Quando il piede rilascia sul pavimento, tutto sopra muta.
“Il sole ha la larghezza di un piede umano” (Eraclito)
Lo sbadiglio è uno degli atti più sani e socialmente inaccettabili concessi all’essere umano dalla natura. Generalmente agisce una prima volta al mattino, durante il risveglio, segnale naturale di quell’orologio cosmico inscritto, sottomesso, direbbe Epitteto (Diattribe IV, 100-106), al periodo cosmico del nostro quotidiano vivere.
Ha un suo punto di partenza: quando l’osso mascellare, o la mandibola, o entrambe, muovendosi sollecita(no) la linea delle labbra, misteriosa demarcazione di un sopra e un sotto, ad aprirsi. Può succedere di più nella parte centrale e, allora, le labbra s’incurvano, quasi a contenere una minuscola, rotonda vocale al loro interno. Oppure può avvenire di più sui lati: in questo caso, la fessura delle labbra si allunga in una striatura che ricorda certe fotografie di Luigi Ghirri che ritrae la linea dell’orizzonte. È il preludio, se va in questa direzione, di una delle nostre espressioni più belle: sorridere.
Ma non accade. Lo sbadiglio è più arcaico e primordiale. Atto respiratorio abnorme, lo definisce il dizionario, spesso incoercibile, caratterizzato dall’apertura forzata della bocca accompagnata spesso dalla costrizione delle palpebre.
Sa anche essere pigro. In quel caso, la bocca si divarica più lentamente, diventando il segno da sempre più temuto dagli insegnanti e da chiunque stia tenendo un discorso o si stia esibendo in scena: la noia. Questione di tempo, immagine, intenzione e sensazioni che ci portiamo addosso.
Può, lo sbadiglio, essere elemento costitutivo di una pratica (o esercizio?). Ma certamente! È uno degli atti di apertura più straordinariamente sani concessi a chiunque lavori attraverso il corpo e la voce. Come essere nell’acqua: la pelle si distende, si allunga, si spalma, la colonna incomincia ad allungarsi, le braccia si arricciano e poi si aprono a stella, e così via fino a giù. Fin dentro i piedi. Quando subiamo uno sbadiglio e quando siamo noi ad agirlo? Dove ci porta? Con quali sensazioni? In quali parti del corpo ne percepiamo il riverbero? C’è un momento, lo stavo descrivendo all’inizio, in cui la bocca, nel momento stesso di aprirsi, contiene ancora infinite possibilità: può spalancarsi di stupore, dilatarsi dentro un grido, modificarsi in una smorfia di dolore, squarciarsi in una gran risata.
Eccoci già dunque entrati dentro un tema molto affascinante, per chi si interroga sull’origine delle pratiche: il punto di soglia. Quello spazio dentro cui l’intenzione esita, gioca con sé stessa osservandosi. Un tempo sospeso, funambolico, lo definirei.
Proprio questa domanda, che richiede innanzitutto un ascolto del proprio agire, si presta a dialogare con la stimolante opera di Armando Canzonieri, L’atleta indisciplinato. Fortuna ed Esercizio, pubblicata da Orthotes Editrice nel 2020.
Canzonieri fa qualcosa di molto prezioso: indaga all’interno dello stoicismo che cosa sia una pratica e, per fare questo, fa i conti con gli esercizi necessari per attuarla. Con una parola: askesis. Qui ci viene in aiuto anche Michel Foucault: «Nella tradizione filosofica dominata dallo stoicismo, askesis significa non già rinuncia, ma progressiva attenzione a sé, e padronanza su se stessi”. Ed il fatto che l’askesis preveda degli esercizi, i cui due poli opposti costitutivi venivano designati come melete e ghymnasia. Si rimane letteralmente estasiati dal grado di consapevolezza con cui venivano utilizzati questi due termini. «Melete significa, stando alla traduzione latina, meditato, meditazione […] si trattava di anticipare la situazione reale immaginando un dialogo fittizio […] immaginare l’articolazione degli eventi possibili per saggiare come si reagirebbe: questa è la meditazione». Al polo opposto c’è la ghymnasia, l’allenamento. «Mentre la meditato è un’esperienza immaginaria che ha lo scopo di esercitare il pensiero, i ghymnasia consistono in un allenamento in una situazione reale, anche se prodotta artificialmente». Per esempio: «Ogni mattina si fa una passeggiata e si verificano le proprie reazioni» (M. Foucault, Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp. 32-35, citato nel libro di Canzonieri).
Ora, per tornare al punto di soglia, nulla, meglio dell’atto del camminare, lo rappresenta. Perché, quando camminiamo, noi stiamo continuamente cadendo. Questa tragicità in atto, di cui sono immagine simbolo le sculture di Alberto Giacometti, si salva dentro un tempo sospeso che ci trasforma magicamente in funamboli. O in fanciulli. È dentro questo spazio minuscolo e dilatato che risiede l’essenza della pratica.
Le mie pratiche, quest’anno, hanno preso un nome: pratiche di accordatura. Sarà forse facile riconoscervi inguaribili tracce di platonismo pitagorico, un richiamo verso le origini della filosofia stessa, prima che il suono, la parola e il gesto si addormentassero nella concettualizzazione del logos. Insieme alla consapevolezza che vi sia all’interno delle pratiche qualcosa di profondamente artigianale, come l’accordatura di uno strumento.
C’è bisogno di una trasmissione. Di un ascolto. Di una condivisione. Lasciate alla pelle il tempo per comprendere, raccomanda Philippe Petit nel suo Trattato del Funambolo, a chi impara a camminare sul filo a piedi nudi. Non sembra forse di sentire parlare un calzolaio?
Nessuno meglio di Walter Benjamin ha lasciato una traccia per noi, contemporanei smarriti, orfani di stelle che ancora orientavano nello spazio i nostri antenati senza alcun bisogno di avere il navigatore. La troviamo nella figura del narratore. È in questa intuizione folgorante che viene messo a fuoco il rischio di una perdita irrimediabile dell’esperienza. In fondo, ci dice, i primi narratori ricevevano il racconto di esperienze che passavano di bocca in bocca: contadini e marinai furono i primi maestri del racconto e la sua scuola superiore è stata l’artigianato. Perché la vera narrazione implicava una sorta di utilità pratica e di vita, per imparare da altri storie di viaggi, i fini dettagli di una professione, proverbi e norme di vita. Inteso in questa maniera, il narratore diventava persona di consiglio per chi lo ascoltava. Da quando incominciano a scomparire le figure degli artigiani, a quel punto anche la narrazione si modifica (le subentrerà il romanzo). Diminuisce la comunicabilità dell’esperienza cucita nella stoffa della vita vissuta che diviene saggezza, come la chiama Benjamin.
Arrivati a questo punto, dovrò arrischiare l’aggiunta di una terza polarità, tra il melete e la ghymnasia, che è parte altrettanto fondamentale delle pratiche.
Il ruolo che giocano le modalità di apprendimento del bambino nei suoi primi anni di età. Quell’esperire il mondo in maniera tattile-cinestetica e uditiva che proprio il Novecento traduce a suo modo nell’immagine del funambolo. Portare quell’esperire dentro il corpo adulto è, forse, la chiave di accesso alle pratiche.
Appena nasciamo, è la bocca, ancora lei, a sperimentare il mondo: succhiando, per nutrirsi, articolandosi in primi balbettii, sonorità, lallazioni, che sono pure pratiche di scoperta. Condizione meravigliosa che ogni atleta indisciplinato vorrebbe continuamente cercare. Praticare la pratica nella sua più pura ed esperienziale essenza.
Esistono un’infinità di pratiche (o esercizi) per le labbra, la lingua, la bocca.
Nessuno meglio di Moshe Feldenkrais, il maestro che non ho avuto l’onore di conoscere di persona, ma di cui ho avuto il privilegio di riceverne l’insegnamento attraverso la trasmissione del suo lavoro.
Ai tempi del liceo, ero affascinato, tramite i racconti di mia nonna che lo incontrava ogni tanto dalle parti di Porta Palazzo, dalla figura del “filosofo ignoto”. Così si firmava infatti sul giornale La Stampa, Guido Ceronetti. Furono le sue traduzioni, trovate in casa, di alcuni testi dell’Antico Testamento: Giobbe, i Salmi, a folgorarmi. Vi compariva una sorta di scavo ritmico, articolare, osseo del palato, delle labbra, del respiro dentro le consonanti dell’alfabeto ebraico. Era quasi una questione di gravità di corpi, d’immaginazione necessaria per fare scattare foneticamente le vocali nascoste. Tutto ciò, lamentava Ceronetti, si perde nella traduzione, come se quella parte di corpo e di bocca chiamate in causa perdessero la loro piega buia e, con questa, perdessero il loro duende.
Mi sembrava un gioco. Una continua preparazione della bocca a quella sorta di misteriosi gargarismi che potevano avvenire al suo interno, fin giù nel petto, fin dentro le dita dei piedi, per arrivare a cogliere il suono di una parola. Paradossalmente, quella fu la mia prima forma di danza. Quella era già danza. Movimento.
È arrivato il momento di presentare il personaggio mancante, fino a ora solo accennato, Feldenkrais, in questa storia che parte dalle Diatribe di Epitteto. Siamo negli anni Settanta e una donna svizzera di nome Nora, di oltre sessant’anni, una mattina si sveglia sentendosi un po’ strana. Fatica ad alzarsi dal letto e si accorge che fatica a parlare. Così come a leggere e scrivere. Il medico che la visita le diagnostica una trombosi o emorragia con relativo danno all’emisfero cerebrale sinistro. Iniziano anni difficili in cui non compare nessun miglioramento. A quel punto i famigliari della donna decidono di tentare affidandosi a una figura di cui in tanti parlano. Si chiama Moshe Feldenkrais. Ha così inizio quello che diventerà poi un libro, Il caso di Nora, che è il racconto dell’incontro e della guarigione di Nora, lavorando con Feldenkrais. Si tratta di un viaggio a ritroso, commovente e straordinario, fino alle origini di come ognuno di noi, nei suoi primi mesi e anni d’infanzia ha imparato a muoversi e a parlare. Soltanto ripartendo da lì, anche un cervello danneggiato come quello di Nora, potrà riacquistare le proprie funzioni. Questa storia di Nora è arrivata molto spesso dove poteva arrivare più facilmente, ovvero tra “tecnici” del corpo e rappresentanti di un certo modo di intendere la ghymnasia, ma non dove doveva anche arrivare: tra le mani di filosofi, antropologi, poeti, fino a mettersi in dialogo con il grande atlante warburghiano di Mnemosyne. Il perché e il per come non sia ancora successo è una domanda profondamente filosofica.
Il 13 ottobre 1910, Franz Kafka e Max Brod visitarono insieme il Museo Carnavalet di Parigi. Kafka rimase affascinato da un quadro di Jean Hubert: Le lever de Voltaire. Vi si vede Voltaire in un atteggiamento alquanto buffo: appena sveglio, in piedi in bilico su una sola gamba mentre cerca di infilarsi i pantaloni sotto la camicia da notte; il berretto da notte ancora in testa, un naso corvino che spunta e già sta dettando qualcosa al suo servitore. Che funambolica efficienza! Come poteva non esserne affascinato Kafka, lui che per tutta la vita coltivò un esercizio di efficienza cui era costretto: il lavoro di ufficio durante il giorno, e la scrittura, sua vera vocazione, tra le ore discontinue della notte? Sappiamo quanto abbia cercato per l’intera vita una ghymnasia che lo facesse sentire forte, sano, energico. La trovò, forse, negli esercizi di ginnastica e respirazione secondo il metodo di Jørgen Peter Müller. Un biondone danese che si faceva chiamare Apoxyòmenos. Le fotografie in cui si faceva ritrarre ne esaltavano una bellezza da dio greco immortalata in costume da bagno nelle posizioni dei suoi esercizi. C’è qualcosa di così comico e toccante nell’immaginare Kafka eseguire quegli esercizi verso sera, forse prima di iniziare una pagina della Colonia penale, del Digiunatore o di Giuseppina la Cantante. Oppure tra una pagina interrotta del Castello e l’Avvoltoio. E se tutti i suoi racconti, in fondo, non fossero che la metafora di una pratica, una pratica così lunga, ininterrotta, sfinente, che è la vita?
Quando osserviamo il quadro di Jean Hubert, Le lever de Voltaire, sale una divertita, sana allegria. Come se anche lavarsi i denti, mettersi i calzini, invece che un’abitudine, potessero diventare una pratica. Dove comincia, dunque, una pratica? E il momento prima che cominci che cos’è, allora? Una preparazione alla pratica? O è già parte della pratica?
Feldenkrais diceva che non si può insegnare nulla, se non creare le condizioni per imparare. Ecco, credo che la pratica richieda una sorta di fiducia verso qualcosa di sconosciuto. Qualcosa che potremmo chiamare “fiducia organica”. Da esploratori in avanscoperta, direbbe Epitteto.
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Pratica del 12 aprile 2020
Quando una parte del corpo non si conosce, le altre parti devono compensare; o devono coordinarsi diversamente. Dallo schermo zoom una ragazza polacca ci riflette e dice: è proprio vero. Ora che ci penso, anche nella mia storia famigliare accade così.
di Emanuele Enria
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Bibliografia
Armando Canzonieri, L’atleta indisciplinato. Fortuna ed esercizio, Orthotes Editrice, 2020.
Moshe Feldenkrais, Il Caso di Nora, Casa Editrice Astrolabio, 1996.
Un’indagine sui rapporti tra Jacques Derrida e la letteratura sarebbe necessariamente vastissima. Non basterebbe infatti esaminare il modo in cui il filosofo ha letto determinati autori, sia che abbia dedicato ad essi interi volumi (Joyce, Artaud, Ponge, Blanchot, Celan, Cixous), sia che delle loro opere abbia parlato in capitoli di opere saggistiche (è il caso di Baudelaire, Flaubert, Mallarmé, Valéry, Kafka, Genet, Jabès, Sollers, per fare solo qualche nome). Occorrerebbe anche considerare la maniera in cui egli ha rielaborato e messo in discussione, sul piano teorico, nozioni strettamente connesse alla pratica letteraria, come quelle di «genere», «opera», «libro», «titolo», «firma», «traduzione», «metafora». Inoltre andrebbe affrontato il tema degli stili di Derrida, non in quanto il filosofo abbia voluto presentarsi nelle vesti di letterato, ma perché la singolarità della sua scrittura e l’assidua sperimentazione di forme espositive diverse consentirebbero di guardare alle sue opere sotto questa specifica angolazione.
Si può tentare di ridurre il campo di ricerca limitandosi a considerare il modo in cui Derrida ha riflettuto sulla nozione stessa di letteratura. È questa una tematica che si è imposta alla sua attenzione fin dall’inizio. Interessandosi alla fenomenologia di Husserl e avendo notato che negli scritti di quest’ultimo si parla, in maniera quasi incidentale, del ruolo della scrittura nel «costituire degli oggetti ideali comunicabili», Derrida riteneva di poter giungere al punto che più gli stava a cuore, ossia «l’iscrizione letteraria. Che cos’è un’iscrizione? A partire da quale momento e in quali condizioni un’iscrizione diviene letteraria?»[1]. A tale argomento intendeva dedicare un lavoro specifico: «Verso il 1957, avevo dunque depositato, come si dice, un primo soggetto di tesi. Lo avevo allora intitolato L’idealité de l’objet littéraire. […] Questo titolo si capiva un po’ meglio nel 1957, in un contesto più segnato, rispetto ad oggi, dal pensiero di Husserl. Si trattava allora per me di piegare, più o meno violentemente, le tecniche della fenomenologia trascendentale all’elaborazione di una nuova teoria della letteratura, di quel tipo d’oggetto ideale molto particolare che è l’oggetto letterario. […] Poiché, devo ricordarlo un po’ massivamente e semplicemente, il mio interesse più costante, direi anche prima di quello filosofico, se possibile, era rivolto verso la letteratura, verso la scrittura cosiddetta letteraria. Che cos’è la letteratura? E innanzitutto, che cos’è lo scrivere? In che modo esso giunge a disturbare la stessa domanda “che cos’è?”, e perfino “che significa?”? In altri termini […], quando e come l’iscrizione diventa letteratura e cosa avviene in quel caso?»[2].
La tesi su L’idealité de l’objet littéraire non verrà scritta, ma resta comunque significativo il fatto che Derrida l’abbia progettata. E in ogni caso egli non cesserà mai di interrogarsi sullo statuto del testo letterario, e in particolare sul rapporto che si può individuare fra esso e il testo filosofico. Si tratta di un problema che lo riguarda anche in prima persona, perché, date le modalità assai creative che adotta nella scrittura, deve spesso rispondere alla domanda se il suo intento non sia eventualmente di tipo letterario. Alla domanda egli risponde in questi termini: «Dirò che i miei testi non appartengono né al registro “filosofico” né a quello “letterario”. In tal modo essi comunicano, o almeno lo spero, con altri che, per aver operato una certa rottura, continuano ad essere definiti “filosofici” o “letterari” solo per una sorta di paleonimia» (Derrida 1975, p. 102). Egli si sta riferendo agli scritti di autori quali «Artaud, Bataille, Mallarmé, Sollers. Perché? Per una ragione, almeno, che ci spinge a nutrire sospetti verso la denominazione di “letteratura” e verso quanto ne assoggetta il concetto alle belle lettere, alle arti, alla poesia, alla retorica e alla filosofia. Nel loro stesso movimento, questi testi operano la manifestazione e la decostruzione pratica della rappresentazione che ci si faceva della letteratura»[3].
Ciò tuttavia non va inteso nel senso che egli accolga con favore l’idea che sia lecito e auspicabile confondere i due tipi di discorso:
«Io non ho mai assimilato un testo cosiddetto filosofico a un testo cosiddetto letterario. I due tipi mi sembrano irriducibilmente diversi. Inoltre bisogna sapere che i limiti fra loro sono più complessi […] e soprattutto meno naturali, astorici o già dati di quanto si dica o si creda. I due tipi possono intrecciarsi in uno stesso corpus secondo leggi e forme il cui studio è non soltanto interessante e nuovo, ma indispensabile […]. Non occorre forse interessarsi alle convenzioni, alle istituzioni, alle interpretazioni che producono o mantengono in vita questo apparato di limitazioni, con tutte le norme e dunque tutte le esclusioni che comportano? Non è possibile affrontare tale insieme di questioni senza chiedersi, ad un certo momento: “Che cos’è la filosofia?” e “Che cos’è la letteratura?”. Tali domande, difficili e più aperte che mai, non sono esse stesse (per definizione e perlomeno se vengono poste in maniera effettiva) né semplicemente filosofiche né semplicemente letterarie» (Derrida 1992, p. 230)
Chiedersi cosa sia la letteratura non significa però, alla maniera della filosofia tradizionale, andare alla ricerca di una risposta di tipo essenzialistico. Secondo Derrida, infatti, tale risposta sarebbe indebita perché non terrebbe conto dei fattori di ordine contestuale, che sono invece determinanti per stabilire se un enunciato o un’opera si trovino ad essere ascritti alla letteratura:
«Lo stesso testo, la stessa frase, può in situazioni diverse appartenere ora al campo letterario, ora a ciò che si potrebbe chiamare la lingua ordinaria di tutti i giorni. Per conseguenza, non è una lettura interna di un fenomeno linguistico che consente di riservargli questo o quell’ambito. La stessa frase, in condizioni pragmatiche differenti, tenuto conto di altre convenzioni, può essere una semplice frase di giornale qui, e poi un frammento poetico là, o un esempio filosofico altrove. Ciò dipende dal fatto che la determinazione di tali ambiti non è mai decidibile in una lettura interna o un’esperienza interna della lingua, degli enunciati linguistici, ma a partire da una situazione i cui limiti stessi sono difficili da riconoscere e in ogni caso sono molto mutevoli» (Derrida 1990, p. 396)
Conviene precisare che questo non vale unicamente per i testi scritti, ma per le opere artistiche in generale:
«Non si potrebbe dire che il criterio che definisce la traccia come opera sia un criterio interno: non è analizzando la struttura interna della traccia che possiamo decidere se questa sia un’opera d’arte o meno. Credo che nessuna criteriologia interna, nessuna lettura intrinseca della traccia, ci consenta di farlo. Bisognerà piuttosto introdurre dei criteri esterni che coinvolgano delle convenzioni sociali, delle contestualizzazioni […]. Si ha comunque a che fare con un giudizio: si tratta di un giudizio sociale che implica un linguaggio, delle condizioni, una memoria, una storia, ecc. Un giudizio che trasforma la traccia, o un insieme di tracce, dando loro statuto d’opera» (Derrida 1998, pp. 23-24).
Derrida ha ricordato più volte che la nozione stessa di letteratura non è qualcosa di prestabilito, tale da poter attraversare indenne i secoli e i millenni, bensì un prodotto storico. A suo giudizio, per comprendere la concezione tradizionale della letteratura occorre risalire molto indietro, fino alla filosofia greca: «Platone pone la questione della poesia determinandola come mimesis, e aprendo così il campo nel quale la Poetica di Aristotele, dominata per intero da tale categoria, produrrà il concetto di letteratura che regnerà fino al XIX secolo» (Derrida 1989, p. 187). Per Platone, «la scrittura in generale non è certamente la scrittura letteraria. Ma altrove, nella Repubblica per esempio, il poeta non è forse giudicato, e poi condannato, in quanto imitatore, mimo che non pratica la “narrazione semplice”?» (Derrida 1989, p. 210). Il filosofo greco infatti, pur attribuendo costantemente all’arte un carattere mimetico, opera delle distinzioni. A suo giudizio, l’imitazione assume un valore negativo sia quando il poeta riproduce qualcosa di eticamente riprovevole, sia quando svolge il proprio compito in maniera troppo coinvolgente, adottando la voce del personaggio rappresentato (narrazione mimetica) invece di limitarsi a parlarne dall’esterno (narrazione semplice): «Lo si può verificare rileggendo il passaggio della Repubblica sulla narrazione semplice e sulla mimesis». (Derrida 1989, p. 211)[10]. Certo, non bisogna affrettarsi a confondere i vari generi poetici cui Platone fa riferimento con quello che noi siamo abituati a considerare oggi come l’ambito letterario. Derrida, da parte sua, sostiene «che non c’è – o appena, così poco – letteratura; che in ogni caso non c’è essenza della letteratura, verità della letteratura, essere-letterario della letteratura», ma aggiunge subito che ciò «non deve impedire, anzi tutto il contrario, di lavorare per sapere che cosa si è rappresentato o determinato sotto questo nome – letteratura – e perché» (Derrida 1989, p. 253.
Un modo piuttosto diverso di impostare il problema, da parte del filosofo, emerge in testi posteriori di qualche decennio. Nella parte iniziale di Demeure, Maurice Blanchot, egli si confronta con un classico della critica novecentesca, Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius (Derrida 2001, pp. 99-103 e E.R. Curtius 1992). Nel suo ampio volume, lo studioso tedesco sosteneva la necessità di superare il privilegio, dettato anche da una sorta di miopia nazionalistica, concesso a certi periodi della cultura europea a spese di altri, che venivano per contro ingiustamente trascurati. Di conseguenza, affermava che «solamente chi padroneggia tutte le epoche da Omero a Goethe può acquisire una visione globale della letteratura europea» (Curtius 1992, p. 13). Da parte sua, Derrida ricorda che «letteratura» è una parola latina, quindi ha poco senso far partire, come pretende Curtius, la letteratura europea con Omero (in Grecia non c’era ancora un’istituzione simile a quella che chiamiamo letteratura) né, del resto, farla finire con Goethe. Si chiede pertanto: «Esiste, nel senso stretto e letterale della parola, qualcosa come la letteratura, come un’istituzione della letteratura e un diritto alla letteratura in una cultura non latino-romano-cristiana, e più generalmente, benché le cose siano qui indissociabili nella loro storia, non europea?» (Derrida 2001, p. 100). E pare incline a rispondere negativamente alla domanda.
Secondo lui, infatti, quand’anche esempi di letteratura, nel senso proprio del termine, fossero reperibili in altri continenti, ciò dipenderebbe comunque da un influsso europeo: «Letteratura è una parola latina. Questa appartenenza non è mai stata semplice, essa viaggia, migra, lavora e si traduce. La filiazione latina si esporta» (Derrida 2001, p. 99). Ma in altre occasioni gli capita di esprimersi in termini ancor più drastici:
«Io sosterrò, a rischio di dire una cosa che appaia eurocentrica, che non esiste letteratura non europea. […] Fuori dall’Europa esiste un certo numero di scritti, di opere, che sono forse più interessanti della letteratura stessa, ma non sono, in senso stretto, letterari. […] Ciò che occorre prendere sul serio, non è solo la parola letteratura, ma tutto l’insieme degli assiomi, delle istituzioni, dei presupposti – un certo numero di cose che costituiscono il concetto di letteratura, che non ha alcun senso fuori dall’Europa. Ora, il fatto che oggi, in uno spazio mondiale, abbiamo una letteratura cinese o una letteratura giapponese significa che questo concetto, con tutto l’insieme di assiomi, nomi e presupposti, persino quelli cristiani, sono stati esportati o mondializzati. Ma il concetto, il nome del concetto, di letteratura è, strettamente parlando, non soltanto europeo ma anche cristiano» (Derrida 2007, pp. 406-407)[16].
Tutto ciò rientra dunque, come un caso particolare, all’interno di quel più vasto processo storico che egli designa col neologismo mondialatinisation (Derrida 1995, pp. 3-73).
Non si può certo dire che il suo ragionamento risulti convincente. È vero che parlare della letteratura come si trattasse di qualcosa che è rimasto immutato attraverso i millenni e i continenti (dall’epopea di Gilgameš fino alla poesia e narrativa contemporanee) comporta una forzatura: se lo si fa abitualmente è soprattutto per ragioni di comodo e sulla base di una convenzione. Tuttavia, non appena Derrida si propone di restringere, nel tempo o nello spazio, l’uso che ritiene preciso del vocabolo «letteratura», insorgono problemi di vario genere. Infatti, se si trattasse della parola in sé, non basterebbe neppure lasciare da parte le culture più lontane nel tempo o quelle extraeuropee. Roland Barthes, riferendosi al termine littérature, ricordava che in Francia «l’idea, se non la cosa, non è molto antica; è un’idea storicamente borghese, nata press’a poco al tempo della Rivoluzione (la parola stessa è del 1762 circa)» (Barthes 1966, p. 11). E su questo, come vedremo fra breve, Derrida concorda. Ma se si prende in considerazione, anziché il vocabolo, il concetto di letteratura, secondo lui le limitazioni dovrebbero spingersi ancora oltre: «Sovente io distinguo la letteratura in senso stretto, che è una cosa moderna, relativamente recente, dalle Belle Lettere, dalla poesia, dal teatro o dall’epica in generale» (Derrida 2004, p. 33). Viene allora spontaneo chiedersi perché mai quel che resta della produzione letteraria una volta detratti da essa l’epos, la lirica, il teatro – dunque quasi unicamente i testi narrativi e memorialistici – dovrebbe essere considerato «letteratura in senso stretto», e quale utilità possa avere, sul piano teorico, una simile opzione.
Quanto poi all’idea secondo cui sarebbe stata l’Europa a trasmettere al mondo il proprio sistema di categorie, valori e pratiche, letteratura inclusa, si tratta palesemente, nonostante le denegazioni derridiane, di una concezione eurocentrica, che non manca di precedenti. Ciò vale nel caso che si veda in tale trasmissione una sorta di dono prezioso offerto ai popoli degli altri continenti, secondo le parole di Valéry: «Di tutte queste realizzazioni, le più numerose, le più sorprendenti, le più feconde sono state compiute da una parte piuttosto ristretta dell’umanità, e su un territorio assai piccolo rispetto all’insieme delle terre abitabili. L’Europa è stato questo luogo privilegiato; l’Europeo, lo spirito europeo l’autore di questi prodigi» (Valery 2014, pp. 1426-1442)[20]. Ma vale anche nel caso che, come Heidegger, si guardi con inquietudine all’avvento di «un’epoca in cui devono prepararsi delle trasformazioni, o nella quale, in primo luogo, questo immane processo di europeizzazione del pianeta giunge semplicemente al suo compimento» (Heidegger 1992, p. 203).
Altro tema tipico di Derrida è quello della letteratura intesa come istituzione legata alla democrazia. Il rapporto viene stabilito sulla base del fatto che chi scrive un testo letterario deve poter disporre di una totale libertà enunciativa. Ecco come il filosofo presenta la questione:
«In generale, insisto sulla possibilità di “dire tutto” come diritto riconosciuto in linea di principio alla letteratura, per indicare non l’irresponsabilità dello scrittore, di chiunque firmi della letteratura, ma la sua iper-responsabilità, ossia il fatto che la sua responsabilità non risponde di fronte alle istanze già costituite. Poter dire tutto a titolo di finzione, o perfino di fantasma, significa indicare che […] la letteratura in senso stretto è un’istituzione indissociabile dal principio democratico, cioè dalla libertà di parlare, di dire o non dire ciò che si vuole dire. Naturalmente so che la letteratura non è sempre vissuta in un regime democratico e che rimuovere la censura, massiccia o sottile che sia, è una faccenda molto complicata. Nondimeno il concetto di letteratura è costruito sul principio del “dire tutto”» (derrida 2004, pp. 32-33).
A giudizio del filosofo, dunque, tale concetto e quello di democrazia sono da ritenersi inscindibili: «Non c’è democrazia senza letteratura, non c’è letteratura senza democrazia. Si può sempre non volerne sapere né dell’una né dell’altra, e non si manca di farne a meno sotto tutti i regimi; si può non considerarle come dei beni incondizionati e dei diritti indispensabili. Ma non si può, in alcun caso, dissociare l’una dall’altra. Nessuna analisi ne sarebbe capace. E ogni volta che un’opera letteraria è censurata, la democrazia è in pericolo» (Derrida 2019, p. 85). È interessante notare che Derrida cerca di correlare fra loro l’idea di una letteratura intesa strictu sensu e la possibilità di «dire tutto», a suo avviso tipica della democrazia: «C’è una storia della letteratura, del concetto di letteratura in senso moderno, che si distinguerà forse dalla Poesia o dalle Belle Lettere. In quanto tale, la letteratura è press’a poco contemporanea di una certa autorizzazione a dire tutto e a non cedere a nessuna censura, cosa che non si può scindere da una certa idea della democrazia o dell’Illuminismo» (Derrida 2011, pp. 105-106). Si manifesta qui la coincidenza quasi perfetta fra l’inizio dell’impiego del vocabolo littérature in Francia, la proclamazione di certi valori di libertà da parte dei filosofi illuministi e l’avvio di quella che, secondo Derrida, costituisce la pratica specificamente letteraria.
Il nesso fra quest’ultima e la democrazia non dev’essere pensato soltanto in rapporto agli ultimi secoli, ma va visto anche come proiettato nel futuro. Il «dire tutto» letterario non cessa di far cenno verso possibilità inesplorate. È quanto Derrida afferma in un’intervista, sostenendo che la letteratura è «quell’istituzione della finzione che offre, in linea di principio, il potere di dire tutto, di affrancarsi dalle regole, di spostarle, dunque di istituire, di inventare e persino di mettere in dubbio la tradizionale differenza tra natura e istituzione, natura e legge convenzionale, natura e storia. Occorrerebbe porre qui delle domande giuridiche e politiche. L’istituzione della letteratura in Occidente, nella sua forma relativamente moderna, è legata a un’autorizzazione a dire tutto, e senza dubbio anche al divenire dell’idea moderna di democrazia. Non in quanto essa dipenda da una democrazia già in atto, ma in quanto mi sembra inseparabile da ciò che invoca una democrazia a venire» (Derrida 2009, p. 257). L’idea verrà ribadita, in forma ancor più sintetica, in un volume successivo, Donner la mort: «La letteratura (in senso stretto: come istituzione occidentale moderna) implica in linea di principio il diritto di dire tutto e nascondere tutto, motivo per cui è inseparabile da una democrazia a venire» (Derrida 2002, 184).
Ma come mai il filosofo associa in più occasioni il diritto di dire a quello di tacere, presentando anzi quest’ultimo come uno dei tratti che accomunano la letteratura alla democrazia? Egli chiarisce altrove che solitamente «il concetto stesso di democrazia è basato sulla responsabilità del soggetto, cioè sul suo dovere di rispondere», ma se una democrazia fosse davvero effettiva «dovrebbe garantire, insieme, il diritto di rispondere e quello di non rispondere» (Derrida, Ferraris 1997, p. 24). Per quanto concerne i testi letterari, Derrida si dichiara affascinato dal fatto che implicano cose non dette, che restano segrete: «Se, pur senza amare la letteratura in generale e per se stessa, io amassi in essa qualcosa che soprattutto non si riduca a una certa qualità estetica, a una certa fonte di godimento formale, sarebbe nel luogo del segreto. Nel luogo d’un segreto assoluto. Lì sarebbe la passione» (Derrida 2019, 85). Questo può apparire in contrasto con la totale libertà enunciativa che dovrebbe caratterizzare tali testi, ma secondo il filosofo non è così: «Esiste nella letteratura, nel segreto esemplare della letteratura, una possibilità di dire tutto lasciando intatto il segreto. Quando ogni ipotesi è concessa, senza fondo e all’infinito, sul significato di un testo o sulle intenzioni ultime di un autore […], quando non ha neppure più senso decidere sulla presenza o meno di un segreto dietro la superficie di una manifestazione testuale (ed è tale situazione che io chiamo testo o traccia), quando è il richiamo di tale segreto che […] tiene in sospeso la nostra passione e ci fa dipendere dall’altro, proprio allora il segreto ci appassiona» (Derrida 2019, pp. 87-89).
Esistono un segreto nella letteratura e un segreto della letteratura, che tuttavia in certo modo coesistono: «Come segreto della letteratura, si trova il potere infinito di mantenere indecidibile, e quindi non svelabile, il segreto di ciò che essa, la letteratura, dice […]. Il segreto della letteratura è pertanto il segreto stesso. È il luogo segreto in cui essa si istituisce come la possibilità stessa del segreto» (Derrida 2003, p. 27). Anche quando uno scrittore sembra voler confessare, in un proprio testo, qualcosa che in precedenza aveva tenuto celato, non sapremo mai se ciò che dice è vero o se si tratta di una finzione, e in ogni caso qualcosa di taciuto permane sempre. Il segreto ha dunque a che fare con la letteratura, che lo «custodisce (garde) assolutamente in proprio possesso pur dandovelo da osservare (re-garder), senza lasciarvi la minima possibilità di appropriarvelo» (Derrida 2003, p. 58).
Talvolta, però, il filosofo sembra riferirsi a qualcosa di più o di diverso dal fatto, innegabile, che ogni testo letterario rilevante contiene in sé una riserva di significati e si presta dunque a letture sempre nuove (il che spiega fra l’altro la sua durevolezza attraverso i secoli). «Erede spergiura, in questo, delle Sacre Scritture, erede nel contempo più che fedele e imperdonabilmente blasfema di tutte le Bibbie, la letteratura resta il luogo assoluto […] del segreto come esperienza della legge venuta dall’altro» (Derrida 2003, p. 58). Si ha qui l’impressione che il non-detto inerente alla letteratura si trasformi in qualcosa di mistico o religioso. Ciò comporta dei rischi, poiché se si sacralizza l’opera d’arte anche il compito di interpretarla può suscitare un eccessivo e irragionevole senso di inadeguatezza: «Sono sempre in colpa di fronte a un’opera, […] perché non arriverò mai a esaurirne il senso, in quanto l’opera eccede sempre ogni appropriazione possibile. Per questo spero e desidero che l’opera mi si doni e mi perdoni, là dove ciò è impossibile, là dove io sono imperdonabile. Non posso commisurarmi a essa. Mi eccede infinitamente, e sono colpevole, pur non avendo commesso alcun crimine: sono colpevole a priori» (Derrida 1998, pp. 32-33).
A questo proposito, la posizione di Derrida appare oscillante, perché se da un lato egli dichiara di non voler sacralizzare i testi che commenta, dall’altro ammette, almeno in parte, di farlo: «Beninteso, io tendo a diffidare delle procedure di sacralizzazione, o in ogni caso ad analizzarle, ad analizzarne le leggi e le fatalità. Provo in effetti ad affrontare i testi non senza rispetto ma senza presupposti religiosi nel senso dogmatico del termine. Tuttavia, nel rispetto al quale mi piego, c’è qualcosa che s’inchina davanti a una sacralità, se non proprio davanti al religioso. […] Ho cercato di mostrare, particolarmente in Donner la mort, che la letteratura, nel senso stretto e moderno, europeo, del termine, conserva la memoria (al tempo stesso sacralizzante, desacralizzante, colpevole, pentita) dei testi sacri, in verità biblici» (Derrida 2010, p. 26). Quest’ultima osservazione in certi casi può essere vera, ma resta comunque indebito voler dedurre da essa che chi si confronta con tali opere letterarie debba attribuire loro un carattere di sacralità.
I diversi modi in cui Derrida si rapporta, nei propri libri, alla nozione di letteratura sono senz’altro originali e interessanti, benché risultino spesso poco persuasivi. Un aspetto che appare invece valido e meritorio è la capacità, della quale egli ha sempre dato prova, di saper muoversi «tra filosofia e letteratura, non rinunciando né all’una né all’altra, cercando forse oscuramente un luogo a partire dal quale la storia di tale frontiera potrebbe essere pensata o persino spostata: nella scrittura stessa e non soltanto in una riflessione storica o teorica» (Derrida 2009, p. 254)
di Giuseppe Zuccarino
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[1] Derrida 2004, pp. 28-29; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche.
[2] Derrida 1999, pp. 227-229). Come precisa Benoît Peeters (in Derrida 2010, p. 131), il deposito del titolo era avvenuto nel 1959, non nel 1957.
[3]Ibid., p. 93 (tr. it. pp. 100-101). Saggi su questi scrittori sono compresi nei volumi derridiani L’écriture et la différence (Derrida 1971) e La dissémination (Derrida 1989).
[5] Osservazioni analoghe si leggono in Premier entretien avec Jacques Derrida: «La Solidarité des vivants» (2004), in Derrida 2016, p. 139: «La letteratura, l’invenzione della letteratura, è un fatto europeo, almeno alla sua origine. Non voglio dire eurocentrico, voglio dire che la letteratura in senso stretto è un’invenzione, un’istituzione europea»
[6] Questo passo viene citato in Derrida 1991, p. 20.
Nella metro berlinese si aggira uno spettro, che sussurra: Ich bin, was ich höre.
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La fisiognomica della bambina ci illumina su quel che accade: «Sorriso autoprofetico, come tutti i segnali pubblicitari: sorridete, vi si sorriderà. Sorridete per mostrare la vostra trasparenza, il vostro candore. Sorridete se non avete niente da dire, soprattutto non nascondete il fatto che non avete niente da dire, o che gli altri vi sono indifferenti. Lasciate trasparire spontaneamente questo vuoto, questa indifferenza profonda nel vostro sorriso, fate dono agli altri di questo vuoto e di questa indifferenza, illuminate il vostro volto del grado zero della gioia e del piacere, sorridete, sorridete...» (J. Baudrillard, America)
Il grado zero di questa bambina è la sua insoddisfazione, da qui inizia il messaggio. Il suo vuoto prima di capire che ella può ambire a tanto – cioè a poco. Il suo sorriso ambiguo, leonardesco ci dice che lei sente di avere la possibilità di oltrepassare la sua accidia semplicemente mettendosi le cuffie. Ma il rapporto che lei ha con le sue cuffie non è solo, quindi, quello che un umano ha con la (sua) macchina. La macchina risponde esattamente al «sostentamento» della bambina, la macchina la ascolta – gli altri, le non-macchine, no. Io sono quello che ascolto perché quello che mi permette di ascoltare, a sua volta, è poroso. Io sono (anche) la macchina che mi isola – che suggella il mio isolamento e lo certifica ufficialmente. Tutti vedranno in tal modo che «io voglio isolarmi». Ma qui non è suggerito solo questo: il legame così forte che ha la musica con il sorriso, con l’emozione è, per l’appunto, qualcosa di talmente banale da risultare infantile. Date a vostra figlia le sue cuffie, lei sorriderà. In tal modo avrà la possibilità di ascoltare senza farsi ascoltare. Vi è un qualcosa di arcaico, di sinuoso, nel legame che si ha con la propria musica. Questo legame originario – che andremo ad investigare – va a cozzare contro la visualizzazione della sensazione musicale (sorridere per quello che si ascolta), con il tentativo di trasformare anche l’ineffabile musica in un dattiloscritto. La bambina sembra un contenitore, un vaso che viene riempito dalla musica. Cosa si aspetta? Lei aspetta di essere cantata.
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Peter Sloterdijk si è concentrato a lungo sul tema dell’ascolto e della costituzione della soggettività. Nel primo volume della sua microsferologia, Sloterdijk riprende le ricerche psicoacustiche di Alfred Tomatis. Se la ricerca di Sloterdijk è una genealogia della nozione di intimità, la chiave di volta è sicuramente il cosiddetto stadio delle sirene.
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La storia occidentale potrebbe essere interpretata come un percorso verso la defascinazione. Da quando Odisseo ha deciso di farsi legare dai suoi compagni per resistere al canto mortale delle sirene, si è costituita implicitamente un’equivalenza di carattere ontologico: solo chi resiste, chi sviluppa «una relazione non-commossa con le prestazioni retoriche e musicali che fanno appello al suo accordo” sarà degno della vita: «essere soggetto vuol dire soprattutto: poter, in primo luogo e più spesso, resistere alle immagini, ai testi, ai discorsi e alle musiche che si incontrano».
Nel condotto acustico si insinua il canto delle sirene. Qual è il legame tra questo suono e la morte? Come ricorda Sloterdijk, sembra strano che la questione del come si muoia ascoltando le sirene non sia mai stata discussa, come se fosse un dato di fatto il legame tra questo canto e la necessità di morire. Ciò che sconvolge l’equilibrio psico-fisico del viaggiatore è che le sirene non cantano qualcosa dal loro repertorio: esse si adattano perfettamente a quello che il viaggiatore vuole ascoltare. «Il loro segreto è di cantare esattamente i canti nei quali l’orecchio del viaggiatore in transito desidera precipitarsi. Ascoltare le sirene significa, di conseguenza, essere entrato nello spazio centrale di una tonalità che ci chiama internamente e, ormai, voler rimanere nella fonte emozionale di questo suono di cui non si può fare a meno».
Forse dovremmo immaginare il loro canto come un lento silenzio. Nel Silenzio delle sirene, Kafka ribalta completamente la descrizione di Omero. Addirittura, Kafka sembra commettere un errore grossolano nell’associare lo stratagemma della cera anche a Odisseo, che proprio alla cera ha rinunciato per poter ascoltare liberamente il canto delle sirene. Omero, d’altronde non si dilunga sul messaggio delle sirene. Come potrebbe, d’altronde, se nessun uomo gli è mai sopravvissuto? Le sirene sono un’entità metapoetica, sono più grandi di Omero, di Ulisse, della storia. Ecco allora che Kafka racconta che la verità è inenarrabile, che quello che deve essere veramente successo è un grande inganno, un’invenzione di Odisseo, un’escogitazione.
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Di cosa vorrebbe sentire parlare un viaggiatore, che non sa ancora quando farà rientro a casa, se non del suo interminabile viaggio, delle sofferenze che lo hanno condotto fin là? Ogni uomo vuole diventare una canzone che abbia sé al centro. Sentire delle voci che ci cantano significa che la nostra vita è finalmente «diventata un argomento di conversazione alla tavola degli dei». Ecco spiegata l’inesorabilità delle sirene: esse sono quel dispositivo che ci isola in noi stessi. Il risultato è il tramortimento, l’essere imbevuto di sé. L’atto delle sirene è un richiamare l’animo all’intonazione, un accordarsi inconscio che non è possibile evitare poiché si tratta di un solco preesistente, un cammino percorribile perché già percorso in precedenza. Ma in che tempo si è svolta questa alleanza inconscia?
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Accordo, armonia: l’origine della musica ha una sfumatura politica, relazionale. Sin da Esiodo, il canto poetico si è posto tra l’uomo e il divino, e ogni aedo che desiderasse iniziare un racconto si riferiva alle Muse. Esse si invocano perché sono foriere di garanzia di verità. Non è pensabile un’arte della parola che abbia una certa rilevanza senza un accompagnamento musicale; in tal senso, anche il termine «accompagnamento» risulta inesatto: in quanto cantata, tutta la poesia greca del periodo arcaico e classico è fatta di musica.
«Risulta di qui che chi dice che dal movimento degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e questi suoni sono consonanti, dice certamente con singolare eleganza, ma non dice il vero. C’è infatti chi crede che, movendosi corpi così grandi, ne nasce un suono, perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che sono quaggiù, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può, dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta velocità. Così essi credono, e che i rapporti della velocità degli astri in relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò dicono che è armonico il suono degli astri rotanti. Poi a giustificare il fatto che questo suono noi non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò che esso c’è sempre dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e quindi non possiamo distinguerlo ché suono e silenzio si discernono appunto perché sono in contrasto […]». Aristotele, De Cælo.
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Il piacere, nell’ascoltarla, non è altro che l’indice della facilità con cui la musica penetra in noi, oltrepassando ogni sorta di difesa. Per questa ragione essa veicola, ed è la parola che si piega alla musica, che diviene ritmata per assecondarla. Unificazione, congiungimento: l’anima è in sé armonia, essa contiene già in sé la possibilità di un ricongiungimento con quello che è armonico fuori di lei. Il cosmo è armonico, come l’anima; l’anima partecipa dell’armonia del cosmo tramite la musica. Perciò la musica ha potere taumaturgico, essa rappacifica l’anima che finalmente si ricongiunge con il posto che le spetta.
Platone testimonia il terrore di una musica non accompagnante ma dominante, quando nella Repubblica (400d-e) propugna, per l’educazione dei giovani, solo quella musica che segua il buon discorso – poiché un buon discorso viene solo da una buona anima. «Tra filosofia e musica esiste un disaccordo antico», ma è anche vero che la musica più alta, per Platone, non ha niente da invidiare alla filosofia. Non è un caso che, nel Fedone, Socrate dica di essere stato visitato tante volte dallo stesso sogno, che gli suggeriva di comporre musica. Eppure, Platone si riferisce alla musica astratta, spogliata da ogni arbitrarietà e velleità – non quindi a quella realizzata praticamente dagli strumentisti.
Il timore di Platone per una musica ricca di particolarità e casistiche, di una musica non prevedibile e incontrollata, - che è lo stesso timore che egli aveva verso la parola deformata dei/dai Sofisti – prende la forma delle ingannatrici Sirene; tramite esse, la musica paventa un lato sinistro e pericoloso, proprio in forza della sua pervasività. Poiché dopotutto, le Sirene sono onniscienti, proprio come le Muse, e promettono al viaggiatore una verità assoluta. Le Metamorfosi (v, 294-331; 662-678) narrano persino della vendetta delle Muse a discapito di nove fanciulle che avevano tentato di imitarle: queste vengono trasformate in gazze (le Sirene, secondo alcune mitologie, sono presentate anche come esseri alati). Orfeo, figlio di Calliope, riesce a sovrastare con la sua lira il suono del canto delle Sirene, salvando gli Argonauti (gli unici ad essere scampati, insieme ad Odisseo, al sortilegio). La dialettica tra Muse e Sirene, tra verità e illusione, pervade tutta la storia dell’uomo. Se vi era stato, a partire da Aristosseno, un tentativo costante di far collimare la musica al problema etico, era perché si scorgeva quella che era la voragine verso la quale il reale può scivolare. Se Platone ammonisce i poeti che «soggiacendo ai gusti della folla, divengono maestri di disordinate trasgressioni, ispirandosi, come baccanti, più del dovuto al piacere» (Leggi 700d) è perché questo dovuto non lo è per tutti.
Le orecchie sono bersagli facili, e non offrono alcun riparo naturale all’uomo. Ecco che Cristo assume spesso proprio le forme di Orfeo, poiché le Sirene rimangono le devianti, quelle che l’uomo deve rifiutare categoricamente perché lo distolgono dal sentiero della virtù. La seduzione del demonio è rappresentata, nelle miniature medievali come un’invasione sonora. Poiché, «il demoniaco non esiste fuori di noi. Se esiste è in noi» (Enrico Castelli, 1952). Ancora una corrispondenza, dunque, tra ciò che è fuori e quello che risiede internamente. Dopotutto, «se il demoniaco fosse una sorpresa assoluta, sarebbe invincibile. L’urto travolgerebbe». Ma non lo è, esso fa leva sulla curiositas, su un deposito nell’animo, che va solo sospinto.
Il male nella concezione medievale non è altro che la perdita di questa distinzione, poiché «l’impeto demoniaco ha scisso.” Il cerchio e la scissione: le Sirene portano alla circolarità originaria (Sloterdijk), ad un’orbita che ricongiunge (solo) a se stessi, ma è una circolarità fittizia, cosparsa di frammenti, di particolarità. Si perde l’unità poiché se ne perde il controllo.
Così, io non sono quello che ascolto. Voglio, al contrario, che quello che ascolto sia l’io. Che quello che io ascolto, cioè, comprenda già quello che in me è celato, che mi aiuti a ricongiungermi con questa parte. Ecco che la bambina ci sorride ancora:
«Specchio deformante, schermo mutevole di ogni possibile metamorfosi, folgorazione, esse parlano di morte ad una civiltà che non vuole parlarne […]. Perciò ogni loro fulminea comparsa sonora comporta una vaga premonizione, un sentore di minaccia, provocando in noi quell’emozione intramontabile e universale che fa liberare sostanze chimiche e accelerare i battiti del cuore. Reazione del cervello limbico e, forse, di quello rettiliano. Risposte del nostro proprio ibrido interno. Inquietudine sommersa, rivoli di insicurezza che si infiltrano, devastanti» (Meri Lao, 2000). Siamo ancora tra le Sirene. Il nostro mondo è essenzialmente uno spazio ritagliato tra le Sirene degli altri. Quelle che sanciscono la proprietà – la propria ietà– di ciascuno, che sanciscono i limiti e i confini che non riusciremmo ad indicare altrimenti.