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PK#21 \ Meaning in Architecture, now
Rivista / Ottobre 2024The connection between form and meaning has been so intrinsic and obvious that it has been implicit for centuries. Then, around fifty years ago, the issue of meaning suddenly burst into the architectural world, with many scholars and practitioners bustling to introduce semiology and semiotics into design. Now, after the globalisation and the atomisation of thoughts of the last decades, those debates could seem pretty meaningless, the form being mainly an aesthetic feature or a counterfeit fetish for everchanging, feeble poetics. Yet, we continue to design, produce, and critique architecture, attributing meanings, intentions, and hopes to its forms. Once more, we will explore and discuss the elusive yet unavoidable connection between meaning and architecture: four thematic sections to understand the place and dimension of meaning in, of, from, to, after, or maybe even for Architecture.
Edited by Carlo Deregibus e Aurosa Alison
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English version
DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/21.2024
Pubblicato: ottobre 2024
Indice
section 0 - foreword
Carlo Deregibus, Aurosa Alison - Introducing Meaning in Architecture, now [PDF En]
section 1 - theories & practices
Carlo Deregibus, Dora Epstein Jones, Georgia Lindsay, Eleanor Jolliffe, Akiko Okabe, Philippa Nyakato Tumubweinee - Meaning in Architecture, now. A Debate [PDF En]
Carlo Olmo - Coriandoli di senso. Il significato in architettura, nel tempo [PDF It]
Sarah Robinson - Ecological Form. Tenets for an Evolving Architecture [PDF En]
section 2 - theories > practices
Federico Rudari - Architecture and its Metaphors. The Poetic Form as Experience [PDF En]
James Acott-Davies, Mickeal Milocco Borlini - Spatium Fugit. An Alternative Approach to Understanding the Meaning of Space and Time in Architecture [PDF En]
Jacopo Bonat, Matteo Zambon - Architettura dello stomaco. Processi endogeni di assimilazione delle forme [PDF It]
section 3 - theories = practices
Carlo Comanducci - From SimCity to Smart City. Modelling and Government in the Epistemology of Architectural Power [PDF En]
Enrico Orsenigo, Maria Valentini, Michela Bongiorno - Iconomania e iconomana. Contributi filosofici alla veicolazione delle immagini nel paesaggio [PDF It]
Simone Policarpo - La teoria architettonica dell’empatia. Dall’estetica dell’Einfühlung alla neuroestetica dei neuroni specchio [PDF It]
section 4 - theories < practices
Matteo Tempestini - Il potenziale formativo del premio. La costruzione dell’architettura alpina contemporanea [PDF It]
Saskia Gribling - The Meaning of Dissent. Everyday Oppositional Practices in Brussels [PDF En]
Varvara Toura - The Preservation of Industrial Heritage as a Form of Urban Resilience. The Case Studies of Ile-de-Nantes and Docks-de-Seine [PDF En]
section 5 - afterword
Carlo Deregibus - The Meaning of Meaning in Architecture, now [PDF En]
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Fenomenologia della ricerca contemporanea
Longform / Gennaio 2024
Riproponiamo in veste di longform l'introduzione di Carlo Deregibus all'ultimo numero di Philosophy Kitchen, PK#19 - Fuori Tema I (scaricabile qui), apparsa con il titolo Il crepuscolo dei raminghi. Fenomenologia della ricerca contemporanea (qui in versione PDF). La preparazione di questo numero ci ha spinto a riflettere sul significato del fare ricerca accademica oggi e, in senso più intimo, sul senso che questa attività può, o non può più, avere per chi vi si impegna quotidianamente.
Polverizzata
Mai nella storia si è scritto tanto.
Romanzi, racconti, persino poesie, stanno conoscendo una fioritura insospettata e forse insperata, favorita dalle pratiche di self-publishing (Facchini 2022): ma è anche e forse soprattutto nel campo della conoscenza che la crescita è incredibile. In tutti i variegati e sempre più frammentati campi del sapere, che si tratti delle cosiddette STEMM (Science, Technology, Engineering, Mathematics, Medicine) o delle HASS (Humanities, Arts, Social Sciences), il tratto più evidente della produzione accademica è infatti ormai il suo costante, esponenziale, inarrestabile incremento quantitativo. Un vero e proprio boom arrivato, ad esempio, a sfondare agilmente la soglia dei 5 milioni di articoli scientifici pubblicati all’anno, sparsi su oltre 45.000 riviste – erano la metà solo un decennio prima (Curcic 2023). Naturalmente l’articolo, per quanto variamente definibile, è la principale forma scritta dell’accademia e, quindi, il principale mezzo di diffusione e disseminazione: ma al suo fianco, soprattutto nelle HASS, resiste la monografia, pure in grande crescita. Ad esempio nel 2020, un’indagine tra le maggiori case editrici inglesi (di cui quindici University Press), segnalava oltre 32.000 volumi pubblicati, ben 8 volte di più rispetto a vent’anni prima (Shaw et al. 2023). Che poi, a dir la verità, questi numeri potrebbero essere largamente al ribasso: perché ovviamente derivano da banche dati la cui completezza è eccezionalmente variabile a seconda del luogo, del contesto, della disciplina e dell’accuratezza della ricerca. Ad esempio, l’autorevole DBLP.org, catalogava nel 2022 oltre 2,6 milioni di articoli e 120.000 monografie, oltre a proceedings e altre pubblicazioni che portavano il totale a sfiorare i 6,5 milioni di contributi: e questo solo considerando, con una lettura trasversale sulle STEMM, quelli riguardanti la Computer Science! Quindi probabilmente, con tracciamenti altrettanto precisi su tutti gli argomenti, tra articoli, libri, atti, e note, la produzione scientifico-accademica annua supererebbe di slancio i 20 milioni di contributi, o magari persino i 50. Ma l’esatto numero di milioni non conta troppo: ciò che invece conta è l’ordine di grandezza cui siamo giunti. Tutto lo scibile umano ai tempi della Biblioteca di Alessandria stava in 500.000 rotoli o poco più: ogni anno noi produciamo 10, 20, 50 volte tanto.
Certo, quelle milioni di pubblicazioni potrebbero anche non essere tante, se guardate in un’ottica di sistema della ricerca: il loro numero parrebbe infatti proporzionale a quello dei ricercatori. Solo che, come per i prodotti della ricerca, anche il numero degli autori è ampiamente variabile a seconda delle banche dati su cui il calcolo si basi. Così alcune statistiche riportano un roboante totale mondiale di quasi 10 milioni di ricercatori (Ioannidis 2023), numero sensatamente proporzionale ai contributi ma ottenuto computando chiunque abbia anche solo il proprio nome su una banca dati. Le statistiche Eurostat disponibili su ec.europa.eu riportano un numero più basso, sotto ai 6 milioni globali, di cui circa 2 in Europa: tuttavia anche questo computo riunisce indifferentemente il mondo accademico e quello della Ricerca e Sviluppo (o R&D), che anche solo per ragioni di segreto industriale contribuisce in modo trascurabile alla produzione di articoli e volumi, e per di più include anche tutto lo staff tecnico e di supporto. Alla fine, depurando i dati, risulta una stima di circa 250.000 ricercatori europei in ambito universitario e di centri di ricerca: supponendo, piuttosto spensieratamente, una dinamica lineare nei dati, il totale mondiale non supererà le 800.000 unità.
Dopodiché, pur ipotizzando salomonicamente 1 milione di autori e 10 milioni di contributi annui, mettere in relazione autori e prodotti rimane un esercizio di insospettabile fantasia. Ad esempio perché, storicamente nelle STEMM ma sempre più anche nelle HASS, gli articoli e i libri hanno spesso firme multiple, magari perché si tratta di lavori svolti in team – per i curiosi, l’hyperauthorship finora più clamorosa ha visto 5.154 autori collaborare a un singolo articolo, ovviamente costituito per 3/4 dall’elenco stesso di nomi (Aad et al. 2015, cfr. Cronin 2001). Tuttavia il meccanismo di firma multipla si presta perfettamente a una devianza artificiosamente tesa a moltiplicare le pubblicazioni: se tre autori si alleassero co-firmando tutte le loro pubblicazioni, è ovvio che nel curriculum di ciascuno ne figurerebbero il triplo che se agissero in solitaria, con ovvi vantaggi – come dire che il branco sopravvive al singolo. Questo vantaggio, in termini curriculari, viene ormai scientemente coltivato attraverso una tattica tanto ovvia quanto entropica, cioè frammentando il contenuto di un paper: in fondo, se si scopre qualcosa, perché pubblicare un solo articolo, quando se ne possono ricavare una decina? Basterà ridurre il contenuto effettivo dell’articolo, occupando il resto con la costruzione dello stato dell’arte (cfr. West & Bergstrom 2021). Complemento indispensabile alla frammentazione è l’autocitazione, un doping nel quale peraltro i ricercatori italiani paiono insuperabili (Baccini 2023). Il combinato disposto di queste tendenze è così perverso che alcuni studiosi – in rapida crescita – arrivano a firmare addirittura oltre 200 pubblicazioni all’anno (Ioannidis et al. 2023).
Dunque, non solo si scrive tanti in termini assoluti, ma la scrittura ha ormai una dimensione quasi patologica.
Misurabile
Ma non ci si dovrebbe stupire: nella ricerca contemporanea, la regola è publish or perish (Rawat & Meena, 2014).
Queste statistiche esistono non perché qualche bottonologo abbia deciso di sfogare la sua insaziabile fame computando tutto lo scibile umano, ma perché su di esse si basano ranking e valutazioni. Non inutili sono quindi gli scritti che affollano il mondo, almeno non nel senso dato oltre due secoli fa dall’abate Dinouart (1989): solo, la loro importanza va compresa non dal punto di vista dell’enciclopedia e secondo un metro contenutistico, ma dal punto di vista del singolo e secondo il metro della carriera. Avanzamenti, finanziamenti, riconoscimenti, sono infatti ormai strettamente legati alla produttività, in un’incontrollata frenesia che, letteralmente, pesa i paper – benché elettronici – invece di guardarne i contenuti (Hanson et al. 2023). A riscontrare questa deriva c’è l’abitudine, ormai regola nelle STEMM e in generale nelle discipline dette “bibliometriche”, di stabilire il valore dei contributi e, quindi, dei relativi autori sulla base di criteri oggettivi. Nascono così commissioni dedite a decidere il valore o la classe delle riviste e, parallelamente, metodi analitici che assegnano punteggi ai ricercatori secondo indici e statistiche – il più noto dei quali è l’H-index, basato sul numero di citazioni (Hirsch 2005). A dire il vero, la validità di simili indici viene spesso messa in dubbio (cfr. Koltun & Hafner 2021), e qualche perplessità potrebbe sorgere anche solo considerando che Andrew Wiles – colui che ha dimostrato il Teorema di Fermat – avrebbe un H-index di 15, e Albert Einstein non supererebbe il 56 (Gingras et al. 2020): numeri molto distanti da quelli dei più performanti scienziati in attività, ormai lanciati verso il 300 – per chi voglia seguire la gara, molto serrata, consiglio il sito https://research.com/ (cfr. Giudici & Boscolo 2023). Ora, la tecnicalità cui il mondo della valutazione può giungere è tale da essere inaccessibile alla descrizione verbale (cfr. Ioannidis et al. 2019). Ma se la questione si limitasse a una gara, se ne potrebbe anche sorridere: in fondo, l’esigenza di stilare classifiche è innata nell’animo umano, che si tratti della bontà di un vino o delle prestazioni di un atleta, dello scatto di un’automobile o dei risultati di un trader. Solo che gli effetti di questo sistema sono ampi e disturbanti in molti sensi. Perché quando il lavoro di ogni scienziato viene distillato in un numero, lo scienziato diventa quel numero – chissà che, come nelle gare di arti marziali dove (ahimè) ci si presenta dichiarando il colore della propria cintura, anche nei convegni non ci si introdurrà con il proprio punteggio. E la logica dei ranking e delle misure non si limita alla dimensione individuale: il peso dei singoli si cumula infatti in gruppi di ricerca, dipartimenti, atenei, secondo una modalità incrementale che non lascia scampo. Ogni dimensione istituzionale ha ormai i suoi ranking, come la quadriennale Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) – che valuta atenei e dipartimenti a livello italiano – o i vari QS World University Rankings (QSWUR), Academic Ranking of World Universities (ARWU) o Times Higher Education (THE) – che li classificano a livello mondiale. E come nel caso dei singoli, la sempre maggiore rilevanza dei ranking ha prodotto l’effetto distorsivo di trasformarli da misura a obiettivo, da aggettivazioni a sostantivazioni, da mezzo a fine – una whiteheadiana “concretizzazione mal posta” tanto classica da essere codificata come legge di Goodhart.
Uno studio UNESCO di oltre dieci anni fa, oltre a mettere in luce molti di questi problemi, mostrava che già allora gran parte delle università faceva le proprie scelte strategiche solo in base a quanto esse avrebbero migliorato i ranking (Marope et al. 2013). Famoso il caso francese dell’Université Paris-Sanclay, assemblata nel 2014 attraverso la fusione di 19 atenei e centri di ricerca, “consorziati” con il solo fine di classificarsi meglio nei ranking – obiettivo peraltro solo parzialmente riuscito (Le Nevé 2020, Monaco 2022). Spudorato il ricorso delle università americane al land-grabbing per ottenere fondi e, cogliendo due piccioni con una fava, migliorare i ranking nel rapporto edifici/superficie – una pratica che si sta ora estendendo anche al di fuori degli Stati Uniti (Vidal & Provost 2011, cfr. www. landgrabu.org). Attuale il gran rifiuto dell’Università di Utrecht che, pur ben piazzata nei ranking, ha deciso di sottrarsi a una logica competitiva diventata asfissiante, sfilandosi dal THE (Knobel 2023). Casi estremi, certo, ma sintomi di un atteggiamento comune e, forse, di un problema più profondo (Brink 2018). Ma le critiche sembrano scarsamente efficaci. Un recentissimo rapporto della federazione degli atenei olandesi, Universities of The Netherlands (UNL), denunciava gli effetti drammatici dei ranking, e ad esso era seguita un duro comunicato del presidente di UNL che dichiarava la volontà di staccarsi progressivamente dal giogo dei ranking: curiosamente però, il report è immediatamente scomparso dal sito web ufficiale della federazione, sopravvivendo solo nelle tracce di quei siti abbastanza rapidi da rilanciarne i giudizi, come Recognition & Rewards (2023) (per chi voglia recuperare il report nei meandri del dark web l’indirizzo è: https://www.universiteitenvannederland.nl/en_GB/nieuws-detail. html/nieuwsbericht/915-p-dutch-universities-to-take-different-approach- to-rankings-p).
Una mossa inquietante, certo, ma che non dovrebbe sorprendere. Non solo di ideali, scienza e concetti, si tratta infatti: ma anche – anzi, quasi solo – di vile denaro.
Neoliberale
Si consideri un’università del cosiddetto primo mondo: essendo parte di un ecosistema altamente sviluppato, potrebbe proficuamente concentrarsi su ricerca di punta e su trasferimento tecnologico (la seconda e la terza missione universitaria). Al contrario, atenei di paesi meno avanzati potrebbero (dover) essere più concentrati sulla didattica (la prima missione universitaria). Ma guarda caso, le missioni non pesano allo stesso modo nei ranking, che così finiscono per riflettere il background socioeconomico degli atenei, in una polarizzazione in cui le élite sono sempre più esclusive e gli atenei più svantaggiati – in senso economico come geopolitico – sono marginalizzati (Downing 2012, Hazelkorn 2019). Una dinamica che premia solo poche centinaia di atenei, relegandone decine di migliaia ad un’anonima mediocrità. E si tratta di una dinamica tanto globale quanto locale: in Italia, il divario tra atenei del nord e del sud è in continua crescita anche perché una consistente parte del Fondo per il Finanziamento Ordinario delle università è assegnata su base premiale (cfr. Camera dei Deputati 2021, Mariani & Torrini 2022). Cioè proprio in base ai ranking. E questa quota continua di fatto a salire: ufficialmente dal 2% del 2008 al 30% del 2023, ma di fatto anche di più – sommando le quote per iniziative che a loro volta dipendono da merito e ranking come i Dipartimenti di Eccellenza, si arriva oltre il 35% (CUN 2023).
Così, la crescita delle università è proporzionale alla ricchezza locale o sovra-locale e non, come certe retoriche vorrebbero, ad essa prodromica: infatti dominano le classifiche gli atenei statunitensi e nord-europei affiancati, negli anni recenti, da quelli dell’estremo oriente e del sud-est asiatico. È una corsa che ognuno corre come può. Da un lato, promuovendo investimenti pubblici nei soli atenei potenzialmente forti, concentrandovi le risorse – come nel giapponese Top Global University Project – magari a scapito di quelli deboli e ignorando gli esiti sulla formazione – emblematico in questo il caso cinese (De Giorgi 2007). Dall’altro, attraverso politiche di internazionalizzazione, che troppo spesso poco guardano agli esiti in termini di qualità e opportunità di crescita, e peraltro sono spesso portate avanti senza chiari indirizzi etici (Van Onselen 2023). Ma soprattutto, con un vero e proprio mercato dei ricercatori: una headhunting dove la più ambita skill (naturalmente gli anglicismi dominano) è quella di conquistare grant, cioè fondi di ricerca (cfr. Stoff 2020): i risultati potranno poi essere anche modesti o addirittura irrilevanti, purché il flusso di denaro continui ininterrotto (cfr. Jacob & Lefgren 2011, COPE & STM 2022, Chen 2023).
Nulla di tutto ciò dovrebbe stupire: gli organismi di certificazione sono, a loro volta, entità impegnate a creare e dominare quote di un mercato, in modo analogo, per dire, alle agenzie di rating finanziario o di certificazione energetica. Per farlo, certo lavoreranno a un’offerta che possa intercettare le varie fasce di utenza: ad esempio, per attirare gli atenei meno performanti, in aggiunta al ranking principale (di cui ogni audit costa qualche decina di migliaia di dollari), QSWUR ha creato anche un programma secondario, QSStars, che a costi lievemente inferiori concede riconoscimenti su temi specifici, in modo che ogni università possa vantare almeno una qualche qualità (Guttenplan 2012). Ma soprattutto, si impegneranno per la legittimazione del mercato dei ranking e la loro naturalizzazione. Questo è infatti il vero capolavoro neoliberale: il passaggio da misura, a pratica, a principio morale, a norma, in un sistema coerente e completo. Così nella ricerca, il mercato è stato creato con la descrizione politica della sua utilità in termini di impatto sociale (Blasi 2023); da qui deriva logicamente una definizione di qualità come performance; ne segue una necessità morale di favorire i meritevoli che legittima, a quel punto, una promozione normativa di quelle medesime pratiche di misura, rendendole obbligatorie.
La logica neoliberale emerge anche retrocedendo dai misuratori ai fenomeni misurati: in fondo, se i ricercatori sono costretti a pubblicare tantissimo per rispettare i meccanismi valutativi, perché farglielo fare gratis? Così, in questa continua crescita, il mercato delle pubblicazioni vale ormai 28 miliardi di dollari all’anno, sostanzialmente generati da fondi di ricerca (STM 2021). Il modo più ovvio e insieme meno palese per avviare il travaso di fondi pubblici ai privati è infatti, banalmente, la pubblicazione di un libro, o magari di una collettanea di testi, se non si ha l’energia o lo 12 spunto per una monografia inedita: in ogni caso, l’uscita sarà quasi sempre direttamente pagata dall’autore per centinaia o a volte migliaia di euro o dollari. Lo stesso accade per gli articoli scientifici, per la pubblicazione dei quali gran parte delle riviste richiede compensi di analogo importo per non meglio dettagliate spese. E questo nonostante la dematerializzazione che dovrebbe, teoricamente, ridurre i costi: anzi ormai si assiste a una intensificazione quasi grottesca delle uscite periodiche, con riviste semestrali che diventano settimanali, singoli numeri da decine di migliaia di pagine, e sempre più frequenti numeri speciali monografici che affiancano le uscite periodiche (Hanson et al. 2023). Chiaramente, tattiche reciprocamente valorizzate dalla frammentazione dei contenuti e dalla moltiplicazione dei contributi prima accennata. Un altro modo per favorire questo travaso di fondi è il grande sistema internazionale dei convegni, che ha indotti multimiliardari (cfr. EIC 2018) – come per le pubblicazioni, ovviamente, non si mette in dubbio la loro utilità tout court: solo sorprende lo scarso ricorso a sistemi online, anche dopo l’evento pandemico e nonostante i potenziali effetti positivi in termini di sostenibilità e inclusività (Sarabipour et al. 2021).
Ma la ragionevolezza soccombe di fronte a un sistema tanto pervasivo, in cui diventa coerente e sensato sostenere che sia moralmente corretto aumentare le tasse (QS 2018), che sia positivo estendere ranking e misure ai livelli inferiori della didattica (come in Italia fa il progetto eduscopio.it), che sia giusto che i ricercatori forniscano gratuitamente le peer review (quelle milioni di revisioni su cui si basano tutte le pubblicazioni), o che in generale la mostruosa accelerazione nelle pubblicazioni sia associabile a un concetto di crescita inevitabilmente positivo. Ma è davvero così? Perché certo, scrivere si scrive tanto. Ma poi chi legge tutta questa montagna di parole?
Surfabile
L’esito paradossale di questa frenesia produttiva è infatti che ciò che conta davvero è pubblicare: essere letti è un optional, al più benvenuto per alcune discipline. Su questo, i numeri delle monografie sono rivelatori: il tiraggio medio dei nuovi libri è infatti attorno alle 300 copie (Shaw et al. 2022), e questo significa che i lettori non superano il numero di studenti a cui il libro è verosimilmente imposto come testo didattico. Sugli articoli, le statistiche mostrano una certa vivacità interpretativa, ma restituiscono un quadro altrettanto sorprendente, e desolante. Già un famoso position paper di una quindicina di anni fa affermava che oltre il 50% dei contributi non viene mai letto, nemmeno una volta (Meho 2007). Altri studi hanno poi articolato la cifra secondo le discipline, con percentuali di articoli mai letti comprese tra il 12% e l’82% (!) di quelli prodotti (Larivière et al. 2009): dunque gli esiti sono mediamente simili, ed anzi parrebbe conclamato che in certi campi la produzione di carta inutile sia davvero spudorata. Però il problema è come stimare la lettura di un prodotto: ogni metodo avrà infatti bias e difetti, e non sembra vi sia una soluzione sia semplice da computare sia davvero rappresentativa (King et al. 2006). Così si è per lo più adottato, in nome di un’astratta idea di oggettività, il parametro in effetti più funzionalista: cioè il numero di citazioni (sì, proprio il parametro che avrebbe mediocrizzato Einstein e Wiles).
Provando però a superare questa unità di misura, i dati si prestano a varie considerazioni. La prima, ovvia ma forse non abbastanza, è che non perché un testo non sia stato citato allora non è stato letto e, al contrario, non perché sia stato citato, significa che abbia qualche rilevanza. Magari la citazione è funzionale al contesto o alle peer review, e la si fa senza neppure aver sfogliato lo scritto – tanto chi potrà mai scoprirlo? O magari, bisogna inserirla perché ci si riferisce ad autori con cui si ha un rapporto, diciamo, di prossimità – qualcuno ha pensato ai baroni universitari e alle logiche di costruzione delle “scuole di pensiero”? O ancora, non si citano autori che si è letto perché, semplicemente, li si considera definitivi su un argomento – Einstein potrebbe essere tra questi, di sicuro lo è Andrew Wiles. Oppure la citazione c’è stata ma, banalmente, non in un testo le cui references siano inserite in banche dati online – che, come abbiamo visto, mostrano ampie inconsistenze (Larsen & Von Ins, 2010). In ultimo, nulla vieta, in un impeto di interdisciplinarità o di semplice curiosità, di leggere contributi non propriamente coincidenti con le proprie attività scientifiche: testi che quindi saranno sì letti nel mondo reale, ma non nel dato rilevato. In ogni caso, ciò che è sicuro è che citazione e lettura vengono artificialmente sovrapposti, mal concretizzando una proprietà – l’essere letto – in un’altra – l’essere riusato in altri lavori: di nuovo, subdolamente, definendo la qualità solo in base all’utilità.
Insomma, quanto si legga, non si sa. Ma supponiamo salomonicamente che metà degli scritti riceva una qualche attenzione: almeno questi verranno davvero letti? Una (ennesima) statistica, basata su una serie di interviste e con dati comparati nell’ultimo cinquantennio, ha sancito che ogni scienziato legge in media 252 contributi all’anno: le STEMM poco sopra, e le HASS poco sotto (Tenopir et al. 2015). Potrebbe sembrare un numero astronomico – in fondo si dicono “lettori forti” quelli che leggono tra gli 11 e i 20 libri all’anno – ma deve essere rapportato alla natura dei “contributi”: in gran parte articoli scientifici, magari ostici ma relativamente brevi. Il medesimo studio stima in 32 minuti il tempo di lettura medio e, facendo due calcoli su una lunghezza media di 40.000 battute, ciò sembrerebbe coerente con altre statistiche relative al tempo di lettura medio (Brysbaert 2019). Ma questi numeri sono una media complessiva, che include volumi – ovviamente più impegnativi – e brevi contributi. Sui soli articoli, altri studi hanno infatti evidenziato un tempo di lettura di soli 13,3 minuti, cui dedurre ancora il tempo necessario alla loro ricerca: rimarrebbero così solamente 6 minuti a contributo (Tenopir & King, 2002). Ora, ci sono varie possibilità per interpretare questo dato. Una prima è che il campione statistico di queste rilevazioni sia composto da persone inconsapevolmente accomunate da una insolita, anzi straordinaria velocità di lettura. Una seconda è che nel campione statistico siano prevalenti articoli e contributi insolitamente, anzi straordinariamente brevi. Una terza è che i ricercatori dichiarino un numero di contributi letti insolitamente, anzi straordinariamente superiore al dato reale, magari per semplice vanità. Ma la mia ipotesi è che, a parte per coloro che siano davvero in grado di leggere molto rapidamente, il problema stia nel concetto stesso di lettura.
Un concetto tendenzialmente antiquato, ancora valido per la narrativa ma poco adatto alla contemporanea dimensione accademica e scientifica. Al giorno d’oggi, tra gli articoli, si surfa, limitandosi a coglierne il senso tramite le keywords o a una rapida scorsa superficiale occasionalmente approfondita (cfr. Blackburn 2010). Magari perché ne è liberamente consultabile solo un estratto o l’abstract – peraltro l’Open Access è tema eticamente ovvio ma economicamente incerto, perché l’accesso a pagamento da un lato garantisce agli editori lauti abbonamenti per l’accesso da parte degli atenei, ma dall’altro riduce citazioni e visibilità delle pubblicazioni (Evans & Reimer 2009; Piwowar et al. 2018). Ma più probabilmente perché si saltano a piè pari tutta una serie di parti – stato dell’arte, ricerche precedenti, metodologia e bibliografia – limitandosi a (cercare di) cogliere il nocciolo della questione e, nel caso, a fare puntuali letture complete: a tal proposito, mi segnalano un saggio fondamentale per capire la questione, Come parlare di un libro senza averlo mai letto di Pierre Bayard – chiaramente, io non l’ho letto. Non che le parti saltate siano inutili: ad esempio, servono perché l’articolo passi la peer review – che probabilmente Einstein, con il suo striminzito articolo sulla Relatività del 1905, non avrebbe passato. Ma fin troppo spesso sono ignorabili: perché, banalmente, si sa già cosa ci si troverà.
Iterativa
Ma lungi da me qualsiasi condanna morale. Il fatto, anzi, è che surfare gli articoli è del tutto coerente con lo scopo del ricercarli e del citarli: cioè avere mattoni su cui costruire un muro, assemblando pezzi del già noto in forme lievissimamente variate. Ed è del tutto diverso dal leggere: cosa che qualsiasi ricercatore fa, ma certo solo con pochi dei 252 testi annui in cui mediamente si imbatte.
Naturalmente questa dinamica non sarebbe possibile senza il web, senza i motori di ricerca contemporanei, senza una lingua come l’inglese internazionale, senza un formato di interscambio universale come il PDF: ma al tempo stesso, proprio il web, i motori di ricerca, l’inglese internazionale e il formato universale rendono in effetti inevitabile questa evoluzione del fare ricerca (Bello & Galindo-Rueda 2020; Van Meeteren 2022). È un tipico esempio del fatto che la tecnologia non sia moralmente connotata né, tantomeno, in rapporto duale con una supposta natura: ma che, nel gioco sistemico in cui si evolve, essa irriti e influenzi altri sistemi magari già naturalizzati, spostandoli verso configurazioni differenti che vengono nuovamente, e inevitabilmente, naturalizzate, producendo così circolarmente nuove – magari inaspettate – letture del fenomeno tecnologico nel suo mutarsi (Carpo 2017). Rispetto agli scritti, questa nuova configurazione è composta da una sempre maggior porzione iterativa che precede, costituendone una sorta di allegato anticipato, una sempre minor porzione significativa – quella su cui si concentrerà la lettura. E questa disproporzione viene a sua volta esaltata dai meccanismi adattivi della ricerca, che privilegiano trend rispetto ad iniziative singole, estemporanee e magari difficili da catalogare perché interdisciplinari. Si arriva così a una lenta ma apparentemente inesorabile deriva verso la minimizzazione del contenuto significativo rispetto a quello iterato, appiattendo i contributi su una curva asintotica che tende al già noto (Evans 2008).
Un processo preoccupante non tanto, ovviamente, perché parrebbe erroneamente dar ragione a chi periodicamente afferma che non ci sia più nulla da scoprire (citando erroneamente Lord Kelvin invece di Albert Abraham Michelson, e per di più eludendone il contesto). Bensì perché estremizza, forse già oltre limite di rottura, la tradizionale alternanza di accumulazione e rivoluzione che sottende kuhnianamente il tradizionale progresso scientifico, istituzionalizzando una modalità che porta l’accumulazione a dimensioni tali da rendere forse costitutivamente impossibile l’emergenza della rivoluzione.
Questa è la condizione sistemica in cui tutti noi scriviamo e leggiamo (o surfiamo). Una condizione la cui evoluzione naturale – ma in effetti già naturalizzata – è ovviamente l’Intelligenza Artificiale. Se infatti gran parte degli allegati sono replicabili, perché non farli replicare? Perché non lasciare che sia l’IA a fare tutta la parte compilativa – cioè la gran parte di un articolo, ricordiamolo – rintracciando background, riferimenti e stato dell’arte? Perché non far sì che sia una IA a surfare per noi – soprattutto in campo umanistico dove, come abbiamo visto, la lettura è percentualmente inferiore – magari limitandoci a controllarne gli esiti? E infatti, tutto questo già avviene. ChatGPT et similia sono già utilizzati correntemente non solo per il controllo antiplagio, la traduzione in altre lingue o la formattazione dei testi, ma anche per scrivere progetti di ricerca, lettere di raccomandazione, abstract, lettere motivazionali, bibliografie, curriculum, richieste di grant e così via (cfr. Aguilar-Garib 2023, Ciaccio 2023, Gonzalo Muga 2023, Parrilla 2023, Van Noorden & Perkel 2023). Tutte cose che l’IA può non solo fare, ma anche fare meglio di un ricercatore, perché ne costituiscono il principale scopo: sfruttare i big data per creare variazioni infinite basate su analogie meta-semantiche (o para-semantiche…). Semmai, ciò che sorprende è che questa pratica, ormai comune, sia guardata in modo scandaloso, quasi che rovinasse una romantica quanto nostalgica purezza della ricerca – un po’ come credere alle dichiarazioni dei calciatori che si dichiarano da sempre tifosi della squadra in cui arrivano. Così, si invocano codici etici, fioriscono dissertazioni sui limiti da porre, si fanno liste di pro e contro, si rilasciano note che invitano gli autori all’uso “responsabile” dell’IA (cfr. Bahammam 2023, Buriak et al. 2023, Narayanaswamy 2023, Yogesh et al. 2023), in un dibattito tra apocalittici, utopisti, prudenti ed eticisti che mi sembra mancare il bersaglio (cfr. Signorelli 2023).
Più che l’uso dell’IA, infatti, il problema non sarà forse nelle condizioni che rendono il suo uso auspicabile o magari necessario? Ad esempio, nella drammatica deriva burocratica per cui ogni atto (sia esso un progetto, un articolo, un giudizio) richiede dozzine di documenti a supporto che, per forza, devono dire certe cose? Cosa si vorrà mai dire sull’impatto di un progetto di ricerca se non che sarà ampio, circostanziato, inclusivo, determinante e così via? Cosa in una lettera motivazionale, che non sia l’essere entusiasti, collaborativi, disponibili e così via? E non sarà allora ovvio sfruttare programmi nati per l’iterazione, per iterare questi contenuti? Non sarà naturale sfruttarne la potenza, magari per rispondere rapidamente alla richiesta di un revisore di aggiungere una fonte da qualche parte? E nel comprendere le potenzialità degli strumenti, non sarà ovvio a quel punto andare sempre oltre, utilizzandoli anche come vero e proprio agente esplorativo, creativo o di comprensione? Cosa che avviene già, a tutti gli effetti, in pratiche ormai diffuse a tutti i livelli (cfr. Aspuru- Guzik et al. 2018, Yuan 2023, Krenn et al. 2022). Forse allora, più che previsioni di futuri temuti o auspicati, o di limiti valicati o invalicabili, ciò che è importante rilevare è soprattutto il carattere trasformativo dell’IA (Van Noorden & Perkel 2023). Un carattere che, ripetiamolo, produce una trasformazione delle pratiche correnti e naturali verso nuove naturalizzazioni. Così come le biblioteche, date per spacciate solo qualche anno fa (TR Staff 2005), si stanno evolvendo in centri di studio – un esempio notevole è la piattaforma Eurekoi, che federa 52 biblioteche franco-belghe in un servizio di consulenze gratuito e accessibile – anche la produzione della ricerca si è trasformata, diventando sempre più polverizzata, misurabile, neoliberale, surfabile ed iterativa.
Originale?
Però, manca qualcosa, quel qualcosa che dovrebbe in teoria perdurare indipendentemente dalle riconfigurazioni del sistema. E cioè il senso stesso del ricercare: che, ontologicamente, non può rivolgersi al già dato, al già noto. L’attività di ricerca è infatti inevitabilmente legata a un elemento originale: che si tratti di scoprire oppure di comprendere qualcosa, ogni contributo di ricerca mira o dovrebbe mirare ad aggiornare, implementare, correggere, rivoluzionare le precedenze conoscenze in materia e, chissà, per i più ambiziosi o utopici, magari persino a inserirle nel più vasto sistema dell’enciclopedia dei saperi. Certo, rispetto alle visioni romantiche con le quali cresciamo in cui, ogni volta e di nuovo, si definiscono interi sistemi concettuali, è chiaro che i milioni di articoli che abbiamo guardato sembrino mirare altrove. Anzi, a numeri sempre crescenti corrispondono gradienti di originalità sempre inferiori, verso il destino di scienza come consolidamento, classificazione e reinterpretazione, che James Graham Ballard tratteggiava in The Construction City – era il 1957.
Ma nostalgia a parte, e guardata in ottica sistemica, questa particolarizzata, indefinita massa di micro-avanzamenti funziona: almeno in quei campi – squisitamente tecnologici – dove gli avanzamenti si misurano in evoluzioni (o miglioramenti, secondo il noto principio kaizen). È come se il modello sistemico replicasse le dinamiche del brainstorming su scala globale, puntando non sul talento del singolo genio ma sulla media creatività di un enorme numero di individui interagenti. Usando un esempio letterario, nella famosa trilogia di Cixin Liu (Remembrance of Earth’s Past, più nota con il titolo del primo romanzo, The Three-Body Problem) vengono fatti enormi progressi tecnologici grazie agli sforzi di un enorme numero di scienziati – e al non trascurabile sprone della potenziale estinzione dell’umanità: un principio che in crittoanalisi come nella generazione di render si chiama brute force, e che conduce alla fusione nucleare, alla mappa del cervello interattiva, alla navigazione a velocità luce e così via. Meno certo è, tuttavia, se oltre alle evoluzioni questi sommovimenti tettonici siano capaci di produrre rivoluzioni. La brute force abbatte barriere, ma non ne spiega la costruzione. Risolve problemi, ma non ne motiva l’origine. Raggiunge traguardi, ma non dà un senso alla loro ricerca. Nella sua potenza, è cieca, e non può quindi valorizzare l’originalità, che richiede attenzione, tempo, cura. Polverizzata in milioni di contributi, come potrà allora addensarsi l’invenzione, la scoperta, la concettualizzazione, producendo la rivoluzione che dovrebbe seguire l’accumulazione? Non a caso (spoiler alert!) la trilogia di Cixin Liu si conclude con l’estinzione completa e assoluta del sistema solare: nessuno si dimostra infine in grado di essere originale in senso autentico, ovvero capace di decostruire i fondamenti stessi del già-dato, assumendo tentativamente quel ruolo di distanza critica proprio di chi sia esterno a un sistema e possa quindi vederne la parzialità. E questa è una capacità intimamente, inevitabilmente, ontologicamente politica: non nel senso della politica come professione, ma della politica come riflesso sul mondo di un operare che si cura di considerare i propri effetti nel suo stesso farsi. Non è certo un caso che l’avanzamento prodigioso delle tecnologie contemporanee sia inversamente proporzionale alla capacità di definire politiche e sistemi di comprensione all’altezza.
E ciò avviene (anche) perché, in un sempre più vorticosa confezione di pubblicazioni, in una sempre più marcata parcellizzazione dei campi operativi, in una sempre più feroce protezione di nicchie di competenza autoreferenziale, spesso dimentichiamo che la ricerca è, sempre e di nuovo, una esplorazione. Ce lo ricordano quegli articoli particolarmente bizzarri che talvolta assurgono alle cronache: studi che indagano come si spezzino gli spaghetti, il mal di testa dei picchi, gli effetti della cocaina sulle api, l’efficacia delle bottiglie (piene o vuote) nello spaccare crani umani, le flatulenze dei sauropodi, se i polli preferiscano i belli (praticamente un titolo di P. G. Wodehouse), il sesso orale tra i pipistrelli e molti altri (cfr. Kluger 2015, Andrews 2017, Chu 2018). O magari quei momenti di ribellione al sistema – forse sintomi di una tendenza al burnout in drammatico aumento nel campo della ricerca (Fernández-Suárez et al. 2021) – in cui gli autori scelgono titoli particolarmente umoristici per presentare i loro serissimi lavori (Carpenter & Fritz-Laylin 2015). Certo, questi esempi potrebbero convincere chiunque a calare una scure sui finanziamenti agli autori, ma al di là dei casi più strampalati, ancora oggi le grandi rivoluzioni e le vere innovazioni sono davvero frutto perlopiù del lavoro di singoli e piccoli gruppi che continuano a procedere in modi tentativi, incerti, erranti. Stretti tra bilanci e restrizioni, i grandi gruppi di ricerca e studi evolvono, sviluppano, migliorano: ma non creano (Wu et al. 2019, AIA 2020) – che poi, lo diceva già Agatha Christie in Crooked House, era il 1949, che i soldi per la ricerca sono tendenzialmente inutili, e che le scoperte vere le fanno persone entusiaste e motivate. Solo che essere entusiasti e motivati nella ricerca contemporanea è piuttosto difficile. Perché errare in esplorazioni è faticoso, costoso e, soprattutto, pericoloso. Non tanto perché, come sempre è avvenuto, le possibilità di successo siano scarse: anzi, proprio quello dovrebbe attrarre intraprendenti e avventurosi. Ma perché staccarsi dal sistema è fin troppo spesso una condanna dal punto di vista della carriera, in particolare nell’accademia. Se per accedere ai primi concorsi è richiesto un numero di articoli superiore a quello che pochi anni fa un ordinario metteva insieme in tutta la sua carriera, è inevitabile che attenzione e forze siano riservate alla mera produzione, disincentivando quel libero errare che un tempo si chiamava ricerca di base al punto, probabilmente, da mutare la stessa forma mentis del ricercatore.
È il crepuscolo dei raminghi. E “Fuori Tema” sarà il loro rifugio. Un luogo dove esercitare un’autentica cultura del dubbio, radicale, sistemica, critica, decostruttiva, coraggiosa, enciclopedica, laica e super-disciplinare: dove potere essere davvero originali, e concedersi di nuovo il vertiginoso piacere di errare nel mare della conoscenza.
Post Scriptum: la prima call di Fuori Tema ha attratto oltre 60 proposte. Oltre i 2/3 di esse sono state ritenute non abbastanza originali in una prima selezione fatta dalla redazione. Poi, nella fase di peer review – perché Philosophy Kitchen è parte del sistema della ricerca che abbiamo descritto e, quindi, ne segue le procedure istituzionalizzate – alcuni pezzi sono stati considerati troppo audaci, o troppo poco referenziati, o entrambi. Così metà dei sopravvissuti sono stati eliminati, arrivando ai 10 pezzi finali – qui pubblicati secondo un ordine puramente alfabetico. Certo sorge un dubbio: se la forma mentis del ricercatore e quindi del revisore è quella che abbiamo descritto, peer review negative saranno frutto dell’insufficiente livello degli articoli, oppure di un’originalità non più davvero comprensibile? In altre parole, il ramingo dovrebbe gioire della promozione – e della pubblicazione che ne risulta – o della bocciatura – che potrebbe anche certificare una assoluta straordinarietà?
Bibliografia
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PK#19 \ Fuori Tema I
Rivista / Gennaio 2024Mai nella storia si è scritto tanto. Romanzi, racconti, persino poesie, stanno conoscendo una fioritura insospettata e forse insperata: ma è anche e forse soprattutto nel campo della conoscenza che la crescita è incredibile. In tutti i variegati e sempre più frammentati campi del sapere, che si tratti delle cosiddette STEMM (Science, Technology, Engineering, Mathematics, Medicine) o delle HASS (Humanities, Arts, Social Sciences), il tratto più evidente della produzione accademica è infatti ormai il suo costante, esponenziale, inarrestabile incremento quantitativo. La produzione della ricerca si è trasformata, diventando sempre più polverizzata, misurabile, neoliberale, surfabile ed iterativa: ma anche originale?
Never in history has so much been written. Novels, short stories, even poetry, are experiencing an unsuspected and perhaps unhoped-for flowering: but it is also and perhaps above all in the field of knowledge that the growth is incredible. In all the variegated and increasingly fragmented fields of knowledge, be it the so-called STEMM (Science, Technology, Engineering, Mathematics, Medicine) or HASS (Humanities, Arts, Social Sciences), the most evident feature of academic production is in fact now its constant, exponential, unstoppable quantitative increase. Research production has transformed, becoming increasingly atomised, measurable, neo-liberal, surfable and iterative: but also original?
A cura di Philosophy Kitchen
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/19.2023
Pubblicato: ottobre 2023
Indice
EDITORIALE
Carlo Deregibus (per Philosophy Kitchen) - Il crepuscolo dei raminghi. Fenomenologia della ricerca contemporanea [PDF It]
I
Filippo Batisti, Francesco Montesi - L'extraterrestre: l'alterità aliena negli esperimenti mentali in filosofia [PDF It]
Federica Buongiorno - La questione della tecnica in Stiegler. Un confronto con Husserl e con la postfenomenologia [PDF It]
Fiammetta Maria Campana - Un'analisi semantica di alcune traduzioni di "democrazia" in Africa e Asia [PDF It]
Caterina Del Sordo - Classifiers. Doing Philosophy with Chinese Grammar [PDF En]
Felix Leonhart Esch - Zukunftswechsel. Überlegungen zu den Krisenbegriffen Reinhart Kosellecks und Giovanni Arrighis [PDF De]
Marcello Ghilardi - L’interferenza. Culture, alterità, traduzioni [PDF It]
Alessandra Antonella Rita Maglie - Suzanne La Follette (1893-1983). Tra femminismo e pensiero libertarian [PDF It]
Giacomo Pezzano - Giochi mentali. Si può filosofare tramite i videogame? [Filosofia
deimedia (livelli 1 e 3 – game demo)] [PDF It]Ilaria Santoemma - Thinking-with Physalias. Toward a Relational Account of Agency [PDF En]
Davide Sili - Marciano, il giurista dell’eruditio [PDF It]
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PK#16 \ Meditazioni sull’amore
Rivista / Maggio 2022Come l’essere, anche l’amore si dice in molti modi. Diverse sono le grammatiche dell’amore, e diverse sono le fenomenologie dell’esperienza amorosa. Complicati sono pure i fili che annodano le grammatiche dell’amore, che permettono cioè di raccontare le storie d’amore, con le esperienze amorose, le quali, anche quando si dicono nella parola non pronunciata dell’estasi erotica o nel silenzio che accompagna il lutto dovuto alla perdita dell’oggetto amato, sono sempre tese verso il loro dirsi, verso una narrazione possibile. Purificare, o emendare, tali grammatiche non è impresa facile, ma, riconoscendo che in molte di esse si cela la presenza – a volte nemmeno tanto nascosta – del dominio maschile o patriarcale, è per lo meno auspicabile fornirne una decostruzione.
Like being, love is said in many ways. There are different grammars of love, and different phenomenologies of love experience. The threads that bind the grammars of love are also complex, and even when they are said in the unspoken words of erotic ecstasy or in the silence that accompanies the mourning due to the loss of the beloved object, they are always stretched towards their own saying, towards a possible narration. Purifying or amending these grammars is not an easy task, but recognising that many of them conceal the presence - sometimes not even so hidden - of male or patriarchal domination, it is at least desirable to provide a deconstruction.
A cura di Veronica Cavedagna e Giovanni Leghissa
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/16.2022
Pubblicato: marzo 2022
Indice
EDITORIALE
I. TEORIE D'AMORE
Nicoletta Cusano - Amor, ch’a nullo amante amar perdona… [PDF It]
Sergio Benvenuto - Una sfida per la filosofia [PDF It]
Mara Montanaro - Uno scambio di fantasmi [PDF It]
Andrea Zoppis - L’amore al vaglio della contingenza. Note sulla relazione amorosa a partire da Merleau- Ponty e Simondon [PDF It]
Prisca Amoroso - Custodire la distanza. Una riflessione sulla profondità come dimensione amorosa a partire da François Jullien [PDF It]
Benoît Monginot - Figures, désir, dérive. Eros et poétique dans « Sed non satiata » de Charles Baudelaire [PDF Fr]
II. GLI SPAZI DELL'AMORE
Chiara Piazzesi - Towards a Sociological Understanding of Love: Insights from Research [PDF En]
Francesca Caiazzo - La temporalité de l’expérience amoureuse moderne à partir des apports d’Eva Illouz [PDF Fr]
Carlo Deregibus - Gli spazi dimenticati dell’eros. Progettare occasioni di spontaneità [PDF It]
III. RESISTENZE
Manon Garcia - Dall’oppressione all’indipendenza. La filosofia dell’amore nel "Il Secondo sesso" di Simone de Beauvoir [PDF It]
Veronica Maio - Amore clitorideo. Esperienza amorosa e sovversione dell’identità sessuale nell’autocoscienza di Carla Lonzi [PDF It]
Floriana Ferro - Beauty and Possession. Reversible Eros [PDF En]
IV. MODI DI SIGNIFICARE
Gianni Pellegrini - Chiodo scaccia chiodi! Spigolature dalle tradizioni intellettuali sud-asiatiche sull’amore e/o desiderio (kāma) come antidoto ai desideri [PDF It]
V. LETTURE, RILETTURE E TESTIMONIANZE
Chiara Pignatti, Marco Xerra - Godere di dio. La posizione mistica tra devastazione e amore [PDF It]
Noemi Magerand - « Se faire la complice d’un ordre qui nous opprime » : comment Réinventer l’amour avec Mona Chollet [PDF Fr]
Emilia Marra - De gli erotici furori: amore e relazioni nel nuovo abitare [PDF It]
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Se riconoscere il superamento del progetto artistico dall’alterità di cause determinanti benché inavvertite sembra ormai essere un luogo comune delle rappresentazioni del fare artistico (si pensi alle diverse teorie di ispirazione divina, a quelle di involontario condizionamento ideologico, alla postulazione dell'esistenza di una logica dell'inconscio), l'implicazione del caso quale causa della produzione artistica non consente di accedere a un'interpretazione dell'opera come manifestazione di determinazioni essenziali, sociali o psicoanalitiche. In altre parole, il riconoscimento di una parte di caso nel processo creativo implica modalità di significanza per le quali l'identificazione di un progetto diventa altamente problematica.
Although acknowledging that any artistic project is necessarily exceeded by the alterity of determining causes is quite a mundane way of representing the artistic fact (one thinks of the various theories of divine inspiration, of involuntary ideological conditioning, of the postulation of the existence of a logic of the unconscious, etc.), the implication of chance as the root cause of a work raises a critical issue since it rules out any interpretation of the work either as a manifestation of a truth that would have been pre-existing in god, or as a social or psychoanalytical determination of the forms produced and interpreted. In other words, the recognition or claiming of a measure of chance seems to imply modes of signifiance for which the identification of a project becomes problematic.
A cura di Benoît Monginot, Stefano Oliva e Sébastien Wit
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/14.2021
Pubblicato: marzo 2021
Indice
INTRODUZIONE
Benoît Monginot, Stefano Oliva, Sébastien Wit - Tra caso e progetto: alea e forme di soggettivazione nelle pratiche artistiche [PDF It]
I. Forma e alea nelle arti performative
Alessandro Bertinetto - (Caso) per caso. La contingenza nell'improvvisazione artistica [PDF It]
Veronica Cavedagna, Alice Giarolo - Il movimento: tutto qui. L’ordine aleatorio delle macchine danzanti [PDF It]
Alberto Giustiniano, Carlo Deregibus - Progetto e ricerca della forma. Dall'aleatorio ai campi di validità [PDF It]
Daniela Angelucci - L’infallibilità dell’improbabile: dipingere, camminare, filmare [PDF It]
Mauro Folci, Stefano Oliva, Guido Baggio - Intervista a Mauro Folci [PDF It]
II. Toccare il codice: processi e alea
Sylvain Reynal - Entre processus stochastiques et métriques d’évaluation : l’IA-créatrice à l'épreuve de l'étrangeté [PDF Fr]
Rodolphe Olcèse - L’image du monde en son infinition. L’aléa dans la pratique filmique de Jacques Perconte [PDF Fr]
Alice Iacobone - The Strategy of Genesis. On the Productive Power of Artistic Iteration [PDF En]
III. Scritture contingenti - caso e letteratura nel Novecento
Jean-Pierre Zubiate - Face au hasard : ouvraisons poetiques au XXe siecle [PDF Fr]
Sibylle Orlandi - Coup de « dé » et « lois du hasard » dans les créations poétiques et plastiques de Ghérasim Luca [PDF Fr]
Sébastien Wit - Hasard et orient au XXe siecle. Les controverses artistiques Boulez / Cage et Queneau / Breton [PDF Fr]
Paulo Fernando Lévano - Decolonizzare la lettura. Indecidibilità nella prosa rioplatense (1960-1969) [PDF It]
IV. Coda: les jeux sont faits
Anne Duprat, Benoît Monginot, Sébastien Wit - « Le hasard ne fait rien au monde – que de se faire remarquer ». Entretien avec Anne Duprat [PDF Fr]
V. Varia: focus su Guillaume Artous Bouvet
Guillaume Artous-Bouvet - Lieu (Artaud, Jabès) [PDF Fr]
Benoît Monginot - Infondatezza di una pratica discorsiva. Su "Poésie et Autorité" di Guillaume Artous-Bouvet [PDF It]
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FORME DELLA LIBERTÀ. LE CORBUSIER E LA PIANIFICAZIONE TOTALE
Tra i grandi architetti dell’epoca moderna, nessuno è più celebrato di Le Corbusier: i suoi testi radicali e controversi sono manifesti scritti e disegnati che hanno modificato il modo di guardare e pensare l’architettura, più ancora che l’architettura costruita. Può sorprendere allora che i suoi studi su La Ferme radieuse et le Centre coopératif, elaborati per il terzo CIAM del 1930 e riuniti nel novembre del 1940, abbiano atteso fino al 2015 una pubblicazione, tanto più che si tratta di testi che consentono di guardare la sua opera sotto una luce diversa e più ambigua. La pubblicazione italiana da parte di Armillaria – La Fattoria Radiosa e il Villaggio Cooperativo, a cura di Sante Simone – ha quindi un valore non comune, anche perché arricchita da un prezioso saggio di Laurent Huron a chiudere la pubblicazione. Sintetizzando, potremmo dire che la Fattoria Radiosa è la sorella minore della ben più celebre Città Radiosa: pur essendone non solo il complemento ideale, ma addirittura la precondizione realizzativa. Se infatti la Ville Radieuse rappresentava la città autenticamente moderna, con la sua geometrizzazione funzionale di grattacieli, gli ampi spazi verdi e la circolazione dedicata ai vari utenti, essa tuttavia non era autosufficiente: non nasceva per vivere in un mondo solitario, ma per essere parte di un più ampio organismo in cui erano centrali i luoghi della produzione, e in particolare quella del cibo e dei beni primari. Cioè quelle campagne che i giovani, invece di coltivare, sempre più abbandonano in quel fenomeno che si chiama urbanesimo.
La soluzione lecorbusiana per rivalutare la vita in campagna è, com’è facile immaginare, completamente votata al nuovo mondo macchinistico. «Risparmiamoci il romanticismo!» (p. 95): i giovani saranno di nuovo felici in campagna solo se questa sarà efficiente, ordinata, finalmente pulita. Cioè quando essa si adatterà alla loro modernità, liberandoli dalla corruzione del denaro, dalla sporcizia del letame, dalle inefficienze della parcellizzazione e dell’individualismo: allora sì, che vorranno vivere in campagna (passando dalla Ville Radieuse a una Vie radieuse). L’ispirazione programmatica è il «programma di ricostruzione agraria» (p. 47) che Norbert Bézard, lavoratore agricolo (o meglio osservatore del mondo contadino), propone a quello stesso CIAM del 1930: un programma teso a trasformare le fattorie in moderni «strumenti di civiltà» (p. 65). La rivoluzione non è solo nelle forme: Bézard fonda su basi corporativiste e antistataliste un nuovo ordine sociale che abolisce la proprietà terriera, unendo gli sforzi dei singoli in un sistema cooperativo il cui simbolo è il silo comune. Nessuna parcellizzazione potrà rompere l’armonia del sistema cooperativo, e nessuna ricchezza ne turberà la serenità: Bézard si spinge a proporre persino la nuova «moneta del Piano» (p. 81) che servirà per tutti gli scambi interni e con l’esterno. La Fattoria Radiosa traduce questi principi in quella peculiare economia di segni e perentorietà dei toni che è propria di Le Corbusier: che disegna villaggi e fattorie distribuiti razionalmente sul territorio e collegati da un sistema di moderne autostrade. Ogni unità è compiuta nelle sue parti, e integra il silo, la cooperativa, la scuola, la piscina, un ufficio postale, le abitazioni con servizi e spazi comuni, l’orto e il club: tutti costruiti sfruttando i sistemi di produzione standardizzata, con sistemi a volte prefabbricate su cui si ritmano architetture modulari. Nel rispetto delle specificità dei luoghi e per ridurre i costi, ai muratori comuni – i murondins (p. 85) – viene affidato il compito di terminare le opere di finitura. Il risultato sarà un centro cooperativo organizzato e perfettamente efficiente, dove tutti avranno accesso alle merci fatte arrivare attraverso le strade. Non rimane nulla del vecchio mondo agrario, sporco, disordinato: domina la nuova immacolata purezza, e si affida «al tempo la responsabilità di fissare poco per volta lo stile di un nuovo folklore rurale» (p. 85).
Ma questa chiarezza espositiva tradisce una profonda incoerenza. Infatti il centro cooperativo è sì moderno e pulito, ma propone un modello di piccola comunità assolutamente tradizionale: aggrappato tenacemente a valori antichi, alla solidarietà perduta dopo la rivoluzione industriale (ma sarà poi vero?), al dare valore ai piccoli piaceri della vita, al mettere radici per la propria «stirpe» (p. 63). Se cioè la visione architettonica proposta è figlia del mondo macchinista, la vita ch’essa ospita vorrebbe essere intrisa di quel romanticismo che tanto viene avversato. Un romanticismo che vede la natura come espressione di «poesia» (p. 67), i figli come naturali prosecutori del lavoro dei padri e le mogli intente a scambiarsi pettegolezzi nella «sala per le signore» (p. 107). Insomma, è sì il futuro, ma visto con gli occhi del presente: un po’ come in quei film di fantascienza in cui astronavi solcano lo spazio e il tempo ma gli schermi sono ancora a tubo catodico, le vere rivoluzioni non possono essere davvero immaginate prima che accadano. Così, come internet non era ipotizzabile da scrittori e sceneggiatori impegnati a immaginare androidi e velocità-luce, allo stesso modo Le Corbusier e Bézard non possono nemmeno concepire il ’68, le rivoluzioni sociali, la globalizzazione. La Fattoria Radiosa potrà allora risolvere solo i problemi di allora – il fango, la fatica, il letame, l’isolamento: ma sarà sempre imbrigliata nei presupposti concettuali che ne costituiscono l’ossatura più profonda, a livello sociale come tecnologico.
Emerge qui la duplice natura dell’architettura su cui Le Corbusier ha costruito il suo mito. Da un lato, «l’architettura è il gioco sapiente, corretto, magnifico dei volumi sotto la luce» (diceva in Verso un’architettura), cioè è la capacità plastica di manipolare la forma, e di definire la bellezza «tramite il gioco della proporzione e dell’invenzione» (p. 95). Dall’altro, questa ipotetica neutralità della forma si inserisce in progetti del tutto programmatici, in cui la forma dell’abitare è strettamente legata all’organizzazione della società. Sapendolo, Le Corbusier si sforza di dimostrare, attraverso i disegni, la bellezza delle nuove fattorie (p. 91): accuratamente evitando di indagare fino in fondo l’incoerenza cui abbiamo accennato. Che si svela, invece, quando si guardi alla Fattoria Radiosa al passare del tempo: ingessata nel suo equilibrio, precario perché perfetto, essa mostra infatti una debolissima resilienza. Non vi potrà essere alcuna flessibilità: che vi vive dovrà rimanervi, chi vi nasce dovrà morirvi, pena la caduta non solo della Fattoria, ma dell’intero mondo con tanta cura pianificato.
Ma l’unico modo per garantire questa rigidezza è un ordine forte, deciso, imperativo: scrive Sante Simone nella sua introduzione «L’ideologia corporativista rivendicata dai redattori di Plans e Prélude, tra i quali compariva Le Corbusier, era molto popolare negli Anni ‘30 e risultava profondamente antiliberale. Riuniva simpatizzanti di estrema destra e socialisti non marxisti che, attraverso la pianificazione, richiedevano l’ordine della società guidata da un potere forte, in cui gli ingegneri illuminati svolgevano un ruolo nodale» (p. 8). E il prezioso saggio di Laurent Huron – Le Corbusier e Norbert Bézard, dal Faisceau al regime di Vichy – indaga proprio nella direzione di capire quanto estrema sia la destra di una simile posizione: rilevando vicinanze e reciproci apprezzamenti tra Le Corbusier e una serie di personaggi vicini, se non appartenenti, al partito francese di ispirazione mussoliniana, da Pierre Winter, a Philippe Lamour, a Hubert Lagardelle. Legami che si concretizzano anche nelle pubblicazioni di Bézard e Le Corbusier sulle riviste di stampo fascistoide Plan e Prélude. Non che questo basti automaticamente a bollare Le Corbusier come fascista: potremmo vedere nella sua ammirazione per le grandi bonifiche italiane (p. 97) l’apprezzamento di una grande opera di ingegneria più che del regime che l’ha resa possibile; allo stesso modo, in quelle riviste dove i piani per la Fattoria Radiosa vengono accolti con entusiasmo, potremmo vedere solo il plauso politico di un progetto che valorizzava l'opportunità (o meglio l’obbligo) per gli individui di contribuire alla grandezza e alla concordia nazionale. Senza voler qui arrivare a dare un giudizio definitivo, varrà la pena allora guardare al rapporto, nella Fattoria Radiosa, tra libertà individuale e dimensione collettiva: dando così coordinate più chiare alle condizioni sociali necessarie per l’utopia moderna.
Usando il discusso, ma efficace, dualismo tra libertà negativa (la libertà da) e positiva (la libertà di) delineato da Isaiah Berlin, nella Fattoria Radiosa le persone vengono liberate da una serie di piccoli e grandi problemi. Spariscono il fango, il letame, l’organizzazione del tempo libero, e soprattutto la preoccupazione della sopravvivenza: gli individui non saranno più soli davanti alle incertezze dell’inverno, isolati dal mondo culturale, perché potranno guardare con fiducia e serenità alla grande famiglia cooperativa – quasi un «convento civile», dice Bézard (p. 75). Così i giovani saranno liberati da tutti i motivi che li spingono ad andarsene, se ne dedurrebbe. Ma in effetti, che cosa le persone saranno libere di fare, di essere, di avere? Come in un alveare, saranno libere di fare, essere e avere tutto ciò che servirà a un bene superiore, quello della comunità e poi dello Stato. Dunque la felicità tratteggiata, con suadente tono paternalistico, è quella di essere come si dovrebbe essere: i lavoratori agricoli, in città, non sono altro che «pesi morti» (p. 109) che appesantiscono inutilmente la radiosità della vita, mentre in campagna, in queste moderne fattorie, davvero potrebbero realizzarsi come individui. Se solo sapessero! Invece quegli individui pare si ostinino a non accettare la loro natura contadina: infatti «rimane un problema psicologico: gli uomini chiamati a vivere là, passando bruscamente da uno statuo individuale al contratto collettivo, saranno in grado di abituarsi senza gravi traumi a questo nuovo stato di gerarche?» (p. 77).
Ecco, nella nonchalance di questa domanda c’è tutta l’essenza anti-democratica del pensiero di Bézard messo in forma di Le Corbusier. La sacralità dell’ordine supera il prezzo necessario a raggiungerlo, cioè la libertà di realizzarsi dei singoli, la libertà di non rispettare quanto pianificato dall’illuminato sapere ingegneristico: una previsione diventata normativa. E se la Città Radiosa, originandosi nell’utopico Plan Voisin per Parigi, aveva una dimensione visionaria e utopica, al contrario la Fattoria Radiosa è (apparentemente) ben più concreta, persino futuribile. Per questo, con gli occhi del contemporaneo, questo progetto è esemplare nel mostrare la vera rottura portata dal postmodernismo in architettura. Una rottura non tanto di stile o di forme, quanto invece della relazione che abbiamo visto tra forma e significato, tra progetto e programma: nel postmodernismo divampa la liberta di attribuire significati personali alle forme, e quindi di realizzarsi e progettare di là da ogni ordine sovraimposto. La rottura del legame forma-significato passa attraverso la dimostrazione della parzialità di qualsiasi ordine, che nulla può davvero avere di assoluto: la regola sarà costruita attingendo a ogni possibile sistema di regole per costruirne altre, sempre nuove.
Certo questo comporta incertezza, disordine, caos: un fardello pesante per l’architettura, che vede crollare le regole su cui si era basata per millenni. Ecco, leggere oggi Le Corbusier, e soprattutto questo Le Corbusier, ci ricorda allora il valore di quel fardello: la libertà di, e le infinite potenzialità che ne derivano. Evitare quel peso significa accettare, anzi promuovere, l’ordine dell’alveare: come quello della Fattoria Radiosa, in cui i contadini «non dovranno mai credere di essere sviliti» (p. 91). Potranno esserlo, cioè, purché sia a loro insaputa, così che vivano con ignorante gioia il loro contribuire a un bene più grande: quello del Piano Totale.
di Carlo Deregibus
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Richard Sennett – Costruire e abitare. Etica per la città
Recensioni / Settembre 2018L’OMBRA DEL POPULISMO. ABITARE E COSTRUIRE LA CITTÀ CONTEMPORANEA
Da sempre, le città sono l’opera più grandiosa dell’uomo. Per le loro dimensioni, metropolitane già duemila anni fa, ma soprattutto perché esse concretano il sistema politico, economico e sociale di una civiltà: ne sono determinate, e insieme lo influenzano. Questo vale per qualunque epoca e cultura: come il sistema erariale, economico e sociale influenzava la forma delle città medievali, o induceva la trasformazione degli isolati giapponesi da machi in cho, al contrario cinte daziarie, mura difensive e impianti stradali determinavano il modo di vivere gli spazi e le stratificazioni sociali. Nel suo ultimo lavoro, Richard Sennett ci dice che questa relazione ha sostanzialmente funzionato fino alle grandi trasformazioni dell’Ottocento: quando sorge un’urbanità che Paolo Sica considerava «rappresentazione perfetta della società borghese», e in cui invece Sennett ravvisa le prime crisi del rapporto tra costruito e abitare. Nell’opera del barone Haussmann che riforma (nel senso letterale) Parigi, di Ildefons Cerda che traccia il suo piano per Barcellona, di Frederick Law Olmsted che, insieme al mai citato Calvert Vaux, disegna il Central Park a New York, Sennett vede cioè le prime trasformazioni che escludono i cittadini. I nuovi boulevard parigini, pensati per il traffico moderno, impoverirebbero la vita dei parigini facendo sparire vicoletti e café; gli isolati di Cerda, spazi potenzialmente passanti e porosi, sarebbero in realtà corti chiuse e opprimenti; e Central Park, pensato per far socializzare le persone, ne evidenzierebbe solo la divisione in classi. Insomma, gli urbanisti avrebbero dimenticato i cittadini e il loro abitare, inseguendo sogni e illusioni o agendo in malafede. È una visione radicale, anche se tendenziosa: in fondo, quelle stesse trasformazioni permisero la creazione di reti fognarie e aree verdi mai viste prima, aumentando di vent’anni l’aspettativa di vita di quei cittadini che Sennett considera traditi. Ciò che davvero cambia, nell’Ottocento, è il tempo: la rivoluzione industriale induce rapide trasformazioni sulla città e sull’abitare, amplificandone le frizioni. Ma di questo, Sennett non fa menzione: più che a spiegare cosa causi la (supposta) crisi, pare interessato a narrarla in termini emotivi e drammatici. Chiama così in causa due colleghi, Jane Jacobs e Lewis Mumford, e i loro tentativi di ricucire costruire e abitare: la prima promuovendo processi di rigenerazione con azioni dal basso; il secondo teorizzando interventi utopici e ideali, come le città-giardino di Ebenezer Howard. Azioni alla piccola scala, presentate non per illustrare strade possibili, quanto per rinforzare l’idea che le due polarità – il costruire e l’abitare – siano entità separate, indipendenti.
È una forzatura, funzionale però a introdurre i problemi abitativi delle città contemporanee. Solo che le scelte di Sennett per raccontarceli sono quantomeno curiose. Si comincia, ragionevolmente, con le megalopoli e il loro sviluppo schizofrenico, frutto di speculazione e incompetenza progettuale. La reprimenda è comprensibile e condivisibile, anche se Sennett nemmeno accenna alle rivoluzioni che esasperano l’urbanesimo (che, a beneficio di traduttrice ed editore, è il fenomeno di migrazione delle masse verso le città, non un sinonimo di urbanistica), quasi che le città siano frutto del capriccio degli urbanisti e non di precise strategie politiche ed economiche: esemplare in questo il superficiale accenno alle ghost city cinesi. Ma sorprende che Sennett non dedichi nemmeno un pensiero a un tema drammaticamente attuale e che riguarda un miliardo di persone: quello della città post-industriale, che pure, tra spazi da ripensare e comunità in cerca di identità, investe esattamente il rapporto tra costruito e abitare. Invece, Sennett trova più perturbanti le smart city, quelle città in cui l’uso di reti e big data dovrebbe migliorare la fruibilità di infrastrutture e servizi. Delle varie sperimentazioni in materia – in Italia, Torino è tra le città più attive – Sennett dà una visione distopica: i sistemi ci ottundono, sentenzia infatti (p. 171), soprattutto se facili da usare. Meglio sarebbe se funzionassero male, perché saremmo stimolati dalla loro inefficienza – con buona pace di Derrick De Kerckhove e dell’intelligenza connettiva. La smart city viene dipinta come una sorta di collodiano paese dei balocchi, dove i cittadini perdono poco per volta la loro volontà e capacità di giudizio, rallegrandosene. Quasi fosse uno strumento creato da oscure forze del male (urbanisti malintenzionati): e non invece il prodotto, forse inevitabile, di un mondo in cui oltre 5 miliardi di persone accede a internet, e oltre 3 miliardi hanno account social. Un prodotto non necessariamente buono, magari, ma la cui fenomenologia è ben più profonda: una nuova forzatura, dunque, ad attestare una polarità tra costruire e abitare che appare sempre più artificiosa.
Ma tutto diventa chiaro con la terza parte del libro, quando arriva la risposta alla vexata questio: come si può tenere insieme costruire e abitare? Come progettare e vivere una città finalmente giusta? Fedele alla polarità così faticosamente costruita, Sennett dedica consigli tanto ai cittadini quanto agli urbanisti. I primi dovranno farsi più consapevoli, inclusivi e tolleranti: ad esempio camminando di più, ritrovando la conoscenza itinerante del flâneur (p. 206), imparando la «conoscenza incarnata del luogo» (p. 200), riscoprendo la propria dimensione (p. 212) e facendo esperienze autentiche (p. 228) – azioni che non sembrano molto tarate sulle fasce povere della popolazione. Dal canto loro, gli urbanisti dovranno padroneggiare le «5 forme» (p.230): alternanza tra luoghi pubblici e privati; “punteggiatura” urbana (un’antiquata visione semiotica in cui i monumenti sono punti, le panchine punti e virgola, e così via); bordi porosi, cioè non invalicabili come le autostrade urbane; forme-tipo (una versione quantomeno semplicista della tradizione rossiana); molteplicità e non-finito. E quando infine sia i produttori dell’abitare sia quelli del costruito saranno diventati competenti, insieme potranno costruire la città attraverso la “coproduzione” (p. 269). Cioè una partecipazione in cui i cittadini non scelgano solo tra alternative preparate dai progettisti, ma possano davvero “giocare” con le (cinque) forme proposte dagli urbanisti, usando magari grossi modelli in cartone, scoprendo alternative e diventando protagonisti.
Non vale la pena discutere le qualità raccomandate al cittadino, né le fantomatiche “5 forme”. Più importante è notare quanto Sennett cerchi, con questo testo, di smarcarsi dal suo ruolo di sociologo per proporsi come un vero guru: solo in quest’ottica si spiegano infatti gli innumerevoli aneddoti di sapore autocelebrativo. Quando Sennett ci racconta dei suoi trascorsi alla White Horse Tavern, «un locale bohémien [...] rumoroso e pieno di fumo con una clientela mista costituita da artisti, scaricatori di porto, gay e infermiere del vicino ospedale» (p. 97), o della sua amicizia col signor Suhdir, «meraviglioso malgrado le piccole truffe», o degli immigrati clandestini che vendono merce rubata e che si confidano con lui (p. 114), o del ragazzino che lo guida nelle favelas evitando pericolose gang criminali (p. 199), o della panetteria di Boston il cui pane era tanto buono (forse per questo ricicla l’aneddoto da L'uomo flessibile, dopo quasi vent’anni), lo fa per presentarsi come uomo di mondo, esperto dei rapporti umani, anticonformista: una persona da cui accettare consigli. E, parallelamente, Sennett dispensa pillole tecniche del tutto inutili e spesso al limite del ridicolo. Ci spiega che per creare un luogo piacevole «la regola è sistemare un numero sufficiente di panchine da poter accogliere in un posto solo sei famiglie numerose» (p.75), qualunque cosa ciò significhi. Discetta dei gradini, che a seconda del capitolo devono essere alti «16 centimetri all’esterno e 21 (!) all’interno» (p. 73) oppure «110millimetri all’esterno, 150millimetri all’interno» (p. 257). Ex cathedra, sintetizza che «esistono tre forme di città» (p. 52), a pianta ortogonale, a struttura cellulare e a griglia additiva, stabilendo senza alcuna prova a carico che le prime due sono adatte all’abitare e la terza no, e pazienza per tutte le metropoli che non rientrano in questo schema, da Londra a Vienna. E naturalmente, distribuisce vaghi riferimenti alle sue numerose consulenze urbanistiche: costruendosi così un’immagine di competenza professionale che dia peso alle ricette espresse nella terza parte.
Nella stessa logica è la manifesta scelta di uno slogan. Domina infatti il mito della città aperta, «più egualitaria e democratica di quanto non lo siano quasi tutte le società attuali, con una spartizione delle ricchezze tra l’intero corpus sociale e non accumulate ai vertici» (p. 19). Sennett sostiene che le organizzazioni che funzionano siano sistemi aperti: l’esempio è il Media Lab o la prima Silicon Valley, dove i ricercatori si confrontavano liberamente, mentre nei sistemi “chiusi” come il Googleplex (la sede di Google), essi sarebbero inconsapevolmente oppressi. Che ciò sia vero o meno, è chiaro che l’analogia con i sistemi non interessa Sennett: altrimenti noterebbe che proprio le opere di rigenerazione (cioè meccanismi di retroazione positiva) in atto in molte città da lui definite chiuse testimoniano che la città è un sistema aperto, che lo si voglia o no. Qui invece il termine ha una dimensione puramente mediatica: aperto è il nuovo buono e giusto, si direbbe in inglese.
Ma questi sono peccati veniali, in fondo. Così come lo sono le numerose e a tratti deliranti divagazioni (i cinesi farebbero copie perché incapaci di stare al passo con lo sviluppo delle loro città, la meritocrazia sarebbe il grande male dei nostri tempi, e così via), figlie forse di una scrittura a più mani che avrebbe meritato un editing più severo.
Ciò che davvero è grave è che, nella costruzione artificiosa della polarità tra abitare e costruire, la complessità della città vada completamente perduta. Sennett racconta di un costruire e di un abitare (soavemente chiamati ville e cité), come fossero dimensioni semplici, univoche: ma gli abitare sono tanti, concorrenti, coerenti, contrastanti. E ognuno di loro ha un rapporto diverso con la forma, che in una metropoli sono le forme, mutevoli, di varia scala. Dimenticando l’ormai storica lezione di Rem Koolhass e del suo Delirious New York (1978), Sennett ricade cioè nel mito del controllo che tanto avversa: senza accettare che il carattere delirante che tanto lo spaventa è in realtà costitutivo della città. Se cioè il legame di reciproca causalità tra costruire e abitare è sempre effettivo e performativo, al tempo stesso esso non ha carattere di necessità o di univocità: le forme sopravvivono al modo di abitarle, e società simili possono creare forme molto diverse, e ciò implica un approccio costitutivamente tentativo. È imperdonabile allora l’idea che bastino cittadini e urbanisti “ben intenzionati” (p. 74) per produrre una città giusta: il modello di coproduzione sennettiano potrebbe apparire simile alla Teoria dell’agire comunicativo, ma in effetti cancella tutta la tensione sulla responsabilità che per Habermas sottendeva il contributo del singolo al processo, scivolando verso una logica da social network in cui tutti hanno potere di dire tutto su tutto, anche senza saperne nulla. E favoleggiando di un mondo in cui la valenza previsionale degli scenari viene affidata ai (futuri?) abitanti, senza coinvolgere alcuno dei “poteri forti” cui attribuisce tutti i mali della città contemporanea (politici, imprenditori ecc.), e parallelamente liberando gli urbanisti di ogni responsabilità: un paradosso amaro. Sennett cavalca così l’onda del populismo e della (finta) democrazia diretta: in un mondo finalmente privo di politicanti e speculatori, ognuno dirà la sua, e la città sarà finalmente “aperta”.
E con un colpo di coda, nelle ultime pagine ci viene ricordato che questo raffazzonato lavoro sarebbe il compimento di una trilogia sull’uomo iniziata con il riuscito L'uomo artigiano (2008) e lo zoppicante Insieme (2012): come un’opera artigiana infatti, «generalmente una città aperta è più riparabile di una città chiusa» (p. 314), anche se non si sa perché. Siamo ormai nel campo generalizzato del sensazionalismo e del like: certo, «se foste contadini, capireste subito di che cosa si tratta, ma purtroppo avete trascorso troppo tempo nei bar» (p. 262), quindi questo è ciò che vi meritate.
di Carlo Deregibus
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Extra#2 \ TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia
Extra / Febbraio 2018TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia è la traccia di un dialogo spesso acceso, ricco di incomprensioni e riconciliazioni, che coinvolge architetti e filosofi, docenti e professionisti, e ancora biologi, dottori di ricerca, studenti. È il racconto di due discipline, architettura e filosofia, che si voltano per guardarsi reciprocamente, provando a innescare una svolta concettuale che deve divenire un nuovo punto di partenza. Precisamente questo è il doppio significato del termine “Turns”.
Da un lato infatti, il filosofo ha sempre avuto difficoltà a interloquire con l’architetto, sia per ragioni storiche sia per ragioni strettamente legate al suo metodo e ai suoi obiettivi. L’architetto sembra infatti presentarsi allo sguardo del filosofo come un personaggio al contempo perturbante e conturbante, in un misto di attrazione e biasimo, di invidia e ammirazione: una figura tanto sfuggente da investire la riflessione filosofica con effetto retroattivo, facendo scricchiolare le sue fondamenta concettuali e mettendo in dubbio nozioni fondamentali quali verità, libertà, realtà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, che hanno rappresentato per secoli il lessico base del pensiero occidentale. L’interesse verso una simile figura sembrerebbe ovvio. Eppure, quasi sempre è il filosofo che viene interpellato, utilizzato o coinvolto nel lavoro dell’architetto, in molti casi con l’intento di distillare spazialmente il senso dei suoi discorsi nel progetto. Non che ciò sia impossibile, ma, forse, dovremmo domandarci se è proprio questo quello che vogliamo: o se invece non sia compito del filosofo esercitare una sistematica e implacabile strategia di provocazione interessata, al fine di produrre un effetto, una particolare condizione dello sguardo. Creare la crisi, mettendo in discussione ciò che è dato, sapendo che, come spesso accade, l’apertura verso un nuovo oggetto di conoscenza lascia insoluti quei quesiti che lo vedono direttamente implicato per produrre un effetto retroattivo di chiarificazione nel soggetto indagatore, impegnato a leggersi ora attraverso una nuova forma di mediazione.
Dall’altro lato, per l’architettura il rapporto con la filosofia è storicamente naturale, quasi che questa fosse una visione complementare sul mondo rispetto al suo operato: questo era possibile perché la società si evolveva in modo relativamente lento, attraverso sedimentazioni di usi che diventavano convenzioni sociali, di pensiero, di stile. Così andava nell’architettura egizia, in quella classica, nel medioevo, nel rinascimento, finanche nel Modernismo: i significati erano decifrabili perché si condivideva un sostrato convenzionale. Ma qualcosa è cambiato. Le correnti durano pochi anni: poi passano, come le mode, spesso senza lasciar traccia – tranne edifici già superati, ovviamente. Così, spariscono le teorie dell’architettura, cioè sistemi che dicano cosa sia giusto costruire. E senza una teoria che legittimi le scelte, fioriscono le retoriche e le poetiche personali, spesso così ridicole da essere persino (e giustamente) oggetto di satira. La condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai fisiologica. Ed è qui che la filosofia diventa non solo utile, ma necessaria. A patto, certo, di non usarla in senso analogico, con derivazioni dirette che trasformano concetti in forme e pensieri in stili. Dialogare con i filosofi serve perché essi ragionano su temi che, in qualche modo, toccano gli architetti – ad esempio, lo spazio, l’invenzione, la città, la generazione della forma, il potere. Capire qualcosa di quei temi aiuterà a progettare con una maggior consapevolezza, o una più approfondita convinzione sulle ragioni del progetto, e a capirne meglio effetti ed esiti.
A cura di Carlo Deregibus e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/1.2018
Pubblicato: gennaio 2018
Indice
Alberto Giustiniano - ARCHITECTURAL TURN. Il filosofo e le sfide del progetto [PDF It]
Carlo Deregibus - PHILOSOPHICAL TURN. Fragilità dell’architettura contemporanea [PDF It]
(S)Block-Seminar
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DA LASCAUX AI JUNKSPACE
Giovanni Leghissa - Da Lascaux ai junkspaces (passando per Ippodamo da Mileto) [PDF It]
Giovanni Durbiano – Descrivere il progetto dello spazio [PDF It]
Riccardo Palma – Molteplicità e non naturalità degli spazi nella produzione del progetto di architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Dutto [PDF It]
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DECOSTRUZIONE, IMMANENZA, ILOMORFISMO
Giulio Piatti – Simondon e Deleuze di fronte all’ilomorfismo. Appunti sul rapporto forma-materia [PDF It]
Carlo Deregibus – Appunti su Chōra, spazio e architettura. Da Platone a Derrida [PDF It]
Paola Gregory – Le nuove scienze e la conquista dell’informale [PDF It]
Riccardo Palma – L’assenza necessaria dell’architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
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FENOMENOLOGIA E PROGETTO
Claudio Tarditi – Fenomenologia e architettura. Introduzione al problema della percezione spaziale in Edmund Husserl [PDF It]
Alberto Giustiniano – Tempo, forma, azione. Il senso del progetto nel dialogo tra Enzo Paci e Ernesto Nathan Rogers [PDF It]
Silvia Malcovati – Per un razionalismo relazionale [PDF It]
Carlo Deregibus – L’orizzonte del progetto e la responsabilità dell’architetto [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Tosca [PDF It]
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MORFOGENESI E AUTOORGANIZZAZIONE
Veronica Cavedagna & Danilo Zagaria - Quale spazio per la morfogenesi e l'auto-organizzazione? [PDF It]
Paola Gregory – Morfogenesi architettonica e “vita artificiale” [PDF It]
Carlo Deregibus – Progetto e complessità. Fascino dell’analogia e libero arbitrio [PDF It]
RIFERIMENTI di Edoardo Fregonese [PDF It]
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ANTROPOGENESI E COSTRUZIONE DELLO SPAZIO
Roberto Mastroianni – Regimi dello sguardo. Sloterdijk e la metafora spaziale [PDF It]
Alessandro Armando – La scrittura del futuro e la promessa del progetto [PDF It]
Daniele Campobenedetto – Leggibilità e materialità dello spazio [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Cesareo [PDF It]
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POTERE E SPAZIO
Luigi Giroldo – Genealogie dello spazio contemporaneo. Utopie moderne e nascita dell’urbanistica [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
BIBLIOGRAFIA
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