-
-
David Lapoujade – Les existences moindres
Recensioni / Ottobre 2017Nel panorama filosofico contemporaneo, David Lapoujade è noto per l’attenzione che ha dedicato all’opera di Deleuze, in qualità di curatore e studioso, oltre che per alcune penetranti ricerche sull’empirismo e il pragmatismo, soprattutto rispetto al tema dell’esperienza pura. In quest’ultimo suo agile libro, egli si concentra invece su Étienne Souriau (1892-1979), autore centrale nella filosofia francese del Novecento, per quanto oggi dimenticato, anche in Italia (ma è imminente la traduzione del suo rilevante Les différents modes d’existence). L’Autore non si limita a una presentazione o a una sintesi del percorso intellettuale di Souriau, ma riesce – nei sei capitoletti che compongono il testo – nell’impresa di fare emergere l’insieme del problema che quest’ultimo sollevava e poneva. In questo modo, Souriau si trova direttamente a essere collocato a pieno titolo nel dibattito filosofico contemporaneo, in particolare rispetto alla possibilità di articolare un’ontologia pluralista. Lapoujade spiega che con Souriau «l’estetica cessa di giocare un ruolo secondario», in quanto essa viene a sovrapporsi con la questione ontologica dell’arte dell’instaurazione, ossia con «l’arte dell’Essere» intesa quale «varietà infinita delle sue maniere d’essere o dei modi d’esistenza» (p. 12). Si afferma così un «pluralismo esistenziale» per il quale da un lato «tutti esistono, ma ciascuno alla propria maniera», e dall’altro lato «un essere non è condannato a un solo modo d’esistenza, ma può esistere secondo svariati modi» ossia «appartenere a diversi piani d’esistenza» (p. 13). Il modo non è però semplicemente ciò che caratterizza l’esistenza di qualcosa di dato, bensì la maniera di far esistere un essere su questo o quel piano, ossia «è un gesto», di natura instaurativa, che non ha preesistenza né si imprime esteriormente ma è «immanente all’esistenza stessa» (p. 14) e si produce «nel corso del processo» (p. 71).
Un altro tratto decisivo nell’itinerario speculativo di Souriau – evidenzia l’Autore – è il gusto per la sistematicità e la struttura, comunque sempre sganciato da ogni pretesa di esaustività o definitività. Ne segue così il tentativo di articolare un catalogo dei modi di esistenza, comprendente i fenomeni, le cose, gli immaginari e i virtuali, tutti espressione di una maniera di esistere peculiare e irriducibile ad altro (pp. 23-35). Inoltre, prende forma l’individuazione di alcune «invarianti» o «leggi» fondamentali nella formazione delle strutture, che presentano una definizione formale innanzitutto della filosofia (pp. 68-69), ma che a ben vedere mostrano anche una più generale rilevanza per la comprensione della logica dell’instaurazione. Esse sono: la legge di «determinazione o decisione» (il taglio problematico di un punto di vista); la legge di «opposizione significativa» (l’ordinamento secondo una polarità centrale); la legge di «mediazione» (l’articolazione dinamica dello spazio tra i poli); la legge di «evasione dinamica o terminazione» (la torsione che apre a un prolungamento su altro piano, al “proprio estraneo”); la legge di «distruzione» (la destituzione delle costellazioni precedenti).
Scorrendo l’insieme di temi e concetti che vengono toccati nell’opera (come instaurazione, pluralità, prospettivismo, modalità, novità, avere, virtuale, consistenza, immanenza, intensificazione o diritto, tra gli altri), si intuisce facilmente il motivo per cui per un filosofo tanto vicino a Deleuze, com’è appunto Lapoujade, il pensiero di Souriau possa offrire un’importante sponda. In ogni caso, l’Autore – pur richiamando in più di una circostanza il lavoro di Deleuze e Guattari – non mette mai in opera un tentativo di “riconduzione a Deleuze” delle istanze di Souriau, né inscena un mero confronto tra opzioni teoriche più o meno rivali (evitando, giusto per fare un esempio, di comparare la struttura dell’instaurazione per Souriau e quella della creazione per Deleuze). È proprio così che Lapoujade riesce da ultimo a esibire “silenziosamente” il possibile generale contributo di Souriau alla costruzione di una metafisica del processo genuinamente empirista.
Mi limito a presentare un esempio in tal senso: il concetto di purezza. L’Autore insiste sul fatto che, quando i virtuali fanno ingresso nel catalogo delle esistenze, per Souriau tutto cambia: la realtà rivela il proprio intimo carattere di incompiutezza, da intendere in senso non negativo bensì positivo ossia differenziante, in quanto il “gesto” proprio dei virtuali «è di suscitare altri gesti» (p. 32). A partire dalla presa in considerazione dei virtuali nell’inventario dei modi d’esistenza, «non ci sono più esseri, non ci sono che processi»: le sole entità che si profilano sono «degli atti, cambiamenti, trasformazioni, metamorfosi che affettano gli esseri e li fanno esistere altrimenti» (p. 51). I virtuali aprono insomma a un mondo sinaptico di eventi, un mondo di verbi e coniugazioni di verbi anziché di cose e sostantivi, un mondo attraversato dalla peculiare forza ontologica delle “pretese” o “esigenze”. Queste sono sì deboli, evanescenti, precarie e labili nella misura in cui non sono solidificate, ma restano nondimeno in grado di far valere la forza del problematico, che introduce l’incertezza nella distribuzione della realtà, “costringendo” così ad assumere una postura sperimentale che sappia rispondervi in modo appropriato (pp. 52-64). In rapporto a tale statuto, i virtuali formano una sorta di «nebulosa dove ogni decisione diventa affare di presentimento, divinazione o intuizione» (p. 34), ponendo il problema di come poter percepire e valutare l’importanza di queste forze insieme flebili e stringenti, ossia di come vedere e fare vedere, posto che qui l’atto “percettivo” fa tutt’uno con quello “creativo”, o – più precisamente – instaurativo. Come si dà insomma un punto di vista interiore o partecipativo rispetto a ciò che “traspare”? In che modo si dà non tanto una prospettiva sul mondo, ma un mondo che fa entrare in una delle sue prospettive? Per cercare una risposta a simili questioni, si profila un metodo di «riduzione», inteso in generale come quell’operazione che «instaura un piano che rende possibile la percezione di nuove entità» (p. 41), ossia che, mentre comincia a intravedere, fa vedere. Si tratta di un’operazione di «pulizia» o “purificazione”, non perché fa riferimento o riporta a ciò che vi è di più essenziale, alla sostanza o natura delle cose, alle essenze nascoste o all’identità recondita di qualcosa, all’interiorità profonda del reale, ai costituenti ultimi delle cose in senso atomistico. Piuttosto, ci si (ri)colloca al «grado zero dell’esperienza», nel «punto di conversione» dove l’esperienza stessa si costituisce, facendo valere «una certa innocenza» per la quale ci si trova senza presupposti, «aperti a tutte le potenzialità dell’esperienza pura» (pp. 40-47). Si tratta di un passaggio tanto banale da rischiare di restare impercettibile: dalla purezza delle essenze alla purezza dell’apertura; dalla purezza dell’incontaminato alla purezza di ciò che essendo “sul nascere” risulta anzi sovraesposto a un intreccio di possibili contaminazioni. È in gioco un modo di concepire il “puro” molto vicino alla maniera in cui tendiamo a rappresentare l’infanzia (perlomeno oggi, non essendo sempre stato così): uno stato di innocenza e “totipotenzialità”, di semplicità intesa quale apertura ancora non-determinata – dunque uno stato piuttosto di com-plessità. È esattamente una condizione – in poche parole – di virtualità (come peraltro voleva anche Deleuze). È l’eterogeneità a contraddistinguere la posizione di squilibrio “sperimentale” dell’essere-aperti (non a caso anche comunemente associamo il fare esperienza a situazioni in cui “ci apriamo”), di modo che purezza e impurità vengono a sovrapporsi: è infatti una maniera di essere puri per la quale si è «capaci di tutte le metamorfosi, di sovrapporre svariate prospettive e di circolare attraverso esse» (p. 44); «quando il limite diventa concreto, non ha più per funzione di separare, al contrario fa comunicare […] con elementi estranei alla supposta essenza» (p. 90).
Questa concezione del puro è centrale per comprendere appieno la portata di un’ontologia o metafisica empirista, che di per sé potrebbe apparire come un controsenso (analogamente a espressioni quali empirismo trascendentale o empirismo superiore). Infatti, se è vero – in un senso molto ampio – che una filosofia può dirsi metafisica o sistematica nella misura in cui articola un piano astratto della realtà, ci troviamo qui di fronte al tentativo di concepire astrattamente il processo stesso di concrezione delle cose, evitando dunque di contrapporre l’astratto al concreto: «l’astrazione cessa d’essere un limite ultimo per divenire percettibile» (p. 89). Proprio in tal senso, qui il trascendentale puro non è quello indipendente dall’esperienza, ma è l’esperienza stessa; la metafisica pura non è quella dei cieli ideali o dei fondamenti profondi, ma quella delle superfici “pregnanti” che vanno facendosi. Questa metafisica afferma che «non si tratta più di essere tali o quali», bensì di «conquistare delle nuove maniere d’essere» (p. 49), e «non si diventa reali che rendendo più reali altre esistenze» (p. 76), ossia facendosi «intensificatori» (p. 21), «testimoni» (pp. 74-75), «avvocati» o «porta-esistenza» delle esistenze «ancora incompiute»: «noi portiamo le loro esistenze come esse portano la nostra. Noi facciamo causa comune con esse, a condizione di intendere la natura delle loro rivendicazioni, come se esse reclamassero di essere amplificate, ingrandite, in breve rese più reali» (p. 72). Da ultimo, quindi, Souriau ci invita a «entrare in un mondo dove la solidità dei corpi, la nettezza dei contorni, la fissità delle immagini si dissipano, a profitto dei verbi che affettano tutti i modi di esistenza: apparire, scomparire, ricomparire» (p. 92), un mondo nel quale a scomparire «non è il mondo, ma l’idea di un mondo comune», sostituita da quella di «una molteplicità di maniere o di gesti» (p. 48) che non sono mai già dati, ma richiedono incessantemente processi di instaurazione.
di Giacomo Pezzano
-
Il rompicapo della realtà. Metafisica, ontologia e filosofia della mente in E. J. Lowe (Mimesis, Milano 2015) di Timothy Tambassi è la prima monografia dedicata interamente al pensiero di Lowe, il quale ha contribuito a impreziosirla seguendone la stesura passo per passo fino alla versione definitiva (la tesi di dottorato dell’autore) senza tuttavia potere assistere alla pubblicazione del volume, avvenuta a poco più di un anno dalla morte dello stesso Lowe. Il sottotitolo rivela il contenuto vero e proprio del libro: non ogni aspetto della ricerca di Lowe, ma quelli considerati più aderenti al suo nucleo teoretico, ossia la metafisica, l’ontologia e la filosofia della mente, a cui corrispondono i tre capitoli del libro. Più in particolare, Tambassi mira a mostrare la stretta connessione sussistente fra questi aspetti della proposta loweiana, la loro costitutiva apertura ai risultati delle scienze e, più in generale, ad altre forme di indagine della realtà. Secondo Lowe, infatti, la riflessione metafisica – focalizzata sui tre concetti cardine di realtà, di sostanza e di risorse esplicative – costituisce lo sfondo concettuale imprescindibile dell’ontologia e della filosofia della mente e conseguentemente, attraverso queste ultime, di ogni altra forma di indagine della realtà. Come vedremo, però, la scelta di presentare una sintesi coerente solo del nucleo essenziale della proposta loweiana, se da un lato abbrevia certamente la via per l’acquisizione di una certa dimestichezza col suo pensiero, dall’altro, però, rischia di contrarre nella pura dimensione dell’implicito la ricchezza di temi e questioni che pure hanno caratterizzato il lavoro filosofico di Lowe e che intrattengono un ruolo di continuo scambio col suo nucleo – e non semplicemente di mera applicazione o conseguenza.
Il primo capitolo del testo di Tambassi è dedicato alla metafisica di Lowe, definita come una disciplina razionale che studia sistematicamente le strutture fondamentali della realtà, intesa a sua volta come unitaria e indipendente dal nostro modo di osservarla, e fa ciò interamente a priori, cercando quindi di chiarire alcuni concetti universalmente applicabili (pp. 19-20). Essa definisce ciò che è possibile, sia specificando la natura stessa della possibilità sia determinando quali siano le entità possibili e che caratteristiche abbiano. Stando a questa definizione, allora, la possibilità metafisica viene qualificata come una possibilità de re, ossia una possibilità reale, che riguarda la natura stessa delle cose di cui è predicata e ciò a prescindere dal modo in cui tali cose vengono concretamente descritte. Il criterio minimale per la possibilità reale, allora, è che tra le proposizioni utilizzate per descrivere le cose sia assente la contraddizione. In questo senso, nella concezione di Lowe la possibilità logica e l’ambito della metafisica risultano coestensivi: ciò che è possibile è, cioè, vero in ogni mondo in cui valgano le leggi della logica. L’orizzonte della pura possibilità logica acquisisce poi una più compiuta determinazione per mezzo delle nozioni trascendentali – quali, per esempio, le nozioni di sostanza, proprietà e stato di cose –, che è compito proprio della metafisica approfondire e che sono alla base dell’articolazione della nostra stessa esperienza della realtà attuale (pp. 25-26). In proposito, il senso del trascendentale loweiano – a differenza di quello kantiano – riguarda sia la realtà in se stessa sia il nostro modo di pensarla. E questo proprio perché, per Lowe, se da un lato non si dà realtà al di fuori dell’esperienza possibile, dall’altro la nostra esperienza e il nostro pensiero sono una parte costitutiva della realtà stessa, e ciò che riguarda essenzialmente il nostro pensiero della realtà riguarda con ciò stesso anche la realtà in quanto tale. Il fatto che Lowe sottolinei l’indipendenza della descrizione della realtà dal nostro modo di pensarla non risulta, però, in contraddizione con quanto appena sottolineato, poiché questa indipendenza è intesa tale non tanto nei confronti del pensiero in generale, quanto piuttosto nei confronti delle particolari prospettive dei soggetti.
Fra le nozioni trascendentali la centralità assoluta spetta alla nozione di sostanza (1.3), in virtù della sua indipendenza ontologica, che comporta la sua priorità ontologica rispetto a ogni altro tipo di entità (p. 28). È qui che il discorso metafisico entra pienamente nel vivo, coinvolgendo infatti le condizioni d’esistenza e d’identità delle sostanze, che a loro volta comportano – come vedremo più avanti – l’approfondimento della natura del tempo. Una certa entità è, allora, ontologicamente indipendente – ossia è una sostanza – se e solo se non dipende per la sua identità da qualche altra entità. Da tale condizione discende anche quella relativa all’esistenza: se una certa entità dipende da un’altra per la sua identità, ne dipende anche per la sua esistenza, ossia esiste solo se esiste anche la seconda. La sostanza è indipendente in entrambi i sensi – e in ciò consiste propriamente la sua indipendenza ontologica: «Così concepita, la sostanza è un particolare (concreto) che non dipende per la sua esistenza da nient’altro oltre che da se stesso, dove la dipendenza esistenziale coinvolta è intesa in termini di dipendenza rispetto all’identità» (pp. 29-30). L’insieme delle condizioni d’identità di una sostanza – ciò che determina l’identità e l’unità di essa – è allora la sua forma, ossia il suo costituirsi come istanza di un certo genere (o tipo). In virtù di questo aspetto fondamentale della forma Lowe ammette poi l’esistenza di sostanze immateriali – quali per esempio i sé (oggetto della filosofia della mente) e le particelle ultime (che sarebbero quindi fisiche e immateriali al tempo stesso; cfr. p. 32) – accanto a quelle materiali, intendendo qui ‘materiale’ nel senso della materia prossima, ossia ciò di cui una cosa risulta immediatamente costituita.
Sempre dalla forma discende poi anche la più importante distinzione relativa alle sostanze: quella fra sostanze composte – tra le quali si annoverano le cose concrete del mondo macroscopico – e sostanze semplici (o prime) – per esempio i sé e alcune particelle subatomiche la cui immaterialità, naturalmente, consegue dalla loro semplicità – che costituiscono il fondamento ultimo dell’esistenza del reale (pp. 33-34). Una sostanza è allora composta, se possiede delle parti – dalle quali non dipende però per la propria identità – ed è invece semplice, se è priva di parti costituenti. A sua volta, la differenza fra i due tipi di sostanze si fonda su una differenza fra criteri d’identità ed è qui che il tempo gioca un ruolo decisivo: se infatti ogni sostanza materiale e ogni sostanza fisica sono necessariamente collocate in modo determinato nello spazio e nel tempo, le sostanze mentali (i sé) esistono necessariamente nel tempo ma solo contingentemente nello spazio – ossia solo nella misura in cui sono legate a sostanze fisiche quali i loro corpi: poiché per Lowe il tempo è reale per ogni tipo di sostanza, esso risulta un riferimento privilegiato. Più in particolare, è in relazione al tempo che emerge una differenza fondamentale nei criteri d’identità delle sostanze: contrariamente a quelle semplici, infatti, le sostanze composte sono dotate di un criterio d’identità diacronica (1.6), che «è fondata a partire dalle relazioni di equivalenza definite sulle loro componenti attuali o possibili […] e consiste nella conservazione di tali relazioni fra le parti costituenti possedute dalle sostanze attraverso il tempo» (pp. 36-37). La sostanza complessa, in somma, è ciò che permane attraverso il mutare delle relazioni, in cui il tempo propriamente consiste. È per questo motivo che l’esistenza stessa del tempo dipende in ultima istanza da quella delle sostanze semplici, «che persistono attraverso il tempo come “continuanti” […] e la cui persistenza è necessariamente primitiva» (p. 40).
Al culmine di queste considerazioni, Tambassi inserisce un’accurata analisi della concezione loweiana del tempo e del contesto in cui si colloca (1.7). Se il dibattito contemporaneo sulla natura del tempo è diviso fra le teorie tensionali (dall’inglese ‘tense’) e quelle atensionali – le prime ritengono essenziali le nozioni di passato, presente e futuro, le seconde si limitando a considerare le nozioni di prima, dopo e simultaneità –, Lowe assume la prima posizione, legandola essenzialmente a una concezione della persistenza (di una sostanza nel tempo) di tipo endurantista, secondo la quale una sostanza è sempre completamente presente in ogni momento in cui esiste – posizione contrapposta a quella perdurantista, secondo cui a differenti momenti dell’esistenza di una sostanza complessa corrispondono differenti parti temporali di essa.
Il secondo capitolo del libro è dedicato all’ontologia, che Tambassi rileva come «la parte più innovativa e originale» (p. 45) degli scritti di Lowe, anche perché giunta alla sua veste definitiva solo con la pubblicazione nel 2006 di The Four-Category Ontology. Dopo una ricostruzione storico-contestuale dell’ontologia analitica e del dibattito contemporaneo (2.1), Tambassi delinea la posizione loweiana sull’ontologia: «quella parte della metafisica che studia nello specifico l’essere in tre sensi fondamentali: esistenza, entità ed essenza» (p. 50). Essa ha il compito di stabilire che cosa esiste (esistenza), di determinare le categorie fondamentali dell’essere nonché le loro interrelazioni (entità) e, infine, di indagare quali siano le caratteristiche necessarie e quali le caratteristiche contingenti di una determinata entità (essenza). L’ontologia si divide inoltre in una parte a priori – quella specifica dell’elaborazione categoriale – e una empirica, che si confronta coi risultati delle altre scienze. In sintesi, allora, se la metafisica si occupa della pura possibilità, l’ontologia si occupa di ciò che esiste e coesiste. In quanto scienza dell’essere, come già osservato, essa è secondo Lowe indissolubilmente connessa alle descrizioni della realtà che emergono dal lavoro di ogni disciplina scientifica, il cui obiettivo è una descrizione vera della porzione di realtà che costituisce il suo specifico oggetto di ricerca, descrizione su cui si innesta conseguentemente anche la capacità di una scienza di fornire adeguati modelli di previsione per i fenomeni coinvolti nel suo oggetto. «L’ontologia ha l’obiettivo di unificare le diverse descrizioni […], in modo da fornire una descrizione unitaria» (p. 50), essendo il suo oggetto la realtà in se stessa e in quanto tale. Tambassi prosegue collocando la posizione di Lowe nel panorama contemporaneo relativo alle categorie ontologiche (2.2), che Lowe definisce come i tipi più generali di cose (categorie dotate di maggiore generalità) che forniscono i criteri d’identità per specifiche classi di oggetti (p. 53). Partendo dalla categoria ontologica di entità – la massima per generalità –, si arriva quindi finalmente al sistema ontologico quadri-categoriale (2.3), ottenuto combinando le suddivisioni di entità in universali/particolari e sostanziali/non sostanziali. Le quattro categorie (cfr. p. 55) sono quelle dei generi (universali sostanziali), degli attributi (universali non sostanziali), degli oggetti (particolari sostanziali, ossia le sostanze di cui si è discusso nel primo capitolo) e dei modi (particolari non sostanziali). Tutto ciò che esiste è incluso in una di queste categorie, il cui studio avviene interamente a priori. Fra le quattro categorie fondamentali, inoltre, sussistono due relazioni metafisiche fondamentali: l’istanziazione (generi e attributi istanziati rispettivamente da oggetti e modi) e la caratterizzazione (generi e oggetti caratterizzati rispettivamente da attributi e modi). A queste due prime relazioni metafisiche Lowe aggiunge poi la relazione di esemplificazione (attributi esemplificati da oggetti). A ognuna delle quattro categorie ontologiche loweiane, che categorizzano entità esistenti (anche nel caso degli universali, come vedremo), Tambassi dedica poi un’analisi specifica (2.4).
Il punto di partenza è ancora la nozione di sostanza, che nel sistema quadri-categoriale è rappresentata dalla categoria degli oggetti (2.4.1): com’era emerso nel capitolo dedicato alla metafisica, questa è la categoria delle entità che per la loro indipendenza e priorità ontologiche sono il fondamento della realtà. Così, relativamente al rapporto fra gli oggetti e i modi che li caratterizzano (proprietà e relazioni degli oggetti), Lowe pone due importanti distinzioni: la prima è che gli oggetti non sono meri sostrati privi di proprietà in se stessi (bare particulars) con la funzione di sostenere proprietà che avrebbero così un ruolo ontologicamente prioritario nelle condizioni d’identità dell’oggetto stesso. Piuttosto, invece, «gli oggetti non dipendono né per la loro esistenza né per la loro identità dai modi che li caratterizzano» (p. 61) trattandosi di due entità differenti, le prime ontologicamente indipendenti, le seconde dipendenti. La seconda distinzione importante, è quella fra oggetti e quasi-oggetti. Questi ultimi sono entità particolari e numerabili, che tuttavia sono costitutivamente privi di condizioni d’identità determinate che ne permettano l’individuazione (tali sono per esempio le particelle atomiche oggetto della meccanica quantistica): «L’indeterminatezza della loro identità è di tipo ontologico e non dipende in alcun modo dal nostro modo di conoscere le entità in questione» (p. 63). Procedendo con le altre categorie, Tambassi considera poi i modi – che si dividono in proprietà particolari (modi monadici) e relazioni particolari (modi poliadici) – e il loro rapporto con la nostra esperienza empirica (2.4.2), rapporto a proposito del quale Lowe considera la differenza fra le nostre percezioni e i fatti stessi (a loro volta distinti in eventi e processi, intesi come cambiamenti e sequenze di cambiamenti nei modi di un oggetto; cfr. p. 67). Che i modi siano delle entità particolari, inoltre, comporta l’unicità di ognuno di essi, mentre la loro dipendenza dagli oggetti implica che nessun modo può dipendere al tempo stesso da oggetti differenti; i modi, inoltre, non possono nemmeno essere considerati alla stregua di parti di un oggetto: queste sono infatti particolari sostanziali, che possono a loro volta possedere degli altri modi, ma non ridurvisi. Dalle considerazioni sui modi, Tambassi prosegue a discutere la concezione loweiana degli attributi (2.4.3.), intesi come il modo di due o più oggetti, o come un’entità portata dal genere che ne viene così caratterizzato (cfr. p. 71; per esempio, si dice che l’attributo della “trasparenza” caratterizza il genere “vetro”, che è un portatore della trasparenza; il vetro particolare (sostanza) della finestra che ho accanto e la sua particolare trasparenza (modo), sono allora rispettivamente istanze del genere “vetro” e dell’attributo “trasparenza”). Comincia qui a profilarsi il particolare realismo “immanente” sugli universali di Lowe, secondo il quale gli universali inclusi nell’inventario dell’esistente sono sia quelli istanziati attualmente sia quelli che hanno avuto istanze e che non sono però più attuali, ma non quelli di cui non si abbiano istanze (p. 70). Tambassi conclude poi il secondo capitolo con la discussione dei generi (2.4.4.) – universali sostanziali –, a cui Lowe «attribuisce un ruolo fondamentale nella descrizione dello statuto ontologico delle leggi naturali» (p. 74). Alle leggi naturali corrispondono i generi naturali da esse necessariamente caratterizzati e, in questo senso, le leggi naturali «determinano tendenze fra i particolari […] a cui si applicano, ma non i loro comportamento attuale […] che è invece il risultato di molteplici interazioni implicanti una molteplicità di leggi» (p. 77).
Infine, il terzo e ultimo capitolo prende in considerazione la filosofia della mente, definita come «la disciplina che si occupa di studiare e analizzare, da un punto di vista filosofico, i soggetti di esperienza, […] di chiarire cosa siano e se e come possano esistere» (p. 83). Con “soggetto di esperienza” s’intende ogni possibile portatore di proprietà mentali (per esempio persone, altri animali, robot e spiriti senza corpo). In gran parte, la filosofia della mente di Lowe mi sembra essere una coerente conseguenza di idee sviluppate su un piano strettamente ontologico e metafisico. Così, Lowe può tradurre il problema del rapporto mente-corpo nella questione del rapporto fra due differenti generi naturali di oggetti, l’uno rispondendo a leggi biologiche – il corpo – l'altro a leggi psicologiche – il sé. La peculiare soluzione di Lowe, chiamata anche dualismo delle sostanze non cartesiano (3.4), afferma infatti che a corpo e mente corrispondono rispettivamente una sostanza complessa e una semplice (il sé, che Tambassi presenta assieme al cosiddetto unity argument (3.5)) senza però che tali sostanze siano necessariamente separabili l’una dall’altra (per questo il dualismo è qui “non cartesiano”) e soprattutto senza che ci sia un rapporto di subalternità fra leggi biologiche e leggi psicologiche, dato che Lowe rivendica per queste ultime «uno specifico ruolo causale ed esplicativo» (p. 102) capace anche di determinare in una certa misura, amplificata dai contesti sociali, la stessa storia evolutiva biologica.
Su questo tema il testo si chiude ed è proprio a questi ultimi argomenti che si rivolge l’unica mia critica al volume. Si tratta di una critica metodologica, e non contenutistica, nei confronti di Tambassi: a mio modo di vedere, l’unica debolezza de Il rompicapo della realtà – debolezza, per altro, conseguente a una consapevole scelta di Tambassi – consiste nell’aver deliberatamente escluso tutti gli studi di Lowe che non riguardino direttamente il tema metafisico. Mi riferisco a quegli studi su Locke che hanno occupato una parte certamente non marginale del lavoro di Lowe e che potrebbero integrare in modo significativo la presentazione della metafisica loweiana proposta da Tambassi fornendo al lettore da un lato interessanti informazioni sul percorso d’indagine che Lowe ha seguito, dall’altro una visione più ampia della genesi della metafisica loweiana: la nozione loweiana di sostanza risente, infatti, del confronto con Locke e, attraverso quest’ultimo, è ampiamente debitrice della cosiddetta Early Modern Philosophy. Anzi, si potrebbe osservare che la concezione loweiana della sostanza sembra a tratti quasi sovrapponibile a quella lockiana, a esclusione di un aspetto decisivo: per Lowe, infatti, la nozione di sostanza non ha affatto una natura ipotetica, ma marcatamente reale – le sostanze, infatti, sono le autentiche componenti della realtà esistente. Questa soluzione parrebbe indirizzare Lowe verso un paradigma leibniziano, tuttvia l’autore smentisce questa apparenza sostenendo che per lui esistono sia le sostanze immateriali (com’erano le monadi leibniziane) sia le sostanze materiali (impensabili nel sistema leibniziano maturo, nel quale materia ha un carattere derivato), e ammette persino l’esistenza di entità numerabili ma non discernibili come i quasi-oggetti (anche questo aspetto è assolutamente escluso dal Leibniz maturo). Un ennesimo elemento indica quanto Lowe sia profondamente legato a Locke: Lowe non esita a definire Le categorie di Aristotele come il testo più importante nella storia dell’ontologia1, rimarcandone al contempo l’influenza sul suo pensiero, ma si discosta poi nettamente dall’idea aristotelica di sostanza prima riconvergendo verso una posizione lockiana.
Da queste rapide osservazioni conclusive – che hanno più la natura di spunti, che di critiche – mi sembra si possa guadagnare una piena prospettiva sulla fecondità di questa monografia: il nucleo teoretico del pensiero di Lowe è tutto qui, esposto in modo chiaro e sintetico. E tuttavia, così come possedere un passepartout non equivale a varcare tutte le soglie che esso ci può aprire, la ricchezza del pensiero di Lowe attende ancora importanti esplorazioni.
1Cfr. E. J. Lowe, The Four-Category Ontology, Oxford University Press, Oxford 2006, p. 58.
di Lorenzo Vitale
-
Passeggiate urbane
Serial / Novembre 2014«La passeggiata dello schizofrenico: un modello migliore di quella del nevrotico sul divano. Un po' d'aria aperta, una relazione con l'esterno»
Così scrivevano Deleuze e Guattari nell'Anti-Edipo; questa citazione esprime non solo un'ironica, quanto spiazzante denuncia delle normatività e delle costrizioni dell'analisi freudiana ma anche una valida alternativa alla filosofia da scrittoio.
Da questo spunto nasce la volontà di scrivere una rubrica di Passeggiate urbane che si ricollega a un'eredità antica quanto la filosofia, se con questa intendiamo la tradizione socratica e cinica. Anche se da essa, per questioni probabilmente dettate dal passaggio alla modernità, se ne distacca in quanto alla conversazione preferisce la narrazione e l'indagine emotiva.