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Alexandre Gefen: l’idea di letteratura in Francia
Recensioni / Aprile 2022L'Idée de littérature. De l'art pour l'art aux écritures d'intervention (éditions Corti, 2021) propone un’analisi dei tratti costitutivi dell’idea di letteratura attualmente diffusa in Francia, cogliendone l’evoluzione dal punto di vista storico, geografico, tematico e generico. Particolare attenzione è riservata al panorama critico francese e alle influenze dal mondo anglosassone (studi postcoloniali, studi culturali, studi areali), nonché all’apporto di aree come le neuroscienze, l’antropologia e la sociologia. Vengono infine esaminate le attuali pratiche di scrittura, anche non professionale, nel quadro della diffusione delle nuove tecnologie.
Partendo dall’osservazione dei più recenti fenomeni del mondo letterario, come il dibattito suscitato dal conferimento del premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan nel 2016, la scelta di Svetlana Aleksievič per il precedente o le reazioni del movimento #Metoo, l’autore riflette sulla crisi teorica attualmente in corso, che si realizza con il passaggio da una concezione di letteratura come sfera autonoma a una littérature-monde (p. 37), inclusiva e democratica, consapevole del proprio ruolo nella formazione delle coscienze, incline a dar voce alle minoranze e rivolta a un pubblico ampio, libera dai formalismi e dai generi tradizionali e aperta alle contaminazioni con altre arti e discipline. Per Gefen, tale concezione si realizza grazie al superamento di una visione idealista, estetica ed estetizzante della letteratura, nata con il Romanticismo e basata sull’ordine soggettivo, qualificata dalla forma e comprensibile unicamente attraverso una disciplina endogena (la stilistica) o connessa al proprio campo (linguistica, semiologia o narratologia).
Per comprendere questa “rivoluzione silenziosa” (p. 37), l’autore ripercorre l’evoluzione dell’idea di letteratura nella sua accezione moderna a partire dal XIX secolo e dal Romanticismo, periodo del quale la concezione contemporanea è ancora ampiamente tributaria. A partire da questo momento, come noto, la letteratura acquisisce la propria autonomia inserendosi nello spazio dell’estetica, andando incontro alla disgiunzione del concetto di bello dall’oggetto rappresentato e alla liberazione dai canoni classici. La concezione dell’Art pour l’art, con il rifiuto dell’idea di utilità o utilitarismo, costituisce una tappa fondamentale di tale evoluzione. Nel corso del Novecento fino a oggi, l’idea estetica della letteratura ha configurato il campo letterario, determinandone la storia e la geografia, tracciandone la sociologia e influenzando la teoria dei generi e l’analisi delle pratiche di scrittura. Secondo l’autore, la riformulazione di tale paradigma, a cui tendono le opere, le pratiche e le teorie contemporanee, dovrebbe indurre a riconsiderare il progetto di autonomia estetica, riconducendolo a una semplice parentesi nella storia. Dal processo in corso, emerge una concezione dell’opera d’arte come oggetto culturale, nonché un maggiore interesse per le istituzioni e le relazioni di potere. In questo quadro, la critica postcoloniale mette in discussione l’universalità del giudizio estetico, chiedendo la sostituzione di categorie astratte con criteri locali e relativi e contestualizzando le produzioni.
Il secondo capitolo, dedicato all’estensione geografica della letteratura, ripercorre le principali tappe della formazione di un modello storicamente teleologico, elaborato a partire dal XIX secolo e legato alla formazione di nazionalismi letterari, estetici e linguistici. La nascita degli studi di comparatistica e la fabbricazione di un’idea occidentale dell’oriente conducono a un’apertura che resta però tendenzialmente eurocentrica, con metodi difficilmente applicabili in aree culturali lontane e variegate dal punto di vista antropologico. Da questo punto di vista, Gefen sottolinea la necessità odierna di ripensare la letteratura, privandola di modelli unidimensionali, con una temporalità policronologica e multidirezionale, relativizzando la struttura moderna del soggetto e il quadro occidentale in cui esso si esprime.
Sul piano tematico, l’autore individua nella letteratura contemporanea la realizzazione di un nuovo stadio del Realismo delle rappresentazioni, come già Auerbach aveva descritto nel fondamentale saggio Mimesis, qui rievocato (p. 109). Se il XIX e il XX secolo erano incentrati sull’esplorazione dell’esperienza umana nelle sue diverse sfaccettature, il XXI secolo si espande alla sfera dell’agentività non umana. A partire dagli anni 2000, con la globalizzazione e la presa di coscienza ecologica su scala mondiale, il potere di rappresentazione della letteratura viene riattivato per descrivere le forze socio-economiche. Inoltre, la funzione di critica sociopolitica si estende alla questione ambientale e i nuovi temi della letteratura relativizzano l’antropocentrismo precedentemente dominante. Con il rimescolamento ontologico causato dalla rivoluzione digitale, l’estensione del campo mimetico oltre la sfera dell’umano e l’attenzione al mondo della natura e agli oggetti, il campo della letteratura contemporanea si trova ormai di fronte a un “multirealismo”, concetto di Bruno Latour qui ripreso (p. 143). Il fenomeno porta all’indebolimento delle frontiere che separano i diversi generi letterari che, come categorie della percezione estetica, entrano in crisi. A caratterizzare le opere sono le finalità dei dispositivi, la maniera di produrre senso o la specificità cognitiva, i nuovi supporti digitali e l’esplorazione di regimi semiotici originali. Un tale movimento di decomposizione dei generi ha effetto anche sulle frontiere esterne della letteratura, sfumando la linea di demarcazione tra letterario e non letterario. Come sottolinea l’autore, le recenti etichette di neoletteratura (Nachtergael 2017), non-letteratura (Théval 2018) o di mondo postletterario (Colard 2018), testimoniano questo cambiamento.
Il capitolo dedicato all’estensione politica sottolinea come la concezione della letteratura come campo autonomo registri attualmente una perdita di rigidità a favore della nozione di relazione e dell’esigenza di intervento nel mondo. La fecondità morale e l’utilità cognitiva che contraddistinguevano le Belles Lettres in epoca classica rinascono in maniera eclatante nel mondo contemporaneo. Nella genealogia dell’Art pour l’art, le nozioni di désengagement e il principio di inutilità erano centrali per il principio moderno di autonomia della creazione. L’inutilità costituiva una qualità essenziale del campo estetico e lo scrittore era visto come una personalità in rottura con il mondo. Come sottolinea l’autore, la nostra epoca rinnova il legame con un’arte più politica e invita a relativizzare retrospettivamente la portata delle teorie insulari dell’arte. Dietro alla semplice nozione di utilità sociale, rinasce l’idea di una funzione cognitiva, antropologica e politica. Si parla nuovamente di poteri, di virtù, di ruoli, del posto della letteratura nelle questioni del mondo. Gli approcci cognitivisti, che sottolineano la funzione sociale della letteratura, permettono di reintrodurre la psicologia dei personaggi e dell’autore e propongono una descrizione cognitivista degli stili e delle forme. Altro segno dell’evoluzione, secondo Gefen, è l’impegno ritrovato degli scrittori contemporanei, in particolare sul piano dell’analisi del discorso, con lavori d’inventario sociale a favore della democrazia e della difesa delle minoranze. Gli scrittori percepiscono il loro lavoro come un dispositivo performativo che influenza la costruzione della realtà sociale e come un gioco ermeneutico, centrato sul testo e sulla sua enigmaticità. La descrizione a distanza della realtà si riappropria così dell’esigenza di dévoilement assegnatale da Sartre. Gli autori contemporanei si interessano alla questione dei migranti, all’evocazione dei crimini coloniali e delle tensioni sociali contemporanee e mirano ad allontanare i pericoli di un’identità percepita come essenza eterna. Al romanzo viene riconosciuto non solo il potere di riflettere, ma anche quello di informare e di costruire realtà sociali. La nuova fase di democratizzazione della letteratura, che subentra con la fine dell’elitismo, rivede inoltre la questione della responsabilità dell’autore, mentre le figure del dandy e dello scrittore invisibile tendono simultaneamente a scomparire, con la dissoluzione dell’opposizione proustiana tra l’“io sociale” e l’“io profondo” (p. 241).
Per quanto riguarda i più recenti mutamenti che investono le pratiche di scrittura, su cui l’autore si sofferma, si assiste a un processo di democratizzazione, caratterizzato dalla pubblicazione di testi online e dall’emergenza di autori non professionisti, fenomeni che la critica francese tarda a cogliere. L’estensione del campo si scontra con un riflesso culturale di protezione di una letteratura vista come ristretta e fondata sulla padronanza della forma, nella quale qualità e quantità si oppongono strutturalmente. Secondo questa visione, l’arte è concepibile unicamente secondo un regime maltusiano, con un canone di opere selezionate che si distingue da una produzione di consumo e da forme di espressione ordinarie (p. 255).
Il volume si chiude con considerazioni legate alle conseguenze che i fenomeni descritti esercitano sulla critica letteraria. L’autore sottolinea la necessità di adottare approcci idonei ai nuovi oggetti di analisi, con una presa di consapevolezza dei limiti del vocabolario della retorica e della linguistica e l’adozione di una terminologia descrittiva nuova, ad esempio attingendo dall’antropologia come nel caso di “densità” per definire la bellezza. Per rispondere all’estensione del concetto di letteratura e all’interdisciplinarietà che lega gli studi contemporanei e i diversi settori accademici, viene sottolineata la necessità di mobilitare conoscenze e metodi nuovi, come avviene nel passaggio dall’intertestualità di Julia Kristeva all’intermedialità di Jürgen Ernst Müller (p. 283). L’autore promuove una maggiore apertura degli studi letterari, con l’avvicinamento alle scienze sociali, alla teoria dei media, alla filosofia, agli studi culturali, alle scienze cognitive e alla teoria dell’informazione.
L’idée de littérature si presenta come un lavoro originale per la quantità e la qualità delle fonti citate nonché per le riflessioni di natura globale sull’idea di letteratura. L’apertura ad altre discipline, che l’autore condivide, si riflette nell’estensione della ricerca ad aree meno comuni, rievocando, come già sottolineato, metodi e approcci di aree quali la sociologia, la psicologia cognitiva e l’antropologia. Il vasto panorama critico considerato include lavori di ricerca europei e americani, proponendo un fruttuoso canale comunicativo. Attraverso il confronto con gli studi culturali e postcoloniali, lo scritto partecipa al difficile percorso di integrazione di queste correnti in una Francia ancora largamente incentrata sul concetto di francofonia, categoria secondo alcuni da superare in quanto espressione di una visione colonialista (p. 100; Forsdick e Murphy 2003 p.7-8; Moura 2008, pp. 55-61; Genin 2006, pp. 43-55). Con il riferimento alla letteratura mondiale, l’autore si inserisce in un dibattito che da più di due secoli (Goethe, Moretti, Casanova, Spivak, Damrosch) ruota attorno a questo concetto, come descritto da Pradeau, Samoyault (2005) e da David (2011). Gefen rievoca le critiche rivolte all’idea di letteratura universale proposta da Goethe, accusata di eurocentrismo o dominocentrismo ad esempio da Jérôme David (p. 92), e ripropone il dibattito che ha preso forma attorno alla pubblicazione del manifesto “Pour une littérature-monde en français” nel 2007, documento per la liberazione della letteratura dal patto esclusivo con la nazione che rischiava secondo alcuni di promuovere un paradigma unico e una prospettiva americana ed egemonica (p. 100). L’autore si esprime a favore del concetto letteratura mondiale, in grado, come afferma, di liberare la storia letteraria dal suo percorso teleologico (p. 102).
Le riflessioni sul ruolo dello scrittore nella società, sulla transitività e sulla funzione dell’opera letteraria, nonché sulla responsabilità dello scrittore si inseriscono nella ricerca che indaga il rapporto tra il testo narrativo e le idee politiche, le diverse concezioni di engagement e le modalità con le quali esso si esprime nel testo letterario (Suleiman 1983; Denis 2000; Sapiro 2011). Gefen aveva precedentemente esaminato la complessità delle strategie moderne di impegno e individuato alcune tendenze che contraddistinguono l’engagement contemporaneo (2005 p. 75-84). L’idée de littérature affronta il discorso della responsabilità e del ruolo dello scrittore nella società, mostrando come la concezione contemporanea della letteratura inauguri una nuova fase in cui mondo letterario e mondo civile, istituzioni letterarie e vita della comunità politica, economia letteraria ed economia comune cessano di opporsi (p. 241).
Il capitolo sull’estensione sociologica e istituzionale della letteratura si inserisce negli studi sul rapporto con le nuove tecnologie, dalla narratologia transmediale (Ryan 2002, 2018) alle recenti pratiche di scrittura in ambiente digitale, anche ad opera di scrittori non professionisti (Goldsmith 2018; Price e Siemens 2013). Il lavoro si basa su un’osservazione diretta di tali ambienti e pratiche, con particolare attenzione alla piattaforma Wattpad, alla quale l’autore si è ulteriormente interessato («Wattpad et la démocratisation de la littérature par Internet », in corso di pubblicazione). Per gli studi sui temi e sui generi e i contributi sull’apporto di discipline come la sociologia, la psicologia cognitiva e l’antropologia, rimandiamo alla bibliografia a fine volume, che mostra il ricco lavoro di documentazione e costituisce un valido punto di partenza per ricerche aperte al panorama critico internazionale.
di Virginia Melotto
BIBLIOGRAFIA
Colard, J.-M. (2018), «Bienvenue dans un monde post-littéraire», AOC, 6 septembre 2018, disponibile online: https://aoc.media/critique/2018/09/06/bienvenue-monde-post-litteraire/
David, J. (2011), Spectres de Goethe, Les métamorphoses de la "littérature mondiale", Paris, Les prairies ordinaires.
Denis, B. (2000), Littérature et engagement : de Pascal à Sartre, Paris, Éd. du Seuil, coll. « Points Essais ».
Forsdick, C. & Murphy D. (2003), Francophone Postcolonial Studies. A Critical Introduction, Oxford University Press Inc.
Gefen, A. (2005), « Responsabilités de la forme. Voies et détours de l’engagement littéraire contemporain », in Bouju, E., (dir.), L’Engagement littéraire, Rennes, PUR, coll. « Interférences ».
Id. (in corso di pubblicazione), «Wattpad et la démocratisation de la littérature par Internet », in La Démocratisation de la littérature, Paris, Gallimard, « Cahiers de la NRF ».
Genin, C.(2006), « Les études culturelles: une résistance française ? », MEI, no 24-25 (« Études culturelles / Cultural Studies »), pp. 43-55.
Goldsmith, K. (2018), L’Écriture sans écriture : du langage à l’âge numérique [Uncreative Writing : Managing Language in the Digital Age, 2011], Paris, Jean Boîte éditions.
Moura, J.-M. (2008), Sur la situation des études postcoloniales francophones, «Neohelicon».
Nachtergael, M. (2017), « Le devenir-image de la littérature : peut-on parler de “néo-littérature” ? », in Mougin, P. (dir.), La Tentation littéraire de l’art contemporain, Dijon, Les Presses du Réel, coll. « Figures », pp. 139-152.
Pradeau, C. & Samoyault, T. (dir.) (2005), Où est la littérature mondiale ?, PU Vincennes, coll. «Essais et savoirs».
Price, K. M. & Siemens, R. (dir.) (2013), Literary Studies in the Digital Age : An Evolving Anthology, disponibile online : https://dlsanthology.mla.hcommons.org/
Ryan, M.-L. (2002), « Beyond Myth and Metaphor : Narrative in Digital Media », «Poetics Today», vol. 23, n° 4, pp. 581-609, disponibile online : https://read.dukeupress.edu/poetics-today/article/23/4/581/20743/Beyond-Myth-and-Metaphor-Narrative-in-Digital
Id. (2018), « Sur les fondements théoriques de la narratologie transmédiale », in Patron, S. (dir.), Introduction à la narratologie postclassique : les nouvelles directions de la recherche sur le récit, Ville-neuve-d’Ascq, Presses universitaires du Septentrion, pp. 147-166.
Sapiro, G. (2011), La responsabilité de l’écrivain. Littérature, droit et morale en France (XIXe-XXIe siècle), Paris, Seuil.
Suleiman, S. R. (1983), Le Roman à thèse ou l’autorité fictive, Paris, PUF, coll. « Écriture ».
Théval, G. (2018), « Non-littérature ? », Itinéraires. Littérature textes cultures, 2017-3 | 2018 (« Littératures expérimentales »), disponibile online : https:// journals.openedition.org/itineraires/3900
Id. (2015), Poésies ready-mades, xxe- xxie siècles, Paris, L’Harmattan, coll. « Arts et médias ».
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Nel 1996 Lev Manovich, in polemica con le derive commerciali della computer art, pubblica un articolo su Rhizome in cui contrappone la terra di Duchamp e la terra di Turing: se per il teorico dei nuovi media l’arte dopo Duchamp è sostanzialmente autoreferenziale, autoironica, complicata e orientata al contenuto, quella che utilizza le nuove tecnologie dell’informazione è invece semplice, incentrata sulla forma e rispettosa del proprio medium (qui inteso come dispositivo). Questa divaricazione fra le due terre, però, che in Duchamp Meets Turing Gabriela Galati si pone l’obbiettivo di ricongiungere, si basa su un presupposto dualismo fra contenuto e forma che, opponendo realtà e rappresentazione, rimane incapace di cogliere le modalità performative dell’arte inaugurate da Duchamp ma proprie anche degli ambienti mediali digitali, e considerare così la linea di confine fra le due “terre” come un medium connettivo (e anzi generativo) invece che come un taglio insanabile.
Facendo implodere la costellazione di dicotomie che ha sostanziato la nozione di rappresentazione tradizionale, fondativa del canone moderno e solo apparentemente superata in quello postmoderno, diventa invece possibile cogliere la dimensione incarnata dell’informazione e, per converso, quella informata della materia, ovvero i feedback loop che modulano i collegamenti fra attori umani e non umani in ambienti immersivi e dinamici insieme fisici e virtuali, dove corporeità e cognizione si performano continuamente in relazioni mediate e processi contingenti e distribuiti (pp. 15-16), come ben esemplifica uno dei casi di studio più interessanti scelti da Galati, la performance Excellences and Perfections realizzata su Instagram da Amalia Ulman fra l’Aprile e il Settembre del 2014 (pp. 72-77).Sospesi nella cesura tra originale e copia, segno e cosa, mente e corpo, il Soggetto (un soggetto che sappiamo adesso riconoscere come marcato e posizionato, appartenente alla tradizione umanista e liberale dell’Occidente) l’oggetto e il medium sono rimasti, invece, sostanzialmente divisi. In Duchamp Meets Turing, Galati propone una radicale revisione di una serie di nozioni chiave (ripetizione, simulacro, archivio, incoporazione e medium) che hanno contribuito a produrre questa interminabile catena di duplicazioni adoperate per giustificare “rappresentazionalmente” la rappresentazione – e confluite nella divaricazione fra analogico e digitale, servendosi di alcuni fondamentali antidoti teorici quali la ripetizione o la piega di Deleuze, la différance di Derrida, il postumano di Hayles, o il modello semiotico triadico di Pierce. L’obiettivo dell’autrice non è tanto quello di rintracciare una continuità delle espressioni artistiche negli ambienti digitali, né quello di garantire nuova legittimità al discorso estetico sul digitale, quanto piuttosto quello di scovare il “punto cieco” (p. 18) a partire dal quale l’umano e il macchinico avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo, e invece si sono ritrovati uno di fronte all’altro, pur se – ma solo in apparenza – sembrerebbe sia stato il contrario. Ma immaginare l’umano come una macchina, controllando il passaggio delle informazioni nel corpo per la gestione del suo equilibrio e del suo potenziamento (si veda la prima formulazione della teoria del cyborg di Clynes e Kline (1960), oppure la macchina come un umano, testando fino a che punto può spingersi l’intelligenza di un computer, secondo le interpretazioni prevalenti del test di Turing (la cui iniziale componente performativa e di genere è stata quasi subito assorbita in quella cognitivista-rappresentazionale), sono operazioni che presuppongono entrambe una scissione sostanziale fra l’umano e la macchina, e che possono soltanto contemplare una loro analogia o una loro reciproca sostituzione (con tutte le derive tecnoutopistiche o tecnodistopiche che ciò ha comportato), ma mai la loro coimplicazione (vedi p. 86).
Per Galati, questo punto cieco – che è anche il paradossale punto di vista di nessun soggetto in particolare, ma a partire dal quale ogni soggettività può essere costituita – è proprio il ready-made di Duchamp, che riprendendo la nozione di Lévi-Strauss, l’autrice definisce “significante fluttuante dei media” (p. 148), ovvero un medium vuoto potenzialmente riempibile in modi sempre diversi, piuttosto che qualcosa di fatto e finito stando a una traduzione letterale del termine. Un medium che si presta a spiegare il funzionamento anche dei processi digitali partendo dall’idea di un soggetto e un oggetto emergenti nel mezzo, relazionali e assemblati come quelli che popolano le riflessioni sul postumano e sul cyborg di autori come Haraway, Hayles o Caronia. Nel ready-made, l’opera d’arte si libera finalmente dalla tirannia del referente esterno di cui sarebbe segno e copia, e acquisisice una medialità immanente e radicale, senza punti di partenza né approdi (si veda la recente riflessione di Grusin in proposito).
L’intera operazione duchampiana, che ha nel ready-made il suo fulcro, è una rivolta contro lo statuto retinico dell’arte, che travolge a un tempo l’idea di estetica come contemplazione, di pittura come produzione di oggetti (unici) per un mercato e di spettatore come soggetto esclusivamente guardante, nonché il privilegio della visione (disincarnata) sugli altri sensi. Con Duchamp, l’opera cessa di essere rappresentazione e diventa medium perché il medium scavalca il privilegio del significante e anche del significato come dati nel testo e, passando al contesto, “esplode” (Krauss cit. in Galati, p. 188) facendosi processo – in quanto evento, e non stato, sempre diversamente ripetibile (pp. 62-66). Nell’“indifferenza visiva” del ready-made come opera che non viene fatta il medium non coincide con gli strumenti tecnici della pittura (supporto e pigmenti), come al contrario ribadirà Greenberg sostenendo il primato del significante nell’“esperienza puramente ottica” della pittura, né d’altra parte il ready-made come opera senza autore può essere il contenitore di un messaggio. In tal senso, la difesa duchampiana dell’arte concettuale contro l’arte “animale” come arte che piace più facilmente non va letta come un suo rifiuto della materialità, ma pittosto della piena comunicabilità dei valori che l’arte sarebbe in grado di veicolare una volta per tutte, e del gusto che questi fonderebbero a partire dalla “callistica” dominante.
Duchamp, anzi, definisce coefficiente d’arte il rinvio, lo scarto tra ciò che nell’arte si progetta e ciò che accade, tra intenzione e risultato, ovvero tra controllo e casualità, una nozione che ben si presta a essere letta all’interno di un approccio performativo come quello proposto da Galati, in cui ogni opera è attualizzazione sempre diversa di un “nodo di tendenze” (Lévy cit. in Galati, p. 120) che ne costituisce la virtualità senza fondo. Potremmo dire, allora, che il ready-made esplora il medium come interfaccia, incontro, appuntamento casuale, resi possibili da una trasparenza che, come quella de Le Grand Verre (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923) – tecnicamente non un ready-made ma operante secondo la medesima logica –, non allude a una leggibilità, quanto piuttosto alla necessità dell’attraversamento e del rimando, una trasparenza che partendo dal contesto e attraversando il testo riporta ancora, ma sempre diversamente, al contesto. Trasparenza impura, soggetta al caso che può incrinarla, come effettivamente accadde a Le Grand Verre – opera aperta per eccellenza, mai più riparata né finita – durante un trasporto, o persino opacizzarla, come testimonia Elévage de Poussière di Man Ray, fotografia del 1920 (a sua volta ready-made elevato a potenza) che ci mostra un Vetro appena riconoscibile, in posizione orizzontale e ricoperto da uno spesso strato di polvere. Qui, come anche in un’altra opera “indicale” duchampiana, Tu m’ (1918), la trasparenza si trasforma addirittura in traccia, differimento della presenza, impossibilità dell’origine, direbbe Derrida.
“L’arte è una condizione, una condizione eraclitea di continuo mutamento, no?”, dice Duchamp a Dore Ashton in un’intervista del 1966. Una condizione ready-made, dunque, fluttuante e in divenire, che istituisce lo sguardo (e il suo soggetto) altrove ogni volta, perché sempre già in ritardo o ancora in anticipo rispetto a ciò che è.
di Federica Timeto
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Nell’introduzione dei due curatori del numero, Simone Guidi e Alberto Romele, l’infosfera viene presentata come un fatto totale, non soltanto sociale (secondo la nota locuzione di Marcel Mauss, poi ripresa in ambito strutturalista), ma anche etico, antropologico e filosofico. Il modo in cui viene usato il termine “infosfera” e altre parole chiave (come onlife e third order technologies) richiamano il punto di vista di Luciano Floridi sulla quarta rivoluzione in corso nelle società ad informazione matura (Floridi, 2014), ma la prospettiva proposta nella rivista e riassunta dal titolo è diversa: assumendo che gli esseri umani abbiano iniziato ad estendere il proprio dominio sulla natura da quando sono diventati capaci di registrare e leggere tracce, la discontinuità contemporanea viene ricondotta all’invenzione di macchine diverse da quelle classiche e all’emergenza di ambienti automatici in grado di scrivere e leggere tracce autonomamente (pp. 10-11). Questo è il fatto totale che spinge a riconsiderare complessivamente le possibilità dell’essere umano, circondato di dispositivi di cui può disporre e che, al tempo stesso, sembrano poter disporre di lui in modi sempre più pervasivi e per vie complesse da “tracciare”.
Saltando dall’introduzione al contributo conclusivo – un’intervista di Alberto Romele a Luciano Floridi – notiamo peraltro che il secondo non condivide l’utilizzo del concetto di “traccia” e mette in guardia in primis dal suo portato metaforico: «Questa delle tracce e del “materiale esausto”, i residui di ciò che “esce dal tubo di scappamento” sono metafore che a me non piacciono molto. Dal punto di vista retorico sono accattivanti ma dal punto di vista filosofico le trovo preoccupanti» (p. 169); «Certo c’è anche una seconda maniera di pensare alle tracce come alle impronte lasciate sulla strada durante un viaggio. Questo utilizzo lo trovo vagamente preferibile ma anch’esso ha le sue trappole […]. Ci porta infatti a distinguere tra tracciante e tracciato, come se si stesse parlando delle tracce che un animale ha lasciato nel bosco» (pp. 169-170). Più in generale, Floridi sottolinea che lo spazio non euclideo di Internet non va interpretato come uno spazio geografico, ma come uno spazio logico in cui, tra l’altro, ciò che accade dove arriva l’infrastruttura tecnologica alla base della rete influenza pervasivamente anche ciò che accade dove l’infrastruttura non arriva: questo vale in particolare nelle società «in cui la rete Internet è un servizio come la rete idrica ed elettrica» (p. 173), ossia nelle mature information societies a cui si è fatto riferimento.
Riguardo al tema della traccia, i contributi della rivista che lo affrontano in modo esplicito e prioritario spaziano dal soffermarsi su questioni molto specifiche all’analisi teorica generale: del primo caso è esemplare il contributo di Enrico Terrone (Causal Routes to Nowhere. On Digital Photographs as Traces, pp. 61-72), che discutendo la distinzione tra simboli autografici e allografici di Nelson Goodman illustra come le fotografie digitali possano essere considerate tracce; del secondo tipo di analisi è esemplare il contributo di Bruno Bachimont (Traces, Calculation and Interpretation. From the Measure to Data, pp. 13-36), che affronta il problema contemporaneo della raccolta, del trattamento e della visualizzazione dei dati, dopo avere discusso la complessa relazione tra dati e tracce (che non sono la stessa cosa, p. 20), distinte in tipi (involontarie, volontarie, provocate): il nodo sta nel fatto che la gestione tradizionale dei segni – esemplificata dalla sintesi sinottica della scrittura – si accompagnava a forme di comprensione e interpretazione che oggi sembrano venir meno nella sintesi calcolante tecnologicamente assistita, che omogenizza grandi quantità di dati eterogenei e li elabora con procedure astratte. Da tali elaborazioni dovrebbero emergere informazioni significative per gli esseri umani (nonché per qualsiasi dispositivo connesso alla rete), ma a partire dalla distinzione tra modalità di sintesi (sinottica tradizionale e calcolante) emerge la questione dell’intelligibilità non scontata delle informazioni che nel secondo caso diventano visualizzabili.
Un’altra discontinuità è quella indagata da Marcello Vitali-Rosati (Digital Architectures: the Web, Editorialization, and Metaontology, pp. 95-112), che parte da un racconto di Paul Valéry sulle differenze tra scrittura e architettura (Eupalinos ou l’architecte) per sostenere che la scrittura alla base degli spazi digitali e il connesso processo di editorializzazione (éditorialisation) sono concepibili come azioni e progettazioni performative e architettoniche, in quanto il loro compito fondamentale non si traduce nella pretesa di rappresentare la realtà (ripercorrendo per così dire la trama di un’ontologia esterna alla scrittura), ma si realizza piuttosto come produzione di realtà su più livelli. I livelli di realtà prodotti, più specificamente, sono i molteplici piani dello spazio vivente digitale in cui si inseriscono le nostre possibilità di movimento e interazione: uno spazio e al tempo stesso una cultura digitale, in cui si entra trasformandosi come aderendo ad una religione (cfr. Doueihi, 2011, sulle digital cultures).
Il numero monografico della rivista dà conto di punti di vista differenti sui fenomeni osservabili nell’infosfera e sulle loro implicazioni per il futuro, dal breve al lungo termine. Quanto possano differenziarsi tali punti di vista lo si coglie confrontando con i contributi fin qui richiamati la conversazione tra Francesco Monico e Derrick De Kerckhove (Cybersorveglianza, guerra e religione, il mondo a una dimensione, pp. 159-168) e il contributo di Pierre Lévy (The Data-Centric Society, pp. 129-140). Nel confronto tra Monico e De Kerckhove ci si chiede a che punto siamo arrivati con la cybersorveglianza, tra Marcuse e Minority Report: mentre De Kerckhove richiama la tesi secondo cui Internet sta «diventando un Panopticon molto inquisivo e, peggio, un ‘non-opticon’, come lo chiama Siva Vaidhyanathan, sottolineando il fatto che, a differenza del prigioniero di Jeremy Bentham, il soggetto della rete non sa mai se è veramente spiato, né perché, né quando» (p. 162), Monico si riferisce ad un processo tecnocratico irrazionale e riprovevole, capace di sostenere nuove «antropotecniche basate su meri punta-e-clicca» in cui la cybersorveglianza potrà essere percepita (e perciò richiesta) anche come «vantaggio personale» (p. 167). La stessa domanda sugli usi delle tecnologie e delle macchine – con l’alternativa, se siamo ancora noi a usare le macchine o se le macchine usino noi – sembra saltare, nel momento in cui si sottolinea che le macchine sono già con noi e dentro di noi. Eppure resta uno spiraglio, nel passaggio dalle diagnosi sul presente alle prognosi sul futuro, per inattese prospettive di trasparenza che potrebbero riguardare sia noi, sia il Governo, sia «le istituzioni digitali che stanno cercando di irretirci» (p. 166). Come interpretare il seguente paragrafo di De Kerckhove? «La trasparenza va in entrambe le direzioni. Sì, siamo trasparenti, ma così è anche per il Governo, lo sono le istituzioni digitali che stanno cercando di irretirci; solo una volta che avremo firmato un contratto sociale di reciproca trasparenza, beni comuni e di mutuo rispetto arriveremo in una situazione sana, e risolveremo i veri problemi del pianeta» (p. 166). Quale Governo sarà davvero trasparente? Chi e come deciderà quali siano i veri problemi del pianeta da risolvere grazie alla trasparenza? Il futuro contratto sociale di reciproca trasparenza non sarà altrettanto mitico e fittizio di quello che taluni hanno immaginato all’origine della società? Domande come queste, peraltro, possono nascere e restare in sospeso quando la rivoluzione in corso viene proposta secondo le chiavi di lettura dell’apocalisse o della palingenesi sociale. Pierre Lévy introduce il lettore ad un paesaggio concettuale e metaforico ancora diverso. La società centrata sui dati (Data-Centric), infatti, viene declinata al futuro come una civiltà in cui gli esseri umani vivranno in una sorta di sensorium aumentato (augmented sensorium), che permetterà loro di modellare le soggettività grazie a software che li mettono in relazione con dati, algoritmi e social networks. Nel sensorium espanso dell’intelligenza algoritmica ipotizzato da Lévy sarà possibile ragionare ed agire su di sé attraverso avatars semantici (semantic avatars) o in uno «specchio universale (universal mirror) osservabile da chiunque» (p. 138), su cui gli attori sociali del futuro potranno proiettare ciò che vorranno della propria attività software. Il passaggio richiede l’elaborazione di nuovi diritti, tra cui quello di accesso alla rete. Ma non è soltanto questione di accesso alla rete: questo contributo più di altri mette in evidenza che le ICTs attese potranno dare (a noi e ad altri) una serie di inediti accessi a noi stessi.
Così, Cléo Collomb (Pour un concept technologique de trace numérique, pp. 37-60) sottolinea che le tracce digitali introducono ad «un nuovo paradigma che invita a ripensare l’umano» (p. 60) e la «composizione del nostro “noi”», accompagnandoci non alla fine del mondo, ma alla fine di una certa avventura antropologica, fondata sull’«eccezionalismo antropologico». La nuova sfida consiste nel comprendere cosa significhi avere a che fare con macchine computazioni che funzionano raccogliendo, elaborando e mettendo in circolazione – come noi, per noi, per alcuni anziché per altri ecc. – tracce digitali. Così, Simone Guidi e Alberto Romele (Deforming the Subject. Digital Traces and the Post- of Humanism, pp. 73-94) invitano a comprendere se stessi al di fuori di ogni «ontologia statica» (p. 93), suggerendo che il tema delle tracce digitali e delle tecnologie connesse svelano all’essere umano (nuovamente, si potrebbe dire, e tuttavia in un modo che appare rivoluzionario) la sua essenza mediologica (likewise-mediological essence, p. 93): assumere finalmente la propria etero-costituzione tecnologica, comprendendone l’inedita articolazione contemporanea, diventa in questa prospettiva il primo passo per poter rinegoziare le frontiere dei poteri bio-tecnologici (p. 94) senza presumere di attingere ad un’umanità sussistente in sé e per sé. Al contrario, le migliori possibilità di rinegoziazione di cui disponiamo non passano dall’appello ad una fantomatica umanità pura dalla tecnologia, ma dal riconoscimento della multistabilità tecnologica (technological multistability), che ci permette di sperimentare molteplici accoppiamenti strutturali con i dispositivi di cui disponiamo e che progettiamo.
Un’indicazione simile la si ritrova anche in Maurizio Ferraris (Dalla mobilitazione totale all’azione esemplare, pp. 141-158), quando scrive che «non c’è un in sé della natura umana, c’è un divenire storico, in cui la tecnica gioca un ruolo costitutivo: capiamo che cosa vogliamo e chi siamo dalle tecniche che adoperiamo» (p. 143). Non diversamente da quanto accaduto in altre epoche, secondo Ferraris Internet ci mostra (e conferma) che la nostra specie è incline alla mobilitazione e alla sottomissione e che proprio attraverso la mobilitazione accediamo alla socialità e alla razionalità. Più precisamente ancora, con la sua capacità di mobilitare la nostra intenzionalità (p. 146) – paragonabile a quella attribuita classicamente al Capitale – il Web ci palesa il nostro essere animali costitutivamente mobilitabili e mobilitati, sottomessi e documentalmente dipendenti. Se una volta ci si sottometteva agli dèi, ai sacerdoti oppure a pochi potenti, oggi ci si sottomette alle «imposizioni che ci vengono dal web», esemplificate dalla «coazione a rispondere» (p. 145). Per comprendere lo scenario attuale e per tracciare qualche via praticabile di emancipazione, secondo Ferraris dovremmo lasciar perdere concetti come “alienazione” e “sfruttamento”, in quanto rimandano a un’immagine idealizzata dell’essere umano e quindi ad un insieme di possibilità che non esistono; si tratta invece di leggere meglio il reale inemendabile del terreno su cui camminiamo (facendoci attrito) e di noi stessi, in versione non idealizzata, perché l’emancipazione può nascere «solo se avremo riconosciuto la sottomissione come il carattere fondamentale dell’umano, invece di fare di quest’ultimo un polo di autonomia, libertà, potenza e virtù» (p. 149).
Bibliografia
Doueihi, M. (2011). Digital Cultures. Cambridge: Harvard University Press.
Floridi, L. (2014). The Fourth Revolution: How the Infosphere is Reshaping Human Reality. Oxford: Oxford University Press.
Valéry, P. (1980), Eupalinos ou l’architecte. In Id. Oeuvres II (pp. 79-147). Paris: Gallimard.
a cura di Luca Mori