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Exploiter les vivants. Une écologie politique du travail.
Recensioni / Febbraio 2024L’idea che la soluzione ecologica al cambiamento climatico possa essere attuata attraverso la raccolta differenziata o un minor consumo di acqua viene fortemente criticata da Paul Guillibert, autore di Exploiter les vivants. Une écologie politique du travail (La Découverte, 2023), che pone al centro della sua riflessione la declinazione dell’ecologia politica in chiave marxista, a partire dai rapporti di produzione e sfruttamento. Infatti, nonostante l’importanza di un’educazione e consapevolezza ambientale, non sarà sicuramente il gesto individuale a salvare il pianeta. Non è un caso che l’enfasi mediatica e la politica istituzionale propongano il gesto individuale come soluzione al cambiamento climatico, allontanando lo sguardo dagli scempi ambientali ed ecologici di cui si macchia il capitalismo. Guillibert critica l’imperativo etico che ci interpella in quanto consumatori e consumatrici a diventare bravi cittadini responsabili (adempiendo dunque all’obbligo morale di cambiare i nostri modi di consumo, acquistare prodotti biologici, ridurre i rifiuti e la dipendenza energetica), poiché tale imperativo tralascia la definizione di un soggetto incarnato, identificando la serie di comportamenti sopra elencati come scelta possibile per qualsiasi individuo (senza considerare, ad esempio, il posizionamento socio-economico del soggetto cui si rivolge). L’astrazione e l’universalità del soggetto “eticamente responsabile nei confronti dell’ambiente” crea, in questo modo, una serie di pregiudizi nei confronti di coloro che non hanno la possibilità di mettere in atto tali comportamenti. Inoltre, è necessario porre l’attenzione sul consumo: consumare meglio, infatti, non significa smettere di consumare. È dunque possibile utilizzare l’espressione “consumatori responsabili” o è un ossimoro?
«Il n’est pas question de récuser l’importance pratique de ce geste mais plutôt de s’interroger sur l’effectivité politique d’une individualisation et d’une moralisation de la transition écologique». [1]
A chi tocca, dunque, la giustizia ambientale? Non a caso la domanda è soggetta ad una duplice interpretazione: se da un lato si riferisce a coloro che vivono direttamente i problemi ecologici (ad esempio chi migra per condizioni ambientali insostenibili o chi vive in banlieu o bidonville dove vengono costruite discariche), dall’altro interpella coloro che hanno la responsabilità di farsi voce e corpo di atti di ribellione per la giustizia climatica. Comprendere da chi sia costituito il movimento ambientalista odierno (in riferimento ai Paesi occidentali), e per quale motivo i componenti del movimento abbiamo difficoltà a portare avanti la causa ambientalista (i cui catastrofici rischi non escludono nessuno) [2], è uno degli obiettivi che si pone Guillibert. Se da una parte, però, Guillibert si sofferma ampiamente sulle categorie sociali che vengono escluse dalla retorica ambientalista borghese, dall’altra non è altrettanto esplicativo rispetto all’utilizzo del capitalismo come condizione di oppressione. Nonostante infatti nel testo ci siano riferimenti ad alcuni elementi dell’analisi marxista (ciclo merce-denaro-merce, surplus, forza-lavoro, lavoro salariato), le condizioni delle categorie socio-identitarie coinvolte (operai, non-bianchi, animali, natura) vengono attribuite ad una forza capitalista quasi astratta, trascurando altri elementi di oppressione che hanno determinato la loro subordinazione.
La proposta di congiungere le istanze del movimento ambientalista con la lotta di classe risulta, per tale motivo, un po’ semplicistica. Secondo Guillibert non è possibile immaginare di risolvere problematiche ecologiche se non si ripensa anche ad una differente organizzazione economica (in questo senso l’appello alla coscienza verde individuale stride, ad esempio, con il sistema di logistica e di infrastrutture verso cui si sta attualmente orientando il capitalismo). Compito della filosofia è fare ordine concettuale per potere ideare nuove strategie di produzione e distribuzione: per questo motivo è necessario partire dal lessico utilizzato dal movimento ambientalista. L’«ambientalismo della classe operaia», che si deve dunque appropriare di un ruolo protagonista nella lotta ambientale, non può che fondarsi sul sabotaggio della produzione e della distribuzione attuale, sullo sciopero come strumento di prassi e sull’organizzazione di contro-poteri per sviluppare beni comuni non fondati sulla moneta come mezzo di scambio, pianificando un’economia della decrescita. Non a caso Guillibert ripropone un lessico familiare al linguaggio marxista, soffermandosi sulle nozioni di proletariato, sfruttamento, surplus e salario, e all’operaismo italiano, in modo particolare al pensiero di Toni Negri, in vista di una trasformazione sociale: se da una parte il contropotere non rappresenta solamente una posizione di antagonismo destituente e di rottura nei confronti del capitale (ad esempio attraverso la pratica del sabotaggio e dello sciopero), dall’altra si propone come prassi per costruire un altro modo di vivere e produrre.
Se ad ora il corpo del movimento ambientalista è costituito da comunità scientifica, giornalisti, studenti e intellettuali, e non da operai, non è possibile definirlo come classe, nel senso inteso da Marx nel Manifesto o nel Capitale, poiché è formato da individui che non partecipano direttamente al processo produttivo (e distributivo) delle merci, ma che condividono solamente la condizione di precarietà lavorativa; la popolazione urbana, cittadina, rimane per questi motivi frammentata rispetto alla frangia radicale degli antagonisti ecologici e coloro che, lavorando, alimentano la crisi ambientale stessa.
La questione climatica dal punto di vista della classe operaia, ossia l’ecologia della classe operaia, non rivendica solamente un lavoro in fabbrica che garantisca delle condizioni di vita decenti, ma anche pratiche di lavoro più rispettose dei corpi stessi degli operai, delle persone che vivono vicino allo stabilimento e all’ambiente circostante. A tal proposito Guillibert propone come esempio la condizione degli operai e dei cittadini di Taranto: l’ILVA rappresenta un’esperienza specifica di ecologia operaia, ossia un lavoro che nel corso degli anni ha contaminato il corpo della classe operaia e della cittadinanza circostante. L’importante mobilitazione operaia, organizzata in sindacati, collettivi di donne, e non solo, ha rivendicato una sanità ambientale e un’organizzazione ecologista locale contro l’inquinamento industriale, fino alla condanna per l’ILVA nel 2012. [3]
Unire le lotte della classe operaia, protagonista della produzione, per creare un’identità più allargata che difenda i diritti dei lavoratori in una prospettiva di transizione ecologica, senza distinguere l’attivismo politico dalla fabbrica è ciò che accade all’ILVA e a GKN. Alla luce della centralità della logistica nel modo di distribuzione attuale delle merci, sono allora anche altri operai che devono guidare il movimento ecologista. Camionisti indipendenti (esempio con cui Guillibert apre la narrazione), operai del settore logistico, che faticano a trovare una propria identità nel luogo di lavoro per la continua precarietà e flessibilità cui sono sottoposti i contratti odierni, trasportatori e caricatori che fanno muovere le merci, possono aggiungersi a coloro che le producono. Non solo movimento di merci, ma anche movimento di lavoratori: flessibilità e precarietà sono infatti due condizioni che costituiscono uno dei nuovi strumenti dell’organizzazione capitalista, rendendo più difficile la creazione di un’identità legata ad un luogo di lavoro e la conseguente possibilità di formazione di una coscienza di classe, che si faccia promotrice di lotte operaie.
I nuovi protagonisti che Guillibert vede in prima linea non sono solamente gli operai, ma anche le donne. Integrando la prospettiva di classe con quella femminista, l’autore non considera solamente il lavoro produttivo, ma anche quello riproduttivo. L’assegnazione del compito riproduttivo alle donne fonda la divisione sessuale del lavoro e, nel momento in cui l’uomo si sedentarizza, la naturalizzazione della procreazione diventa per l’uomo cacciatore un atto di appropriazione gratuita della forza delle donne. Sotto l’egida della tesi naturalista, gli atti di riproduzione e cura vengono privati del riconoscimento lavorativo, in quanto considerati, per natura, propri delle donne, e di conseguenza non vengono retribuiti. [4] Non prendendo un salario per il lavoro riproduttivo, le donne non producono valore di scambio, ma riproducono la forza-lavoro futura (che assicura la produzione di valore). L’appropriazione del lavoro delle donne da parte del capitalismo patriarcale è anche il fulcro dell’ecofemminismo (o femminismo della riproduzione eco-sociale). Non è un caso che per Silvia Federici la svalorizzazione del lavoro riproduttivo femminile sia stata la condizione di possibilità di sviluppo del lavoro salariato. L’appropriazione del corpo della donna come bene comune avviene attraverso il disciplinamento e il controllo del corpo stesso messo in atto dagli uomini (Guillibert si sofferma sulla transizione del potere di controllo delle nascite dalle sages-femmes ai dottori), e la priva di ogni possibilità di rivendicazione, trasformando il corpo in merce all’interno del mercato.
Lo sguardo dell’autore va oltre: non solo gli operai, non solo le donne, ma è necessario includere nella categoria di lavoratori anche gli animali non-umani, sia addomesticati sia selvaggi. Per comprendere il motivo per cui Guillbert include queste categorie nella prospettiva ecologica è necessario definire le condizioni che hanno reso il lavoro tale a come lo identifichiamo oggi.
L’attività lavorativa non ha sempre avuto la stessa definizione nel corso dei secoli: nell’Antica Grecia, ad esempio, l’agricoltura e la politica (entrambi corrispondenti, oggi, alla categoria di lavoro), erano considerate attività di natura differente. Ad un certo punto, per dirla con Guillibert, gli esseri umani, la natura e i suoi viventi sono stati messi al lavoro («mise au travail»). Con il capitalismo il lavoro è diventato un’attività essenziale, di valore superiore rispetto ad altre attività, a tal punto da definire l’identità stessa di una persona. Al lavoro l’umanità (occidentale) consacra molto tempo, dato che esso costituisce un mezzo di sussistenza, dà un riconoscimento simbolico o una condizione di accesso a posti di potere e permette la riproduzione individuale e sociale. Per potere essere così bene identificato, è stato separato dal tempo libero (ossia da momenti non consacrati all’attività lavorativa), e rappresenta un momento in cui l’individuo esercita una forza coercitiva su se stesso (atto che non accade, al contrario, durante la spontaneità del momento del gioco). Il lavoro si caratterizza attraverso sette elementi essenziali: è un’attività tecnica effettuata secondo momenti ordinati, che producono nuove realtà per soddisfare bisogni sociali, implica sforzo e disciplina ed è separato da momenti in cui si svolgono altre attività; richiede inoltre un impiego di abilità cognitive, fisiche e corporali.
È quest’ultimo elemento a costituire la chiave per includere anche un ragionamento antispecista nella categoria dei lavoratori. Ciò che distingue il lavoro da ogni altra attività è l’atto di sapere di stare lavorando: il cane-guida per persone non vedenti sa che il suo lavoro inizia nel momento in cui gli viene infilata la pettorina (e finisce quando viene sfilata); i cani-pastore sanno che il loro lavoro comincia quando vedono e si avvicinano al gregge; il cane da ricerca per persone scomparse sa che il lavoro inizia nel momento in cui sente un determinato odore e riceve un comando dall’addestratore. [5] La coscienza del lavoro implica lo sviluppo di determinate abilità, ad esempio la concentrazione, l’interazione con persone umane, la comprensione di dinamiche generalizzate nell’ambiente circostante, l’autodisciplina e il rispetto di una gerarchia di comando (ulteriore prova di coscienza di lavoro e costrizione sono al contempo le fughe e le rivolte degli animali). [6] Al contrario, Donna Haraway sostiene che gli animali siano strumenti di lavoro e non lavoratori, ossia che siano inseriti nel lavoro umano come strumenti:«Les chiens de travail sont des instruments qui font partie intégrant du stock du capital d’une ferme». [7]
Ma cosa dire di una vacca da latte che produce più latte di quanto servirebbe al suo vitello per crescere? Il latte in più non è forse surplus? Si può quindi dire che la vacca detiene una forza-lavoro? Il pensiero antispecista non è più confinato al contesto accademico (ad esempio nell’indagine filosofica sull’appropriazione dei corpi e delle vite degli animali) [8], ma si sta diffondendo anche nella società civile (l’incremento di scelte alimentari vegane dimostra che l’oppressione animale sta diventando ben visibile).
Il ragionamento di Guillibert viene, infine, esteso alla natura: le forze di produzione del capitale non si fondano solamente sulla riproduzione sociale, ma anche sull’appropriazione del corpo naturale, producendo un ecocidio globale. L’atto di appropriazione gratuita della natura affonda le sue origini nelle prime conquiste coloniali, momento storico in cui si afferma la presa di potere su corpi umani e non-umani. La forza-lavoro umana non retribuita e l’appropriazione delle risorse naturali crescono di pari passo, fino ad impostare un’economia potenzialmente universale e fondare un sistema-mondo, basato sulla divisione razziale del lavoro e sulla semplificazione e strumentalizzazione della natura. [9] Si mettono al lavoro tutti i viventi, umani e non-umani, in un sistema di dominio globale sotto l’egida del capitalismo (trasformando la natura in un’immensa monocoltura su scala globale, atta, nella maggior parte dei casi, ad alimentare l’immensa filiera industriale della carne).
Lo sguardo globale di Guillibert, pur rimanendo vago sulle conclusioni e sulla proposta di pratiche economiche alternative, ha la capacità di creare interconnessioni tra differenti ambiti di critica e studio, comprendendo varie categorie nei rapporti di condizioni lavorative alienanti e saccheggi ambientali. L’idea di una transizione giusta non può che passare attraverso la redistribuzione della ricchezza sociale, mettendo in atto una decrescita economica che deve avere come attori protagonisti proprio i soggetti più alienati e sfruttati (ed ora parcellizzati) dal sistema capitalista. La decrescita della produzione e la trasformazione radicale dell’organizzazione del lavoro sono i pilastri per intraprendere un progetto di comunismo della decrescita e politica della vita (passando dall’eliminazione del profitto alla riduzione dei tempi di lavoro, dalla soppressione della divisione del lavoro all’abolizione della competitività dei mercati). Partire dalla teoria marxista dello sfruttamento come denominatore comune per ripoliticizzare il lavoro in una chiave di ecologia politica: in tutto il mondo, infatti, le lotte ecologiste si oppongono alla logica del capitale, ma mancano di alleanze per diventare una lotta emancipatrice reale.
«Les vivants, les prolétaires, les indigènes, les minorités de genre ne formeront pas une classe au sens marxien parce qu’ils n’affrontent pas les mêmes rapports de domination. Mais une partie d’entre eux pourraient composer une subjectivité politique protéiforme et multispécifique. Car toutes et tous font aussi face à la logique culturelle du capitalisme, une modernité qui fait de la nouveaté technique l’indicateur d’un avenir nécessaire». [10]
Solo l’unione di tutti gli alienati e gli oppressi, nella comprensione dell’universalità della dipendenza al mercato e nelle logiche di sfruttamento, potrà creare un’opposizione unica e ferma alla separazione dei lavoratori e delle lavoratrici messa in atto finora, dando inizio alla lotta dei viventi «messi al lavoro».
Ingrid Alloni
Bibliografia
Adams, C., (1990), Carne da macello. La politica sessuale della carne, tr. it. M. Andreozzi, A. Zabonati, VandA Edizioni, Milano (2020);
Balibar, É., Wallerstein, I., (1988), Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, Roma, Edizioni associate, 1991;
Deplhy, C., (1970), L'Ennemi principal 1, Économie politique du patriarcat, Editions Syllapse, Paris;
Federici, S., (2004), Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano;
Filippi, M., Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Mimesis Edizioni, Milano, 2013;
Foucault, M., (1978-1979), Naissance de la biopolitique: Cours au collège de France, Gallimard, Paris;
Haraway, D., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, tr. it. C. Durastanti, C. Ciccioni, NERO, 2019.
Latour, B., Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000;
Marx, K., (1867), Il capitale, vol. 1, a cura di Aiello, A., Editori Riuniti, Roma, 2017;
Marx, K., Engels, F., (1848), Manifesto del partito comunista, a cura di Donaggio E., Kammerer, P., Feltrinelli, Milano, 2017;
Negri, T., Dominio e sabotaggio, Feltrinelli, Milano, 1974;
Rifkin, J., (2001), Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, tr. it. P. Canton, Mondadori, Milano, 2022;
Wittig, M., (1992), Il pensiero eterosessuale, tr. it. F. Zappino, Ombre corte, Verona 2019.
Note
[1] «Non si tratta di negare l'importanza pratica di questo gesto, ma piuttosto di mettere in dubbio l'efficacia politica dell'individualizzazione e della moralizzazione della transizione ecologica» (la traduzione di ogni citazione di questa recensione è mia).
[2] Ad eccezione di coloro che possono immaginare di migrare sulla Luna o di colonizzare un altro pianeta; non a caso l’autore cita il film Don’t look up di Adam McKay, 2021.
[3] Un altro esempio, rispetto alla riconversione in chiave ecologica, è rappresentato dagli operai della GKN, stabilimento presso Campi Bisenzio (FI), che, a seguito della decisione di delocalizzare e di un licenziamento di massa degli operai nel 2021, si mobilitano attraverso l’occupazione dello stabilimento e intraprendono una battaglia giuridica. GKN diventa una questione sociale collettiva: gli operai coinvolgono infatti ricercatori universitari, giornalisti, studenti, esperti solidali, e insieme a loro portano avanti un’istanza rivendicativa che pone al centro anche la questione ambientale, proponendosi come prima fabbrica socialmente integrata e sostenibile d’Italia.
[4] La rivendicazione del lavoro di gestazione, procreazione e cura viene intrapresa costituisce un dibattito centrale negli anni Settanta, in modo particolare in Francia nelle correnti femministe materialista e marxista.
[5] Guillibert estende l’analisi anche ad altri animali, ad esempio alle vacche da latte.
[6] A tal proposito, una delle ultime notizie in Italia riguarda la fuga di un leone dal circo a Ladispoli (RO): https://www.rainews.it/video/2023/11/il-video-del-leone-libero-per-le-strade-di-ladispoli-sindaco-state-a-casa-520dc2a7-8247-4e40-a0c0-c9914717ccb3.html.
[7] I cani da lavoro sono strumenti che fanno parte integrante del capitale sociale di un'azienda agricola.
[8] Rispetto a ciò, oltre alla categoria di forza-lavoro, il pensiero antispecista si serve della nozione di biopoliticaproposta da Michel Foucault (rispetto al disciplinamento dei corpi e all’imposizione di potere che emerge dalla loro proprietà).
[9] La nozione stessa di “natura” ne denota il suo costrutto sociale, ossia l’incapacità di riconoscimento della particolarità, la perdita di conoscenza dei nomi, e l’atto di uniformità che si dà all’intero corpo naturale. Per la nozione di sistema-mondo si rimanda all’analisi di Étienne Balibar e Immanuel Wallerstein.
[10] Gli esseri viventi, i proletari, gli indigeni, le minoranze di genere non formeranno una classe in senso marxista perché non affrontano le stesse relazioni di dominio. Ma alcuni di loro potrebbero formare una soggettività politica polimorfa e multispecifica. Perché tutti loro si confrontano anche con la logica culturale del capitalismo, una modernità che fa dell'innovazione tecnica l'indicatore di un futuro necessario.