A lungo trascurato in patria, grazie al grande successo internazionale Giorgio Agamben è oggi oggetto anche in Italia di una serie di recenti studi e pubblicazioni. L’ultimo esempio ne è il libro di Ermanno Castanò Agamben e l’animale (Novalogos, 2018), che segue di pochi mesi quelli di Riccardo Panattoni (Giorgio Agamben,Feltrinelli, 2018) e Flavio Luzi (Quodlibet. Il problema della presupposizione nell’ontologia politica di Giorgio Agamben,Stamen, 2017), e di un paio d’anni il volume collettaneo curato da Antonio Lucci e Luca Viglialoro (La vita delle forme,Il nuovo melangolo, 2016). Tutti questi studi scelgono un angolo particolare da cui leggere e analizzare la produzione agambeniana, e quello scelto da Castanò è la questione dell’animale, o, meglio, dell’essere umano come “animale politico”. E tuttavia questa non è semplicemente una delle tante possibili prospettive di analisi, perché Castanò mostra bene come la questione dell’animalità (umana) non sia solo un “problema di fondo della nostra cultura” (pag. 7), ma anche uno dei cardini – se non quello principale – attorno a cui ruota l’intera opera di Agamben, da L’uomo senza contenuto del 1970 fino alla conclusione della serie “Homo sacer” nel 2014 e agli ultimi libri. Quindi leggere Agamben alla luce della questione dell’animale significa ripercorrere tutta la sua vasta produzione svelandone e illuminandone l’intenzione unitaria che ne tiene insieme le varie fasi, che è quella di pensare l’essere umano al di là della frattura metafisica che lo separa dalla (propria) animalità.
Il metodo adottato da Castanò è semplicemente quello di analizzare, prima cronologicamente e poi strutturalmente (nel caso della serie “Homo sacer”) tutte le varie opere del filosofo romano per mostrare come questa questione ne strutturi sempre, ancorché in modi diversi e assai spesso in tono minore, l’interrogazione filosofica. Il risultato è un corposo studio che, per quanto esplicitamente non si voglia come “un’ennesima introduzione” (pag. 10), in pratica è senza dubbio a oggi la più completa e dettagliata introduzione in italiano alla filosofia di Agamben, in quanto ne analizza a fondo e in dettaglio tutte le opere principali (e molte di quelle meno lette e analizzate), le intenzioni e le influenze filosofiche, e le problematiche fondamentali. L’intenzione primaria di ricondurre il pensiero di Agamben alla questione dell’animale non risulta affatto una forzatura, perché è innegabile che fin dai suoi primi scritti alla fine degli anni Sessanta – senza dubbio sulla scorta di Heidegger – la domanda che guida Agamben è quella sulla relazione, nelle definizioni aristoteliche dell’umano, tra zoon e logos, tra animalità e razionalità/linguaggio, che è inscindibile da quella tra l’animaleumano e la sua politicità. Inoltre, l’animalità che interessa ad Agamben è (per lo più) quella umana, e la questione stessa in fondo rimane, anche nello studio di Castanò, assai spesso in secondo piano e quasi in filigrana: è una sorta di corrente sotterranea che sostiene le varie analisi dell’estetica, della storia, e della politica, tutte comunque riconducibili alla grande questione della metafisica e del suo superamento.
Castanò mette bene in evidenza come la struttura portante della metafisica sia per Agamben quella di una cesura, di una separazione tra un sostrato inconoscibile e innominabile che va a fondo (di volta in volta la voce animale, la physis, la natura, la vita naturale, l’animalità, ecc.), per sostenere in questo modo l’emergere di una “sostanza” conoscibile e nominabile (il logos, il nomos,la cultura, la vita “politica”, l’umanità…). E questa struttura presupponente sostiene, più o meno chiaramente, tutte le analisi svolte già fin da L’uomo senza contenuto. Quindi anche quando, come in tutta la prima fase del suo pensiero (almeno fino a La comunità che viene, 1990), Agamben si concentra principalmente sulla questione del “linguaggio”, lo fa analizzandolo nella sua contrapposizione al sostrato materiale e innominabile della vita e della “voce” animale. È innegabile che Agamben appartenga a una tradizione fortemente antropocentrica, ed è facile isolare l’eccezionalismo umano nelle sue tante (e tradizionali) contrapposizioni tra l’animale e l’umano (“a differenza degli altri animali, l’uomo è l’unico che…”). Ma è anche indubbio che nel suo pensiero – e questo fin dall’inizio – la questione del logocentrismo (e sul linguaggio Agamben metterà sempre una grande enfasi) non è tanto un presupposto quanto precisamente il problema da analizzare e affrontare, e che il superamento della metafisica da lui sempre auspicato comporta il superamento di questa frattura e di questa contrapposizione.
La questione dell’animale acquista ovviamente più centralità con il progetto “Homo sacer”, la cui protagonista è proprio la vita nella sua contrapposizione alla sovranità o al potere. La scissione metafisica strutturale qui si incarna nello sdoppiamento semantico originario tra zoè e bios, che ricalca in ultima istanza la frattura tra animalità e umanità. Uno dei grandi meriti di Castanò è di mostrare che la famigerata “nuda vita” è proprio il prodotto di questa frattura in tutte le sue varie manifestazioni (mentre molte interpretazioni la confondono ancora con la zoè), e che l’eccezione che caratterizza la sovranità e il potere non è che l’esplicitazione della struttura metafisica che informa ogni aspetto della tradizione occidentale. Dopo una lunga analisi di tutte le opere che lo precedono (cronologicamente e poi logicamente), Castanò arriva allo snodo fondamentale del suo libro, che è anche il suo contributo più originale e incisivo: l’analisi e la rivalutazione di Quel che resta di Auschwitz (1998), il volume III del progetto “Homo sacer” e il libro più criticato e frainteso di tutta la serie – e dell’intera produzione di Agamben. Probabilmente questa lettura è divenuta possibile solo dopo la conclusione dell’intero progetto, ma dalla nostra prospettiva ex post la rilettura dell’opera diventa necessaria e centrale: la funzione di questo libro, che fa da “soglia” tra la pars destruens dei volumi I e II e quella construens del volume IV, è quella di mostrare il funzionamento della “macchina antropologica” in tutta la sua mortifera purezza, e cioè nel tentativo di separare e purificare, nel campo nazista, l’uno dall’altro i due termini della frattura metafisica originaria, l’umano e il non-umano. Auschwitz è il culmine della metafisica, e qui la sua struttura emerge in modo paradigmatico – da qui la centralità di questo libro.
Nel 2002 Agamben pubblica poi un pendant al libro su Auschwitz, che insieme a esso dev’essere letto: L’aperto. L’uomo e l’animale, l’unico esplicitamente dedicato alla questione dell’animale. Castanò mostra bene come questo libro, che non fa ufficialmente parte della serie “Homo sacer” e, a differenza di altre opere di Agamben, non ha suscitato grande interesse o grandi dibattiti (con eccezione degli animal studies), non è una “trascurabile divagazione da un percorso che si muove altrove” (pag. 197), ma fornisce anzi un’importante chiave di lettura per interpretare tutta la filosofia agambeniana: se la frattura fra l’umano e l’animale costituisce la chiave di volta dell’intera metafisica occidentale, allora interrogarsi su questa questione – questa è la tesi portante de L’aperto, e quindi anche del libro di Castanò – è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni della politica, dell’etica, della storia. L’aperto fornisce anche un ponte per passare alla pars construens del volume IV, ribadendo (giacché questo è da sempre uno dei cardini della filosofia di Agamben) che il superamento della metafisica con la sua frattura presupponente consiste in un “arresto” della macchina, in una deposizione o dèsoeuvrement dei suoi dispositivi, che li aprirà a un nuovo “uso”.
Tutta la teorizzazione della “forma-di-vita” nel volume IV di “Homo sacer” è quindi un ripensamento della frattura metafisica originaria e della questione dell’animalità. Una precisazione importante emerge, a questo proposito, dalla lettura di Castanò: la caratteristica portante della “forma-di-vita” per Agamben è la potenzialità, essa è cioè un “essere di potenza”, che sfugge a qualsiasi destino storico o biologico; questa struttura sembrerebbe ricalcare la tradizionale frattura tra l’animale e l’umano, dove quest’ultimo, a differenza del primo, è “senza rango” (nelle parole di Pico della Mirandola), è cioè libero dalle costrizioni meccanicistiche che imprigionano invece l’animalità. Potrebbe sembrare, così, che alla fine la proposta soteriologica di Agamben non riesca a sfuggire al tradizionale eccezionalismo umano della metafisica occidentale; e tuttavia la potenzialità della forma-di-vita consiste proprio nella disattivazione di questa struttura e di questa frattura, che imprigiona sia l’umanità che l’animalità in un perenne e mortifero “stato di eccezione”. Il pensiero della forma-di-vita è quindi volto non solo a una ridefinizione dell’umanità, ma anche dell’animalità, o meglio della relazione (e non separazione) tra le due.
Agamben ha, non tanto concluso quanto piuttosto (nelle sue parole) “abbandonato” il progetto “Homo sacer”, affinché questo possa essere forse continuato da altri e in altri modi. Il volume di Castanò è un primo passo, sistematico e introduttivo, che pone le basi per questa possibile continuazione; esso mostra, a partire da Agamben, che la filosofia che viene dovrà essere una filosofia dell’animalità.
Tra le scuole di pensiero marcatamente connotate dalla presenza di un capostipite fondatore – si pensi alla fenomenologia di Husserl, all’ermeneutica di Heidegger, e alla biopolitica di Foucault – oggi è forse la decostruzione a godere della più vasta pervasività; e non tanto per intensità e clamore mediatico, quanto piuttosto in termini di tacita assunzione e di capillarità. A nostro modo di vedere, ciò è potuto accadere poiché, situandosi a cavallo di istanze epistemologico-metodologiche e di ipotesi ontologiche forti, il pensiero di Derrida ha raggiunto lo statuto di referente teorico ineludibile, sia dal punto di vista dei detrattori sia da quello dei più strenui fautori. Equipaggiando la filosofia di un metodo critico di lettura e riscrittura, così come, al contempo, drenando dai bacini delle filosofie decostruite operatori concettuali dormienti, la decostruzione ha fornito strumenti e spazi di disputa. È divenuta cioè il teatro ideale di animate discussioni, tanto interne, volte ad affinare la lettura degli stessi testi derridiani, quanto esterne, ossia vertenti sulla possibilità o meno di applicare le procedure e le nozioni decostruttive in relazione a prospettive di diverso lignaggio. Ora, è esattamente in direzione di questo doppio binario che si inserisce il recente lavoro di Francesco Vitale, Biodeconstruction. Jacques Derrida and Life Sciences (Suny Press, 2018). Frutto di un’attenta ricerca filologica, capace di coordinare l’approccio storico-ricostruttivo con quello più spiccatamente propositivo, il testo di Vitale si situa a pieno titolo tra i lavori della “scuola” decostruttiva progressista, intendendo con questa espressione quel filone di studi derridiani – di cui Rodolphe Gasché è probabilmente il nume tutelare – impegnati a manifestare fedeltà metodologica alla decostruzione, tramite un’espansione della sua area di operatività. Dopotutto il volume di Vitale, come si vedrà, cerca di assecondare quello che fu l’auspicio stesso di Derrida: preservare la singolarità del gesto decostruttivo tradendone però, di volta in volta, i limiti epistemici.
Il progetto Homo Sacer, conclusosi con la pubblicazione di L’uso dei corpi, ha al suo centro una casella vuota: manca, infatti, del volume II.4, quello situato tra II.3. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento e II.5 Opus dei. Archeologia dell’ufficio. Una casella vuota che è al contempo, per dirla con il Deleuze di Logica del senso, un oggetto soprannumerario che percorre serie eterogenee introducendo convergenze o disgiunzioni. Quest’assenza al cuore del progetto archeologico di Agamben, questo posto senza occupante e occupante senza posto, fa di Homo Sacer un’opera eccessiva e difettosa, compiuta (dai toni, per molti versi, definitivi) ma al contempo incompiuta, o meglio abbandonata, deposta, dunque ancora attraversata da tensioni che vanno interrogate. Ne sono consapevoli Antonio Lucci e Luca Viglialoro, curatori del volume G. Agamben. La vita delle forme, edito da Il Melangolo, i quali nel tentativo di tracciare «una morfologia del pensiero di Agamben, indagandone alcune diramazioni» (p. 9), devono fare i conti con un’opera «compiuta-incompiuta» che costringe «a tracciare un movimento non concluso del suo oggetto di indagine esibendone così, per l’appunto, la vita» (ibidem).
Il volume contiene quindici contributi suddivisi in tre parti. La prima, Dopo Homo Sacer. Archeologia di un progetto filosofico, può essere definita, nelle sue linee principali, un’«archeologia dell’archeologia» (per riprendere il titolo dell’introduzione, scritta da Agamben, a La linea e il circolo di Enzo Melandri), nella quale vengono ricercati, nelle prime opere agambeniane, quei momenti paradigmatici che si ritroveranno in tutto Homo Sacer. La seconda, Il corpo glorioso e i suoi usi, nell’intrecciare questioni epistemologiche, teologiche e politiche, risulta nella sua brevità la parte più eterogenea del volume, nella quale emerge più chiaramente la «struttura reticolare […], l’intreccio multilineare di forme» (ibidem) che caratterizzano gli scritti dell’autore. La terza, Agamben (nel) contemporaneo, misura l’«inattualità» (p. 11) del filosofo romano: è la parte in cui si trovano i due testi più frontalmente critici, quello di Judith Revel e Federico Luisetti, i quali mirano a esibire gli effetti destoricizzanti del suo discorso.
Lucci e Viglialoro dispongono i contributi in modo da dare al volume una struttura reticolare capace di rendere conto dell’«intreccio di forme», pocanzi accennato, di cui si compone il «dispositivo scritturale agambeniano», un dispositivo «all’interno del quale insistono delle urgenze» (p. 9). Se il dispositivo rimanda, per dirla con Foucault, a un’operazione strategica che fa fronte a un’urgenza, l’urgenza del volume di Lucci e Viglialoro sembra proprio quella di far fronte a un dispositivo. Quando si parla di Agamben, infatti, la posta in gioco è senz’altro teorica e politica, ma lo è solo perché primariamente meccanologica. Tutta l’opera di Agamben è popolata da una moltitudine di macchine: macchina teologica, macchina giuridica, macchina ontologico-politica (con la sua variante ontologico-biopolitica), macchina antropogenetica, ecc. Capire la funzione di queste macchine o, anche, come abbiano preso consistenza intorno alla loro funzione, non è un semplice esercizio d’ingegneria filosofica: ne va, infatti, della possibilità di ripensare il politico. Queste macchine sono riconducibili a una macchina astratta che possiamo chiamare macchina bipolare. La macchina bipolare svolge essenzialmente un’operazione, quella di separare (il sacro dal profano, la norma dal fatto, bíos da zoé, l’umano dall’animale). Ma questa operazione non è sufficiente per rendere conto del dispositivo agambeniano: la macchina bipolare implementa un’altra funzione, quella del disporre. I termini separati sono disposti in modo tale che uno finirà per subordinare l’altro. Ci sembra opportuno, allora, attraversare il volume mantenendo ferma una prospettiva meccanologica, capace di mostrare il corpo a corpo con il quale la maggior parte dei contributi si confronta con questo dispositivo/macchina bipolare.
Se nell’intervento di Dario Gentili la macchina bipolare diventa il «dispositivo della crisi» che, in tutto il progetto Homo Sacer, «'separa' e 'dispone' in una relazione di potere gli elementi che cattura nella sua rete» (p. 51), Timothy Campbell ne mette in risalto la valenza tanatopolitica, che emerge in tutta la sua chiarezza se confrontata con la funzione del dispositif deleuziano. In Deleuze «il dispositivo condiziona la produzione di soggettività, ma evidenzia anche le linee lungo le quali la soggettivazione prodotta crea linee di fuga che confluiscono a propria volta in altri dispositivi» (p. 205). In Agamben, invece, nella società contemporanea, la proliferazione di dispositivi produce essenzialmente de-soggettivazioni (dividui, potremmo dire): a tal proposito sarebbe interessante leggere il contributo di Campbell affianco a quanto, sul dispositivo agambeniano, scrive Stiegler in Prendersi cura. Agamben non riconoscerebbe, secondo Stiegler, la natura farmacologica dei dispositivi, che di volta in volta possono produrre soggettivazione o de-soggettivazione, processi di individuazione o di dividuazione. Ciò si risolve, in Agamben, nell’elezione dell’inoperosità a unica modalità di disinnesco della macchina bipolare.
La prestazione originaria della macchina bipolare è, infatti, ontoteologica: se, sul versante teologico, funziona separando e disponendo il sacro e il profano, subordinando quest’ultimo al primo, sul versante ontologico separa e dispone l’atto dalla potenza, facendo del passaggio all’atto il momento preminente. Elettra Stimilli, nel suo contributo, si concentra proprio sul concetto di potenza, «nucleo incandescente» (p. 17) della riflessione agambeniana. Lo sforzo principale di Agamben sarebbe quello di pensare l’esistenza della potenza al di là di una sua relazione con l’atto. Ciò si traduce nel disattivare la volontà e il dovere che, come operatori metafisici, sono alla base dell’ontologia dell’effettualità per la quale «l’essere è qualcosa che deve essere realizzato e messo-in-opera» (cit., p. 27). All’operazione della macchina bipolare deve subentrare l’inoperosità, che rimanda a un differente uso del mondo «intimamente connesso a una vita che, come la potenza dell’atto, non sia separata dalla sua forma, 'una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso e, nel suo vivere, ne va innanzitutto del suo modo di vivere'» (p. 29). Questa vita è forma-di-vita: Antonio Lucci ne ricostruisce la storia sostenendo che «tutta la filosofia agambeniana che è racchiusa nel concetto di forma-di-vita rappresenta il tentativo di porre in costante relazione e tensione il concetto di soggetto [inteso come processo di soggettivazione], a quello di opera [intesa come opus]» (pp. 69-70). La forma-di-vita,infatti,si dà nella coincidenza tra lavoro all’opera e lavoro su di sé. Lucci sembra consapevole di muovere da una prospettiva mediologica più fedele a Sloterdijk che ad Agamben, nella quale il lavoro su di sé fa leva sul medium dell’opera: il concetto di tensione, da lui utilizzato in maniera strategica, è già un modo di pensare oltre Agamben, in quanto rimanda a una declinazione diversa del concetto di relazione che, come vedremo, verrà messa in luce dal contributo di Vittoria Borsò. In Agamben la forma-di-vita abita una soglia di indiscernibilità nella quale i termini di un’opposizione (forma e vita, potenza e atto, essere e prassi) cadono assieme, vengono deposti: Agamben spezza la relazione, risultato dell’operazione della macchina bipolare, con l’obiettivo di portare alla luce un puro irrelato. L’inoperosità è il contro-dispositivo che rende ciò possibile. Scrive Gentili: «il contatto di bíos e zoé è una soglia in cui la loro indiscernibilità si tiene in sospeso rendendo inoperosa la macchina ontologico-biopolitica che opera il loro discernimento e la loro discriminazione» (p. 62). In questo senso, però, come sostiene Stimilli: «Agamben finisce […] per non allontanarsi da un’univoca definizione metafisica del dispositivo dell’operatività che […] rischia di apparire non del tutto sufficiente per una critica del presente, se privata di un confronto con i meccanismi di potere storicamente determinati e di volta in volta funzionanti» (p. 31). In altre parole, potremmo dire che se i meccanismi di potere storicamente determinati si risolvono di volta in volta in una specifica gestione delle condotte contro le quali possono essere mobilitate specifiche contro-condotte (Foucault); a un meccanismo di potere metafisicamente determinato (la macchina bipolare) non si può che opporre, una volta per tutte, un contro-dispositivo che fa leva sull’inoperosità (Agamben).
L’univoca definizione metafisica di cui parla Stimilli è il risultato della de-storicizzazione connessa al metodo archeologico agambeniano che va di pari passo con la negazione di un’ontologia relazionale e operativa. Sulla de-storicizzazione si concentrano i contributi di Judith Revel e Federico Luisetti. Per Revel il campo come paradigma della modernità presuppone un arci-campo, un campo-matrice, che rivelerebbe il meccanismo e la funzione ultima di ogni campo che storicamente ha visto la luce. La novità che emerge storicamente sarebbe così neutralizzata nella ripetizione dell’identico, dal riproporsi di un anacronismo. Il campo, per Agamben, è il luogo in cui biopolitica e tanatopolitica, produzione di vita e produzione di morte, si confondono. Ma per Revel «produrre la morte» è un’espressione senza alcun senso e la biopolitica, che secondo l’autrice è legata storicamente a un potenziamento, alla produzione di un surplus di valore, non può essere confusa con la tanatopolitica: «è tempo di chiamare le cose con il loro nome: le filosofie del negativo non sono filosofie della potenza, la bio-politica non è tanato-politica, l’uomo non è un animale, tutti i campi non sono gli stessi, tutti gli eventi non sono permessi. È tempo di riapprendere a pensare nella storia» (p. 264). Luisetti, dal canto suo, ritiene che il metodo archeologico agambeniano non solo dissolverebbe ogni empiricità ma, soprattutto, occulterebbe lo stato di natura della modernità, il quale sta alla base della distinzione tra civilizzato e selvaggio, cultura e natura, politica ed economia. Lo stato di natura moderno è in Agamben «costantemente smembrato e duplicato in una serie arcaica e in una escatologica […], l’archeologia filosofica […] ha questa funzione di accecamento, opera al servizio della forclusione della modernità occidentale e del suo stato di natura coloniale, trascendentale e naturalistico» (p. 235). L’archeologia, anziché «provincializzare l’Occidente», liberando quelle esteriorità selvagge capaci di resistere alle sue pretese egemoniche, ne «rafforza la fantasmagoria ontoteologica» (p. 242).
Vittoria Borsò, oltre a insistere sul carattere destoricizzante del progetto Homo Sacer, che coincide con la «sostituzione della storia con la matrice storicamente invariabile del campo di concentramento inteso come paradigma della modernità» (pp. 115-116), riconduce la riflessione agambeniana a un pensiero della catastrofe opposto a un pensiero del disastro. Se in quest’ultimo la povertà dell’ente si apre a un’ontologia generativa di cui sarebbero espressione non solo la scrittura di Blanchot e i lavori di Jean-Luc Nancy e Roberto Esposito, ma anche l’ontologia operativa di Gilbert Simondon e Bruno Latour; con il pensiero della catastrofe, da una parte, si rimane legati alla promessa di una redenzione messianica che interrompa il corso catastrofico del tempo, e, dall’altra, si presuppone l’azione «di un soggetto agente poietico, che porti al collasso della politica tramite un estetica della distruzione e dell’inoperosità, capace di destituire ogni matrice (bio-)politica (Bartleby)» (p. 115).
In altre parole, se per Revel e Luisetti occorre ridimensionare la portata universalizzante e archetipica della macchina bipolare, distanziandosi dalle vocazione metafisica dell’archeologia agambeniana e rimettendo al centro della riflessione la storia; per Borsò occorre pensare la relazione non come l’effetto della macchina bipolare che divide e dispone ciò che in partenza è irrelato, ma a partire da un’ontologia operativa per la quale l’essere, utilizzando la terminologia di Simondon chiamato in causa dalla stessa Borsò, è sempre più-che-unità e più-che-identità, sempre sfasatura e processo. Il potere destituente (macchina destituente o contro-dispositivo), nel tentativo di neutralizzare i processi di dividuazione (de-soggettivazione), neutralizza anche i processi di individuazione (soggettivazione): e se permane l’ombra di un’individuazione soggettiva nelle forme della contemplazione e dell’inoperosità, scompare radicalmente la possibilità di un’individuazione collettiva, di un trans-individuale. Lucci, nel suo contributo, rileva proprio questo problema: Agamben, ne L’uso dei corpi, rinuncia a pensare una forma-di-vita comunitaria. Il concetto di tensione, da Lucci utilizzato, vuole salvaguardare la possibilità di pensare una forma-di-vita trans-individuale: «se non applichiamo tra opera e inoperosità il concetto di 'tensione', quello di inoperosità rischia di chiudersi nel solipsismo, nell’immobilismo, in una certa qual forma di ieratica contemplazione da saggio orientale […], la politica, l’arte e la felicità possono essere pensate solo come una tensione continua tra un pensiero e fare, tra opera e inoperosità, se non si vuole che l’inoperosità si traduca immediatamente in immobilità» (p. 88).
Il saggio di Lucci condensa bene quello che mi sembra lo spirito dell’intero volume: pensare con Agamben ma anche oltre Agamben. Lo stesso Agamben, nel lasciare al centro della sua imponente opera una casella vuota, nel considerare abbandonato e non concluso il suo progetto, sembra indicare la possibilità non solo di un suo proseguimento da parte di altri, ma anche di un suo radicale ripensamento.
Nel 1739 l’inventore francese Jacques de Vaucanson progettò il suo automa più famoso, Le Canard Digérateur. Della celebre “anatra digeritrice”, che in realtà non digeriva affatto i chicchi di grano con cui veniva nutrita, è rimasta traccia materiale soltanto negli schizzi preparatori del suo costruttore e nelle riproduzioni di alcuni artisti contemporanei. Tuttavia, il modello meccanico di de Vaucanson rappresenta un ottimo esempio della rappresentazione (e della riproduzione) del fare animale che il nuovo libro di Roberto Marchesini, Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale (Mimesis, 2016), intende accantonare in modo definitivo. Freddo, automatizzato, determinato e in fin dei conti semplice nel suo funzionamento, Le Canard Digérateur è la realizzazione meccanica e antropica della res extensa cartesiana, principale bersaglio dell’analisi di Marchesini. Addentrandosi in territori inesplorati dal panorama filosofico contemporaneo, l’autore inaugura una nuova strada seguendo due coordinate principali: la critica del modello meccanicista e l’individuazione del principio meta-predicativo nell’animalità.
L’analisi prende piede, ancora una volta, dalla rivoluzione darwiniana di metà Ottocento. La straordinaria svolta imposta dalle conclusioni del naturalista inglese, già contenenti tutti gli elementi necessari a un approccio non meccanicistico al comportamento animale, venne arginata nei decenni successivi da una vera e propria controriforma sia culturale sia scientifica. Il mentalismo novecentesco compì l’errore di non comprendere appieno la teoria darwiniana, mascherando vecchie concezioni con nomi nuovi. L’animale fu relegato nell’Umwelt, incatenato nel suo mondo e obbligato a svolgere automaticamente le proprie funzioni, delle quali è schiavo più che libero padrone. L’uomo, al contrario, venne svincolato dagli alberi filogenetici del vivente perché soggetto e dunque diverso dalla fauna restante, pletora di forme di vita impossibilitate ad assurgere a tale rango.
Il rifiuto dell’animalità dell’uomo, la prigionia dell’animale nella sua monade e l’automatismo funzionale dell’agire animale sono i tre pilastri di matrice antropocentrica che resistono alle scoperte scientifiche nel campo della biologia e vengono ereditate di generazione in generazione sino ai tempi moderni. Il confine tra umano e non umano viene rimarcato, stabilendo ruoli e incasellamenti che perdurano tutt’oggi e che devono essere scardinati a forza dal pensiero popolare così come dai dibattiti cultural-scientifici.
Nel suo saggio, Marchesini rimarca l’importanza di discostarsi dal classico approccio con cui l’essere umano ha avvicinato, studiato, interagito e osservato gli animali non umani. L’antropomorfismo proiettivo genera due principali conseguenze negative: primo, alimenta la presunzione di poter descrivere un altro essere vivente, dotato di proprie filogenesi e ontogenesi, a partire dal modello umano; secondo, legittima la categorizzazione oppositiva che già sussume, rendendola di fatto ineliminabile. Inoltre, rigettare l’unicità filogenetica di ciascuna specie allontana, in modo solo all’apparenza paradossale, dall’orizzontalità del bios che la teoria darwiniana prima e le scoperte nel campo della genetica raggiunte nel corso del Novecento poi hanno messo in luce. Eppure, nonostante già Darwin avesse sottolineato che l’animalità è una condizione che riguarda anche l’Homo sapiens, una lunga serie di filosofie e movimenti culturali hanno rafforzato e blindato la fortezza-uomo, cercando in ogni modo di isolarla da tutte le altre entità animali. Per raggiungere questo obiettivo non c’è modo migliore che quello di reificare e de-soggettivare l’animale, identificandolo a partire da quei predicati epimeteici che lo inchiodano, rendendolo schiavo delle sue funzioni. Durante il “secolo breve” l’animalità dell’uomo è stata dunque rigettata (spesso facendo perno sulla dicotomia natura/cultura, laddove la seconda è la marcia in più, la dotazione umana per eccellenza), rifiutando qualsiasi accostamento all’altro animale (la sinfisia di Acampora, il comune sentire interspecifico, arriverà soltanto alle soglie del nuovo millennio) e, infine, imponendo l’automa, il costrutto meccanico, come modello per la descrizione del comportamento e della biologia animali.
La critica del meccanicismo utilizzato per spiegare il fare animale insito tanto nella filosofia quanto nell’etologia parte dal superamento del riduzionismo e della macchina come modello. Le domande da porsi in principio potrebbero essere le seguenti: l’animalità può essere matematizzabile? Il fare animale può essere ridotto a un mero esercizio delle funzioni, trasformando il comportamento in un’azione semplice e binaria come lo è azionare un interruttore? Non si deve, ovviamente, cadere nella risposta più ovvia, vale a dire l’esaltazione e la descrizione della complessità come antidoto a ogni tentativo di meccanizzazione. Non è nelle stupefacenti immagini di un documentario della BBC o nell’ultimo, affascinante e istruttivo articolo pubblicato da Nature che dobbiamo cercare l’essenza dell’animalità. Occorre invece comprendere che la formalizzazione cartesiana non può donare al fare animale quella soggettività in cui Marchesini identifica il vero e proprio meta-predicato che funge da fil rouge attraverso il dominio animale dove è di casa anche l’uomo. La titolarità espressiva è il raggiungimento finale: non sono le dotazioni a muovere l’individuo, non esiste alcun homunculus e non è ovviamente contemplato un piano trascendente; «l’esistenza è pertanto una titolarità che va oltre la coscienza» (Marchesini, 2016, p. 45). Superare la res extensa cartesiana è il punto di partenza necessario per poter mettere da parte ogni tentativo di meccanizzazione dell’animale, ridotto, come è stato fatto in passato, a mera macchina a incastro, interruttore pronto ad agire, totalmente privo di soggettività.
Ammettendo la soggettività come condizione meta-predicativa dell’animale, è possibile passare da un modello a innesco (il già citato interruttore) a un modello virtuale. Per giungere alla virtualità funzionale, è dunque necessario considerare la singolarità della presenza animale, una singolarità che è sia storica (filogenesi), sia di sviluppo (ontogenesi). Ogni individuo è unico, non è cristallizzato nel qui-e-ora ma fa parte del flusso diacronico-evolutivo. L’animale non è operativo al pari di una macchina, al contrario è aperto e instabile. Da questo punto di vista, il comportamento non può essere letto come un automatismo: ogni individuo animale è un soggetto che si muove lungo le coordinate del desiderio e della volontà, proprietà queste che lo svincolano da qualsiasi tentativo di modellizzazione macchinica in quanto non c’è alcun compito da portare a termine secondo una procedura, sia essa determinata o algoritmica, tipica dell’automa. In Etologia filosofica il concetto di soggettività viene espresso come «visione diacronico-relazionale dell’esistenza» (Marchesini, 2016, p. 86) e porta a un paio di paradossi: primo, la titolarità sulle funzioni è svincolata dalla responsabilità sulle stesse; secondo, l’animale esercita le sue eredità filogenetiche, pur non essendone da esse esclusivamente determinato. L’animale è quindi un flusso, un divenire, un essere sempre diverso da se stesso. L’ontogenesi è un dialogo aperto col mondo, che diventa il piano su cui l’animale si muove in modo aperto, libero e flessibile, assolutamente non determinato. Abbandonando il principio disgiuntivo e oppositivo che da sempre accompagna la relazione fra l’uomo e gli altri animali, Marchesini illustra la dimensione ontologica dell’animale, fondata sulla soggettività, la singolarità e la titolarità sulle funzioni: non conta ciò che un animale è in grado di fare, ma che cosa fa di lui un animale.
Al termine della sua ricerca, Marchesini trova la metafora perfetta per chiarire l’idea su cui si fonda Etologia filosofica. Se l’intero saggio si configura come una ricerca, un tentativo di inaugurare una nuova strada che porti al riconoscimento della soggettività animale, quale figura potrebbe funzionare meglio che quella di una mappa? La cartina, capace com’è di mostrare una struttura e al contempo di richiedere l’ideazione di un itinerario, può agire da “schema funzionale” meglio di altri modelli. Dotato di un impianto di base – eredità del suo percorso filogenetico e del suo sviluppo ontogenetico – e grazie alla titolarità sulle proprie funzioni, l’animale può agire in modo plurale, creativo, intenzionale e soprattutto flessibile: può imboccare questa o quella strada, allungare il percorso, compiere deviazioni o addirittura mancare l’obiettivo di proposito. Appare dunque chiaro, grazie alla metafora, come questo agire sia distante anni luce dal percorso, rigoroso e iterativo, delineato da un diagramma di flusso, o dalle scelte, limitate e obbligate, che costituiscono un algoritmo informatico.
Con Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti si fa un salto nell’ossimoro. Il volume, curato da Dario Gentili ed Elettra Stimilli per DeriveApprodi (Roma 2015), è composto per buona parte dagli interventi del convegno internazionale Italian Theory existe-t-elle? tenutosi a Parigi nel gennaio 2014. Esiste una “teoria italiana”, una specificità del pensiero filosofico-politico italiano contemporaneo rispetto ad altre tradizioni e scuole di pensiero? L’Italian Theory può essere considerata una scuola o una tradizione di pensiero? “Italian Theory” e “differenze italiane”: due espressioni che sono anche i titoli degli ultimi due lavori di Gentili. Se il sottotitolo del primo, Dall’operaismo alla biopolitica, rivela il tentativo di tracciare una linea, un continuum, capace di rendere conto di una traiettoria che fa leva sulla peculiarità di una presunta Italian Theory, quello di Differenze italiane rimanda alla dispersione, al tentativo di cartografare un territorio che tende a sfuggire, difficilmente confinabile, capace di inseguire linee di ricerca inedite. Siamo nell’ossimoro appunto: confermato dal fatto che, nel volume, la locuzione “ItalianTheory” è chiamata in causa per definire la specificità di un pensiero aspecifico, l’unità presunta di una fucina d’idee che è piuttosto disseminata, disomogenea e disorganica. In altre parole l’espressione “Italian Theory” cerca di definire e contenere un’attività teorica che corrode l’unità dall’interno.
Il volume si divide in tre parti – la prima delle quali racchiude i saggi che cercano di definire la peculiarità dell’Italian Theory, la seconda è dedicata alle categorie preminenti nel dibattito filosofico-politico italiano contemporaneo (immanenza, dispositivo, crisi, improprietà, ecc.) e la terza esplora possibili usi di queste categorie in differenti ambiti (dalla letteratura all’architettura) – e si apre con il saggio di Roberto Esposito, un saggio programmatico che cerca di focalizzare sia la specificità del pensiero italiano rispetto ad altre tradizioni di pensiero, sia le possibili aperture. L’Italian Thought (tale espressione produce già uno scarto significativo rispetto a “Italian Theory”, ponendo l’accento sul farsi del pensiero, sulla sua attività, piuttosto che sulle griglie e gli schemi di una teoria) si costituisce non a partire da una dislocazione geografica, come è stato per la German Philosophy e per la French Theory – sorte, l’una successivamente all’emigrazione verso l’America di molti intellettuali tedeschi ebrei in fuga dalle persecuzioni razziali, l’altra dopo che alcuni filosofi francesi, già celebri in patria, furono invitati negli Stati Uniti dalle università americane – ma dalla specificità del suo fuori: la dimensione del politico. Inoltre il pensiero italiano contemporaneo «non si genera, come per la scuola di Francoforte, dal programma di un Istituto e neanche dalle teorie complesse che, a ridosso della stagione strutturalista, hanno caratterizzato i primi testi degli autori francesi» (p. 12). Il fuori che mobilita il pensiero italiano è piuttosto lo spazio conflittuale della prassi politica. Questa, però, è per Esposito una caratteristica di lunga durata (a differenze di quanto ritiene Gentili, che la fa risalire alla stagione operaista), presente nel pensiero italiano dagli albori del mondo moderno, così come è di lunga durata la centralità di un’altra categoria, che costituisce «l’orizzonte semantico del pensiero italiano» (p. 13): la categoria di vita – la quale è costantemente messa in tensione con quelle di politica e di storia. Ci sembra allora opportuno approfondire Differenze Italiane seguendo tre vettori: il fuori, la vita, il conflitto; tre categorie che troviamo intrecciate, sovrapposte, miscelate e declinate in maniera diversa negli interventi che compongono il volume.
Per Esposito, dunque, la cifra autentica del pensiero italiano sarebbe, da una parte, una forma di estroflessione intesa come tensione fattuale, evenemenziale, uno sporgersi sull’esterno storico-sociale e, dall’altra parte, una relazione più o meno conflittuale tra norme e forme di vita, tra bios e potere. Il fuori del pensiero, in questo senso, è una dimensione conflittuale, dove si trovano in tensione politica e vita. Ma è anche possibile interrogarsi sul fuori del pensiero italiano mostrando, in maniera genealogica, da quale milieu culturale provengano le categorie maggiormente in uso tra i sostenitori dell’Italian Theory. È ciò che fa Sandro Chignola prendendo in esame il decentramento attraverso il quale l’operaismo italiano ha assorbito il patrimonio teorico e concettuale della filosofia francese del dopoguerra e analizzando in che modo questo abbia permesso di «rimettere in movimento un’analisi, a un tempo stesso teorica e politica, discussa e recepita sul piano globale perché programmaticamente situata nel piano di immanenza del farsi-mondo del capitale» (p. 32). Come sottolinea Riccardo Baldissone, più che di innesto, occorrerebbe parlare di chiasmo: «il divenire francese dell’Italian Theory si incrocia, per cosi dire, col divenire italiano della French Theory» (p. 108); emergerebbe, allora, la tendenza alla contaminazione e all’ibridazione con altri paradigmi che per Esposito caratterizza il pensiero italiano fin dal Rinascimento. Questa tendenza è stata ripresa anche dal saggio di Sandro Mezzadra e discussa su un piano geopolitico. Per Mezzadra il pensiero del fuori è la forzatura delle categorie utilizzate attraverso la messa in tensione di queste con esperienze capaci di porle in discussione, magari contestandone lo statuto universale e svelandone la particolarità storica e geografica al fine di reinventarle. La tensione che così si crea è quella tra l’universalismo, che Mezzadra considera imprescindibile per creare piattaforme di comunicazione e contro-saperi, con situazioni particolari e singolari che destabilizzano questa pretesa, costringendo le categorie a ridefinirsi e articolarsi diversamente. Il pensiero italiano deve allora misurarsi con un sistema capitalistico che ha perso il suo centro occidentale cercando di ridefinire una geopolitica della conoscenza in grado di provincializzare l’Europa (p. 60). Si tratterebbe, dunque, di mettere in tensione le categorie italiane calandole in contesti distanti, per valutarne la plasticità e la capacità germinativa, aprendole all’improprio, sottoponendole a una continua contaminazione ed esponendole a una costante alterazione.
L’alterazione è chiamata in causa anche nella costruzione di un’ontologia del vivente che voglia scongiurare il pericolo di reificare, positivizzare e idealizzare la vita: è ciò che, secondo Vittoria Borsò, ha tentato di fare Esposito nella sua trilogia (composta da Communitas, Immunitas e Bios). Borsò mette in luce che per Esposito «la norma degli organismi viventi è la tendenza continua a una decostruzione del proprio» (p. 124). A differenza del diritto politico, infatti, la norma biologica non produce prescrizioni (qui Georges Canguilhem è il riferimento principale): «la sua dinamica è la plasticità del sistema, ossia la capacità di alterarsi per drift, per deviazione» (ibidem). La norma è sempre immanente alla vita ed è a partire da questa immanenza che può essere pensata una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita. Borsò sottolinea la ricaduta che questo discorso ha sul piano antropologico: l’uomo può venire pensato a partire dal vettore deterritorializzante dell’animalizzazione, intesa anch’essa come alterazione dell’essere umano, capace di ridefinire la specie in termini non più umanistici, o antropologici, ma antropotecnici e biotecnologici. In questo senso la riflessione sulla vita s’intreccia con quella sulla tecnica.
Tale intreccio è preso in esame da Marco Assennato da una prospettiva affatto particolare, attraverso cioè la questione sulla tecnica che vede coinvolti Raniero Panzieri e Massimo Cacciari. Per Assennato il rapporto tra bios e potere, tra norme e forme di vita, è sempre tecnologicamente mediato. Se in Sull’uso capitalistico delle macchine e Plusvalore e pianificazione Panzieri invita a pensare la tecnica a partire da una critica della dialettica che mira a contestare le letture metafisico-idealistiche che fanno dell’Aufhebung l’orizzonte trascendentale di ogni determinazione reale, Cacciari, con la sua filosofia della krisis, reintroduce una lettura destinale della stessa, nella quale nessun intervento soggettivo sarebbe capace di rompere il dominio tecnologico e dove il capitale, inteso come successione di crisi, sussumerebbe qualsiasi tentativo di rottura, riconducendo al suo linguaggio ogni antagonismo. Ciò non lascia altra soluzione se non quella di propugnare l’autonomia del politico come luogo capace di contenere e pilotare il processo dall’alto. Secondo Panzieri, per il quale la scienza e la tecnica sono il luogo di una contesa di potere nel sapere, non si tratta di rivelare l’occulta razionalità insita nel moderno processo produttivo, quanto di costruire una razionalità radicalmente nuova e contrapposta a quella prodotta nel capitalismo. La tecnologia è allora un campo di tensione, il luogo di una contesa e non un destino tragico, ineluttabile e implicito nelle premesse del processo. La posta in gioco ruota intorno a un rapporto diverso tra uomo e macchina, che rimanda a un’etica emergente e a composizioni inedite.
Per Panzieri, dunque, la tecnologia, che nel biopotere contemporaneo funziona da collante tra la vita e il potere, è il luogo di un conflitto. È su quest’ultima categoria che fanno leva gli interventi di Antonio Negri e di Judith Revel. Per Negri la novità della pratica e del pensiero che si affaccia in Italia negli anni ’60 si dispone proprio all’interno di un conflitto politico: l’operaismo nasce dalla preminenza della pratica sulla teoria, dove la cassetta degli attrezzi precede tutto il resto. Si trattava, per l’operaismo, di criticare la visione storicista di stampo gramsciano-togliattiana e l’ortodossia del PCI, nelle quali si confondevano continuità dello stato e innovazione socialista. L’operaismo, invece, come afferma Revel, pone l’accento sulla storicizzazione dell’analisi e sulla soggettivazione (p. 51): non esistono soggetti politici, ma processi di soggettivazione legati al conflitto. La classe non è un’entità, non è un soggetto, ma è il prodotto della lotta, è composta dal conflitto stesso. Sia per Negri sia per Revel l’Italian Theory – e qui gli obiettivi polemici sono principalmente Giorgio Agamben ed Esposito – occulta questa dimensione del conflitto pur riconoscendola: se per Negri l’Italian Theory è «l’ennesimo schema storiografico debole che conduce a pacificazione le determinazioni temporali e locali del processo storico» (p. 27) distogliendo l'attenzione dalla fenomenologia contradditoria del biopotere, eliminando ogni punto di vista storicamente determinato, eticamente situato e politicamente orientato e portando a una pacificazione che esclude ogni emergenza autonoma di nuove potenze che conducono a rottura; per Revel la categoria di vita nasconderebbe un «doppio vuoto» (p. 54) nella riflessione politico-filosofica italiana contemporanea, quello della storicizzazione e della soggettivazione, che non sono solo i capisaldi dell’operaismo ma anche del pensiero di Michel Foucault, per il quale la vita è un indicatore epistemologico, sempre posto in essere da un sapere-potere, dunque inquadrabile in termini biopolitici attraverso un preciso riferimento storico, quello che vede l’emergere dei dispositivi securitari e di precise strategie di governo.
Abbiamo così un quadro che ci permette di cogliere un minimo comun denominatore tra le differenze italiane: come sostiene Baldissone, il tratto condiviso risiederebbe nell’operazione, ereditata dal pensiero francese del dopoguerra, di pensare in termini di processi e non di entità, di produzione e non di rappresentazione (p. 107). Questa operazione, però, si esprimerebbe in due modi diversi nel pensiero politico-filosofico italiano contemporaneo: da una parte il tentativo di costruire un’ontologia del vivente capace di dinamizzare la categoria di vita dall’interno con il fine di aprire alla possibilità di una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita (mutazione, contaminazione, ibridazione ne sarebbero i vettori principali); dall’altra pensare il processo in termini storici, facendo leva sulla concretezza del lavoro vivo, della potenza costituente, del capitale variabile, della cooperazione produttiva contro la cattura del biopotere. Due modi di intendere la biopolitica che convergono nella critica della teologia politica, sia nella versione katechonica dell’autonomia del politico di Mario Tronti e del pensiero della krisis di Cacciari, sia in quella mistica ed escatologica di Agamben.
Per dirla con Federico Luisetti, da una parte troviamo un pensiero selvaggio che ha “somiglianze di famiglia” con i lavori di Gilles Deleuze e Félix Guattari, di Claude Lévi-Strauss e di Pierre Clastres e che si prepone la «ridefinizione dello stato di natura occidentale e del quarto nomos della terra» (p. 79); dall’altra un pensiero barbarico, che fa capo al testo di Foucault Bisogna difendere la società, «in grado di assorbire il naturalismo nella storia e nella critica» e che mira a una «barbarie storica costituente» (p. 73).
Le differenze italiane, allora, possono essere considerate come il prodotto di un’oscillazione tra queste due polarità, disparate ma accumunabili per analogia, che si sovrappongono senza identificarsi nella critica delle categorie politiche della modernità, della sovranità statale, e della governamentalità economicista. Non si tratta di due traiettorie inconciliabili, tant’è vero che convergono verso lo stesso oggetto critico; ci sono, piuttosto, delle ragioni strategiche per mantenerle in tensione, rintracciabili nell’esigenza di non racchiudere questa fucina di proposte nei confini di una teoria, ma facendole giocare tra di loro. Far giocare le differenze italiane contro l’Italian Theory, la quale rischia, se non lo è già, di trasformarsi in un semplice marchio, in un logo che immobilizza un pensiero vivente.
Vengono smembrati, disossati, cucinati e infine divorati. Vengono sfruttati, vivisezionati, modificati e poi sacrificati. Sono i corpi animali, i corpi che (ancora) non contano – o meglio: contano in termini nutritivi, economici e scientifici; contano, insomma, da un punto di vista antropocentrico. Sono materia prima, corpi senza vita che l’uomo plasma come vuole e di cui non piange le uccisioni. Sono piccoli blocchi, mattoncini di carne sui quali l’uomo ha fondato il suo impero, edificato e arroccato su principi di naturalità che soltanto oggi, con immensa lentezza e fatica, iniziano a essere minimamente scalfiti. La messa in discussione dei ruoli assegnati sulla base del naturalismo è un processo complicato ma necessario, in quanto mina la binarizzazione gerarchizzante di base: natura da una parte, cultura dall’altra. Compiere questo primo ma fondamentale passo porta alla ridefinizione dei ruoli svolti dagli esseri, abolendo l’assegnazione degli stessi “per natura” e sviluppando al contempo nuove concezioni e definizioni: ruolo come dimensione in cui muoversi e agire, ruolo come spazio in cui si fa e si disfa, ruolo come luogo libero che accoglie la performance dell’animale, umano e non. Il volume collettaneo Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis, 2015) si pone l’obiettivo di testare, come annuncia provocatoriamente il curatore Massimo Filippi nell’introduzione, il pensiero di Judith Butler sugli animali. Se la domanda cardine del pensiero butleriano è «A chi spetta una buona vita?», quale lavoro filosofico meglio del suo può essere utile da incorporare negli Animal Studies? Nonostante la pensatrice americana non abbia mai esteso il suo ragionamento agli animali non umani, all’interno dei suoi studi sono molteplici gli strumenti e i concetti potenzialmente utili (vita precaria, performatività, lutto…) alla demolizione delle binarizzazioni oppositive e al riconoscimento dell’altro non umano. Nella breve intervista presentata all’interno del volume, è la stessa Butler a elogiare i movimenti antispecisti per lo sforzo che stanno compiendo in questa direzione: «Sono convinta che questi movimenti si stiano sforzando di mettere in rilievo le reti di interdipendenza che normalmente non vengono riconosciute». Non resta dunque che limare le derive antropocentriche del pensiero butleriano e inaugurare nuove strade che ci portino lontano dalla norma vigente, mettendola in discussione come i movimenti femministi e queer hanno fatto nei decenni passati nei confronti del pensiero eteronormato, riscuotendo successi e raggiungimenti filosofici, sociali e mediatici allora insperati.
Quando il 26 ottobre 2015 l’International Agency for Research on Cancer – agenzia facente parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – diffonde un comunicato con cui informa che le carni rosse sono probabilmente cancerogene e le carni rosse lavorate (insaccati e salumi) sono sicuramente cancerogene, un brivido di inquietudine – nella maggioranza dei casi carico di inesattezze scientifiche e macchiato di qualunquismo e semplificazioni – getta nello scompiglio l’opinione pubblica. Il dibattito che ne consegue è, ancora una volta, unidirezionale, tecnoscientifico e antropocentrico, ma permette di mettere in luce alcuni aspetti discussi in Corpi che non contano. La reazione alla diffusione del rapporto dello IARC infatti mette in evidenzia ciò che nell’ultimo saggio Federico Zappino definisce “norma sacrificale”. Si tratta della norma che, ancora più di quella eterosessuale, è stata forclusa, resa non evidente, inintelligibile. È il sacrificio perpetuo di miliardi di animali non umani, un sacrificio dal quale è complicato liberarci se si tengono presenti i desideri che esso soddisfa (il consumo di carne a tavola, per esempio) e la soggettivazione di cui è parte integrante. Come liberare l’uomo da un desiderio senza doverlo castrare e reprimere, si chiede Zappino? Seguendo le orme di Foucault, è bene lasciare spazio a nuovi desideri, creativi e fluidi, che possano accompagnare in modo libero la critica alla norma vigente, dando vita a nuove dimensioni da sperimentare.
Quando la norma resiste agli scossoni – come ha dimostrato la reazione al comunicato dell’OMS, veicolata attraverso messaggi pregni di “orgoglio carneo” e talvolta venati da caustico umorismo – allora è necessario intaccarla alla radice; questo è l’obiettivo che si pongono James Stanescu e Richard Iveson, che firmano un saggio a testa nel volume. Entrambi pongono l’accento sull’errore di considerare l’animale quale pre-condizione dell’umano. Si tratta di uno scivolone che coinvolge anche Judith Butler in Frames of war, in cui ancora una volta viene promulgata un’idea profondamente umanista e fondata su quell’eccezionalismo umano che dovrebbe essere la prima barriera da abbattere per intavolare una discussione critica sul rapporto interspecifico. In quest’ottica, lo stesso concetto di umano diventa norma, escludendo tutto ciò che non rientra in questa categoria dalla considerazione e relegandolo a un “grado zero” (l’animalità) su cui fondare il dominio dell’uomo sul mondo. La carne degli animali è quindi soltanto meat [carne morta] e non flesh [carne viva], è altro da noi umani, è soltanto materia inerte potenzialmente cancerosa – salsicce, wurstel, salumi, braciole, costolette – e, soprattutto, non è meritevole di lutto. La morte dell’animale per mano umana non è, dunque, omicidio, cioè morte degna di essere compianta, ma mera uccisione, morte senza ricordo, perché dovuta, necessaria e, ovviamente, naturale.
Accanto al concetto di lutto, a lungo esplorato da Butler nel corso della sua carriera, si affianca quello di vita precaria, punto cardine nell’applicazione del pensiero butleriano agli Animal Studies secondo Stanescu. La precarietà – essendo prima di tutto una condizione collettiva e non individuale – pone l’accento sulle connessioni e sulla relazione ed è, secondo Butler, un luogo da cui partire per riorganizzarsi e non uno stadio da superare. Inoltre, la precarietà è sia un luogo che una questione ontologica; un concetto cruciale ma da cui non dobbiamo difenderci, perché la minaccia reale è l’immunità con cui schermiamo la precarietà stessa, operando processi di disconoscimento nei confronti dell’Altro. «Tramite un rifiuto di affrontare la nostra finitudine corpeizzata e condivisa», scrive Stanescu, operiamo la prima spaccatura che ci separa dal bios dell’animale non umano. Solo muovendo dalla nostra precarietà possiamo comprendere che la carne che consumiamo e sfruttiamo in molteplici modi prima di essere lavorata (e diventare cancerogena) si muove, si nutre e si riproduce: è viva, ed è animale tanto quanto la nostra.
Ogni anno su questo pianeta vengono uccisi circa centocinquanta miliardi di animali non umani. Dati simili sono spesso inintelligibili, nascosti agli occhi dei più e radicati profondamente nella norma sacrificale. Come ricorda Marco Reggio nel suo intervento in Corpi che non contano, il pensiero butleriano può essere fondamentale per portare alla luce i rapporti di interdipendenza fra uomo e animali non umani e per mettere in discussione il concetto stesso di umano e il suo eccezionalismo. Fra le maglie della rete che tenta di opprimere e nascondere la solidarietà interspecifica, si fanno strada studi – come questo – che portano a galla verità soggiacenti, da sempre presenti ma, speriamo, ancora per poco ignorate.