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“La violenza è uno di quei temi che incontrano reazioni scettiche trasversali nell’intero spettro politico” (Butler 2020, p. 11): così si apre La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico, l’ultimo libro di Judith Butler, in cui le questioni politiche della violenza, del governo e della resistenza vengono rilette alla luce delle recenti teorie di genere e femministe. In seguito agli eventi organizzati dal movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti e all’ondata di solidarietà antirazzista che ha attraversato il globo, Butler si confronta con l’individuazione degli attivisti afroamericani come terroristi e agitatori violenti da parte della propaganda conservatrice statunitense e non solo. Ma cosa può dirci una teorica gender riguardo la richiesta di una giustizia radicale che viene avanzata dalle strade e che sfida l’immagine del filosofo imperturbabile e atarassico? Come agire in nome dell’eguaglianza se il contesto istituzionale è necessariamente intrecciato con l’utilizzo della violenza? E in che senso la nonviolenza è la chiave di volta per la comprensione dei fenomeni politici sovversivi?
Per rispondere a tali interrogativi, Butler abbandona una concezione strumentale della violenza, sia essa un mezzo specifico per l’autodifesa o funzionale a un gesto rivoluzionario. Se in quest’ultimo caso la filosofa elabora una critica abbastanza prevedibile riferita all’intenzione e alla durata dell’uso della violenza e al rischio che perseguita ogni techné di divenire autonoma dalla volontà umana (“[…] cosa succede se la violenza sfugge di mano, o se inizia a essere usata per propositi diversi, che eccedono o aggirano le sue intenzioni iniziali?”) (p. 28); la questione dell’autodifesa sembra invece essere l’oggetto di una discussione più stimolante: la messa in uso di un’analisi psico-politica vuole illustrare i posizionamenti individuali nel discorso della violenza come esito di una strutturazione del sé, seguendo un metodo già adottato in La vita psichica del potere (J. Butler 2013, ed. or. 1997). Qual è infatti il sé “difeso in nome dell’autodifesa?” (J. Butler 2020, p. 21), come si determinano la sua struttura e il suo ruolo sociale?
A queste domande si accompagna la convinzione che il concetto di violenza non sia dato una volta per tutte, al contrario, esso è sempre sottoposto interpretazioni che ne manipolano il significato in senso politico. Il modello dello scontro fisico con cui viene fatta coincidere l’azione violenta non ne esaurisce infatti le possibilità di manifestazione, soprattutto nel suo aspetto sistemico. Il termine “violenza sistemica”, che recentemente sembra essere utilizzato con tanta nonchalance quanta vaghezza, viene qui chiarito una volta per tutte: “la violenza è sempre un concetto interpretato. Ciò non significa che la violenza non è nient’altro che interpretazione […]. Al contrario, significa che la violenza si dà sempre all’interno di contesti molto ampi, talvolta in conflitto tra loro, e dunque appare in modo diverso – o non appare proprio – a seconda di come le cornici implicate operano sulla questione” (p. 29). Si tratta cioè di un concetto contestualizzato, che dipende da una struttura politica in oscillazione costante, equivoca e performativa. Questo il fenomeno di fronte a cui ci si trova; o meglio, i fenomeni, dal momento che le strutture di violenza sono molteplici e interpellano i cittadini in maniera diversa.
La proposta critica di Butler si sviluppa su una prima, importante disequazione: che l’aggressività non coincida completamente con la violenza, per cui esisterebbero forme di violenza non aggressiva, ma, soprattutto, forme di nonviolenza aggressiva. Aspetto imprescindibile ai rapporti umani, l’aggressività, come la rabbia e il lutto, sono fenomeni che Butler non è in grado di espungere dalla riflessione filosofico-politica soprattutto in seguito alle recenti proteste contro l’oppressione razziale. L’aggressività, chiarisce Butler, è sempre orientata verso un oggetto e, per questo motivo, costituisce una modalità di articolazione dei rapporti sociali. Ancora di più, poiché essa non si esplica necessariamente nella realizzazione di un’azione violenta, prende consistenza la possibilità di una nonviolenza aggressiva, che consente al contempo una critica alla concezione individualistica del soggetto.
Condividendo i presupposti di una prospettiva piscoanalitica, Butler conduce una critica alla nonviolenza come pratica di difesa dell’individuo a partire proprio da cosa sia un individuo. La tradizione contrattualistica, sia per come fu elaborata da Hobbes, sia nella forma criticata da Rousseau, stabilisce un’omologia fra l’individuo pre-statale e quello assoluto: alla stregua di Robinson Crusoe, l’individuo astratto dal politico vorrebbe essere del tutto capace di provvedere a se stesso, libero e autosufficiente. Tuttavia, il sogno moderno di un individuo autonomo viene infranto con l’emersione di un’alterità che Butler media dalla lettura di Cavarero (A. Cavarero, 2013) e che viene identificata nella figura del genitore che aiuta il figlio a sopravvivere per poi venire spazzato via dalla sua volontà di indipendenza. Facendo il verso alla famosa tesi di Beauvoir, Butler potrebbe affermare che individui non si nasce, ma lo si diventa e, con Lacan, che la dipendenza, dal genitore o dal trotte-bébé che reggono l’infante di fronte alla propria immagine speculare (J. Lacan 1974, ed. or. 1949), è costitutiva dell’uomo. La fine del soggetto liberale, già annunciata da una certa french theory, viene dunque ripresa in questo volume come atto inaugurale della discussione sulla nonviolenza, sia attraverso l’introduzione dell’aggressività come rapporto che costituisce l’individuo legandolo agli altri, sia mediante la decostruzione della fantasia pre-statale nutrita da autori come Hobbes e Rousseau. Il problema dell’uso della violenza come strumento di autodifesa è quindi aggirato, proprio perché il “sé” che si vorrebbe difendere in realtà esiste solo in una molteplice relazione con gli altri.
Tuttavia, l’argomentazione di Butler fa un passo in avanti, includendo anche le dinamiche di autodifesa dei gruppi. In questo caso, l’uso della violenza viene giustificato se a rischio sono comunità riconosciute nella loro somiglianza al proprio sé, per esempio se a essere minacciati sono la famiglia, gli amici o il clan a cui il singolo appartiene. Ci troviamo di fronte a un ragionamento paradossale che viene illustrato come una doppia interdizione: all’interno del clan, tra i membri del gruppo, vige il divieto all’uso della violenza, ma la forza di tale interdizione ritorna una seconda volta come imperativo di uccidere nel caso in cui una minaccia esterna si rivolga a uno dei membri del gruppo; in altri termini, la violenza è consentita solo verso l’esterno, nell’eventualità che a rischio sia un gruppo in cui il sé si riconosce ed è giustificata, in ultima analisi, dallo stesso argomento per l’autodifesa individuale. La prospettiva sarebbe allora quella di una guerra tra gruppi, entro cui la violenza viene proibita, ma fra cui l’uccisione viene permessa: una dinamica psichica che limita la nonviolenza a un ristretto gruppo di individui riconosciuti come simili.
Proprio sul concetto di riconoscimento, quindi, si deve riarticolare una nuova pratica globale (e non gruppale) della nonviolenza: l’argomentazione di Butler diventa tanto più stringente quanto più si considera la realtà delle minoranze razziali o di genere. Esse vengono infatti identificate come “altri” nel discorso pubblico, secondo una demografia che non li riconosce nel sé collettivo, impedendo l’accesso alla protezione offerta da una politica dell’autodifesa. Tale disconoscimento fa tutt’uno con la svalutazione della dignità di lutto: i gruppi che indichiamo come minoranze sono tali perché la loro scomparsa o eliminazione vengono ritenute un prezzo adatto al mantenimento dell’ordine sociale, dal momento che le loro vite sono spendibili e indegne di essere piante. La possibilità di una pratica della nonviolenza aldilà della retorica dell’autodifesa, tanto individuale quanto collettiva, si basa al contrario sul riconoscimento che la perdita di ogni vita conta, non già per un suo intrinseco valore, bensì per la globalità delle relazioni che essa chiama in causa. Riconoscere che la presenza o l’assenza di un individuo fa la differenza diventa il marchio di una nuova obbligazione globale alla nonviolenza.
In quest’accezione, precisando quanto detto sul ruolo dell’aggressività nella nonviolenza, Butler afferma che la dinamica aggressiva è ciò che lega i soggetti in un rapporto tanto ambiguo quanto vincolante. Tale ambiguità è però anche la fonte del riconoscimento della vulnerabilità dell’altro, che mi sta davanti come oggetto potenziale della mia aggressività; poiché, infine, l’aggressività è anche un rapporto che mi struttura come soggetto (analogamente all’inclinazione di cui parla Cavarero o al rapporto speculare di Lacan), allora il legame aggressivo-dipendente è il punto originario da cui si riconosce la grievability di ciascuna vita. Al contrario, il sé che si autodifende violentemente definisce anzitutto ciò che conta come “sé” e con ciò realizza la propria esclusione rispetto a determinati gruppi. Questi ultimi non saranno riconosciuti come adatti a un intervento di difesa e, perciò, non verranno riconosciuti nella loro dignità di lutto, secondo un’ineguaglianza di principio. Da ciò la seconda equazione sulla cui base si regge il libro di Butler: la nonviolenza è difesa dell’eguaglianza il cui indice è la dignità di lutto.
La grievability viene infatti ritradotta nella riflessione di Butler come il dato che denota l’uguaglianza fra individui e gruppi. La sua definizione allude a un orizzonte biopolitico, in cui le vite vengono gestite sulla base della loro sostituibilità: la questione della dignità di lutto si sposta dal piano del lutto individuale a quello collettivo e politico, che riguarda quali gruppi meritano di essere difesi (con il rischio riconosciuto ma non veramente affrontato del paternalismo dei cosiddetti “gruppi vulnerabili”). Legare la grievability a forme di gestione della socialità garantisce a Butler un approccio costruttivista: gli individui e i loro posizionamenti sociali sono l’esito della distribuzione della possibilità che le loro vite vengano piante, per cui una determinata vita si posizionerà all’interno del contesto sociale sulla base delle modalità con cui la sua perdita sarebbe elaborata e, più radicalmente, se tale perdita verrà riconosciuta come tale. D’altra parte, il costruttivismo adottato da Butler non si compone di dispositivi omogenei nella gestione effettiva della popolazione; infatti, la dignità di una vita è distribuita eterogeneamente e viene perciò riconosciuta in maniera diversa dai diversi attori sociali, come testimoniano le proteste luttuose delle Donne in Nero o delle Nonne di Plaza de Mayo. Ma soprattutto, la differenza di grievability si dimostra nel suo carattere retroattivo. La tesi della Butler adotta qui un criterio argomentativo ipotetico, per cui una vita è degna di lutto se, nel caso in cui venisse persa, essa sarebbe pianta, ovvero, se la si preserva in quanto insostituibile.
Il rimando alla sostituibilità è un importante punto di svolta: anzitutto, Butler associa l’argomentazione morale (tanto prescrittivista quanto consequenzialista) all’assioma per cui un atto è buono se, anche nel caso in cui sostituissimo soggetto e oggetto dell’azione, esso verrebbe ugualmente compiuto; in questa prospettiva, Butler argomenta a favore di una fondamentale implicazione della fantasia di sostituibilità nel ragionamento morale, per cui solo grazie all’immaginazione si riesce a determinare quanto un’azione possa essere buona o cattiva. Tuttavia, è anche la “sostituibilità reciproca a contribuire alla costruzione di un mondo che conduce verso una violenza maggiore” (J. Butler 2020, p. 115), per esempio, se si considera la vita di un gruppo sociale sostituibile.
Per evidenziare la centralità della fantasia nella discussione etico-politica, Butler analizza il discorso sulla sostituibilità attraverso la psicoanalisi, questa volta di Klein. Con il modello di relazione madre-figlio messo a punto dalla psicoanalista austriaca, Butler individua nella sostituibilità un processo di fantasmagorizzazione per cui il seno materno viene in un solo momento individuato come oggetto di affezione e oggetto di aggressività, determinando al contempo la volontà da parte del bambino di preservarlo (in virtù del riconoscimento che la sua distruzione annienterebbe entrambi in un solo gesto) e di eliminarlo (poiché solo in questo modo sarebbe possibile realizzare un’autonomia totale e fantastica) (M. Klein e J. Riviere 1969, ed. or. 1953). Si tratta di un’“insopportabile dipendenza […] al punto da dar luogo a una furia omicida che, se fosse messa in atto, data la loro reciproca dipendenza, li abbatterebbe entrambi contemporaneamente” (J. Butler 2020, p. 132). Ma proprio da questo fastidio ontologico che l’individuo prova nei confronti di ciò da cui non può che dipendere e che vorrebbe comunque distruggere si genera uno strano legame basato sul senso di colpa. Lungi dal definire la colpevolezza come una dimensione che isola l’individuo nella propria intimità, secondo Butler il senso di colpa è l’occasione per una riarticolazione del legame sociale. Posto che il significato della sostituzione interdipendente come inteso da Butler sia equivalente all’identificazione del seno nella riflessione di Klein, allora la differenziazione fra “io” e “altro” diventa estremamente sfumata, se non impraticabile: “nell’incontrarti, incontro anche me, ma anche te, a duplicare la mia rovina; e io non sono solo me, ma anche lo spettro che ricevo da te, mentre sei alla ricerca di una storia diversa rispetto a quella che hai avuto fin qui” (p. 137).
Socialmente vincolato dal senso di colpa per un’aggressività che, forse un po’ cinicamente, le consente di descrivere l’incontro con l’altro come doppia rovina, la soggettività nonviolenta descritta da Butler risulta non solo attraversata dai fantasmi della psicoanalisi, ma anche dai dispositivi della biopolitica. L’ormai consuetudinario appello a Foucault, consente l’abbozzo di una spiegazione della razzializzazione dei corpi, ricorrendo al contempo a Pelle nera, maschere bianche (F. Fanon 2015, ed. or. 1952): per quanto il richiamo a Fanon nell’ambito della nonviolenza possa perplimere il lettore, la lettura che Butler ne offre sembra soddisfare il bisogno di comprendere la violenza contro i gruppi razzializzati. La definizione di biopolitica come strumento di distribuzione differenziale della dignità di lutto e la descrizione del razzismo come fantasia che condensa e inverte la violenza sull’estraneo minaccioso, tornano utili a Butler per la spiegazione tanto del razzismo statunitense contro la comunità afroamericana quanto di quello europeo contro i migranti transnazionali, dal momento che entrambi fenomeni descrivono il proprio oggetto di violenza come nemico che, fantasticamente, potrebbe distruggere l’identità della comunità o dello Stato.
L’utilizzo del testo di Fanon, in cui la violenza è cruciale per la liberazione dal governo coloniale, sembra cozzare con la tematizzazione di una pratica nonviolenta globale. Tuttavia, la descrizione della violenza razzista, fornita da Fanon e ripresa da Butler, spiega che la significazione di determinati atti di rivolta come violenti può essere l’esito di una serie di fantasie persecutorie e proiezioni paranoiche: la stessa guerriglia anticoloniale sembrerebbe essere sottoposta alla logica per cui qualsiasi iniziativa volta a destituire la violenza del potere viene censurata in quanto violenta. Al contempo esplicativo ed esemplare, il testo di Fanon, indicherebbe che il monopolio statale della violenza si compone di un’intera episteme e, contemporaneamente, ne illustrerebbe gli effetti, diventando un “testo ostile”: “[…] la critica della guerra viene presentata come un sotterfugio, un’aggressione, una forma dissimulata di ostilità. La critica, il dissenso e la disobbedienza civile vengono costruiti come attacchi alla nazione, allo stato, persino all’umanità. […] Tutte le posizioni, in altre parole, per quanto dichiaratamente nonviolente, vengono considerate come permutazioni della violenza […] nell’ambito di un’episteme governata da una logica rovesciata e paranoica” (J. Butler 2020, p. 199).
Ed è proprio nella potenzialità di una guerra costante, che viene falsamente ritrovata anche nelle azioni espressamente nonviolente, che l’autrice trova il vincolo etico a un’azione nonviolenta. Proprio perché ogni individuo è sempre capace di realizzare quella distruttività pulsionale che eliminerebbe l’altro da cui al contempo dipende, diventa allora necessario comprendere perché non dobbiamo dare adito a tale impulso di morte. L’ultimo Freud conclude la riflessione di Butler sulla nonviolenza attraverso il concetto di Todestrieb alla luce in particolare dello scambio epistolare con Einstein (A. Einstein, S. Freud 1979, ed. or. 1915) e di Lutto e melanconia (S. Freud 1977, ed. or. 1917), di cui l’autrice si è già servita nel famoso Questione di genere (J. Butler 2013, ed. or. 1990) e nel già ricordato La vita psichica del potere. Dall’analisi del corpus dell’ultimo Freud, la cui disomogeneità crea non pochi problemi ai teorici queer, Butler deriva una visione forse troppo manichea, per cui il principio di morte si oppone al principio erotico, poco importa che ne sia una dimensione interna o esterna: “[…] ‘amore’ (parola con cui Freud si riferisce sempre a ‘Eros’) nomina soltanto uno dei poli dell’ambivalenza emotiva. C’è l’amore e c’è l’odio. L’amore, dunque, o nomina la costellazione ambivalente di amore e odio, oppure è un polo della struttura binaria amore/odio” (J. Butler 2020, p. 218).
In questo senso, Butler presta effettivamente il fianco a una critica della più recente svolta antisociale nella teoria queer, in cui è il sessuale a entrare come protagonista nella struttura erotica presentandone anche gli aspetti più sado-masochisti e ripugnanti. Tuttavia, tale distinzione binaria consente all’autrice di fornire un’efficace interpretazione del processo di elaborazione del lutto come occasione politica. Se nel testo di Freud il percorso ordinario e quello patologico del lutto non sono distinguibili in maniera netta, ciò non impedisce alla filosofa di affermare con sicurezza che due sono le tendenze della malinconia, cioè della risposta alla perdita d’oggetto erotico: da una parte troviamo l’autorimprovero che il Super-Io conduce verso l’Io, dall’altra invece la mania, che porta a una disidentificazione dell’Io da se stesso. Nel primo caso, infatti, il Super-Io interiorizza l’oggetto perduto punendo l’Io per la sua perdita e, per questo motivo, la dinamica freudiana si arricchirebbe di un elemento superegoico che, accecato dal principio distruttivo, tende ad annichilire l’Io stesso (qualificandosi come una “coltura pura della pulsione di morte”) (p. 223). Ma è il secondo aspetto, quello maniacale, che Butler sottolinea con particolare originalità: nella mania, l’Io tenta di disidentificarsi, di staccarsi da sé e di fissarsi su un oggetto altro in maniera da sopravvivere in una dimensione dove la realtà perde i suoi chiari connotati. Questa spinta verso l’alterità e il differimento da sé viene interpretata da Butler come una forma di resistenza psichica alle tendenze suicide del Super-Io e, in questo senso, come il punto di partenza di qualsiasi analisi di una resistenza per defezione alla violenza: portando a compimento quel lavoro di decostruzione del sé che viene protetto nell’auto-difesa, Butler afferma che
Se il Super-Io assurge a unico controllore della distruttività, questa non può che tornare indietro al soggetto, mettendo in pericolo la sua esistenza. Nella melanconia, infatti, l’ostilità non viene esternalizzata e l’Io diventa il bersaglio di un’ostilità potenzialmente omicida, il cui potere è tale da distruggere la vita dell’Io e l’organismo stesso. La mania, al contrario, introduce in questo quadro un desiderio irrealistico di esistere e persistere, che non è fondato su una realtà percepibile e non ha alcuna possibilità di esserlo nell’ambito particolare regime politico […]. La mania può introdurre un vigoroso “irrealismo” in quelle forme di solidarietà che mirano a rovesciare i regimi violenti, insistendo, contro ogni probabilità, su un’altra idea di realtà (pp. 230-231).
Mania, irrealtà e nonviolenza sono, in conclusione i termini che denotano la prospettiva della vita politica egualitaria immaginata da Butler in seguito agli eventi odierni legati al Black Lives Matter Movement e alle proteste dei collettivi femministi Ni Una Menos. L’attivismo non istituzionalizzato e, in un certo senso, agitato di questi due gruppi è proposto come un nuovo approccio etico-politico, che lega gli individui sulla base della loro vulnerabilità: la caratteristica universale di essere condizionali e condizionati nel rapporto agli altri. Non si tratta, tuttavia, di una posizione semplicisticamente pacifista, ma, nelle parole di Einstein, di un pacifismo almeno militante, in cui l’aggressività non viene espunta immediatamente in quanto violenta, ma viene re-indirizzata a una difesa strenua di qualsiasi minaccia all’uguaglianza. In questo fedele alle origini ribelli e arrabbiate dei movimenti di liberazione omosessuale, Butler elabora un concetto di resistenza nonviolenta che fa propri sentimenti e moti dell’animo apparentemente poco pacifici: la collera, il lutto e il rifiuto, perché proprio a partire da un “no” inaugurale può cominciare quel processo di cambiamento che, con la nonviolenza, sovverte i regimi esistenti di oppressione.
di Denis De Almeida Barros
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Bibliografia
J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (1997), Mimesis, Milano 2013
J. Butler, Questione di genere. Femminismo e sovversione dell’identità (1990), Laterza, Roma-Bari 2013
A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Cortina, Milano 2013
A. Einstein, S. Freud, Perché la guerra?, in S. Freud, Opere. Vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino 1979
F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche (1952), ETS, Pisa 2015
S. Freud, Lutto e melanconia (1917), in Id., Opere, Vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1977
M. Klein, J. Riviere, Amore, odio e riparazione (1953), Astrolabio, Roma 1969
J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Id., Scritti, Einaudi, Torino 1974
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Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali
Recensioni / Dicembre 2015Vengono smembrati, disossati, cucinati e infine divorati. Vengono sfruttati, vivisezionati, modificati e poi sacrificati. Sono i corpi animali, i corpi che (ancora) non contano – o meglio: contano in termini nutritivi, economici e scientifici; contano, insomma, da un punto di vista antropocentrico. Sono materia prima, corpi senza vita che l’uomo plasma come vuole e di cui non piange le uccisioni. Sono piccoli blocchi, mattoncini di carne sui quali l’uomo ha fondato il suo impero, edificato e arroccato su principi di naturalità che soltanto oggi, con immensa lentezza e fatica, iniziano a essere minimamente scalfiti. La messa in discussione dei ruoli assegnati sulla base del naturalismo è un processo complicato ma necessario, in quanto mina la binarizzazione gerarchizzante di base: natura da una parte, cultura dall’altra. Compiere questo primo ma fondamentale passo porta alla ridefinizione dei ruoli svolti dagli esseri, abolendo l’assegnazione degli stessi “per natura” e sviluppando al contempo nuove concezioni e definizioni: ruolo come dimensione in cui muoversi e agire, ruolo come spazio in cui si fa e si disfa, ruolo come luogo libero che accoglie la performance dell’animale, umano e non. Il volume collettaneo Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis, 2015) si pone l’obiettivo di testare, come annuncia provocatoriamente il curatore Massimo Filippi nell’introduzione, il pensiero di Judith Butler sugli animali. Se la domanda cardine del pensiero butleriano è «A chi spetta una buona vita?», quale lavoro filosofico meglio del suo può essere utile da incorporare negli Animal Studies? Nonostante la pensatrice americana non abbia mai esteso il suo ragionamento agli animali non umani, all’interno dei suoi studi sono molteplici gli strumenti e i concetti potenzialmente utili (vita precaria, performatività, lutto…) alla demolizione delle binarizzazioni oppositive e al riconoscimento dell’altro non umano. Nella breve intervista presentata all’interno del volume, è la stessa Butler a elogiare i movimenti antispecisti per lo sforzo che stanno compiendo in questa direzione: «Sono convinta che questi movimenti si stiano sforzando di mettere in rilievo le reti di interdipendenza che normalmente non vengono riconosciute». Non resta dunque che limare le derive antropocentriche del pensiero butleriano e inaugurare nuove strade che ci portino lontano dalla norma vigente, mettendola in discussione come i movimenti femministi e queer hanno fatto nei decenni passati nei confronti del pensiero eteronormato, riscuotendo successi e raggiungimenti filosofici, sociali e mediatici allora insperati.
Quando il 26 ottobre 2015 l’International Agency for Research on Cancer – agenzia facente parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – diffonde un comunicato con cui informa che le carni rosse sono probabilmente cancerogene e le carni rosse lavorate (insaccati e salumi) sono sicuramente cancerogene, un brivido di inquietudine – nella maggioranza dei casi carico di inesattezze scientifiche e macchiato di qualunquismo e semplificazioni – getta nello scompiglio l’opinione pubblica. Il dibattito che ne consegue è, ancora una volta, unidirezionale, tecnoscientifico e antropocentrico, ma permette di mettere in luce alcuni aspetti discussi in Corpi che non contano. La reazione alla diffusione del rapporto dello IARC infatti mette in evidenzia ciò che nell’ultimo saggio Federico Zappino definisce “norma sacrificale”. Si tratta della norma che, ancora più di quella eterosessuale, è stata forclusa, resa non evidente, inintelligibile. È il sacrificio perpetuo di miliardi di animali non umani, un sacrificio dal quale è complicato liberarci se si tengono presenti i desideri che esso soddisfa (il consumo di carne a tavola, per esempio) e la soggettivazione di cui è parte integrante. Come liberare l’uomo da un desiderio senza doverlo castrare e reprimere, si chiede Zappino? Seguendo le orme di Foucault, è bene lasciare spazio a nuovi desideri, creativi e fluidi, che possano accompagnare in modo libero la critica alla norma vigente, dando vita a nuove dimensioni da sperimentare.
Quando la norma resiste agli scossoni – come ha dimostrato la reazione al comunicato dell’OMS, veicolata attraverso messaggi pregni di “orgoglio carneo” e talvolta venati da caustico umorismo – allora è necessario intaccarla alla radice; questo è l’obiettivo che si pongono James Stanescu e Richard Iveson, che firmano un saggio a testa nel volume. Entrambi pongono l’accento sull’errore di considerare l’animale quale pre-condizione dell’umano. Si tratta di uno scivolone che coinvolge anche Judith Butler in Frames of war, in cui ancora una volta viene promulgata un’idea profondamente umanista e fondata su quell’eccezionalismo umano che dovrebbe essere la prima barriera da abbattere per intavolare una discussione critica sul rapporto interspecifico. In quest’ottica, lo stesso concetto di umano diventa norma, escludendo tutto ciò che non rientra in questa categoria dalla considerazione e relegandolo a un “grado zero” (l’animalità) su cui fondare il dominio dell’uomo sul mondo. La carne degli animali è quindi soltanto meat [carne morta] e non flesh [carne viva], è altro da noi umani, è soltanto materia inerte potenzialmente cancerosa – salsicce, wurstel, salumi, braciole, costolette – e, soprattutto, non è meritevole di lutto. La morte dell’animale per mano umana non è, dunque, omicidio, cioè morte degna di essere compianta, ma mera uccisione, morte senza ricordo, perché dovuta, necessaria e, ovviamente, naturale.
Accanto al concetto di lutto, a lungo esplorato da Butler nel corso della sua carriera, si affianca quello di vita precaria, punto cardine nell’applicazione del pensiero butleriano agli Animal Studies secondo Stanescu. La precarietà – essendo prima di tutto una condizione collettiva e non individuale – pone l’accento sulle connessioni e sulla relazione ed è, secondo Butler, un luogo da cui partire per riorganizzarsi e non uno stadio da superare. Inoltre, la precarietà è sia un luogo che una questione ontologica; un concetto cruciale ma da cui non dobbiamo difenderci, perché la minaccia reale è l’immunità con cui schermiamo la precarietà stessa, operando processi di disconoscimento nei confronti dell’Altro. «Tramite un rifiuto di affrontare la nostra finitudine corpeizzata e condivisa», scrive Stanescu, operiamo la prima spaccatura che ci separa dal bios dell’animale non umano. Solo muovendo dalla nostra precarietà possiamo comprendere che la carne che consumiamo e sfruttiamo in molteplici modi prima di essere lavorata (e diventare cancerogena) si muove, si nutre e si riproduce: è viva, ed è animale tanto quanto la nostra.
Ogni anno su questo pianeta vengono uccisi circa centocinquanta miliardi di animali non umani. Dati simili sono spesso inintelligibili, nascosti agli occhi dei più e radicati profondamente nella norma sacrificale. Come ricorda Marco Reggio nel suo intervento in Corpi che non contano, il pensiero butleriano può essere fondamentale per portare alla luce i rapporti di interdipendenza fra uomo e animali non umani e per mettere in discussione il concetto stesso di umano e il suo eccezionalismo. Fra le maglie della rete che tenta di opprimere e nascondere la solidarietà interspecifica, si fanno strada studi – come questo – che portano a galla verità soggiacenti, da sempre presenti ma, speriamo, ancora per poco ignorate.
di Danilo Zagaria
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CRUDELTÀ, SOVRANITÀ, RESISTENZA NELLA PSICANALISI
Longform / Luglio 2015[…] gli Stati generali sono sempre convocati nei momenti critici, quando una crisi politica richiede una scelta, e prima una liberazione della parola in vista di una decisione d’eccezione che dovrà impegnare l’avvenire (Derrida, 2013, p. 56)
Stati d’animo della psicanalisi è il titolo della conferenza tenuta alla Sorbona da Jacques Derrida nel luglio 2000, in apertura degli Stati generali della psicoanalisi, occasione straordinaria di confronto tra psicoanalisti di tutto il mondo appartenenti alle diverse correnti del movimento psicoanalitico. La conferenza, uscita in Francia nel 2000 (Derrida 2000), è stata pubblicata in Italia alla fine del 2013 dalla casa editrice ETS, nella pregevole traduzione di Claudia Furlanetto, che ha curato il volume arricchendolo con un’agile e chiara introduzione e con un’ampia intervista a René Major, filosofo molto vicino alla psicanalisi di orientamento lacaniano e amico personale di Derrida. È proprio Major a ricostruire la lunga gestazione degli Stati generali, da lui stesso promossi e organizzati con tre anni di lavoro preparatorio, ma concepiti sin dalla fine degli anni Settanta, ai tempi delle dittature in Brasile e in Argentina. L’esigenza più urgente di Major era stata allora quella di denunciare le opacità dei rapporti tra la psicoanalisi e il potere, che andavano dalla complicità vera e propria di alcuni analisti nei crimini commessi dagli apparati di stato, alle azioni dissuasive messe in atto da una parte delle istituzioni psicanalitiche per insabbiare lo scandalo. In seguito lo spazio del confronto si sarebbe ampliato, fino a portare in primo piano la questione del senso politico della psicoanalisi. Alla caduta dei regimi sudamericani non fece infatti seguito un’epoca di pace e rispetto dei diritti umani nel mondo; d’altra parte i primi a violarli erano e restavano in molti casi i cosiddetti baluardi della democrazia, data la presenza della pena di morte in diversi stati americani. Anche in questo caso, le dichiarazioni di denuncia da parte delle istituzioni psicanalitiche rimanevano vaghe, come se, al di là dell’opportunismo, si volesse evitare di assumere una precisa posizione di condanna. Come se la psicanalisi, rispetto al potere – in particolare al potere di far soffrire – dovesse mantenersi a distanza.
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Grazie all'analisi foucaultiana sul biopotere e sul soggetto, al focus posto da Butler sul gender e all'ampia proliferazione di analisi che ne sono seguite, la capacità performativa dei discorsi di potere e di sapere dominanti in una data epoca sulla materialità umana è stata ampiamente esplorata. Il testo di Alessandro Baccarin, Il sottile discrimine. I corpi tra dominio e tecnica del sé, si inserisce in questo panorama in maniera intelligente e feconda, analizzando attentamente soggetti e corpi tipici della contemporaneità attraverso una genealogia rapida ma puntuale, capace di cogliere le svolte storiche salienti dal loro emergere, e invitando a riflettere più ponderatamente tanto sulle nuove modalità assunte dalle pratiche di dominio del biopotere sul corpo quanto sulle forme di resistenza possibile. Ciò che vi è di veramente interessante nel testo è la lente di ingrandimento che l'autore pone sul cardine su cui si articola l'assoggettamento – termine di origine foucaultiana, e approfondito da Butler per mezzo della psicoanalisi, che designa contemporaneamente sia la subordinazione sia la soggettivazione psichica e sociale di cui è capace un potere intenso, diffuso, relazionale, produttivo, totalizzante e individualizzante. Ebbene, Baccarin interroga proprio quel “sottile discrimine” caratteristico della dinamica dell'assoggettamento. Se il soggetto occidentale moderno è un effetto di dinamiche di potere, a sua volta dotato di potere proprio perché emerso dall'interazione produttiva e continua tra tecniche di dominio e tecniche del sé, bisogna allora porre al centro dell'analisi e delle controcondotte il corpo e le pratiche che su e attraverso questo vengono agite. In altre parole, è importante far emergere gli attuali processi di normalizzazione nonché le tecniche del sé corporee che costituiscono oggi l'a priori in base al quale i soggetti operano all'interno di nuove relazioni di potere, e rispetto alle quali, spesso troppo ottimisticamente o semplicisticamente, si proclamano, o vengono proclamati, autonomi. Con il suo testo Baccarin dunque chiarisce sia sotto quali vesti si presenti attualmente il biopotere neoliberale nella nostra società, sia quanto quelle pratiche, quei corpi, quei soggetti comunemente oggi assunti come esemplari delle possibilità di resistenza intrinseche ai soggetti e ai rapporti di potere che li hanno prodotti – tra i quali l'autore sceglie di occuparsi di omosessuali, transessuali, tatuati e pornostar – siano solo parzialmente tali, rilanciando la necessità di elaborare, in linea con il messaggio foucaultiano, nuove linee di fuga.
Capita spesso, infatti, di veder assumere, nei dibattiti su questi temi, come soggetti liberi, autodeterminati, resistenti, coloro che sono prevalentemente stigmatizzati e discriminati nella nostra società, i cosiddetti “trasgressori” odierni, in quanto smarcati dalle norme imperanti nella contemporaneità: dell'eterosessualità obbligatoria; del corpo privo di segni – se non quelli dell'abiezione – tipico della tradizione occidentale; di una sessualità familiare, procreativa, privata, stabile. Ora, dalla lettura del testo tale elezione appare semplicistica sia perché, secondo la lezione foucaultiana e butleriana, non esiste un luogo del grande rifiuto al di là della realtà in cui noi tutti viviamo: non possiamo vivere senza un riconoscimento sociale che renda la vita del singolo, intrinsecamente precaria, una vita possibile e vivibile, sia perché il biopotere è in grado di riposizionarsi continuamente. Infatti, sebbene l'azione del potere non sia mai deterministica perché non esiste un potere assoluto e fondante, bensì si danno solo relazioni di potere tra soggetti liberi dotati di agency, e malgrado il fatto che l'assoggettamento richieda sempre una reiterazione della legge, che così per un verso si naturalizza, mentre per l'altro diviene suscettibile di alterazione, ciononostante è incessante il pericolo di una nuova e ulteriore normalizzazione delle prassi trasgressive.
È davvero difficile individuare e percorrere una volta per tutte le strade che conducono verso un nuovo uso dei piaceri e per una denormalizzazione del corpo e del desiderio, denuncia Baccarin citando il caso del BDSM (si tratta di una pratica sessuale nata nei circoli omosessuali californiani come pratica eversiva e oggi divenuta importante genere del mercato del porno mainstream ). Ogni normalizzazione porta con sé sempre delle increspature importanti ed eversive da approfondire e perseguire, ma allo stesso tempo non bisogna mai dimenticare che il potere, proprio in virtù di tale scarto, è sempre capace di riposizionarsi a un nuovo livello. Si pensi, scrive l'autore, ai meccanismi della moda o della pubblicità, capaci di trasformare l'individuo scandaloso – per esempio i primi tatuati – in soggetto desiderante, parte del vasto catalogo di identità offerte dal sistema consumistico odierno, facendo diventare normali i corpi tatuati sui giornali di moda o negli spogliatoi calcistici. Così facendo, il corpo tatuato diviene un corpo intercettato dal biopotere, un corpo che desidera docilmente leggere su di sé la propria identità. I corpi-limite, mette in guardia Baccarin, saranno anche corpi che si mettono di traverso rispetto a una governamentalità che investe l'organicità stessa dei soggetti, ma spesso non disinnescano il meccanismo di potere che criticano, rimanendo in una posizione liminare tra norma e libertà, tra governo delle condotte ed esperienze metamorfiche autonome e resistenziali di uso dei corpi e del piacere. Questi corpi sono realmente punti di resistenza al potere, ma spesso non hanno il coraggio o la lungimiranza per esserlo davvero, riducendosi a essere punti di appoggio per una nuova azione del biopotere stesso.
Entrando più nello specifico, Baccarin mostra come la posta in gioco delle pratiche di libertà attuali stia nello scardinamento dei processi di veridizione (altra espressione tratta dal lessico foucaultiano) imposti dall'ermeneutica del sé propria del biopotere neoliberale, che induce i soggetti a diventare imprenditori di se stessi, creando così l'illusione dell'autodeterminazione. Egli pone prima di tutto nero su bianco quella che è la verità dei soggetti limite da lui scelti, mettendola poi sul banco degli imputati. Per esempio, la verità trans oggi vigente viene riassunta nella frase “la libertà di essere o non essere o di come essere donna/uomo”. Questa, si noti, non è la verità di un singolo particolare trans, ma la verità trans tout court, ovvero di una categoria di soggetti, di una specifica identità sociale che, per quanto considerata scandalosa, malata, trasgressiva, viene così ordinata e posizionata all'interno dell'ordine sociale vigente. Lungi dall'essere questa una pura rivendicazione dell'autonomia transessuale – come vorrebbero spesso tanto i trans quanto i teorici gender – anch'essa è da intendersi come il risultato di quell'ermeneutica del sé propria delle dinamiche del biopotere contemporaneo.
Dunque, rileva Baccarin, l'identità trans, nonché la rivendicazione della propria verità da parte dei transessuali, prodotti di una tecnica del sé congiuntamente a una tecnica del corpo che problematizza e plasma il corpo trans nel contesto di una nuova disponibilità anche plastica del corpo, è il risultato dell'ermeneutica del sé che sta all'origine del soggetto moderno. Infatti il biopotere è una razionalità di governo sorta a partire dal XVII secolo e fondata sul criterio centrifugo del laisser faire, che presuppone la libertà dei processi e dei soggetti che osserva e gestisce. Inoltre, tale governamentalità istituisce un'inedita sintesi fra potere e verità, e tra questi e i temi quali la vita, il corpo, l'individuo, il corpo sociale, che richiede a ognuno di trovare la verità del proprio desiderio: in questo caso la propria identità di genere. Di fatto, attraverso l'interazione tra tecniche di dominio e tecniche del sé, e per mezzo di vari dispositivi quali il sapere medico, psichiatrico, disciplinare, tali identità vengono più che scoperte, prodotte. Allo stesso modo funziona anche la pornografia, la quale è un caso esemplare di tale sollecitazione, estrapolazione, soggettivazione, incorporazione del desiderio sessuale. Essa è indifferente al piacere eventualmente sollecitato allo spettatore o provato dal performer – sempre e comunque solo genitale – e all'atto – meramente strumentale alla produzione di desiderio – mentre è centrale l'enorme proliferazione dei generi pornografici. Il consumo di porno suscita un desiderio che induce all'ulteriore consumo di immagini implicando, al tempo stesso, il soggetto in un processo di veridizione della propria identità sessuale, illudendo il singolo della libertà del proprio desiderio per mezzo dell'ampia scelta di generi che ha a disposizione. Nella pornografia, quindi, si congiungono a un nuovo livello processi di normalizzazione e tecniche corporee del sé secondo i binari del totalitarismo dell'esplicito e della banalizzazione del nudo e della seduzione, analogamente a quanto scriveva Foucault a proposito della moltiplicazione della philia da parte della sessuologia del XIX secolo, che reprime, mentre suscita, la discorsività sul sesso, facendola prolificare e, contemporaneamente, ampliando e specificando in questo modo la presa del potere sulle vite e sui corpi degli individui.
Il meccanismo è sempre lo stesso: si ha l'illusione che parlare di sesso e mostrarlo, ma anche scrivere sui propri corpi, plasmarli e modellarli con diete, attrezzi da ginnastica, chirurgia, sia la via per la liberazione da un potere repressivo e dall'anonimato della società dei consumi, mentre in realtà questi non sono altro che strumenti del biopotere neoliberale, il quale più che reprimere amplia la sua presa su di noi. Il biopotere suscita desideri incorporati in soggetti desideranti sotto forma di condotte che diventano oggi anche autopoiesi corporea. I tatuaggi, il piercing, le scarificazioni, la pornografia, la somatopoiesi trans – ma Baccarin aggiunge all'elenco i prodotti contraccettivi, la fecondazione assistita, i centri abbronzanti, la chirurgia estetica, le pubblicità, le diete, il nuovo valore dato alla nudità, il fitness, la moda, i corsi di strip dance – sono tutti esempi del nuovo livello di incorporazione raggiunto oggi della norma. Un'autonormazione che è anche auto poiesi, che investe il corpo a un livello mai raggiunto prima: quello della poiesi organica basato sul dovere di scoprire la propria verità e di affermare la propria unicità attraverso la cura di sé e del proprio corpo.
Quella raggiunta non è altro che una libertà apparente, anche se autenticamente percepita. Si pensi alla donna che, ancora isterica e priva di piacere nel XIX secolo, oggi per un verso rivendica una propria sessualità attiva e autonoma, per l'altro è target per una nuova produzione pornografica al femminile e cliente di interventi estetici standardizzanti in un'autodisciplina corporea basata ancora una volta su di un desiderio suscitato, controllato, serializzato: quello di piacere, di piacersi, di prendersi cura di sé. Tutte queste pratiche si collocano all'interno delle pratiche di dominio sempre più sofisticate e intrusive attuate sul corpo dal biopotere neoliberale contemporaneo, che possono anche costituire effettive pratiche di resistenza del soggetto, ma mai in termini assoluti, e che comunque sino a oggi non hanno davvero messo in discussione la centralità del desiderio e l'ingiunzione all'ermeneutica del sé che sta alla base di tali processi. Dunque è proprio su questo “sottile discrimine” che intercorre tra gli investimenti corporei intesi come forme di controcondotta alle relazioni di potere biopolitico, e quelli che non sono altro che autonormazione, cura di sé normata, incorporata e psichicamente assimilata, che si colloca intelligentemente l'opera di Baccarin, Con le sue ricostruzioni genealogiche delle verità di corpi e di soggetti che vivono in diagonale in questo mondo, mostra come essi rappresentino delle resistenze rispetto alle norme vigenti, ma meno radicalmente di quanto spesso non si pensi. Per superare tale soglia, rilancia l'autore, è basilare superare la necessità tanto di una verità del sé quanto il mito di una libertà originaria ed essenziale da restaurare; superare la centralità accordata al desiderio, e di conseguenza al tema identitario; spostare l'attenzione sull'atto e sul piacere. Non è più tempo di rivendicare la libertà di amare persone dello stesso sesso, come recita la verità gay, bensì è tempo di rivendicare la libertà di amare tout court. Bisogna cioè concentrarsi sullo scovare nuove pratiche di libertà per inaugurare non nuovi mondi, bensì nuovi giochi di libertà in questo mondo.
di Sophie Brunodet