-
-
Take Away #3 – Filosofia pop
Serial / Marzo 2015Fra le abitudini filosofiche più antiche e inveterate, forse la più antica e la meglio documentata è quella di rendere conto di cosa si sta facendo, quando si fa filosofia. Non solo può trovarsene traccia consistente nell'opera di qualunque filosofo, a dispetto delle differenze abissali che fra un'epoca e l'altra mostrano le attività del pensiero che si raccolgono a posteriori sotto il nome di filosofia, ma non sarebbe nemmeno difficile sostenere che proprio a partire da questa caratteristica sia possibile rispondere – con una certa circolarità – alla questione: che cos'è la filosofia.
In questo medesimo tratto ritroviamo la più antica delle virtù filosofiche, e al tempo stesso il peccato originale della filosofia: di volta in volta la si esalta o condanna per la sua pretesa di reggersi da sé, e di giustificarsi con le sue proprie forze, differenziandosi così una volta per tutte da quelle altre discipline che piuttosto devono cercare fuori dai propri confini – nella filosofia, appunto – la propria legittimità.
Nell'ambito di questa rubrica non pretendiamo di affrontare tale annosa questione, che proseguirà probabilmente in eterno accompagnando ogni successivo sviluppo del pensiero filosofico, dal momento che, come Arthur Danto ricorda all'inizio del terzo capitolo del suo best-seller filosofico La trasfigurazione del banale il rapporto simbiotico fra la filosofia e quello che essa prende ad oggetto è tale da far procedere simultaneamente la cognizione che la filosofia ha del suo oggetto e quella che essa ha di se stessa, dimodoché ogni filosofia è anche istantaneamente una metafilosofia.
Non possiamo fare a meno di rimandare a questa peculiare e centralissima circolarità filosofica, tuttavia, per introdurre un tema differente, ben più periferico e “terra terra” rispetto all'ambito più o meno definito del pensiero filosofico ufficiale, vale a dire quello dell'utilizzo “volgare” del termine filosofia.
Succede infatti sempre più spesso di sentir parlare di filosofia fuori dall'ambito della filosofia propriamente detta. Non è raro infatti che, in ogni ambito del discorso pubblico che agglutina e rende indistinguibili informazione e spettacolo, qualcuno enunci la “sua filosofia”. Dal conduttore televisivo la cui filosofia è “riportare i fatti” alla grande azienda la cui filosofia è incentrata sul rispetto dell'ambiente o del consumatore, allo sportivo la cui filosofia è non arrendersi mai e non farsi scoraggiare dalle avversità, l'utilizzo del termine filosofia sembra aver subito una sorta di diaspora: lo si trova ora associato a delle massime di natura etica, ora all'enunciazione di precauzioni metodologiche, ora all'espressione di obiettivi esistenziali, o ancora a “pillole di saggezza” delle quali si rivendica una autenticità che fa il paio con l'efficacia pragmatica.
La tentazione del filosofo professionista, di fronte al proliferare delle filosofie aziendali, delle filosofie di vita e così via, è quella di derubricare tali occorrenze a un uso improprio o scorretto del termine: dopo tutto, anche se in una forma meno netta di quella delle scienze hard, anche i filosofi possono rivendicare un linguaggio tecnico, e nulla vieta di pensare che in filosofia il termine “filosofia” si usi appunto in senso tecnico, vale a dire meno “alla leggera” e in un'accezione differente, più o meno come in fisica il termine “forza” significa qualcosa di molto diverso da ciò che il termine significa nell'uso quotidiano.
Tali osservazioni, benché siano senz'altro corrette, non ci mettono tuttavia al riparo da una ulteriore riflessione. A ben guardare, infatti, ognuna delle accezioni nelle quali oggi si parla di “filosofia” porta con sé un frammento del significato del termine preso nel suo habitat naturale. Nel corso dei secoli infatti la filosofia ha inteso davvero sviluppare un'etica, proporre una disciplina del linguaggio e dell'azione, interpretare la condizione umana e fornire strumenti per affrontare l'esistenza. Se tuttavia possiamo dunque notare una essenziale concordanza nello scopo fra La filosofia, quella che si studia nelle università, e le filosofie di cui ciascuno si fa portatore, dobbiamo anche rilevare un diverso statuto e soprattutto un diverso modo di giustificazione. Se infatti del carattere essenziale della filosofia fa parte, come abbiamo ricordato, quella caratteristica secondo la quale essa deve giustificare secondo la sua propria razionalità sia i suoi scopi che i suoi procedimenti, i succedanei filosofici che si disseminano come un'eco nella semiosfera che ci circonda non hanno alcuna pretesa del genere. Ciò che gli manca, ciò che soprattutto li distingue dalla filosofia propriamente detta, è non solo e non tanto una mancanza di precisione e di consapevolezza storica, una maggiore ingenuità, ma soprattutto il fatto che esse non devono legittimare se stesse razionalmente. La questione delle condizioni di possibilità e dell'origine dei valori e dei principi che propongono non si pone: agli annosi interrogativi filosofici sulla verità e la vita si fa fronte con uno stile che è quantomai antifilosofico.
Che cosa legittima dunque i filosofemi che riempiono l'aria e l'etere, se li si esime dal dovere filosofico essenziale di giustificare se stessi? Cosa rimane di una filosofia dalla quale è stata completamente espunta la critica e il discorso sul fondamento? Benché formulare una risposta definitiva a questa domanda sia ancora azzardato, possiamo tuttavia proporre un'ipotesi plausibile: per occupare oggi, in questo tempo dominato dal mito dell'efficacia e della prestazione, il posto del filosofo, bisogna essere dotati non della capacità di fondare razionalmente il corso della propria azione, ma del sacro segno del successo. È a coloro che si distinguono – non importa se nello sport o negli affari, nella carriera politica o nell'invenzione di un prodotto di successo – che la coscienza contemporanea chiede lumi sul suo posto nel mondo, ponendo sempre le solite domande, le stesse alle quali Kant cercava risposta: “Cosa debbo fare? Cosa mi è lecito sperare?”
In definitiva, se tale ipotesi ha qualche plausibilità, il filosofo di professione ha ben ragione di temere, né può trovare conforto nella sciatteria filosofica dei contenuti proposti sotto il nome variamente declinato di filosofia. Tali contenuti rispondono essenzialmente alle stesse questioni che spettano alla filosofia, né devono prendersi la briga di essere giustificati: a giustificarli basterà la posizione – di potere, fama o successo – dalla quale sono pronunciati.
di Lorenzo Palombini
http://difaul.blogspot.it/
-
PK#1 \ Il prisma trascendentale. I colori del reale
Rivista / Settembre 2014Non occorre un grande impegno teorico per mostrare come si possa fare filosofia senza ricorrere alla nozione di “trascendentale” ‒ oppure, in maniera più profonda, senza assumere la posizione trascendentale. Lo mostra, banalmente, la storia del pensiero filosofico novecentesco. Dalla filosofia analitica alla filosofia ermeneutica, non si contano le tradizioni filosofiche che hanno reso persuasiva l’idea secondo cui l’interrogazione filosofica potesse ‒ e, anzi, dovesse ‒ articolarsi senza ripetere il gesto fondativo, ovvero senza declinare la domanda sulla fondazione in modo tale da dover passare attraverso la questione trascendentale.
Si fa prima se si interrogano i saperi che descrivono ‒ o spiegano ‒ l’esperienza. Si fa prima se si imposta il discorso filosofico immettendolo nell’alveo del discorso scientifico, il quale parla direttamente dell’esperienza. Un po’ come quando si deve insegnare a qualcuno come si nuota. Gli si mostrano i gesti del nuoto stando sulla riva? No, lo si butta in acqua, magari in acque poco profonde, e gli si insegna, dentro l’acqua, a nuotare. Così, appunto, si fa prima. Assumere la posizione trascendentale, in tale prospettiva, non risulta essere altro che un’inutile perdita di tempo.
Tuttavia, è lecito almeno sollevare un dubbio: si può davvero accordare alla filosofia il ruolo di sapere critico, che interroga i propri fondamenti, quelli degli altri saperi e, più in generale, il fondamento del rapporto tra sapere ed esperienza, senza passare attraverso la nozione di trascendentale? Si può davvero fare a meno di chiedersi sia come è fatto, in generale, il soggetto che fa esperienza del mondo, sia come sono fatti quei mondi ai quali si rapporta ogni esperienza possibile?
Se tale domanda, tale dubbio, risulta anche solo vagamente plausibile, allora si vede bene che perseguire l’obiettivo di praticare una filosofia in qualche modo definibile come “trascendentale” non si configura più come una semplice perdita di tempo.
Tutta la difficoltà sta, ora, nel mettersi d’accordo su ciò che l’espressione “in qualche modo” indica. Lo scopo di questo primo numero consiste nel mettere alla prova alcune possibili letture e declinazioni di tale espressione
A cura di Philosophy Kitchen
Scarica in PDF
English version
DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/1.2014
Pubblicato: settembre 2014
Indice
Lato I
Giovanni Leghissa - Il trascendentale, ovvero il rimosso della filosofia. Proposte per una terapia [PDF It]
Rocco Ronchi - Puro apparire [PDF It]
Jean-Christophe Goddard - La Wissenschaftslehre. Une contribution décisive à l'anthropologie de la modernité [PDF Fr]
Lato II
Claudio Tarditi - Oltre il trascendentale, il trascendentale. In dialogo con Husserl [PDF It]
Paolo Vignola - La stupida genesi del pensiero. Trascendentale e sintomatologia in G. Deleuze [PDF It]
Lato III
Alberto Andronico - Custodire il vuoto. Uno studio sul fondamento del sistema giuridico [PDF It]
Emanuela Magno - Dal pensiero alla vacuità. La critica nāgārjuniana e il trascendentale [PDF It]
Carlo Molinar Min - Il ritmo della decostruzione. Un'esperienza quasi-trascendentale [PDF It]
Lato IV
Alessandro Salice, Genki Uemura - Naturalizzare la fenomenologia senza naturalismo [PDF It]
Traduzioni
Bernard Stiegler - Tempo e individuazione tecnica, psichica e collettiva nell’opera di Simondon [PDF It]
Claude Romano - Il problema del mondo e l'olismo dell'esperienza [PDF It]