprende e annuncia si rivelerà forse fondamentale. Essa, tuttavia, è lungi dall’essere compiuta: la natura circoscritta dei tre saggi delinea sì una prospettiva generale di grande interesse ma ne sviluppa le conseguenze relativamente a luoghi circoscritti. Ci auguriamo che nel futuro tale progetto possa essere sviluppato con maggiore organicità e autonomia e che la necessaria precisione tecnica delle prime esposizioni lasci maggiore spazio a una fruizione non strettamente limitata agli specialisti del diritto e della filosofia politica.