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Jean-Luc Nancy – La comunità sconfessata
Recensioni / Marzo 2016Con La comunità sconfessata (ed. orig. La communauté désavouée, Galilée, Paris 2014) Jean-Luc Nancy compie un passo avanti nel tentativo di dipanare e allargare le maglie di un gioco di rimandi reciproci che lo connette a Maurice Blanchot a partire da L’absolu littéraire, apparso nel 1978: un rapporto di prossimità che lega Nancy a Blanchot nonostante i differenti percorsi teorici. La risposta di Nancy a La communauté inavouable di Blanchot, uscito nel 1983, si fa attendere trent’anni, anni che sono stati non solo testimoni della morte dello stesso Blanchot, ma anche della reale difficoltà di comprensione del suo testo e, in particolare, di quel segreto inconfessabile che, secondo l’autore, caratterizza propriamente la comunità. Nancy ammette di essere rimasto inizialmente paralizzato nel constatare che un autore del calibro di Blanchot decidesse di rispondere a un “giovane filosofo senza autorità” (p. 32) e con una tale sollecitudine (La communauté inavouable esce infatti lo stesso anno dell’articolo di Nancy intitolato La communauté désoeuvrée, “Aléa”, n. 4/1983). Solo recentemente l’imbarazzo e lo stupore, oltre che una certa prudenza teorica, hanno ceduto il passo all’urgenza etica che il tema della comunità prospetta e all’importanza di un’interrogazione su quel carattere comune delle nostre esistenze che ci consente di essere in rapporto, nell’insieme e nella condivisione (partage) ancora prima che individui o entità discrete.
In questo dialogo “a distanza” compare immediatamente un ulteriore referente, Georges Bataille, le cui opere del dopoguerra, rilette in un’ottica politica comunitaria, diventano oggetto d’interesse tanto per Nancy quanto per Blanchot. Anche in nome dell’amicizia e della fraternità che lo legano a Bataille, Blanchot si convince della possibilità di integrare la nozione di comunità alla luce delle analisi contenute in questi testi, in riferimento ai quali è sviluppata la nozione di “comunità negativa”. Nel corso del terzo capitolo – “Il cuore o la legge” – i rimandi ai testi di Bataille e di Blanchot, echi che ricordano i riferimenti silenziosi ricercati dalla poesia neoterica, si fanno serrati come se tre figure si riflettessero infinitamente su due specchi posti l’uno di fronte all’altro: il rifiuto di consacrare la comunità alla sua propria esistenza è punto di partenza comune tanto a Blanchot quanto a Nancy – che fonda infatti su questo rifiuto la scelta del termine ‘inoperosa’ – ma, se Nancy e Bataille relegano la sovranità a “nulla”, negandone l’essenza primaria (p. 48), Blanchot la consacra invece alla realtà dello Stato moderno, confinandola a un’altezza che nulla può eccedere e collocandola dalla parte degli dèi e degli eroi. Se per Bataille la scrittura resta lacerata nella sua tensione verso un’inaccessibile trasmissione, Blanchot vede nella scrittura stessa la possibilità di trasmettere l’intrasmissibile, offrendo dunque il suo testo come lavoro “dell’inoperosità”. La comunicazione sconveniente di Bataille – chiaro riferimento alla sua attività letteraria notturna di carattere erotico –, occupandosi di diffondere un segreto senza segreto, da un lato delinea una comunità di amici che sembra esprimersi nella forma stessa della “comunità inoperosa” e dall’altro dà voce all’abbandono dell’autore dovuto al movimento della sua stessa comunicazione, al suo comunicare qualcosa di incomunicabile. La produzione notturna di Bataille diventa anche occasione affinché si manifesti l’accortezza di Blanchot nei suoi riguardi che, in quanto amico e membro della comunità, si propone come custode del “cuore o della legge” e si fa portavoce dell’abbandono e dell’isolamento di Bataille tramite l’elaborazione di un’altra scrittura o, meglio, di una scrittura altra. Blanchot realizza infatti La communauté inavouable come tentativo di pensare la comunità lontano dalle semplificazioni operate dalle cause da sostenere, dalle leggi da rispettare e dalla dicotomia comunicativa che relega la scrittura dettata dalla passione “scatenata” o “abbandonata” alla sola sfera privata, allontanandola dalla legge o dalla politica. Scrive Nancy a tale proposito: «Il cuore o la legge: se la legge non può mai decidere del cuore, il cuore in compenso può dettare legge al di là di ogni legge. È forse l’inconfessabile» (p. 55).
La legge dell’abbandono, che per unicità ed eccezionalità può essere paragonata alla legge del cuore o dell’amore, condanna il soggetto a essere “senza ritorno e senza ricorso”. È Bataille dunque a essere in “estasi” (usando un termine caro allo stesso autore), a essere abbandonato e a venir meno come soggetto, rapportandosi in questo modo con l’esperienza della comunicazione e con la sua impossibilità. Blanchot, in quanto amico e membro della comunità, comprende meglio di tutti la solitudine di Bataille: tale aspetto è magistralmente assunto da Nancy nel cogliere a sua volta entrambi nel loro abbandono ancora prima che essi si comprendano reciprocamente. In ultima istanza, sembra che Blanchot, ancora prima di affrontare la questione della comunità, ci tenga a farla primariamente vivere e ad affermarla, rimarcando un certo legame continuo, uno slittamento di testi, rapporti e identità, un’immediatezza creativa e segnando, in altri termini, un abbandono stesso della comunità “senza ritorno e senza ricorso”, nonostante la forma d’insieme si mantenga sotto il suo nome. La comunità sconfessata si presenta quindi come un testo che, più che affrontare il tema della comunità, si pone esso stesso come il soggetto di una comunità invocata, tanto da aprire la riflessione a partire da un “Io” e a concluderla terminando con un “Noi”, e in quanto tale strizza l’occhio in modo tacito, ma perentorio, alla “comunità degli amanti” di Bataille.
Nel quarto capitolo – “La comunità consumata” – Nancy legge nella considerazione sul movimento del ‘68 l’occasione tramite cui Blanchot indaga il popolo che, in quanto istanza o soggetto, mantiene il proprio essere a partire dall’oscillazione continua tra assemblaggio e disassemblaggio; scartando ogni fondazione della comunità di carattere propriamente politico e privilegiandone una di tipo ontologico-sociale – che potremmo definire della Gemeinschaft, più che della Gesellschaft – Nancy vede la comunità, che si sottrae a ogni determinazione, legarsi tramite il proprio slegamento e realizzare il “mondo vero degli amanti”, la cui verità costituisce il cuore o la legge del popolo, «la legge di un popolo che va concepito più come un cuore che batte che come un’associazione» (p. 70). Si noti bene come l’amore, racchiuso nella sfera ristretta della soggettività, sia – nella sua impossibilità – estraneo alla comunità degli amanti, contrariamente alla passione, al conatus, che, simile all’obbligo etico, costituisce uno slancio che istituisce la relazione con l’alterità tramite l’abbandono che porta con sé.
L’ultimo capitolo – “Ciò che essenzialmente sfugge” – attribuisce l’elusività e i toni più marcatamente mistico-cristiani di Blanchot – che affida al suo libro il compito di “parlare” anziché tacere e che lo vede destinatario di un messaggio importante – al suo progressivo avvicinamento al tema, mai svelato, dell’inconfessabile, presenza di colpa politica non-confessabile, forma di indicibile. L’inconfessabile, riscontrabile nell’esperienza della morte, che si comunica senza che si possa decidere della sua comunicazione, consiste nell’impossibilità di determinare sia l’effettività sia la dissoluzione della comunità. In altri termini, l’inconfessabile va ricercato nell’impossibilità di attribuire senso ultimo ai rapporti interni alla comunità e nella necessità che la comunità stessa si mantenga incerta nella propria essenza, al riparo da ogni confessione come da ogni dominio e da ogni solidità, “insubordinata”, non-comune e dunque “sconfessata”.
di Evelina Praino
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Take Away #4 – Società della comunicazione
Serial / Aprile 2015La società contemporanea potrebbe essere a ben diritto essere descritta come società della comunicazione. Con ciò non si vuole ovviamente significare che solo di recente gli esseri umani abbiano appreso a comunicare gli uni con gli altri, né che di recente la comunicazione fra esseri umani abbia fatto grandi passi in avanti: entrambe queste posizioni sarebbero risibili dal momento che la capacità di scambiare messaggi di vario genere è probabilmente più antica della stessa specie homo sapiens, e che proprio nell'età dello strapotere mediatico lo spazio del fraintendimento e dell'ambiguità nella comunicazione pubblica e privata sembra essersi dilatato e dismisura.
Che cosa vogliamo dire dunque quando parliamo di società della comunicazione? Una delle risposte possibili è che attraverso tale etichetta vogliamo descrivere una società nella quale le pratiche comunicative hanno assunto un carattere sempre più centrale e irrinunciabile.
Alle funzioni classiche e per così dire “naturali” della comunicazione – avvertire gli altri dell'avvicinarsi di un predatore, descrivere la posizione di risorse naturali, manifestare la propria subalternità o superiorità rispetto ad un altro individuo nel branco – e alle funzioni più evolute del linguaggio – dimostrare un teorema matematico, esaltare la bellezza di un tramonto estivo, proporre una organizzazione sociale più egualitaria – nell'era contemporanea che abitiamo se ne sono aggiunte innumerevoli altre, come numerosi filosofi e teorici hanno osservato. Fra tutti, basti ricordare l'avvertimento di Guy Debord ne “la società dello spettacolo”, laddove definisce appunto lo spettacolo – termine con il quale egli designa la quasi totalità delle pratiche della comunicazione pubblica e privata, pubblicitaria e politica – in questi termini: lo spettacolo è il capitale giunto a un tale grado di accumulazione da divenire immagine. Il capitale, elemento più puro della struttura sociale, in termini marxisti, diventa sovrastruttura, dipende dalla sovrastruttura. Per di più, ciò non avviene in forza di un indebolimento, ma di un salto qualitativo dovuto alla progressiva accumulazione. Che si voglia partecipare o meno dell'ostilità dichiarata di Debord verso un tale processo, è oggi un fatto che nella sua analisi si ritrovino elementi fondamentali ad una interpretazione del cortocircuito fra rappresentazione e produzione, immagine e merce.
Di questo cortocircuito, che non ci permette più di considerare il linguaggio come una forma di rappresentazione più o meno accurata della realtà, e ci obbliga a considerarlo come il principale strumento di costruzione e trasformazione della realtà in cui viviamo, si è col tempo sviluppata una teoria meno militante e più neutrale, indebitamente chiamata scienza, che tocca le sue vette più alte nel marketing di prodotti[1]. Per rendere più chiara possibile la transizione fra una società in cui le relazioni e le pratiche sono interpretate, giustificate e guidate da una serie di dispositivi simbolici e retorici, e una società nella quale relazioni e pratiche sono costituite da una serie di dispositivi simbolici e retorici, il modo più semplice è dunque quello di esaminare uno dei concetti base di tale scienza della comunicazione. Laddove essa tuttavia se ne serve come di uno strumento, sta a noi, che ci muoviamo fuori dalla filosofia con un andamento filosofico, farne un problema.
Il concetto in questione è quello di target: sfruttando una metafora balistica, il marketing insegna che la comunicazione deve essere, soprattutto, mirata. Ragionando sull'interlocutore ideale, e sulla risposta emotiva che si vuole suscitare, il buon comunicatore saprà come articolare il proprio messaggio. Senza soffermarci sul fatto che il concetto di target lascia ben poco spazio a ciò che si vuole dire – ed è piuttosto evidente che i linguaggi propagandistici e pubblicitari non vogliono dire nulla, mirano semplicemente a un effetto – consideriamo come funziona un caso specifico di targeting.
Ad un primo sguardo, la questione potrebbe sembrare tanto semplice da risultare addirittura banale: si definisce in base a criteri demografici e sociografici il target, vale a dire il pubblico specifico, si studiano i linguaggi e gli argomenti ai quali tale segmento di popolazione risponde più prontamente, e si confeziona un messaggio ad hoc. Fin qui, nulla di nuovo: pur disponendo di strumenti statistici meno raffinati, la precauzione di regolarsi sull'auditorio non era di certo ignota ai retori romani del II secolo. Il modo di procedere dei moderni pubblicitari, tuttavia, deve discostarsi da quello degli antichi retori, per il fatto che mentre Cicerone doveva convincere il suo auditorio di aver bene agito, il moderno comunicatore deve convincere il telespettatore a comprare il prodotto reclamizzato, e per quanto una preposizione possa essere una particella minuscola e trascurata, c'è tutta la differenza del mondo fra convincere di e convincere a. Nel primo caso è coinvolto il giudizio dell'ascoltatore, nel secondo la sua propensione a compiere un'azione. Da questa differenza ne seguono altre, a cascata.
Per formulare un giudizio, o una obiezione, bisogna adoperare strumenti razionali, e la razionalità è innanzitutto un criterio negativo: deve prevenire l'errore. Dunque il retore antico, maestro di razionalità – anche se in malafede e per i suoi scopi –, mostrava paragoni, elaborava categorie, si serviva di topoi retorici, vale a dire luoghi comuni, per dimostrare di essere nel giusto e difendersi dalle obiezioni. Vinceva laddove otteneva quella speciale passività che è il consenso.
Per agire – e per comprare – al contrario, bisogna volere, e la volontà è una spinta positiva, dunque il comunicatore moderno dev'essere maestro di desiderio, scuotere l'inerzia con immagini che “bucano lo schermo”. Egli deve intercettare la volontà del suo pubblico, non il consenso. E dunque, dopo aver effettuato uno studio attento del target, deve cercare di capire non cosa vuole il pubblico, ma come gli si potrebbe far volere proprio quella cosa lì, che deve volere per poterla comprare. È qui che troviamo esibito il nuovo ruolo che nella nostra società assume la comunicazione: i bisogni più malleabili, quelli più facili da ridirezionare, sono bisogni comunicativi, riguardanti il nostro posto nel mondo e la relazione con gli altri esseri umani che lo abitano. Come abbiamo detto, questa è l'era della comunicazione perché piuttosto che rappresentare il mondo il linguaggio lo costituisce. Così accade che il prodotto reclamizzato sia reclamizzato non in quanto prodotto, ma in quanto segno, matrice di una possibilità comunicativa: è esattamente questo, fra l'altro, il significato del concetto di branding.
Lo studio del target non si riflette solo nella scelta delle parole e dei linguaggi adatti alla comprensione di questo o quel segmento sociale, ma serve a raddoppiare narrativamente il soggetto: ciò che lo spettatore vede sullo schermo è la narrazione di un processo comunicativo: nei panni del locutore troviamo una rappresentazione idealizzata e tuttavia riconoscibile del consumatore, mentre nei panni del codice che permette l'espressione di un senso e lo svilupparsi di pratiche simboliche troviamo la merce. Tutto il resto – l'atmosfera, il contesto – è l'esaltazione del successo dell'attività comunicativa.
Siccome la comunicazione si basa su una relazione, il targeting non deve riguardare solo colui che deve consumare, ma anche la relazione in base alla quale il consumo diviene significativo: così nel caso dei prodotti per bambini, una scenetta familiare individuerà il ruolo del prodotto nella comunicazione che esso permette fra madre e figlio, nel caso di una macchina di lusso, una scena di seduzione metterà in evidenza il ruolo comunicativo dell'automobile nel rapporto fra l'uomo di potere ed una bellissima donna.
Va rilevato, tuttavia, che le relazioni comunicative che la nuova retorica del marketing costruisce, hanno una forte componente di virtualità: se uno dei due termini – il locutore – benché idealizzato, si ispira ad un soggetto reale, appunto il target della campagna pubblicitaria che deve riconoscervisi, l'altro – il destinatario del messaggio nel processo comunicativo rappresentato – può benissimo essere del tutto virtuale. Di fatto, un tale stile comunicativo ci inganna sistematicamente sulla natura dei nostri rapporti con gli altri, proponendoci interazioni virtuali ed emotivamente sovraccariche come modello delle nostre relazioni quotidiane, che diverranno, se a tali modelli prestiamo fede, vieppiù insoddisfacenti e vuote.
All'ideale filosofico della chiarezza, che si sviluppa in una pratica della vita comune, per conoscere se stessi e gli altri coinvolgendoli in un vero dialogo, abbiamo così man mano sostituito una pratica quotidiana di analfabetizzazione emotiva e sociale. La cosa peggiore è che l'abbiamo fatto con l'unico intento di vendere più saponette.
[1] Dando ancora ragione a Debord, che teorizza la relazione fondamentale fra merce e spettacolo: “In questo movimento essenziale dello spettacolo, che consiste nel riprendere in sé tutto ciò che nell'attività umana esisteva allo stato fluido, per possederlo allo stato coagulato […], noi riconosciamo la nostra vecchia nemica che sa così bene apparire a prima vista come una cosa triviale, ovvia, mentre è al contrario così complessa e così piena di sottigliezze metafisiche, la merce.” La società dello spettacolo, paragrafo 35
di Lorenzo Palombini