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L’impensato. Intervista a N. Katherine Hayles
Longform / Aprile 2022La seguente intervista a N. Katherine Hayles è stata organizzata in occasione della pubblicazione dell'edizione italiana di Unthought The Power of the Cognitive Nonconscious per l'editore Effequ. Studiosa di fama internazionale, direttrice e docente del programma di letteratura presso la Duke University ha fornito un contributo fondamentale al rapporto tra letteratura, scienza e tecnologia. Nel suo ultimo saggio l’autrice pone al centro della riflessione un ripensamento radicale della nozione di cognizione, soprattutto attraverso l’elaborazione dei concetti di cognizione non conscia e assemblaggi cognitivi. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, uscito nel 1999 ma ancora oggi riferimento imprescindibile per chi si occupa di postumanesimo e di posthumanities.
Intervista di Ambra Lulli
Traduzione di Alice Iacobone
Ambra Lulli: Vorrei cominciare facendo un confronto tra il tuo nuovo libro L’impensato e i tuoi lavori meno recenti. In particolare, ho notato che nel L’impensato non viene mai utilizzata la nozione di postumano. Che rapporto c’è tra la riflessione che sviluppi in questo nuovo testo sulla cognizione non conscia e sugli assemblaggi cognitivi e quella sull’interazione tra esseri umani e tecnologia che avevi portato avanti in How We Became Posthuman? Ritieni che le nozioni di postumano e postumanesimo possano essere ancora delle categorie d’analisi critica interessanti o la loro assenza nel tuo nuovo testo indica piuttosto la necessità di un loro superamento?
N. Katherine Hayles: Come sapete, i Posthuman studies sono oggi in una fase molto avanzata e contano dozzine di libri, riviste e raccolte sul tema. Insieme a molti altri autori, considero le categorie di postumanesimo e postumano come d’importanza vitale per l’analisi critica. Al centro del mio interesse per il postumano, iniziato ormai più di vent’anni fa, c’era l’idea che tecnologie computazionali come la realtà virtuale stessero decostruendo il soggetto umanista liberale. Questo processo oggi è in uno stadio ancor più avanzato. Per come lo avevo concepito allora, il postumano non implicava necessariamente un ripensamento delle forme di vita non umane. Gli importanti lavori di Donna Haraway, Cary Wolfe, Timothy Morton e altri hanno reso chiaro che il postumano, come movimento, dovrebbe incidere (e di fatto incide) anche sulle nostre relazioni con altre specie. Se ne L’impensato non menziono il postumano in maniera esplicita è perché il concetto è semplicemente assunto come precursore di nozioni centrali quali l’idea della cognizione nonconscia, dell’emergenza di media computazionali come nostri simbionti contemporanei, dell’importanza degli assemblaggi cognitivi per la vita attuale nelle società sviluppate.
AL: Partiamo dall’inizio del tuo nuovo libro. In particolare, vorrei soffermarmi sul modo in cui inviti a ripensare la cognizione, come sostanzialmente distinta dal pensiero, e in un modo che porta ad estendere questa facoltà a tutte le forme di vita biologiche e a molti sistemi tecnici. In che modo, il ripensamento da te proposto, se da un lato intende avvicinare cognizione umana e tecnica, dall’altro vuole prendere le distanze dal modello cognitivista che interpreta la cognizione come computazione? Inoltre, vorrei soffermarmi sulla nozione di informazione a cui fai riferimento quando proponi questa ridefinizione della cognizione: un “processo che interpreta l’informazione in contesti che la connettono con il significato” (p.45). Mi sembra importante notare che la nozione di informazione a cui fai riferimento si distanzia da quella puramente quantitativa e probabilistica proposta da Shannon e Weaver, per rimanere invece legata a nozioni quali quelle di significato e di interpretazione. Potresti soffermarti anche su questo punto e approfondire la nozione di informazione a cui fai riferimento? Nel testo vengono citati autori come Friedkin e Simondon.
NKH: Fondamentalmente, il paradigma cognitivista affermava che il cervello umano opera come un computer. Io penso invece che questo sia altamente improbabile, considerate le profonde differenze tra media computazionali e cervelli umani dal punto di vista dell’incarnazione [embodiment]. La mia preferenza personale va ai modelli di cognizione incarnata o incorporata, come quelli elaborati da Maturana e Varela in Autopoiesis and Cognition, da Thompson, Varela e Rosch in The Embodied Mind, da Edwin Hutchins in Cognition in the Wild, da Lawrence Barsalou nel suo lavoro sulla “grounded cognition”, per menzionarne solo alcuni. Se certamente sostengo che sia umani che computer abbiano capacità cognitive, d’altra parte però insisto anche sull’importanza della loro diversa incarnazione, che implica maniere differenti di realizzare tali funzioni cognitive. È anche per questo che ho deciso di concentrare la mia ricerca sulla cognizione invece che su, ad esempio, pensiero o intelligenza, nozioni dotate di una lunga storia che le associa esclusivamente all’essere umano. La definizione di cognizione che citate la connette a interpretazione e significato. Sono termini forti nelle discipline umanistiche, e li ho scelti in parte per questa ragione; tuttavia, li uso in una maniera che supera radicalmente le concezioni tradizionali, che storicamente hanno attribuito solo agli esseri umani il diritto di performare l’attività interpretativa e l’attività di significazione. Prendendo le mosse dalla biosemiotica, sostengo che tutti gli esseri biologici, incluse piante e organismi unicellulari, interpretano informazione dai propri ambienti in maniere che sono significative per le loro vite. Come notate, questo uso del termine “informazione” non è lo stesso di quello del concetto promosso da Shannon e Weaver; piuttosto, si avvicina alla “differenza che fa una differenza” di Gregory Bateson e alla nozione di individuazione elaborata da Simondon.
AL: I nuovi materialismi sembrano utilizzare un lessico “deleuziano” (i concetti di forze, affetti, intensità e assemblaggi contingenti) per sottolineare soprattutto il carattere dinamico e profondamente trasformativo della materialità. In questo quadro il soggetto e la cognizione, di cui queste proposte teoriche vorrebbero fare a meno, si configurano come elementi unicamente “conservativi”. Nel quadro teorico da te proposto, e attraverso l’introduzione della nozione di cognizione non-conscia, quale potenziale trasformativo viene affidato invece alla cognizione? Si può sostenere che, attraverso il ripensamento della nozione di cognizione che proponi, è possibile considerare la complessità come il prodotto di azioni/ dinamiche cognitive?
NKH: Dal mio punto di vista, il carattere trasformativo della materialità ha indubbiamente agency, basti pensare a fenomeni che vanno dalla lenta erosione delle rocce fino alle violente eruzioni dei vulcani. Per questo parlo delle forze materiali nei termini di agenti. Ciò che le forze materiali non possono fare, tuttavia, è interpretare l’informazione che viene dai loro ambienti e basare le loro azioni su tali interpretazioni. L’eruzione di un vulcano, le roboanti fratture di una valanga, la violenta formazione di un uragano si possono comprendere come la somma totale delle forze rilevanti che agiscono in quel momento. Queste forze non possono decidere di seguire un percorso differente – di aspettare che gli sciatori abbiano abbandonato le piste, ad esempio, o di investire un campo deserto invece che una città affollata. Manca loro la capacità di selezione e scelta, funzioni che tutte le forme di vita hanno, persino le più umili. In breve, le forze materiali sono agenti ma non attori, precisamente perché mancano di capacità cognitive. Gli organismi certamente hanno una propensione per l’aspetto “conservativo” nella misura in cui mirano a perpetuare la propria esistenza. Tutto lo studio dell’omeostasi è un tributo a questa idea, un’indagine dei modi in cui i corpi viventi si stabilizzano in ambienti in mutamento. Senza dubbio è per questo che Deleuze e Guattari dichiararono che i loro scritti erano contro l’organismo, il segno, il soggetto. Allo stesso tempo, però, gli organismi possono essere infinitamente creativi, come la storia dell’evoluzione ci mostra. Le rocce possono essere compresse o frantumate, traslate o fratturate, ma non possono essere altro che rocce. Gli esseri viventi, al contrario, costantemente divengono altro da ciò che sono, creando nuove cellule mentre quelle vecchie muoiono, producendo nuovi anticorpi per combattere le malattie, inventando nuovi comportamenti al mutare delle condizioni. Più un organismo è dotato di capacità cognitive, più sarà capace di invenzioni radicali. Gli esseri umani sono ovviamente il massimo emblema di questa affermazione, ma anche altre specie esibiscono notevoli capacità di trasformare sé stesse e i propri ambienti, basti pensare ai casi in cui un albero sviluppa una tossina specifica contro un parassita mai incontrato prima. Quando molteplici attori interagiscono gli uni con gli altri nel proprio ambiente, invariabilmente si ottengono delle dinamiche complesse. Questi attori non sono necessariamente dotati di coscienza, possono anche fare uso di cognizione nonconscia. Inoltre, anche per gli esseri umani, la cognizione nonconscia svolge funzioni cruciali affinché la coscienza possa operare. Dal mio punto di vista, la cognizione nonconscia rende conto della maggior parte della cognizione umana, incluse quelle funzioni spesso date per scontate come mantenere una rappresentazione corporea coerente, adattare postura e respiro alle condizioni presenti, rispondere a segni e segnali sotto la soglia della coscienza, coordinare stati emotivi e attenzione.
AL: Quali sono le implicazioni del decidere di utilizzare la nozione di “assemblaggio cognitivo” piuttosto che di rete? Mi sembra che parlare di assemblaggio ci consenta di evitare la reificazione delle interconnessioni tra agenti, considerando gli assemblaggi sempre appunto come “provvisori”, ma al tempo stesso la differenza sta nel tipo di “materialità” coinvolta. Gli assemblaggi, a differenza delle reti, sembrano fare riferimento a una materialità “carnale”, tridimensionale, che oppone resistenza e che ha a che fare con il “toccare, il respingere e il mutare” (p. 209). Potresti approfondire questo punto?
NKH: Come suggerite, un assemblaggio è più flessibile e transitorio di una rete, il che lo rende una scelta migliore dal mio punto di vista. Gli assemblaggi cognitivi sono collettività che includono umani, non umani e media computazionali, che interagiscono tutti grazie alle loro capacità cognitive. Un esempio potrebbe essere quello di quando parli al cellulare, ad esempio al tuo cane quando sei via da casa: qui si uniscono la tua cognizione, le capacità computazionali del telefono e ovviamente il tuo cane, quando inclina la testa in quel suo modo grazioso. Quando chiudi la chiamata e vai al computer, entri in un altro assemblaggio che coinvolge la macchina, le connessioni di rete, un server remoto e così via. Entrando in automobile sei in un altro assemblaggio ancora, che comprende le capacità computazionali dell’auto, i sensori della strada, i tempi dei semafori, eccetera. Come Giano, gli assemblaggi cognitivi hanno due facce. Una faccia è rivolta verso il flusso dell’informazione, l’altra verso la materialità degli enti dell’assemblaggio, ovvero le loro qualità “carnali” (per ciò che riguarda gli enti biologici) e le loro istanziazioni in metallo e silicone (nel caso dei media computazionali). L’incarnazione determina il modo in cui si dà il flusso d’informazione, per questo non possiamo comprendere l’aspetto astratto senza prendere in considerazione il lato materico.
AL: Con la nozione di assemblaggi cognitivi, sembri soprattutto voler sottolineare la situazione di densa embricazione e simbiosi, di interazione e comunicazione ormai pervasive tra cognizione umana e sistemi tecnici. La cognizione tecnica sembra avere un ruolo cruciale nelle nostre forme di vita (si pensi, ad esempio, alle cognizioni tecniche a cui è interamente affidata la gestione del traffico in una città come Los Angeles) e conseguenze enormi sulle società e le culture umane. La prospettiva sembra quindi essere quella di una coevoluzione, di una relazione simbiotica in cui per ognuno dei simbionti coinvolti risulta impossibile pensare di prosperare senza l’altro. A quali differenti visioni politiche ed etiche portano una concezione, come la tua, che sottolinea la stretta interdipendenza tra cognizioni umane e tecniche, rispetto a una concezione che considera plausibile per il soggetto umano la possibilità di “svincolarsi” dalla fitta rete di cognizioni tecniche che costituiscono la sua ecologia cognitiva? La pervasività della cognizione tecnica e la sempre maggiore autonomia dei media computazionali si associa a forme di controllo sempre più efficaci, con i problemi e i costi che queste implicano. Di fronte a questa prospettiva, non si dovrebbe forse poter pensare alla possibilità di “interrompere” o “disturbare” il flusso continuo di informazioni e di comunicazione? Non si dovrebbe, cioè, pensare il rapporto tra esseri umani e sistemi tecnici anche in termini di conflitto oltre che di simbiosi?
NKH: Tecnicamente, la definizione biologica di simbiosi comprende anche il parassitismo e altre forme di associazione distruttiva. I sistemi tecnici possono indubbiamente essere causa sia di conflitto che di simbiosi. Pensiamo all’operaio lasciato a casa perché un robot industriale ha preso il suo posto in fabbrica, o all’accusato che viene incarcerato ingiustamente invece di essere messo in libertà vigilata perché un algoritmo responsabile delle condanne reputa probabile che sarebbe un recidivo. Dal mio punto di vista, ci sono molti casi in cui dovrebbero essere gli umani, e non gli algoritmi, a prendere le decisioni. Ma dobbiamo anche tenere a mente che pure gli umani sono lungi dall’essere infallibili e sono portatori di pregiudizi espliciti ed impliciti. Per me, la maggiore differenza tra decisioni algoritmiche e giudizio umano rimane quella evidenziata da Hubert Dreyfus quasi cinquant’anni fa: gli esseri umani hanno una più ampia e comprensiva visione del mondo. In realtà, si potrebbe dire con Dreyfus che noi abbiamo un mondo, mentre gli algoritmi hanno solo dati immessi al loro interno. Nei dibattiti contemporanei c’è un gran numero di voci che esortano all’interruzione e all’alterazione, a volte mostrando una scarsa comprensione di cosa i computer realmente fanno. Sono d’accordo sul fatto che questa sia spesso una tattica necessaria, ma penso anche che sia ugualmente importante mettere in atto tattiche e strategie di decostruzione dell’antropocentrismo, compresa la convinzione che gli umani siano superiori ed abbiano il diritto di dominare su tutto il resto, anche sulle altre specie e sulle intelligenze artificiali. Data l’urgenza della crisi ambientale attuale, ci occorrono diversi modi di concepire il mondo e la nostra relazione con esso. Abbandonare l’antropocentrismo è un modo per conseguire questo obiettivo. Lo sostituirei con ciò che chiamo “reciprocità ecologica”, evidenziando le relazioni tra gli esseri umani, i viventi non umani e i media computazionali.
AL: Parlando degli algoritmi di trading automatizzato, metti in luce come l’operare della cognizione tecnica in questo caso avvenga sfruttando temporalità inaccessibili alla cognizione cosciente, e come ciò costituisca un’ “ecologia cognitiva algoritmica di sole macchine”. I modi in cui gli umani possono interagire con queste ecologie di sole macchine, in modo da correggerle secondo criteri etici (penso, ad esempio, all’andamento dei mercati finanziari) hanno più a che fare con l’intervento in quelli che definisci “punti di flesso”, piuttosto che con la regolamentazione. Si tratta di un’opzione di controllo “debole” su processi che rimangono fondamentalmente ingovernabili, contrapposta all’idea di un controllo “forte”? In che modo tutto ciò ci porta a un necessario ripensamento del paradigma cibernetico, che vedeva nei cicli di feedback la chiave per il controllo e l’autocontrollo delle tecnologie cognitive? Sembra che i cicli di feedback di cui parlava la cibernetica abbiano assunto le sembianze di cicli ricorsivi in grado di generare grande complessità e impredicibilità, trasformando gli ambienti in cui queste tecnologie cognitive operano in ambienti fortemente instabili, potenzialmente soggetti a rapide rotture e crisi improvvise.
NKH: Non sono contraria alla regolamentazione, ma tutto dipende dal tipo di regolamentazione proposta e da quali conseguenze, desiderate e indesiderate, essa potrebbe avere. Nel capitolo sugli algoritmi di trading discuto alcune proposte di riforma del processo di trading automatizzato che operano non attraverso la regolamentazione governativa, che si è dimostrata inefficace o addirittura controproducente, ma attraverso il cambiamento delle condizioni in cui si effettuano le transazioni, ad esempio rallentandole intenzionalmente. Immagino che questo si possa chiamare “controllo debole”, ma non sono sicura di come potrebbe configurarsi un “controllo forte” – forse nel modo in cui la Cina gestisce i propri mercati azionari? Come sapete, i cicli di retroazione [feedback loop] del paradigma cibernetico possono essere sia negativi, tendendo ad attenuare e bilanciare le oscillazioni nel sistema, o positivi, accentuando le fluttuazioni fino al punto di rottura. Nei sistemi biologici, si danno entrambi i tipi di feedback loop. Probabilmente un qualche tipo di equilibrio tra i due è necessario per qualsiasi sistema complesso, sia esso biologico o tecnico. La troppa stasi e creatività è repressa; un’eccessiva fluttuazione e l’intero sistema potrebbe collassare. Il trucco è trovare la giusta combinazione che possa portare a trasformazioni positive.
AL: La contingenza e l’imprevedibilità sembrano avere, nel tuo libro, anche un potenziale liberatorio: ciò emerge soprattutto nei capitoli 7 e 8, quando esplori il potenziale utopico degli assemblaggi cognitivi. Come “inconoscibile”, la contingenza al cuore degli assemblaggi cognitivi è al centro della tua interessante analisi del romanzo L’intuizionista di Colson Whitehead. Scegliendo come chiavi di lettura per interpretare il romanzo il problema dell’arresto di Turing e i problemi di incompletezza di Godel, l’ “inconoscibile” e il “non computabile” sembrano investiti della speranza in un futuro più giusto. Potresti soffermarti su questo punto e spiegarci meglio in che modo intendi questo potenziale utopico e liberatorio degli assemblaggi cognitivi?
NKH: Il mondo reale è costellato di contingenze e eventi imprevedibili, che possono essere sia liberatori che devastanti – un vento può permettere al navigante di entrare in porto o può essere così violento da strappare via le case. Nei mondi artificiali dei media computazionali la contingenza e l’imprevedibilità devono invece essere integrate, con un’importante eccezione. Come M. Beatrice Fazi evidenzia, l’impossibilità dimostrata da Turing di trovare una soluzione generale al problema dell’arresto – ovvero, il fatto che non si possa prevedere in anticipo se un determinato algoritmo si fermerà o se verrà eseguito per sempre – apre uno spazio per la contingenza persino entro le operazioni apparentemente deterministiche di un computer. Fazi mette questa contingenza computazionale in relazione con il virtuale di Deleuze e le occasioni reali di Whitehead. Persino le reti neurali non sfuggono al problema dell’arresto, perché ancora lavorano attraverso astrazioni computazionali che cercano di sistematizzare gli aspetti della realtà. È stato mostrato che il teorema di Gödel e il problema dell’arresto sono interconvertibili (cioè, partendo da uno qualunque dei due, l’altro può essere inferito da esso). Lo stesso Gödel ha sottolineato che le limitazioni articolate nei due teoremi si riferiscono solo ai sistemi formali (ad esempio, ai sistemi aritmetici) e non al pensiero umano in sé, che secondo lui potrebbe spaziare liberamente in regioni in cui la computazione non arriva (per come la mette Turing, i numeri incommensurabili). È interessante notare come nel suo articolo del 1936 sul problema dell’arresto, Turing abbia provato che l’insieme dei numeri computabili ha la stessa dimensione dell’insieme dei numeri naturali o contabili. Entrambi sono molto più piccoli dell’insieme dei numeri reali, che è più ampio di vari ordini di grandezza. Da questo punto di vista, il campo del computabile è molto più piccolo del campo del pensabile (per gli umani). Gli esseri umani possono inventare i computer, ma i computer non possono inventare gli esseri umani.
AL: Sembra che il potenziale utopico del non-conscio cognitivo abbia il significato, per te, anche di una “speranza” che riguarda il futuro degli studi umanistici. In particolare, sembri auspicare la possibilità per gli studi umanistici, grazie all’introduzione del non-conscio cognitivo, di uscire dall’isolamento che li caratterizza, e di poter invece cominciare ad apportare decisivi contributi a discipline scientifiche quali ad esempio l’informatica, l’ingegneria elettrica, l’architettura o perfino l’economia. Quali sono esattamente, secondo te, le poste in gioco etiche e politiche di questa ibridazione disciplinare e di questa riarticolazione dei rapporti tra saperi all’insegna della profonda interazione e necessaria interdipendenza? Ciò richiederebbe agli studi umanistici una conversione dei propri paradigmi talmente profonda da poter essere considerata una vera e propria “rottura epistemica”, come tu stessa sostieni. C’è anche qualcosa che potrebbe andare perso per gli studi umanistici, in termini di capacità di incidere sul nostro presente e futuro, all’interno di questa nuova ecologia disciplinare?
NKH: Le scienze si interrogano sempre sul “cosa?” e spesso sul “come?”, ma solo molto raramente si domandano “perché?” o “che cosa significa questo?”. Tradizionalmente queste domande sono appannaggio degli studi umanistici, con lunghe e ricche tradizioni in filosofia, scienze delle religioni, letteratura, etica, e altre discipline. Con l’espansione costante della tecnosfera, le domande legate al “perché?” e al “dovremmo?” (distinte da quelle come “saremmo in grado?”) stanno diventando sempre più urgenti. Gli studiosi di discipline umanistiche hanno la competenza e la conoscenza necessarie per produrre importanti contributi su questi temi. Alcune aree degli studi umanistici che sono in rapida espansione, come gli Animal studies e le Environmental Humanities, hanno già offerto contributi importanti per l’avanzamento in ambito tecnico e scientifico, spaziando dalla gestione degli animali di laboratorio a una più profonda comprensione dell’importanza delle relazioni ecologiche in generale. Tuttavia, gli umanisti devono anche comprendere che intervenire in ambito tecnico e scientifico realizzando interazioni efficaci ha il suo prezzo. Come gli attivisti contro l’AIDS hanno presto capito, interventi riusciti con protocolli tecnici e scientifici richiedono di apprendere le basi del campo d’interesse. La comunicazione richiede un lessico comune, o almeno una zona d’intersezione linguistica. Sono convinta che l’interazione coi saperi tecnici e scientifici contribuirebbe anche a creare un atteggiamento di scetticismo da parte delle discipline umanistiche nei confronti dei loro stessi eccessi, il che dal mio punto di vista avrebbe effetti benefici. In questa prospettiva ci sono dunque vantaggi per le scienze e le tecnologie nel relazionarsi con le discipline umanistiche e vantaggi per le discipline umanistiche nel confrontarsi con le scienze e le tecnologie. Perché non dovremmo volerlo?
Intervista di Ambra Lulli
Traduzione di Alice Iacobone
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GAME OVER. Occhiali a specchio, cibernetica e informazione
Longform / Settembre 2021.
Dietro le lenti
La narrativa cosiddetta cyberpunk nasce all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Si presenta da subito come una cesura abbastanza netta tra due epoche diverse della letteratura fantascientifica; una frattura quasi irrimediabile tra un “prima” e un “dopo” destinata non soltanto a lasciare ampia traccia di sé ma anche a contrassegnare una soglia osmotica tra una concezione della realtà – o meglio, della scrittura di quella realtà – e la sua rappresentazione, dischiusa su scenari molto suggestivi. Il cyberpunk – definito spesso in modi diversi nel corso di quegli anni: Radical Hard SF, Outlaw Technologists, Neuromantics – è premonizione di impensabili orizzonti dell’essere, di evoluzioni della società e della tecnologia che nemmeno il più ardito degli scrittori avrebbe mai osato immaginare.
Si possono individuare tre differenti date costitutive del Movimento cyberpunk: nel 1982 viene organizzata una storica tavola rotonda alla convention sulla fantascienza “ArmadilloCon” che si tiene a Austin nel Texas [1]; nel 1984 William Gibson [2] pubblica Neuromante (1986) e due anni più tardi esce l’antologia Mirroshades (1986), a cura di Bruce Sterling [3], un altro importante capofila dei ragazzi dagli “occhiali a specchio”.
Gli occhiali da sole a specchio sono stati un totem del movimento fin dai primi giorni del 1982. Le ragioni di ciò non sono difficili da capire. Attraverso il nascondere gli occhi, le lenti a specchio ostacolano le forze della normalità a comprendere che uno è impazzito e possibilmente pericoloso. Essi sono il simbolo del visionario che fissa lo sguardo al sole, il biker, il rocker, il poliziotto, e fuorilegge simili. Le lenti a specchio – preferibilmente in cromo e nero opaco, i colori del totem del movimento – apparvero in ogni novella, quasi fossero una specie di distintivo letterario. (Sterling 1990, 37)
Il cyberpunk è un prodotto schietto dell’ambiente culturale nord-americano di quel periodo e probabilmente ne è una penetrante rappresentazione. Le sue radici affondano nella tradizione della fantascienza popolare degli anni Sessanta. Ellison, Delany, Spinrad, Aldiss, Ballard, Anderson, Heinlein, senza dimenticare i “giochi di realtà” di Dick: sono questi i precursori e gli ispiratori dei nuovi romanzieri che si stanno misurando con una incipiente fine secolo superiore a tutte le aspettative, inverando senza dubbio molte delle anticipazioni che il Movimento delle lenti scure ha fatto proprie, intuendole nella filigrana della storia. Si è spesso detto dell’analogia tra punk e cyberpunk, entrambi processi di superamento e liberazione che non tagliano i ponti col passato, anzi ne assorbono gli insegnamenti e li manipolano mantenendo con esso accostamenti sonori e sintattici, riletti in chiave esplosiva e spiazzante. Insomma, come il punk scioglie il rock and roll dalle briglie sinfoniche del progressive rock, così il cyberpunk affranca la fantascienza da influenze decennali pur se i suoi rappresentanti sono cresciuti nella tradizione letteraria della Science Fiction. Il corpus narrativo classico sembra essere saturo e la realtà quotidiana sopravanza ogni fantasia possibile. Qualcosa, dunque, si libera in quel decennio e nonostante l’etichetta cyberpunk non sia stata mai scelta da nessuno dei componenti di quella geniale brigata, il termine entra in uso perché sintetizza un intero clima culturale, fatto di high-tech e di pop underground nei quali si mescolano video-rock, hacker clandestini, «tecnologia di strada dell’hip-hop e della musica scratch» (Sterling 1990, 38).
E proprio di quel milieu così particolare, fatto di visioni apocalittiche, esistenze ai margini, ibridazioni tecnologiche e oscure periferie urbane nella quali si muovono esseri umani “ai margini”, ci occuperemo nelle prossime pagine, rovistando tra “regimi discorsivi” e idiosincrasie al silicio per disegnare una cartografia, certamente imperfetta, del dispositivo culturale che la scrittura cyberpunk generò, prima di spegnersi alle soglie degli anni Novanta del Novecento, riecheggiando i motivi di una eterna rivolta contro un ordine sociale incrinato dal confondersi della macchina con la carne, mentre l’”analogico” veniva espropriato dal tumultuoso affacciarsi del “digitale”.
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Di cibernetiche e altri movimenti
Il prefisso cyber proviene dalla parola “cibernetica”, in lingua inglese cybernetics. La cibernetica governa quella parte della sperimentazione scientifica che studia le analogie funzionali tra i meccanismi biologici di controllo e regolazione degli esseri viventi e i meccanismi artificiali delle macchine. Cybernetics è lemma coniato dal matematico americano Norbert Wiener (1948). Wiener riprendeva il concetto espresso in greco antico dalla parola “kubernetes” [κυβερνήτης], pilota di navi, anche se gli attribuiva un significato diverso dopo qualche secolo di evoluzione etimologica, assecondando parzialmente la sua distorsione. Tuttavia, nella cultura greca di allora non si trattava soltanto di saper usare il timone, piuttosto di conoscere ogni singolo componente dell’imbarcazione e il criterio con cui era stato realizzato. In aggiunta, essere un buon pilota significava anche, o forse soprattutto, sapersi orientare, e per farlo bene era necessario possedere solide conoscenze di astronomia, geografia, cartografia ed essere capaci di “annusare il mare” attenti alle variazioni meteorologiche. Con l’arrivo della civiltà latina il pilota divenne gubernator, un individuo più adatto al comando che alla conduzione, secondo il prevalente principio del controllo centrale da esercitare su un vasto territorio quale sarebbe stato l’Impero. Il gubernator svolgeva il suo compito essenzialmente sottomettendo. Wiener, quindi, in maniera più o meno inconsapevole utilizzava il termine filtrandolo attraverso l’accezione romana. La cultura cyberpunk, al contrario, recupera l’etimo greco configurando una “possibilità sociale”, chiamiamola così, affatto diversa.
Almeno sino alla fine degli anni Venti del XX secolo era stato l’orecchio a farla da padrone. Le tecnologie sviluppate fino a quel momento, il telegrafo e il telefono, avevano fatto dell’ascolto il canale privilegiato per la comunicazione. Ascolto, e vocalizzazione quando il telegrafo divenne “parlante” e si scoprì che si poteva trasferire anche la voce oltre ai segnali ticchettanti dei vari codici di trasmissione tra cui primeggiava il Morse (Coglitore 2016). Con l’arrivo negli Stati Uniti della prima, embrionale televisione, intorno al 1927, sarebbe stato l’occhio ad assumere valenza primaria con tutto ciò che ne sarebbe conseguito.
La società occidentale avrebbe dovuto attendere ancora una quarantina d’anni prima che il Personal Computer (PC), televisore interattivo stupefacente all’epoca, facesse capolino nelle case e negli uffici, dopo che Internet si era affacciata alle soglie di quella modernità a lungo covata nei laboratori militari e universitari americani. L’introduzione del PC, a partire dagli anni Settanta, provocò una serie di sensibili cambiamenti, inequivocabili con la sua diffusione di massa dal principio degli anni Novanta. Il PC è un media elettrico, ovviamente. Rispetto ai suoi ascendenti altrettanto famosi, il computer innalza in generale l’indice di produttività e consente a ciascun individuo, lo vediamo benissimo ai nostri giorni, notevoli capacità di elaborazione, di condivisione e di ampliamento della conoscenza che fino a poco tempo prima erano appannaggio di grandi gruppi industriali o di agenzie governative. Scale gerarchiche e distanze sociali si riducono notevolmente e le competenze individuali percorrono la Rete in modo trasversale scavalcando barriere che sembravano invalicabili.
L’attrezzatura informatica consente libero scambio di informazioni e una sostanziale semplicità di utilizzo del medium, che implementa nuove aggregazioni sociali, aziendali e persino politiche. Lo spazio, infine, subisce una rinnovata “conquista” perché le distanze, come era accaduto per telegrafia e telefonia, perdono di significato. L’universo digitale cancella i confini e l’idea stessa di confine. I nostri sensi e le nostre azioni possono estendersi per migliaia di chilometri, ben oltre il nostro corpo come strumento naturale di acquisizione percettiva del mondo circostante; la tecnologia si sostituisce ad esso nella sua condizione di misura della realtà che rimodula proprio attraverso l’approntamento digitale della geografia umana e fisica. Il territorio non è più essenza e presenza delle cose ma sua immagine virtuale, ancorché saldamente radicata poiché lo riproduce nei dettagli; lo ombreggia in una assenza che il medium rende irrilevante, alterando il senso dello spazio materiale e sociale.
Interagire attraverso il computer, senza dimenticarci dello smart-phone, ci isola dall’ambiente circostante e ci lascia sperimentare inedite emozioni. Il “cyberspazio”, luogo della virtualità assoluta, è campo d’azione e non più semplicemente una simulazione dalle qualità sorprendenti: piuttosto, suggerimento per una socializzazione differente, originata nella e dalla relazione di reciprocità che la tecnologia suscita. L’abbandono della tradizionale tridimensionalità degli oggetti fisici, corpi compresi, comporta la sostituzione di una obsoleta “spazialità” con simbologie all’inizio meno rassicuranti ma d’appresso evocatrici di una dimensione della mente che introduce a rappresentazioni sceniche degne di un’allucinazione crudele e curiosa, radicalmente “altro” da tutto ciò che finora avevamo sperimentato. Di più, la morfologia del “cyberspazio” cancella una volta per tutte l’oggettività dell’interpretazione. Si presenta, cioè, come artefatto che sfugge alle regole consuetudinarie, si sottrae a qualsiasi classificazione, muta continuamente nella sua complessità diversificante.
La “cybercultura” (termine con il quale ci riferiremo, in forma contratta, alla cultura cyberpunk) consiste, quindi, quando la indaghiamo dal punto di vista della ricaduta nel sociale, nell’interiorizzazione di queste nuove “estensioni”, comprendendone il potenziale interattivo nella consapevolezza che non potremo che riadattare i sensi a questa modificata condizione. Nuovi fenomeni conoscitivi germogliano attorno a noi e ci riaggregano in un diverso “stato”, lasciandoci galleggiare negli oceani del digitale.
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Informazione/informazioni
La cultura cyberpunk, a questo punto, si definisce in quanto “agente” che si appropria dell’informazione, la trasforma, e per mezzo del suo rimaneggiamento interviene nel mondo cui ci siamo abituati sin dalla tenera età indicando seducenti alternative. La notazione punk, che fa da spalla quasi alla congerie cibernetica in questo gioco delle parti che continuamente si rimescolano, conferisce quella robusta aura di “non regolare” che rompe gli schemi tradizionali rigenerandoli in altro. E cos’era stato il Punk se non divorzio dalla musica “colta”, abbandono dello spartito del “rock progressivo”, involuzione estetica contro ogni dogma della buona società borghese che aveva persino tentato, in piccola parte, una pallida ribellione nei dintorni degli anni Sessanta del Novecento? Cos’era stato se non rivendicazione di una unicità individuale nella produzione artistica? Ben al di là della classica concezione di computer e di Rete in qualità di “arnesi” che facilitano l’attività lavorativa oppure di sistemi di controllo di fiacche volontà, la tecnologia vista nell’ottica cyberpunk diventa snodo del ricondizionamento della realtà. Gli hackers e i più abili esperti di Informatica altro non sono che esploratori di sconosciute lande digitali, apparati di comunicazione e insieme di tecniche d’uso oggetto di una sacralizzazione laica.
La “cybercultura”, in sostanza, non è che il venire in evidenza dell’evoluzione della tecnologia. È già successo altre volte nel dipanarsi discontinuo della storia occidentale degli ultimi duecento anni. La letteratura cyberpunk imprime una particolare connotazione all’idea di cibernetica, approntando nuove grammatiche per la fantascienza, e immagina una società non troppo distante nel futuro zeppa di bizzarri personaggi, a dire il vero molto punk, che lascia agire in canovacci narrativi degni di un viaggio lisergico alla Timothy Leary “prima maniera”. Questa celebrazione dello straordinario e del cupamente introspettivo, in una dolenza che pulsa costante come un battito di cuore artificiale, è un racconto del presente, l’interpretazione verosimile di cose che stanno accadendo o che stanno per accadere. Si tratta di un coacervo di stilemi linguistici e cognitivi che quasi per forza si imbeve di politica, utilizzando il termine in accezione ampia. Perché è davvero la pòlis ad essere oggetto di un’anatomia dissacrante, un frugare arroventato tra le innervature della società occidentale per richiamare l’attenzione su scenari del probabile: lo strapotere delle multinazionali, l’assenza praticamente totale delle istituzioni, l’ossessione per la tecnologia, i linguaggi volutamente oscuri, le “sculture sociali” decisamente pop. Tant’è che una caratteristica di questa letteratura d’arrembaggio è lo studio approfondito dei cambiamenti socio-tecnologici, delle loro cause e degli effetti che producono sugli umani o su ciò che di loro resta. Sui loro corpi “trasformati”.
I corpi. La cultura cyberpunk ne propone l’apologia. Elemento-chiave di questo appuntamento microfisico con la fantascienza è il cyborg. Vediamolo da vicino. Quanto di meccanico deve esserci perché si possa parlare di organismo cyborg invece che di essere umano? (Tagliasco 1999; Caronia 2008, 41-55). Tentiamo una “tassonomia”, e concentriamoci sulle corrispondenti tecnologie di sostituzione che possono essere: “re-integrative”, con il ripristino di funzionalità perdute o di sostituzioni di organi e arti; “normalizzanti”, che riportano ad uno stato originario, riparando anomalie organiche; “riconfiguranti” che danno origine a creature post-umane una volta concluso l’intervento di ricostruzione; e infine, “potenziatrici”, che a scopo militare o industriale generano esseri talmente forti da risultare invincibili.
Al rimodularsi della percezione della realtà con il rafforzamento delle capacità sensoriali, il “cyberorganico” ci proietta in un mondo alieno, diverso sotto ogni rispetto. Il cambiamento si radicalizza ancor più quando il mezzo diventa una nostra estensione, e parti del corpo ci inducono a “sentire” diversamente, a toccare diversamente, a ricevere stimolazioni che mai avremmo immaginato. Il corpo non è più “luogo” di relazioni sociali e mentali; è, semplicemente, “struttura” da modificare e collaudare. Le conseguenze non saranno banali: ciò che siamo individualmente si muoverà su una scala post-evolutiva con esiti scioccanti e inaspettati, segnando sentieri che portano all’inconoscibile. Per il momento in questa attuale, prosaica contemporaneità, ci accontenteremo di rimedi a “bassa intensità”: una correzione della curvatura della cornea per migliorare la vista, un bypass per cuori “ballerini” o un trapianto d’organi che ci permette di sopravvivere.
In verità, la constatazione che attualmente il cyborg è ancora di là da venire, non ci esime da un’altra riflessione, e cioè che potremmo almeno considerarci dei borgs. In una delle tante serie televisive sui viaggi di una celebre astronave, Star Trek-Next Generation, i borgs si spostano negli spazi interstellari in vascelli a forma di cubo e quando entrano in contatto con una specie sconosciuta tendono ad assimilarne componenti e conoscenze facendone dei droni, simulacri di cyborgs connessi al resto della collettività in una indissolubile unione. Ogni singolo individuo pensa a se stesso al plurale, l’Io si è fatto Noi imprescindibile per la stessa sopravvivenza della comunità. E non è questo che siamo diventati negli ultimi decenni utilizzando i media come facilitatori di un pensiero collettivo che si diffonde inarrestabile nella Rete? Molteplicità e unicità convergono assieme attraverso i mezzi di comunicazione con i quali contribuiamo giorno per giorno all’evoluzione di un general intellect che ci trascina fuori dal corpo dopo aver maturato le prime esperienze di spostamento cognitivo suggerite da radio e televisione, embrionali surfs per cavalcare le onde dell’informazione.
È pleonastico rammentare cosa rappresenta Internet oggigiorno con motori di ricerca che danno accesso a miliardi di dati sull’intero scibile umano. Così, ci siamo abituati a percepire il Web come luogo dell’intelligenza filogenetica dove si può sperimentare qualsiasi tipo di conoscenza e dove ciascun processo discende dall’attività comune di milioni di menti collegate in un densissimo tramaglio di modalità esistenziali.
I soggetti performanti non sono più definibili con esattezza. Le famose “agenzie di socializzazione” (Parsons 1956) sono scomparse; le organizzazioni istituzionali hanno perso centralità e valore, non sono più “camere di compensazione” delle istanze che interessano la cittadinanza virtuale, giacché essa è ormai governata dalla Rete. Software e hardware costituiscono il milieu “informativo” che plasma questo spazio sociale. La “cibercomunità”, l’occasione è propizia per sfatare uno dei miti di Internet, non è affatto una piazza: l’interazione cui siamo indotti in chat, o tramite un computer, facilita conversazioni che dipendono dall’uso simultaneo di unità al silicio custodite in bunker sotterranei a basse temperature. Il combinato-disposto di programmi e macchine assicura l’incontro in un luogo de-materializzato che esiste in tanto in quanto qualcuno lo occupa. La cultura, in questo reticolo digitale, è sostrato comune per chi frequenta quell’arena virtuale e ognuno porta con sé soltanto ciò che ritiene più opportuno della propria identità, potendola modificare a piacimento o addirittura falsare: il mio avatar sarà altro da me, se lo desidero. L’individuo “cybervirtuale” è di per sé assolutamente anti-istituzionale, e non perché si oppone all’istituzione, ma perché essa non esiste. A guardar bene, c’è una netta prevalenza dell’identità sul ruolo e l’identità si manifesta in un paesaggio astratto; il “cyberspazio” appartiene alla dimensione del vedere, non dimentichiamolo, che non è pura e semplice utopia.
Abbandonato il Sé fisico, perlomeno nel senso in cui noi concepiamo la materialità, il “cyber-Sé” si afferma come costruzione di una coscienza individuale consumata all’interno della rappresentazione virtuale ed è un prodotto schietto del cosmo macchinico inaugurato dalla tecnologia del computer. Il discorso della scienza è linguaggio computazionale che irrora la nostra vita di alimento nuovo propagandolo da una molteplicità di sorgenti negli sconfinati orizzonti dell’“altrove” digitale. Vengono sostituiti i fondali del palcoscenico; l’immanenza della tecnologia ce li rinnova come segno di una evidenza, del corpo e della mente, cui dobbiamo adattarci. Luoghi-non luoghi rimescolano il presente e spalancano una porta sull’infinito.
Cronache da Altroquando [4]
Nei mille universi dell’Elsewherre di Heinlein (conosciuto anche come Elsewhen), i cinque studenti protagonisti della storia si spostano a piacimento nel tempo grazie un trattamento ipnotico. Altroquando è una migrazione nel plausibile che si rifà ad alcune teorie in voga all’epoca anche nella Fisica sperimentale, una diffrazione che la mente può causare se adeguatamente stimolata. L’“altrove” che Gibson e sodali hanno immaginato, invece, pensando più alla lettura di un presente in atto che ad una anticipazione del futuro, è uno spazio-limite debitore alla nozione foucaultiana di eterotopia. Un “altro” rispetto all’organizzazione e alla regolazione di differenze tra gli spazi; ovverossia un “altro” rispetto a tutti gli altri spazi.
Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio. […] Ora, fra tutti questi luoghi che si distinguono gli uni dagli altri, ce ne sono alcuni che sono in qualche modo assolutamente differenti. Si tratta in qualche modo di contro-spazi. I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. […]
La società adulta ha organizzato anch’essa, e ben prima dei bambini, i suoi contro-spazi, le sue utopie situate, i suoi luoghi reali fuori da tutti i luoghi. […] (Foucault 2006, 11-13) [5]
1966: alla radio Michel Foucault introduce il termine “eterotopia”. Tra i cinque principi che Foucault individua come elementi essenziali e costituenti di una eterotopia, il primo, e più importante probabilmente, ci avverte che non esiste società che non promuova la sua. L’“altrove” non è soltanto la geografia della conquista europea, dispiegata nel corso di alcuni secoli, che passa sotto il nome di colonialismo – territori e popolazioni da costringere alle volontà distruttive degli Imperi del Vecchio Continente –, ma anche la necessità impellente di collocarsi da un’altra parte, nei posti appartati del desiderio e del sogno. È evidente che Foucault sta pensando a dislocazioni materiali per quanto eterotopiche: il teatro, il giardino, le case di cura, le prigioni; non avrebbe potuto, per la sua stessa formazione e per il contesto socio-culturale nel quale visse, concepire uno spazio digitale e interrogarsi su di esso. Certamente, però, egli enuclea con la consueta precisione del cartografo avvezzo a disegnare mappe di senso alcune caratteristiche fondanti dell’eterotopia che interessano ai fini della nostra disamina. In generale, la regola aurea di una eterotopia sta nel giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero incompatibili (Foucault 2006, 18). Quando Case, il pellegrino del “cyberspazio” protagonista di Neuromante, passa dalle mezze ombre di maleodoranti periferie alla fantasmagoria della Rete nella quale “digita” sé stesso, non fa altro che sovrapporre alla consistenza materica del suo mondo la brillantezza della “matrice”, a prescindere dal fatto che quest’ultima appartenga o meno all’ordine dell’esperibile per come ci è stato conculcato.
Quel che è importante sottolineare, ancora sulla scorta delle osservazioni del filosofo francese, è che le eterotopie “[…] hanno sempre un sistema di apertura e di chiusura che le isola nei confronti dello spazio circostante” (p. 23). In ciascuna di esse si accede sottomettendosi a dei riti di purificazione per acquisire la debita legittimità di ospiti. Il “cyberspazio” è proprio questo, a ben guardare, un affrancarsi dal mondo da cui si proviene, fatto di materialità corrotta, attraverso l’iniziazione che si compie collegandosi alla macchina e innescando nel proprio cervello una reazione chimica che consente di “entrare” nel regno del virtuale.
Si arriva così a ciò che c’è di più essenziale nelle eterotopie. Esse sono la contestazione di tutti gli altri spazi, e questa contestazione si può esercitare in due modi: o creando un’illusione che denuncia tutto il resto della realtà come un’illusione […] oppure creando realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico. (Foucault 2006, 25)
Si possono, a questo punto, individuare alcune analogie. Una fra le tante, prima di proseguire: abbiamo sollevato poc’anzi la questione della colonizzazione, illusione eterotopica a sentire Foucault. In quell’universo simbolico che è costruzione di senso, il viaggio fisicamente inteso verso i luoghi “altri” è compiuto perlopiù sovrapponendo gli spazi “vaganti” dei mezzi di trasporto, il più noto dei quali è stato la nave. La nave è per la nostra civiltà uno strumento economico di forte impatto e “insieme la maggiore riserva della nostra immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza” (Foucault 2006, 28). E in Rete, infatti, “navighiamo”, per ricordare qui l’espressione con cui indichiamo il movimento negli anfratti del non-analogico.
L’eterotopia sviluppa una differenza assoluta, un contro-spazio nel quale la società si riorganizza contraddicendo l’istanza stessa della sua produzione in un assimilarsi di rimandi reciproci. L’eterotopia è, perciò, prodotto degli insiemi sociali che vanno localizzandola in un assoluto “altrove” variamente configurato e spazializzato. L’apporto della tecnologia ha favorito l’insediarsi dell’ultimissima localizzazione esterna/interna a questa comunità sociale, la nostra, che insiste sulla contemporaneità con un addensamento spazio-temporale durante il quale i cicli degli eventi hanno una durata paradossalmente non storicizzabile, perché appartengono simultaneamente al passato, al presente e al futuro. Allora, l’eterotopia scandisce il ritmo di orologi senza regolarità cronografica, è un campo, una serie di campi, del possibile, anteriore e ulteriore insieme, origine e ugualmente fine del processo di composizione dell’alterità del luogo. E basterà ripensare per un istante a La macchina della realtà di Gibson e Sterling (1992), ucronia che descrive uno spazio dell’“altrove” a partire da una diversa evoluzione della tecnica non meno efficace di quella che abbiamo conosciuto nella nostra linea del tempo.
[continua nella Parte 2/2]
di Mario Coglitore (UniVe)
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Bibliografia
Caronia, A. (2008). Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale. Milano: Shake Edizioni.
Coglitore, M. (2016). ““Pandaemonium”. Il telegrafo elettrico come fonte per lo studio della storia contemporanea”, Storicamente, 12, 1-27.
Foucault, M. (2006). Utopie Eterotopie. A cura di A. Moscati. Napoli: Edizioni Cronopio.
Gibson, W. (1986). Neuromante. Milano: Editrice Nord.
Gibson, W. & Sterling, B. (1992). La macchina della realtà. Milano: Mondadori.
Parsons, T. & and Bales, R. F. (1956). Family Socialization and Interaction Process. London: Routledge and Kegan Paul Ltd.
Sterling, B. (a cura di). (1986). Mirroshades. A cyberpunk anthology. Arbor House: London.
Sterling, B. (1990). Prefazione a “Mirroshades”. In R. Scelsi (a cura di), Cyberpunk. Antologia di testi politici. Milano: Shake Edizioni.
Tagliasco, V. (1999). Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali. Milano: Mondadori.
Wiener, N. (1948). Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine. Cambridge (MA): The MIT Press.
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Note
[1] Le “ArmadilloCon” sono state organizzate a Austin sin dal 1979 e sono da sempre un punto di riferimento per gli scrittori di fantascienza, non soltanto statunitensi. Quella del 1982 si svolse tra l’1 e il 3 ottobre. È ormai passata alla storia la burrascosa tavola rotonda sul cyberpunk (in quel momento ancora definito “fantascienza punk”), organizzata in quell’occasione e intitolata Behind the Mirroshades: A Look at Punk Sf. Su questo cfr. Mark Dery, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 106 e ss.
[2] Gibson è nato nel 1948 negli Stati Uniti e vive da molti anni in Canada. Autore acclamato della letteratura fantascientifica, è diventato famoso proprio con Neuromante, considerato il primo romanzo del filone cyberpunk. Vincitore del prestigioso premio Hugo nel 1985, Gibson si è imposto fin da subito come elemento di spicco del Movimento che ha rinnovato, o comunque cambiato profondamente, il modulo narrativo della fantascienza con le sue lucide, quasi oniriche, descrizioni di un futuro dominato dall’informatica e da spietate multinazionali che governano un mondo post-industriale, preda di una sofisticata tecnologia, invaso da droghe, computers, spietati traffici e trapianti di organi umani, mentre tutt’attorno dilaga una sfrenata ricchezza in mano a pochi privilegiati. Numerosi i romanzi al suo attivo dopo Neuromante, da Giù nel cyberspazio (Mondadori, 1990; ed. or. 1986), il suo secondo successo editoriale, a Inverso (Mondadori, 2017; ed. or. 2014), fino al recentissimo Agency (Mondadori, 2021; ed. or. 2020).
[3] Sterling è nato nel 1954 negli Stati Uniti, dove ha vissuto fino a quando nel 2007 si è trasferito in Italia, a Torino. Ha curato nel 1986 l’antologia Mirroshades, nella quale venne definito il filone cyberpunk. Tra le sue produzioni più famose ispirate al genere cyberpunk, ricordiamo La matrice spezzata (Editrice Nord, 1986; ed. or. 1985), Isole nella rete (Fanucci, 1994; ed. or. 1988), La macchina della realtà (con William Gibson e appartenente al genere steampunk, Mondadori, 1992; ed. or. 1990).
[4] Altroquando (Elsewhen) è un racconto lungo di Robert Heinlein scritto in origine nel 1939 e pubblicato con alcune modifiche nel 1941 nella rivista “Astounding Science-Fiction” con il titolo Elsewhere. Nel corso della narrazione si ipotizza che la mente umana, sciolta dalla sua appartenenza alla periferia spaziotemporale del nostro “qui e ora”, riesca a muoversi liberamente nel cosiddetto “multiverso”.
[5] Si tratta del testo di una conferenza radiofonica tenuta da Foucault su “France Culture” il 7 dicembre 1966 in un programma dedicato a utopia e letteratura.
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Nel 1996 Lev Manovich, in polemica con le derive commerciali della computer art, pubblica un articolo su Rhizome in cui contrappone la terra di Duchamp e la terra di Turing: se per il teorico dei nuovi media l’arte dopo Duchamp è sostanzialmente autoreferenziale, autoironica, complicata e orientata al contenuto, quella che utilizza le nuove tecnologie dell’informazione è invece semplice, incentrata sulla forma e rispettosa del proprio medium (qui inteso come dispositivo). Questa divaricazione fra le due terre, però, che in Duchamp Meets Turing Gabriela Galati si pone l’obbiettivo di ricongiungere, si basa su un presupposto dualismo fra contenuto e forma che, opponendo realtà e rappresentazione, rimane incapace di cogliere le modalità performative dell’arte inaugurate da Duchamp ma proprie anche degli ambienti mediali digitali, e considerare così la linea di confine fra le due “terre” come un medium connettivo (e anzi generativo) invece che come un taglio insanabile.
Facendo implodere la costellazione di dicotomie che ha sostanziato la nozione di rappresentazione tradizionale, fondativa del canone moderno e solo apparentemente superata in quello postmoderno, diventa invece possibile cogliere la dimensione incarnata dell’informazione e, per converso, quella informata della materia, ovvero i feedback loop che modulano i collegamenti fra attori umani e non umani in ambienti immersivi e dinamici insieme fisici e virtuali, dove corporeità e cognizione si performano continuamente in relazioni mediate e processi contingenti e distribuiti (pp. 15-16), come ben esemplifica uno dei casi di studio più interessanti scelti da Galati, la performance Excellences and Perfections realizzata su Instagram da Amalia Ulman fra l’Aprile e il Settembre del 2014 (pp. 72-77).Sospesi nella cesura tra originale e copia, segno e cosa, mente e corpo, il Soggetto (un soggetto che sappiamo adesso riconoscere come marcato e posizionato, appartenente alla tradizione umanista e liberale dell’Occidente) l’oggetto e il medium sono rimasti, invece, sostanzialmente divisi. In Duchamp Meets Turing, Galati propone una radicale revisione di una serie di nozioni chiave (ripetizione, simulacro, archivio, incoporazione e medium) che hanno contribuito a produrre questa interminabile catena di duplicazioni adoperate per giustificare “rappresentazionalmente” la rappresentazione – e confluite nella divaricazione fra analogico e digitale, servendosi di alcuni fondamentali antidoti teorici quali la ripetizione o la piega di Deleuze, la différance di Derrida, il postumano di Hayles, o il modello semiotico triadico di Pierce. L’obiettivo dell’autrice non è tanto quello di rintracciare una continuità delle espressioni artistiche negli ambienti digitali, né quello di garantire nuova legittimità al discorso estetico sul digitale, quanto piuttosto quello di scovare il “punto cieco” (p. 18) a partire dal quale l’umano e il macchinico avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo, e invece si sono ritrovati uno di fronte all’altro, pur se – ma solo in apparenza – sembrerebbe sia stato il contrario. Ma immaginare l’umano come una macchina, controllando il passaggio delle informazioni nel corpo per la gestione del suo equilibrio e del suo potenziamento (si veda la prima formulazione della teoria del cyborg di Clynes e Kline (1960), oppure la macchina come un umano, testando fino a che punto può spingersi l’intelligenza di un computer, secondo le interpretazioni prevalenti del test di Turing (la cui iniziale componente performativa e di genere è stata quasi subito assorbita in quella cognitivista-rappresentazionale), sono operazioni che presuppongono entrambe una scissione sostanziale fra l’umano e la macchina, e che possono soltanto contemplare una loro analogia o una loro reciproca sostituzione (con tutte le derive tecnoutopistiche o tecnodistopiche che ciò ha comportato), ma mai la loro coimplicazione (vedi p. 86).
Per Galati, questo punto cieco – che è anche il paradossale punto di vista di nessun soggetto in particolare, ma a partire dal quale ogni soggettività può essere costituita – è proprio il ready-made di Duchamp, che riprendendo la nozione di Lévi-Strauss, l’autrice definisce “significante fluttuante dei media” (p. 148), ovvero un medium vuoto potenzialmente riempibile in modi sempre diversi, piuttosto che qualcosa di fatto e finito stando a una traduzione letterale del termine. Un medium che si presta a spiegare il funzionamento anche dei processi digitali partendo dall’idea di un soggetto e un oggetto emergenti nel mezzo, relazionali e assemblati come quelli che popolano le riflessioni sul postumano e sul cyborg di autori come Haraway, Hayles o Caronia. Nel ready-made, l’opera d’arte si libera finalmente dalla tirannia del referente esterno di cui sarebbe segno e copia, e acquisisice una medialità immanente e radicale, senza punti di partenza né approdi (si veda la recente riflessione di Grusin in proposito).
L’intera operazione duchampiana, che ha nel ready-made il suo fulcro, è una rivolta contro lo statuto retinico dell’arte, che travolge a un tempo l’idea di estetica come contemplazione, di pittura come produzione di oggetti (unici) per un mercato e di spettatore come soggetto esclusivamente guardante, nonché il privilegio della visione (disincarnata) sugli altri sensi. Con Duchamp, l’opera cessa di essere rappresentazione e diventa medium perché il medium scavalca il privilegio del significante e anche del significato come dati nel testo e, passando al contesto, “esplode” (Krauss cit. in Galati, p. 188) facendosi processo – in quanto evento, e non stato, sempre diversamente ripetibile (pp. 62-66). Nell’“indifferenza visiva” del ready-made come opera che non viene fatta il medium non coincide con gli strumenti tecnici della pittura (supporto e pigmenti), come al contrario ribadirà Greenberg sostenendo il primato del significante nell’“esperienza puramente ottica” della pittura, né d’altra parte il ready-made come opera senza autore può essere il contenitore di un messaggio. In tal senso, la difesa duchampiana dell’arte concettuale contro l’arte “animale” come arte che piace più facilmente non va letta come un suo rifiuto della materialità, ma pittosto della piena comunicabilità dei valori che l’arte sarebbe in grado di veicolare una volta per tutte, e del gusto che questi fonderebbero a partire dalla “callistica” dominante.
Duchamp, anzi, definisce coefficiente d’arte il rinvio, lo scarto tra ciò che nell’arte si progetta e ciò che accade, tra intenzione e risultato, ovvero tra controllo e casualità, una nozione che ben si presta a essere letta all’interno di un approccio performativo come quello proposto da Galati, in cui ogni opera è attualizzazione sempre diversa di un “nodo di tendenze” (Lévy cit. in Galati, p. 120) che ne costituisce la virtualità senza fondo. Potremmo dire, allora, che il ready-made esplora il medium come interfaccia, incontro, appuntamento casuale, resi possibili da una trasparenza che, come quella de Le Grand Verre (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923) – tecnicamente non un ready-made ma operante secondo la medesima logica –, non allude a una leggibilità, quanto piuttosto alla necessità dell’attraversamento e del rimando, una trasparenza che partendo dal contesto e attraversando il testo riporta ancora, ma sempre diversamente, al contesto. Trasparenza impura, soggetta al caso che può incrinarla, come effettivamente accadde a Le Grand Verre – opera aperta per eccellenza, mai più riparata né finita – durante un trasporto, o persino opacizzarla, come testimonia Elévage de Poussière di Man Ray, fotografia del 1920 (a sua volta ready-made elevato a potenza) che ci mostra un Vetro appena riconoscibile, in posizione orizzontale e ricoperto da uno spesso strato di polvere. Qui, come anche in un’altra opera “indicale” duchampiana, Tu m’ (1918), la trasparenza si trasforma addirittura in traccia, differimento della presenza, impossibilità dell’origine, direbbe Derrida.
“L’arte è una condizione, una condizione eraclitea di continuo mutamento, no?”, dice Duchamp a Dore Ashton in un’intervista del 1966. Una condizione ready-made, dunque, fluttuante e in divenire, che istituisce lo sguardo (e il suo soggetto) altrove ogni volta, perché sempre già in ritardo o ancora in anticipo rispetto a ciò che è.
di Federica Timeto
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Take away #7 – Enhancement
Serial / Giugno 2015“Vedo il riflesso di qualcosa negli occhiali da sole di quel passante. Puoi ingrandire?”
In questa istanza di Take Away, vorremmo attirare la vostra attenzione su un minuscolo quanto eloquente meccanismo narrativo, impiegato generosamente e in modo trasversale dal popolo degli autori televisivi americani. Si tratta di quel momento, che sicuramente avete presente, in cui i protagonisti del telefilm si trovano alle prese con una traccia fondamentale: una fotografia, un filmato o documento apparentemente inutile, fino a che...
Secondo una interpretazione deflativa, si tratta semplicemente di un trucco, un modo per far procedere la trama. Una sorta di Deus ex Machina, al massimo da additare come soluzione non particolarmente elegante, anzi piuttosto banale, che tuttavia tutti finiscono per usare quando un periodo di scarsa creatività interferisce con termini di consegna settimanali per nuovi episodi di questo o quel telefilm.
A nostro parere, tuttavia, proprio come nel caso del Deus ex Machina del teatro greco, il ruolo di questo topos narrativo nella coscienza contemporanea riflette alcune convinzioni profonde, tanto da essere tematizzate solo raramente. In questo caso, quello che chiameremo “il topos dell'enhancement” serve da segnale di qualcosa di importante.
Innanzitutto, per i meno esperti di cose tecnologiche, bisogna ricordare un dato fondamentale: il “miglioramento dell'immagine” è, per come viene usato in gran parte dei frammenti del video, impossibile. Un'immagine, infatti, per quanto suscettibile di ogni genere di manipolazione informatica, ha sempre una definizione, vale a dire contiene una certa quantità di pixel – o di informazione. Tale limitatezza, si può dire, è la caratteristica che più radicalmente distingue la realtà dai modelli che possiamo costruire di essa, come ad esempio la mappa dal territorio. In termini operativi, la differenza è ancor più evidente: indagando più da vicino un fenomeno reale siamo in grado di distinguere sempre più dettagli, mentre indagando più da vicino una rappresentazione di quel fenomeno - un disegno o una mappa o un grafico - potremo scoprire solo dettagli relativi al modo e ai materiali della rappresentazione (come il numero di pixel o la grana della carta), non della realtà descritta.
I personaggi dei nostri telefilm trascurano questa distinzione. Li autorizza a farlo una qualche formuletta: un fantomatico “programma di miglioramento”, oppure l'osservazione che “si può fare, con la giusta apparecchiatura”, o il nome di qualche scienziato il cui “lavoro sulla rifrazione” ha avuto straordinarie conseguenze sui software di manipolazione di immagini. Per spiegare questo fraintendimento fondamentale della natura dei dati forniti dalla tecnologia, dobbiamo ricordarci che in fondo ciò che si interpreta in questi film e telefilm non è tanto lo stato delle cose, della tecnologia, della società, della cultura, quanto le tensioni e soprattutto le esigenze ideologiche che coinvolgono tali spazi.
Nei film e telefilm – soprattutto quelli legati ai corpi di polizia – il topos dell'enhancement sottolinea la necessaria congiunzione di due aspetti della realtà: la crescente esigenza di sicurezza e controllo, all'interno di spazi metropolitani percepiti come porosi, caotici e criminogeni, e il raggiungimento di una onnipotenza tecnologica nel campo dell'informazione. Per far fronte all'insorgere sempre più imprevedibile e capillare della violenza – si pensi all'inesauribile creatività degli autori televisivi nel trovare sempre nuovi ambiti nei quali ambientare il misfatto che muove la trama, alla cura manierista che il colpevole sia sempre in qualche modo l'insospettabile – è necessario che le risorse tecnologiche di registrazione e analisi dei dati siano sviluppate fino a fornire non solo una rappresentazione, ma una replica esatta della realtà.
Il fatto che ad usare tali strumenti orwelliani siano solo e sempre eroi volitivi e morali, mossi da buoni sentimenti ed umanizzati da sottotrame sdolcinate, incornicia la nostra percezione del processo di crescente informatizzazione del controllo e incremento dei dispositivi biopolitici nel frame di una lotta fra l'ordine e la disciplina da un lato, e la devianza imprevedibile e mostruosa dall'altro.
Si occulta così una caratteristica fondamentale del funzionamento dei dispositivi contemporanei di controllo biopolitico: la loro applicazione capillare e generalizzata. Là dove il processo dell'enhancement si riassume nella formula di un magico zoom in che aumenta la definizione, le trasformazioni reali dell'apparato di controllo si muovono nella direzione opposta: accumulando dati dalle più svariate banche dati e incrociandole per costruire un profilo preventivo – e un gradiente di pericolosità sociale – per ciascun individuo. La divisione fra criminale e non-criminale è sfumata – l'esatto opposto di quanto suggerisce la narrativa poliziesca di prodotti come Criminal minds – e soprattutto è un prodotto, non un presupposto della applicazione di strumenti di controllo. Come si afferma in un recente e fondamentale saggio sulla militarizzazione dello spazio urbano: sta ormai al cittadino dimostrare a ogni checkpoint di non essere un criminale, secondo un modello di sicurezza urbana apertamente ispirato all'apartheid.[1]
Forse, si dirà, abbiamo voluto leggere troppo in un semplice tic narrativo: eppure siamo convinti che, a un livello di consapevolezza più o meno alto, il racconto rassicurante della tecnologia e l'esorcismo delle sue potenzialità distruttive e totalitarie sia una funzione fondamentale della corrente cultura pop.
P.S. Per chi è familiare col già citato Criminal Minds, l'esercizio per casa è riflettere su questo personaggio:
Un hacker che ha accesso a una serie infinita di banche dati, e mettendole a confronto compie sistematiche violazioni della privacy di ognuno, per conto di un'unità esclusiva di profiler dell'FBI. Si trova in una posizione di potere tale – non solo nei confronti dei criminali che indaga, ma potenzialmente di chiunque – che la sua stessa esistenza rappresenta una minaccia alla privacy e alla sicurezza di un qualunque cittadino, americano e non: è praticamente l'incarnazione del Grande Fratello.
Risulta comunque un personaggio positivo. Come? È buona fino allo sdolcinato, leggermente sovrappeso, autoironicamente vanitosa e un po' buffa. Si chiama Penelope Garcia – un cognome latino che la colloca all'intersezione di due minorities – e è praticamente l'unico modo di far sembrare inoffensivo l'individuo al comando del più sofisticato apparato di controllo e repressione della storia.
[1]Stephen Graham, Cities under Siege: The new military urbanism, Verso, New York 2011, p. 47
di Lorenzo Palombini