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In occasione del V Seminario di Teoria politica intitolato Eurotecnocrazia tenutosi a Torino in ottobre ho avuto la possibilità di intervistare l’antropologa ed etnologa Annamaria Rivera. Saggista, scrittrice e attivista da anni si occupa di razzismo e forme della discriminazione. A lei dobbiamo uno dei primi studi in lingua italiana sulla correlazione tra razzismo, sessismo e specismo. Abbiamo affrontato il complesso rapporto tra paura, intolleranza e razzismo in Europa, alla luce degli arrivi in massa di migliaia di migranti sulla costa nord del Mediterraneo, ignari di quel che sarebbe accaduto di lì a poco a Parigi.
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Edoardo Greblo – Etica dell’immigrazione. Una Introduzione
Recensioni / Settembre 2015Con il suo ultimo lavoro Etica dell’immigrazione. Una introduzione, pubblicato quest’anno per i tipi di Mimesis nella collana SX, Edoardo Greblo introduce per la prima volta in veste organica in lingua italiana il recente dibattito filosofico sul tema dell’immigrazione. Come giustamente rilevato nell’introduzione, se lo studio dei processi migratori è stato affrontato da molti punti di vista (storico, economico, geografico, sociologico, demografico ecc.) e il decennale dibattito sul multiculturalismo ha occupato gran parte degli studiosi di filosofia politica, solo recentemente la filosofia pratica ha rotto il silenzio «riguardo al fenomeno che pure rappresenta l’antefatto o il presupposto, sia dal punto di vista concettuale sia dal punto di vista materiale, della sfida lanciata dalle nuove e diverse ‘culture’ alle vecchie e omogenee identità nazionali». Infatti, tra le diverse fasi proprie delle migrazioni (emigrazione, primo ingresso, diversi stadi dell’integrazione), è l’attraversamento dei confini di uno Stato, e le corrispondenti politiche di prima ammissione, a rappresentare il punto di frizione che ci obbliga a una riconfigurazione delle nostre mappe normative in merito a cittadinanza, divisione del lavoro e welfare, oltreché a far emergere la natura della società di transito o di arrivo al di là della retorica del dibattito pubblico interno. In altri termini, l’immigrazione rappresenta per il sistema di suddivisione politico amministrativo territoriale basato sulla forma Stato-nazione l’elemento disfunzionale in grado di innescare e mantenere vivo il processo di auto-riflessione che è oltretutto la caratteristica strutturale fondamentale delle democrazie liberali. In particolare l’autore si concentra sull’immigrazione motivata da ragioni di ordine economico, avanzando l’ipotesi certamente condivisibile che i movimenti di attraversamento dei confini debbano essere letti nel quadro delle interdipendenze economiche globali. Tant’è che le condizioni di primo accesso riservate a rifugiati e richiedenti asilo si rifanno a norme morali e giuridiche condivise (Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e relativo protocollo del 1967), mentre le politiche di prima ammissione rivolte a coloro che non rientrano in queste categorie rappresentano «l’aspetto più controverso e meno sviluppato di un’etica dell’immigrazione».
Attraverso una pubblicazione agile e dal carattere introduttivo, Greblo passa in rassegna le principali voci del dibattito contemporaneo, facendole interagire a partire dall’assunto realistico del legittimo interesse degli Stati a porre limiti e vincoli al “privilegio” di immigrare. Ne risulta una suddivisione tra due alternative teoriche cui corrispondono i due capitoli principali: quella dei sostenitori dei confini chiusi e quella a favore dei confini aperti. Entrando nello specifico, in queste pagine si delineano due sfere di influenza che vedono quali centri di gravitazione rispettivamente le riflessioni di Michael Walzer e di Joseph Carens – che l’autore ha il merito di introdurre in uno dei pochi contributi disponibili in italiano.
Il nucleo della disputa, che mette in relazione non solo questi due autori ma una numerosa schiera di studiosi, può essere ricondotto al differente grado di intensità riconosciuto al diritto di libera circolazione degli individui rispetto al valore assegnato all’autonomia politica della comunità di arrivo, alla sostenibilità economica dell’accoglienza nei termini di una tenuta del sistema di welfare e all’effettiva capacità di aiuto e redistribuzione della ricchezza globale. La posizione di Walzer e dei sostenitori dei “confini chiusi” assegna all’autonomia politica il valore preponderante rispetto alla libertà di movimento degli individui, riconoscendo al potere del sovrano popolare democratico la facoltà di definire liberamente le regole di attraversamento dei propri confini quale condizione di possibilità stessa dell’esistenza della comunità politica in quanto tale, «ossia di un mondo delimitato in cui abbiano luogo delle distribuzioni». Le pratiche di chiusura democratica sarebbero quindi giustificabili al fine di proteggere le culture etno-nazionali in quanto generatrici delle comunità unitarie, da cui si deduce la priorità morale verso i connazionali che hanno contribuito a costruirle nel tempo per mezzo della libertà di associazione, che sta alla base dell’autodeterminazione democratica, e che giustifica a sua volta sicurezza pubblica e stabilità economica preservando gli assetti di welfare da una crisi di sovraccarico. La posizione di Carens e dei sostenitori dei “confini aperti” considera invece la libertà di circolazione alla stregua di un diritto umano fondamentale, ovvero un diritto che non deriva da legami di cittadinanza ma inerente i singoli, a prescindere dalla loro appartenenza a una comunità giuridica. Una coerente applicazione dei principi liberali non riconosce agli Stati che si definiscono tali una libertà discrezionale in materia di immigrazione; la tensione tra autodeterminazione collettiva e diritti umani deve essere scaricata a favore di quest’ultimi dal momento che nella prospettiva individualistica del liberalismo l’analogia tra autodeterminazione personale e collettiva non regge. I diritti morali in capo a collettivi possono essere ricondotti solamente agli individui uti singuli in quanto unici ad averne titolo. Secondo tale prospettiva le attuali restrizioni all’immigrazione sarebbero paragonabili dunque alle barriere feudali del passato e non troverebbero giustificazione poiché equiparabili a criteri di distribuzione inaccettabili come razza e sesso.
A partire da questa sostanziale alternativa il discorso si snoda ripercorrendo le riflessioni
dei molti ricercatori impegnati su questi temi nell’ultimo decennio, permettendo al lettore di farsi un’idea sulla complessità del problema affrontato e sulla sua pervasività in seno al lessico più consolidato della filosofia politica. Per fare qualche esempio, segnaliamo le riflessioni di David Miller e Veit Bader sul rapporto immigrazione, difesa dell’identità e tutela dei diritti umani; di Arash Abizadeh, Christopher Wellman, Phillip Cole e Ryan Pevnick sulla relazione tra libertà di associazione e autodeterminazione politica; di Jef Huysmans e Stephen Macedo sulle conseguenze che il fenomeno immigratorio produce rispetto a welfare e sicurezza; di Onora O’Neill e Michael Blake su immigrazione e libertà di movimento transnazionale; infine di Frederick Whelan, Shelley Wilcox, Thomas Pogge sulla relazione tra libertà di circolazione, lotta alla povertà e promozione della redistribuzione della ricchezza a livello globale.Quello che emerge in conclusione è l’opportunità di una soluzione intermedia, che sappia dare il giusto peso alle legittime pretese di entrambi gli argomenti ma allo stesso tempo sia in grado di indicare una direzione da seguire per una politica attiva, capace di evitare, per quanto possibile, le contraddizioni insite in prese di posizioni troppo rigide. Greblo riserva al terzo breve capitolo questo compito, trovando nella proposta dei confini «porosi» di Seyla Benhabib una possibile soluzione. Secondo la filosofa turco-americana, se nella prospettiva moralmente ideale è inaccettabile negare agli esseri umani il diritto fondamentale di circolazione, dal momento che non esiste alcuna pretesa ultima al diritto di occupazione di un luogo, tuttavia anche la democrazia ha bisogno di confini per funzionare realisticamente. È infatti necessario circoscrivere la rappresentanza quantomeno per sapere quale entità democratica è responsabile e nei confronti di chi. Questi limiti non possono però essere considerati frontiere invalicabili ma soltanto confini «porosi», poiché la struttura stessa dell’ordinamento democratico fonda la propria legittimità e quella delle sue leggi sulla partecipazione diretta di tutti coloro che sono tenuti a prestarvi obbedienza. Il fatto che coloro della cui inclusione o esclusione dal demos si decide non possano a loro volta partecipare al processo decisionale ci impone vincoli di auto-riflessione e mediazione tra obblighi universali e necessità di autodeterminazione che si traducono in un processo di perenne riconfigurazione dei confini.
di Alberto Giustiniano
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Variante 200 – Corso Grosseto #2
Serial / Febbraio 2015Alle nostre spalle non c'è solo quel brusio di cui abbiamo imparato a riconoscere il ritmo; volgendo lo sguardo case, strade e palazzi proliferano coprendo l'orizzonte, ma la bufera del progresso sembra arrestarsi qui: c'è solo la polvere che, sollevatasi, riempie oramai gli strati alti dell'atmosfera colorando il cielo di un grigio cinereo.
E la città, sotto questa coltre, continua.
Ci domandiamo quale sia il motivo per cui il nostro sguardo sia stato magnetizzato esclusivamente dal paesaggio che si staglia nella direzione opposta. Prendendo in mano una mappa cittadina vedremmo i confini del comune di Torino estendersi ancora per diversi chilometri, nessun segno su di essa potrebbe indicare quella che indubitabilmente appare ai nostri occhi come una frontiera. Se le mura che circondavano la città davano a essa un confine tangibile, il loro abbattimento in favore della cinta daziaria ne conservava il carattere di filtro alla circolazione, ora sono le tangenziali e i viali trafficati a segnare le frontiere urbane, è l'articolazione della circolazione stessa che produce separazione. Invero l'estrema periferia, da qui, non è più la città esplosa del secolo scorso, quando le Edge cities della classe media tentavano di costruire una pacificazione impossibile tra urbano e rurale attraverso la costruzione di autostrade e la promessa di una villetta con giardino.
Forse l'immaginario di chi progetta oggi lo spazio della città non ha bisogno di allargarne il diametro effettivo. Niente cantieri né palazzi di recente costruzione che facciano ipotizzare un qualche piano d'interesse. Di conseguenza anche l'attenzione visiva tende a perdersi come se, avvezza all'eterna riproposizione del nuovo, non trovi in questa obsoleta/desueta veduta nessuna boa di senso a cui aggrapparsi.
Eppure quei palazzi li conosciamo, non certo direttamente ma perché cercando la storia di quest'area ci era capitata in mano una testimonianza che parlava proprio della via Scialoja, la strada in cui sorge il casermone rosso che si vede oltre gli orti, alla sinistra della tangenziale.
L'esperienza vissuta che traspariva da quelle righe rievocava ricordi di gioventù degli anni novanta. Ci stupiamo, ricordando le parole di chi ci ha vissuto, di come ciò che a livello di mera analisi spaziale si presenta come una discontinuità del tessuto urbano, quella della tangenziale e di Corso Grosseto, corrisponda fattualmente alla percezione delle divisioni e delle aggregazioni da parte degli individui che abitano questa zona. Ciononostante qualcosa rispetto al racconto sembra essere cambiato. Non di certo nella direzione che potremmo immaginarci stando seduti a leggere i propositi che gli urbanisti hanno proferito dagli anni Ottanta a oggi sulla spinosa questione delle periferie e del loro rammendo. Se potessimo scattare una panoramica a 360°, un'immagine che quindi potesse tenere insieme le due prospettive dal ponte, non scorgeremmo certo nessuna indicazione verso un'integrazione od omogenizzazione degli spazi. Del resto la città contemporanea, in quanto dispositivo strategico di proiezione dei modelli di produzione, non può che basarsi sulla funzionalizzazione, gerarchizzazione e sfruttamento delle aree ritenute idonee allo sviluppo economico, con buona pace della retorica sul nuovo umanesimo dell'architettura.
L'effetto frontiera che vent'anni fa già era sentito dagli abitanti, dunque, non ci sorprende appaia proprio oggi ancora più evidente.
«Il mio quartiere è una via: via Scialoja. Non esiste un senso di appartenenza comune a qualcosa di più grande, a Borgo Vittoria. Ci siamo noi, quelli delle popolari di via Sospello, quelli di via Natale Palli, i ragazzi dell’oratorio San Martino, dell’oratorio di via Chiesa della Salute. E poi ancora più in là ci sono Barriera e la Falchera.
[...]Via Scialoja inizia al capolinea del 52: quando entri nella via vedi le case cooperative: di fronte il palazzo rosso, a destra quello giallo e un po’ più nell’interno quello blu. Più in là ci sono due palazzi popolari e tra i due c’è un quarto palazzo (“le rosse”) che fa parte delle cooperative. C’è sempre stata rivalità tra le popolari e le cooperative. Noi ragazzi delle popolari andavamo la sera a fare manicomio là sotto e i ragazzi di lì si alleavano con noi contro gli adulti delle cooperative»
Gli orti che dalla parte di Parco Sempione sono stati sgomberati per far posto ai progetti di riqualificazione, dal lato di Via Scialoja permangono come un passato che è presente. Pare proprio che i confini dettati dalla tangenziale da nord a sud siano sufficienti a disegnare scenari di città che la rivoltino come un calzino. Anche la toponomastica ci soccorre nell'interpretazione di questa cesura; se da una parte la nuova stazione è stata chiamata Rebaudengo-Fossata, nome che allude in maniera ambivalente a un passato nobile e a un futuro di rilevanza strategica, dall'altra il quartiere di via Scialoja conserva l'inquietante toponimo di “Villaggio E14”, nome che riprende probabilmente quello della sezione catastale sul quale è stato costruito.
Se la speculazione edilizia degli anni Settanta mirava semplicemente a trarre profitto sull'esigenza di case per la riproduzione della forza-lavoro, quella odierna di una città che vuole cambiare faccia necessita, invece, per attrarre popolazione desiderata e investimenti di lungo periodo, di una prestazione anche simbolica e culturale. Sulla scia di queste considerazioni il grattacielo San Paolo e la stazione, seppur lontani tra loro alcuni chilometri, sono vicini; il villaggio E14 nella sua contiguità è distante. Ma altri stralci del racconto ci tornano in mente, permettendoci di non considerare la zona di via Scialoja solamente come un prodotto del passato lasciato all'abbandono.
«[...] è iniziata la costruzione delle “case nuove”. Sono state costruite alle spalle di via Scialoja, al confine con lo sbocco della tangenziale di corso Grosseto. Prima che edificassero queste case via Scialoja era circondata su due lati da orti abusivi e c’era una sola via d’accesso al quartiere, per cui era possibile controllare ogni movimento: se non volevi far entrare qualcuno non entrava. Quelle case invece davano alla via un nuovo sbocco per far entrare i carabinieri. Noi non accettavamo che invadessero il nostro quartiere, il solo fatto che si trovassero lì ci infastidiva. Avevamo un senso di protezione nei confronti del quartiere. Non volevamo altre persone, altra gente che ci desse fastidio, che chiamasse gli sbirri se facevamo casino.
Li vedevamo come gente piena di soldi e questo ci irritava. Noi eravamo delle popolari, gente che stava in affitto, e non sopportavamo che qualcuno si comprasse la casa nel nostro quartiere. Erano loro i principali nemici»L'intuizione di un cambiamento in città non sempre è affine a quella del marketing territoriale.
Lo sanno bene i ragazzi di via Scialoja a cui non è mai stato dato il privilegio di rappresentarsi la città come un terreno di produzione; per loro la ferrovia, il corso non sono tappe per lidi lontani ma sono i confini dell'esclusione. Se da questa condizione cercano di trarre forza è per ricostruire un senso d'appartenenza in un territorio da difendere; di fronte a questa esigenza chi progetta la città non può che fornire strumenti per renderla innocua.
E così, oltre le periferie scelte per divenire terreno fertile per la germogliazione policentrica di nuove forme di vivere metropolitano, ci saranno sempre quelle che rimarranno ambienti strutturalmente residuali. In tutte queste via Scialoja, quando la novità architettonica arriva è per una mera miglioria nel controllo.