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La solidarietà in tempi difficili
Longform / Giugno 2022Che cos’è la solidarietà? Nel concetto si incontrano, come sappiamo, almeno due tradizioni distinte, quella rivoluzionaria della “fraternità” e quella cattolica della “carità”. L’una e l’altra alludono a un legame tra gli individui di tipo extracontrattuale, capace di fare in modo che l’attenzione disinteressata per il prossimo non risulti sacrificata a vantaggio della logica dello scambio. Appellarsi alla solidarietà significa ricordare che non è solo da considerazioni razionali rispetto allo scopo che è possibile dedurre le norme e le istituzioni in grado di offrire alle persone l’opportunità di condurre vite soddisfacenti e dignitose e di garantire al sistema democratico la possibilità di mantenere nel tempo condizioni accettabili di stabilità. Eppure, la solidarietà è divenuta una risorsa scarsa, che non si lascia rigenerare o ingrandire a piacimento. L’indebolimento progressivo delle pratiche simboliche che assicurano la solidarietà sociale, come i riti, il culto religioso, le cerimonie nazionali per un verso, e la tendenza crescente all’esercizio meramente legale e strategico dei diritti soggettivi per un altro, hanno contribuito a rendere questa risorsa, che indica la soglia minima della spontaneità sociale, un bene sempre più bisognoso di rigenerazione. In generale, si può in ogni caso affermare che tutte le concettualizzazioni della solidarietà hanno in comune qualcosa che ha a che fare con la volontà di promuovere e praticare a livello di socializzazione forme di relazione di tipo cooperativo, così da incentivare la coesione solidale dei cittadini al di là delle rispettive funzioni professionali o degli stereotipi di ruolo interiorizzati.
Per provare a chiarire meglio il concetto può essere utile distinguere tre aspetti principali. In primo luogo, la solidarietà si richiama alla necessità di fornire sostegno o assistenza alle persone in difficoltà con le quali vi è un rapporto di prossimità, di tipo solitamente affettivo o emotivo. In secondo luogo, chi avverte questa esigenza percepisce di avere qualcosa in comune con chi ne è beneficiario: valori, norme e costumi tacitamente condivisi, oppure il senso di essere parte di una comunità solidale nella quale ciascuno si fa carico dell’altro per affrontare assieme le sfide esistenziali di una vita sottoposta a una minaccia incombente. Infine, la solidarietà non è una forma di interazione da praticare occasionalmente ma è, piuttosto, un ingrediente costitutivo del tessuto sociale o politico, una componente intrinseca del vivere sociale. Per questo richiede un certo livello di reciprocità, per quanto indiretta: non a caso, il sentimento di solidarietà è più accentuato quando le persone che contribuiscono agli assetti solidaristici possono contare sul fatto che a tempo debito i loro sforzi verranno debitamente ricompensati. L’idea di Habermas, della solidarietà come terza fonte dell’integrazione della società accanto al denaro e al potere amministrativo, cerca di cogliere con uno sguardo d’insieme questa triplice articolazione del concetto, che dalle strutture di mutuo riconoscimento spontanee e concrete si trasferisce in forma astratta, ma vincolante, agli ambiti d’azione complessi e progressivamente anonimi delle società funzionalmente differenziate.
In prima battuta, tuttavia, è opportuno restare ancorati al piano della fattualità spontanea di forme di vita unite da vincoli di prossimità e cooperazione abituale, dove risulta possibile definire la solidarietà come una pratica spontanea e non-regolamentata che esprime la volontà di assistere o sostenere coloro con i quali vi è – o si ritiene che vi sia – una sorta di familiarità per un qualche aspetto ritenuto rilevante. L’aspetto che gioca il ruolo più significativo è costituito dai contesti all’interno dei quali risulta possibile praticare forme di solidarietà “in solido”, per così dire. Poniamo che un individuo venga a sapere che in un certo luogo di lavoro i dipendenti subiscono esperienze di discriminazione, degradazione ed esclusione. È probabile che la molla della solidarietà scatti in lui se gli è a sua volta toccato in sorte di subire esperienze simili. O immaginiamo che un altro doni un organo del proprio corpo a che ne ha bisogno per sopravvivere. Anche in questo caso è verosimile che un gesto di solidarietà così impegnativo venga attuato se in famiglia o nella cerchia di amici o conoscenti una circostanza del genere abbia già avuto modo di verificarsi. Il riconoscimento della somiglianza sotto un qualche aspetto rilevante è perciò un processo attivo, che permette di vedere negli altri ciò che si sa o che si prova riguardo a se stessi. Non si tratta del mero riconoscimento di caratteristiche astratte e generiche: tocca invece situazioni in cui i tratti comuni che le persone hanno imparato a riconoscere possono diventare effettivamente obbliganti per l’agire del singolo solo se si incarnano nell’esigenza di qualche essere umano realmente esistente.
È verosimile che se un individuo avesse l’abitudine di vedere negli altri ciò che hanno di diverso da lui – per esempio attraverso il filtro delle appartenenze culturali, religiose o politiche – piuttosto che gli aspetti condivisi, incontrerebbe non poche difficoltà a ritrovare quella disponibilità a porre l’altro entro se stesso e a permanere presso di sé nell’essere altro di cui parlava Hegel – disponibilità che è alla base di ogni impegno solidaristico. Insomma, la solidarietà sembra prevedere un rapporto di simmetria tra i soggetti, per lo meno nel momento in cui qualcuno presta sostegno a qualcun altro. Questa simmetria non è una sorta di affermazione ontologica relativa alla configurazione delle nostre società, nel senso che non si tratta affatto di lasciare in ombra le differenze e le disuguaglianze strutturali che le attraversano. Si tratta piuttosto di prendere atto che, in alcune circostanze, le somiglianze contano ben più delle differenze.
Questa definizione permette di distinguere la solidarietà da altre forme di sostegno o di pratica pro-sociale, come l’empatia, la carità o l’amore. La solidarietà è diversa dall’empatia perché non basta limitarsi a ricondurre a sé le emozioni altrui: la preoccupazione per le sorti di chi è minacciato o si trova in difficoltà deve essere unita alla motivazione altruistica di porre rimedio alla situazione mediante una qualche forma di intervento concreto. È diversa dalla carità perché richiede una preliminare condivisione, anche solo immaginativa, di alcuni tratti comuni impliciti nelle forme di vita, per esempio, il fatto che ci si trovi nella stessa situazione di vulnerabilità rispetto al contagio, alla malattia o alla morte. Mentre cioè la carità potrebbe nascere da un dovere morale o religioso che sollecita i ricchi a elargire denaro ai poveri in ragione delle macroscopiche differenze tra gli uni e gli altri, un impegno di tipo solidaristico tende a considerare queste differenze come marginali e dedica invece la massima attenzione ai fattori di condivisione. La solidarietà, infine, è diversa dal sostegno che amanti, amici o familiari possono prestare gli uni agli altri, perché ciò che in questi casi lega gli uni agli altri ha un peso e un valore emotivo che manca nel caso di legami che si basano soltanto su una somiglianza, reale o percepita. La solidarietà può allora subentrare come fattore compensativo proprio là dove legami thick di questo genere risultano assenti.
La solidarietà può così manifestarsi a livelli diversi: a livello interpersonale, a livello di gruppo e a livello di istituzioni e di norme formali. Quando la solidarietà si attua a livello individuale, da persona a persona, si può parlare di solidarietà di primo livello. Quando le azioni di mutuo sostegno diventano così comuni da trasformarsi in un comportamento quasi di routine per determinati gruppi o associazioni, si può parlare di solidarietà di secondo livello. Quando la solidarietà si esprime in norme giuridiche, amministrative e burocratiche, regolamenti e progetti, si entra nel campo della solidarietà di terzo livello. Questa forma di solidarietà prende generalmente corpo quando le pratiche individuali e di gruppo si sono solidificate in forme strutturali e istituzionali, come quelle conservate nelle strutture giuridiche delle società funzionalmente differenziate di cui parla Habermas. Ora, se la pandemia ha insegnato qualcosa, è che, per quanto le strutture di mutuo riconoscimento caratteristiche delle interazioni semplici e dei rapporti spontanei di solidarietà possano essere importanti, a fare la differenza, per così dire, è la solidarietà istituzionale incorporata nel diritto. Più la crisi incrementa il fabbisogno di solidarietà, più aumenta il peso della solidarietà civica giuridicamente mediata.
Il rapporto tra solidarietà e pandemie è infatti più complicato di quanto si sarebbe portati a pensare, nel senso che una crisi sanitaria, anche se ciò può sembrare controintuitivo, non fa necessariamente scattare in automatico meccanismi spontanei di solidarietà. Di primo acchito si sarebbe infatti portati a pensare che una crisi, come per esempio quella dovuta alla pandemia, spinga le persone a stringere vincoli di solidarietà capaci di rendere irrilevanti differenze che, in altri contesti e in altre situazioni, sarebbero invece sufficienti a giustificare scelte de-solidaristiche. La crisi pandemica sembra invece rendere le cose un po’ più complicate perché non a tutti riesce sempre facile trovare punti in comune con tutti gli altri. Una prima ragione è data dall’intervallo di tempo da prendere in considerazione che, anche nel caso di una pandemia prolungata, non copre certo l’intero arco di vita delle persone, e questo non le aiuta a dare per scontato che in futuro riceveranno le stesse prestazioni solidaristiche che stanno, al momento, assicurando agli altri. Inoltre, se la pandemia fosse destinata a finire in breve tempo, le persone a rischio immediato di ammalarsi sarebbero portate a vivere questa eventualità come una minaccia molto più grave e incombente rispetto ai rischi per la salute legati alla inevitabile vulnerabilità umana – rischi che possono diventare reali anche a decenni di distanza. In altre parole, è molto più difficile riconoscere le somiglianze con gli altri, e adottarle quale presupposto delle nostre azioni, nell’arco di tempo relativamente breve di una pandemia rispetto a quanto avviene nell’arco di una intera vita.
Quali insegnamenti si possono ricavare da queste riflessioni? Il primo è che, dal momento che i costi di contenimento delle pandemie non sono sostenuti da un qualche sottogruppo, ma dall’intera popolazione, e poiché le pandemie si verificano in un periodo di tempo relativamente breve, durante il quale le persone corrono rischi e hanno interessi molto diversi, le possibilità di mobilitare forme spontanee di solidarietà a sostegno della salute pubblica sono molto limitate. Il secondo è che, di conseguenza, spetta alla solidarietà civica incorporata nel diritto e nelle istituzioni democratiche, e cioè alla solidarietà di “terzo livello”, creare quelle “reti di sicurezza” che coadiuvano le prestazioni sociointegrative dei rimanenti ordinamenti istituzionali. Il terzo, che questa forma di solidarietà civica ha un nome: Stato-di-welfare, ovvero l’istituzione politica che ha creato la democrazia della solidarietà.
di Edoardo Greblo
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Nell’opera complessiva del filosofo italiano Giorgio Agamben emerge con singolare nettezza l’articolato e celeberrimo progetto che va sotto il nome di Homo sacer. È questa un’opera densa e articolata, avviatasi verso la metà degli anni ‘90 con l’omonimo saggio (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995) e definitivamente conclusasi di recente con il volume L’uso dei corpi (Neri Pozza, 2014). Eppure, nella mente e nella penna dell’Autore sembra permanere ancora lo spazio per un’ulteriore incursione nel politico – un’incursione, forse, tra le più problematiche e complesse finora affrontate dall’intellettuale italiano. È questo il caso del recentissimo saggio Stasis. La guerra civile come paradigma politico, che raccoglie i contributi di due conferenze tenutesi presso l’Università di Princeton nel 2001; etichettato con la dicitura Homo sacer, II, 2 il testo si frappone tra il precedente Stato di eccezione ed il successivo Il Regno e la Gloria. A un primo sguardo, i temi del nuovo volume appaiono collegati e opposti nel medesimo frangente. Da un lato, si assiste a un breve esame critico della nozione greca di stasis, che sinteticamente va a indicare la guerra civile combattuta all’interno di una stessa comunità politica tra fratelli e concittadini. Dall’altro, trova invece spazio un originale e innovativo studio sull’opera più nota del filosofo inglese Thomas Hobbes (Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil, 1651), ossia su quella costruzione filosofico-giuridica che ergendosi al di sopra della moltitudine sociale scongiura per l’appunto il rischio del conflitto sociale. Ciò che va fin d’ora notato, tuttavia, è che l’approccio prescelto dall’Autore non è tanto quello di chiosare le note affermazioni che tradizionalmente si ripetono negli studi di settore, né quello di elaborare ex novo una teoria della guerra civile. L’interesse scaturente dalle pagine del breve scritto nasce dal desiderio di tracciare un nuovo filone critico sotteso allo studio della cd. stasiologia, e di sopperire in tal modo alla lacunosità del dibattito filosofico e giuridico attuali.
Secondo Agamben, ciò che manca oggi è propriamente uno studio ragionato e consapevole sul conflitto civile, ossia un tentativo di pensare filosoficamente la crisi e lo scontro. Un tentativo, deve aggiungersi, che ben al contrario si attualizza nel desiderio compulsivo di gestire, risolvere e se possibile anticipare il caso serio, al fine di evitarne ogni possibile problematicità. Proprio alla luce di questa ansia di risoluzione, il dato intellettuale tristemente si smarrisce: a riprova di ciò stanno tanto l’assenza di testi giuridici e politologici di riferimento, quanto la crisi stessa del termine guerra civile, sintagma che nell’ambito internazionale si riduce oramai a fattispecie invocante il mero intervento regolativo degli organismi internazionali. Ecco dunque che di fronte alle civil (o, come sembra ormai consuetudine etichettarle, uncivil) wars non si elabora più una teoria volta alla loro comprensione, bensì si mira a un management delle medesime, ossia a un articolato sistema di iniziative che si esplicita nelle plurime attività «della gestione, della manipolazione e dell’internazionalizzazione dei conflitti interni» (p. 11). Per colmare questa sorprendente mancanza, il breve saggio di Agamben si incarica di mostrare due eclatanti manifestazioni storiche di tale paradigma, ricorrendo alla tradizione politica della Grecia classica e al pensiero filosofico di Thomas Hobbes. La convinzione che muove l’Autore in questo particolare percorso è infatti che entrambi i momenti rappresentino «le due facce di uno stesso paradigma politico, che si manifesta da una parte nell’affermazione della necessità della guerra civile e, dall’altra, nella necessità della sua esclusione» (p. 12). Tale opposizione, in altri termini, è il segno concreto di una loro intima vicinanza, che il consueto stile espositivo agambeniano chiarisce nelle sue plurime implicazioni.
Prima di tutto, il doppio e opposto significato del termine stasis, che va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “–sta” del verbo greco hìstemi). Nel suo secondo senso, il lemma sembra invece essersi dissipato, permanendo solo come antica vox media di un paradigma politico più ampio e quasi sotterraneo. Attraverso un’analisi delle sue molteplici ricorrenze sia in Tucidide sia in Platone, Agamben arguisce che in realtà l’emblematica indeterminatezza della voce ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24). In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Ulteriore conseguenza è che questa stessa indeterminatezza concettuale si riverbera nel formante giuridico, così come mostrato dall’istituto penalistico dell’amnistia. Se infatti il prendere parte alla guerra civile era nell’antica Grecia politicamente necessario, a conclusione del conflitto interveniva comunque la pacificazione sociale, che attraverso le forme dell’oblio (amnistia – da amnestèo – indica appunto la dimenticanza) sanava retroattivamente la partecipazione attiva dei suoi componenti. In questo senso, la stasis non è qualcosa che semplicemente deve essere rimosso, ma è «l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti» (p. 29).
Nella Grecia classica, possiamo allora concluderne, non si dà una sostanza politica omogenea, ma un manifestarsi irregolare e continuo di correnti tensionali e instabili, esprimentesi in ultimo grado nelle forme della politicizzazione e della depoliticizzazione, ossia nella commistione belluina della famiglia e della città.
Ora, è precisamente per sconfiggere questo scenario mortifero e abissale che Hobbes costruirà il suo Leviatano, quell’immenso automa o “Dio mortale” composto da una moltitudine di piccole figure umane tradizionalmente intese come sudditi. Com’è facile scorgere esaminando i due diversi frontespizi dell’opera (l’uno vede rappresentati i sudditi con il viso rivolto verso il lettore; l’altro, coevo al primo, li coglie al contrario di spalle), gli esserini che compongono l’immenso meccanismo artificiale si uniscono saldamente gli uni agli altri. La spiegazione traslata è che ciò avviene per mezzo del loro reciproco accordo, che consente metaforicamente di compattarli dando luogo a quell’ideale corpo politico (body political) così caro al pensatore inglese.
Proprio la nozione di corpo politico, però, si presta alle più dure contestazioni: data la sua sfuggente consistenza, per Hobbes il popolo esiste solo nell’istante in cui si riunisce per nominare un leader o un’assemblea rappresentativa – ma in questo stesso istante svanisce improvvisamente. Il corpo politico, in altri termini, è qualcosa di altro e di impossibile, destinato continuamente a comporsi e subitaneamente a dissolversi nella costituzione del governo effettivo. È in questo preciso passaggio che Agamben ricerca un’affinità con il summenzionato meccanismo di esclusione/inclusione visto a proposito della guerra civile nella Grecia antica: «se il popolo, che è stato costituito da una moltitudine disunita, si dissolve nuovamente in una moltitudine, allora questa non soltanto preesiste al popolo/re, ma, come multitudo dissoluta, continua a esistere dopo di questo […] La moltitudine non ha un significato politico, essa è l’elemento impolitico sulla cui esclusione si fonda la città; e, tuttavia, nella città vi è soltanto la moltitudine, perché il popolo è già sempre svanito nel sovrano» (p. 55). Hobbes, rendendosi conto di tale aporia, oblitera il paradosso della moltitudine/corpo politico risolvendolo, com’è noto, con il ricorso immediato al pactum subiectionis. Ma se ciò ha il pregio di spezzare il circolo che dalla guerra civile conduce alla riconfigurazione della multitudo dissoluta, permane quale operazione problematica e nient’affatto ultimativa – un’operazione che lascia scoperto l’enorme problema di una possibile ripresentazione dello stato di natura e quindi del conflitto generalizzato.
Senza dubbio, è in questi termini che fino a oggi è stato pensato il fine ultimo del Leviatano: la posticipazione indefinita del conflitto civile. Il covenant alla base della sua formazione agirebbe, si sostiene, quale forza frenante rispetto all’avvento della discordia intestina, ossia quale meccanismo giuridico in grado di disinnescare a priori la fine dei tempi rappresentata dal collasso politico. In fondo, si può anche dire, il Leviatano fa paura proprio per questa ragione: se come si è visto la multitudo dissoluta può effettivamente frammentarsi in ogni istante e generare quindi un nuovo conflitto, lo Stato deve continuativamente incutere timore, un timore rivolto all’impedimento immediato di ogni sua concreta demolizione. Con un doppio ribaltamento, Agamben costruisce invece la propria conclusiva argomentazione accentuando la dimensione messianica e decisamente escatologica dell’intero pensiero hobbesiano. In tal senso il filosofo inglese, in accordo con il messaggio evangelico, configurerebbe il Leviathan quale “capo” di un political body, con ciò adoperando la nota immagine paolina che predica Cristo stesso quale “capo” dell’ekklesìa, ossia dell’assemblea dei fedeli. Se Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, allora il Leviathan è il capo del corpo politico. Questo rispecchiamento profano del messaggio paolino conduce però a una precisa conseguenza: «nello stato attuale, Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, ma, alla fine dei tempi, nel Regno dei cieli, non vi sarà più distinzione fra la testa e il corpo, perché Dio sarà tutto in tutti […] Ciò significa che alla fine dei tempi la finzione cefalica del Leviatano potrebbe essere cancellata e il popolo ritrovare il suo corpo. La cesura che divide il body political – soltanto visibile nella finzione ottica del Leviatano, ma di fatto irreale – e la moltitudine reale, ma politicamente invisibile, sarà alla fine colmata nella Chiesa perfetta» (p. 72). Un nuovo messaggio sembra allora profilarsi quale cifra complessiva di questa antica filosofia: lo Stato (di matrice hobbesiana) non ha affatto la funzione e il ruolo di una forza frenante o catecontica. Esso non vuole in alcun modo posticipare la fine dei tempi, ma al contrario avvicinarla escatologicamente, in modo da rendere reali l’avvento del Regno e la consumazione dei tempi. Buffamente, lo Stato-Leviatano – che nell’immaginario di tutti predicava la garanzia per la pace e la sicurezza dei sudditi – partecipa invece a una visione apocalittica del potere, in cui l’avvento catastrofico del Giorno del Signore è la lettera conclusiva dell’intera esperienza politica occidentale.
Diverse tradizioni sembrano allora confrontarsi nell’immagine storica di questa figura: da un lato quella terrifica di uno Stato assoluto e indomabile, che ingloba senza esitazione le anime di chi tenta di impossessarsene (come sottolinea vividamente Bodin nella sua Daemonomania). Dall’altro, quella cabalistica e messianica che intravede al contrario il grande monstrum scomparire nel festivo banchetto delle sue carni. Ma se la storia del pensiero politico sembra confinare tali interpretazioni all’archeologia del pensiero storico, una terza e parimenti inquietante forma di manifestazione è stata ben presente nella concezione dello Stato moderno. Una concezione che vedeva il Leviatano quale meccanismo artificiale e impersonale, in cui attraverso la generale neutralizzazione del politico si perveniva a una concezione del diritto quale strumento tecnico neutrale. L’annoso conflitto tra legalità e legittimità, che oggi prende le forme degli imperativi tecnici e della logica economica, produce ancora manifestazioni assolutizzanti e dotate di un vero e proprio carattere normativo, quali è facile incontrare nelle forme atipiche della soft law e della governance mondiale. Tali istanze scompaginano le categorie giuridiche fondamentali, costruendo e decostruendo lo stesso simbolo del Leviatano, e agendo come operatori eccezionali in grado di (ri)fondare l’ordine politico mondiale.
È forse attraverso la secolarizzazione di questa remota provenienza che sembra giunta allora l’epoca della stasis globale – un’epoca, suggerisce Agamben, in cui la politica contemporanea ricerca il proprio senso teologico senza riuscire pienamente a coglierlo, perché preda di una dimenticanza remota e inquietante che rimonta alle origine stesse della propria costituzione. Il contributo di Agamben, pur nell’estemporaneità della sua trattazione, è allora un piccolo ma denso tassello di un’opera ancora da scrivere e, forse, ancora da pensare.
di Mauro Balestrieri