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«“L’uomo è nato libero ed ovunque è in catene” (Rousseau J.J. 2010, p.5). Se l’animale è ancora in catene, è perché continua a essere, intimamente, Libero» (Piazzesi 2023 p.8). Questa frase risuona con tutta la sua potenza nell’introduzione del testo di Benedetta Piazzesi Del governo degli animali. Allevamento e biopolitica edito da Quodlibet nel 2023. Piazzesi è ricercatrice filosofa che, situandosi nei Critical Animal Studies, si interessa in particolare alla congiunzione tra teorie filosofiche, epistemologiche, culturali e tecniche-politiche di governo moderno che performano il corpo animale al fine del suo sfruttamento: potremmo dire la sua “mise au travail” con tutto ciò che essa comporta. Del governo degli animali si inserisce in queste riflessioni come quarta opera dell’autrice a cui precedono Così perfetti e utili. Genealogie dello sfruttamento animale (2015), Dalla predazione al dominio. La guerra contro gli animali (con R. Colombo & G. Mormino 2017) e Un incontro mancato. Sul fotoreportage animalista (con il fotografo S. Belacchi 2017).
In questo studio Piazzesi ricostruisce una genealogia dell’intersezione tra produzione di saperi, tecniche di allevamento e/o domesticazione e le strategie di governo sui corpi degli animali prendendo in considerazione il periodo che intercorre tra la metà del XVII fino al XIX secolo in Francia. La scelta di questo periodo non è certa casuale. L’epoca moderna vede infatti la nascita degli Stati e un crescente interesse di questi ultimi alle produzioni teoriche filosofiche e scientifiche per i primi tentativi di programmi centralizzati di governo che, proporrà l’autrice, non investono solo gli umani ma anche gli animali. Inoltre, la modernità è una temporalità storica complessa e in piena trasformazione che spesso viene ridotta ad alcune concezioni che sembrano colorare tutta l’epoca. Tra queste, Piazzesi evidenzia come emerga il presupposto largamente accettato che l'animale è sfruttato in quanto ridotto ontologicamente, epistemologicamente e politicamente a materia non vivente, passiva e inerte facilmente riducibile a oggetto sfruttabile e/o analizzabile. Quello che sembra emergere da una lettura non erronea ma frettolosa del moderno è che in questa epoca si sarebbe prodotto quello che la filosofa definisce un oblio dell’animale dalla sfera politica nella produzione dei saperi e delle teorie. Questo argomento fa riferimento in particolare da un lato alla teorizzazione del sistema cartesiano che ha privato l’animale dello statuto ontologico e teorizzato il modello dell’animale-macchina largamente usato per gli studi di anatomia sviluppatosi nel seicento. Dall’altro, allude alle teorie politiche del contratto sociale e in particolare alla sua declinazione hobbesiana che nella postulazione del contratto vedrebbbe la recisione netta tra l’animale-bestia che continua la guerra di tutti contro tutti nello stato di Natura, e un umano improvvisamente politico che avrebbe lasciato alle spalle i suoi istinti naturali per divenire, finalmente, Uomo.
Analizzando questi discorsi Piazzesi propone al contrario che la preoccupazione della possibilità di governare gli animali non solo non è assente ma altresì è centrale nella costruzione dello stato moderno.
Per dimostrare questa proposta l’autrice ripercorre con un’analisi genealogica i dibattiti tra allevatori e teorici che hanno portato alla produzione sia di saperi teorico-scientifici sviluppatisi sul vivente non umano che di tecniche di assoggettamento animale mostrando l’interesse che questi studi hanno suscitato verso gli apparati di potere. Poteri e saperi si ripensano e ricompongono negli allevamenti, nella ricerca e nella costruzione degli spazi urbani divenendo quelli che l’autrice, riprendendo Foucault, chiama saperi-poteri.
Piazzesi evidenzia inoltre che nuove scienze del vivente e tecniche di allevamento si sviluppano e ripensano proprio criticando la riduzione cartesiana dell’animale a oggetto passivo. Quest’ultime, infatti, investono in una relazione proficua e produttiva con quella che non uniformemente possiamo definire soggettività animale e che a seconda dei dibattiti, delle discipline, delle tecniche e del periodo, è stata declinata come : morale, istinti, abitudine, carattere, forme di ragione o soggettività tronca, come la definisce Kant per sottolinearne la differenza tra soggettività animale e soggettività umana segnando quella che viene storicamente definita la differenza antropologica.
Se possiamo dire, quasi come un ritornello seguendo Donna Haraway, che scienze e tecniche non sono mai neutrali, le analisi di Piazzesi evidenziano come le riflessioni intorno alla soggettività animale siano state il fulcro su cui le tecniche di domesticazione e/o di allevamento si sono concentrate per ottimizzare la messa a lavoro produttiva e riproduttiva (quando le due non si accavallano) degli animali tutti, in particolare quelli “da reddito”.
È in questa direzione che la filosofa rilegge in maniera originale la storia dell’allevamento e del governo degli animali attraverso le lenti degli studi di Georges Canguilhem e di Michel Foucault. Del primo riprende l’analisi per cui nella modernità i saperi si riorganizzano intorno alla produzione epistemologica sui viventi tutti, e del secondo invece riprende la chiave di lettura biopolitica che vede nelle politiche di governo un investimento sul corpo biologico e sui suoi comportamenti. Se infatti Foucault scrive in Sorvegliare e punire che:
Questo investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e reciproche, alla sua utilizzazione economica. È in gran parte come forza di produzione che il corpo viene investito da rapporti di potere e di dominio, ma, in cambio, il suo costituirsi come forza di lavoro è possibile solo se esso viene preso in un sistema di assoggettamento (in cui il bisogno è anche lo strumento politico accuratamente preordinato, calcolato e utilizzato): il corpo diviene forza utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato. (Foucault 1923 p. 29),
Piazzesi ci propone che queste pratiche di assoggettamento sul corpo vibrante e desiderante siano elaborate anche in relazione agli animali non umani. Ed è qui che torniamo all’assunto con cui mi sono introdotta che è l’epicentro teorico su cui Piazzesi mi sembra sviluppi tutto il testo. Se la gabbia e la prigione, diremmo con Foucault, sono una tattica politica non di contenimento del corpo asservito e già passivo, ma di quello che non si è ancora riuscito a soggettivare (perché si imprigiona chi ruba e chi si oppone alle forme di potere e non chi passivamente le accetta e asseconda) allora l’animale è ancora in prigione perché attivamente e ostinatamente resistente a un sistema che investe sul suo corpo per metterlo a valore nel migliore dei modi possibili. Tutti i saperi sul vivente tra cui le scienze veterinarie, l’etologia, e le tecniche di domesticazione: «si pongono dunque il problema di come eludere la resistenza animale» (p.11).
La grande ricchezza di questo testo è quello di mostrare e ripercorrere la complessità e la non linearità della costruzione epistemologica moderna e poi contemporanea che ha fatto dell'animale lo sfruttabile, lo schiavizzabile, l’uccidibile e il mangiabile, e il suo indissociabile legame a una messa a valore produttivo-riproduttiva economico-politica.
La cartografia che emerge dalle pagine del testo ci permette di visualizzare, inoltre, i diversi modi in cui il corpo animale è stato domesticato e/o messo a lavoro forzato, se di lavoro si può parlare e qui rimando agli studi di Paul Guillibert (2023) e Lena Balaud e Antoine Chopot (2021). Questa operazione cartografica rende dignità e valore a delle storie diversificate che non toccano nessuna categoria dell’animale in generale (che non esiste) ma che devono essere calate tanto su corpi singolari che in discorsi particolari creati su corpi desideranti, resistenti (o non) per dei fini specifici.
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Oltre il meccanicismo verso una moralizzazione dell’animale
Le scienze del vivente e le tecniche di allevamento hanno sperimentato secondo Piazzesi tecniche politiche volte a penetrare nei mœurs dell’individuo animale cercando di malleare e poi perfezionare il comportamento dello stesso. Ogni forma di sapere è stata ripensata attraverso tentativi e tensioni che avevano l’obiettivo di esercitare dei poteri su aspetti differenti della vita animale, dove il concetto di vita o di bios si concettualizza continuamente. In questa direzione se la scienza veterinaria o l’etologia mostrano un’attenzione alla relazione reciproca con l’animale, evidenziandone caratteristiche che prima non venivano considerate come le possibilità morali, istintuali e abitudinarie-comportamentali, questi valori acquisti sono stati rilevati per essere resi adattabili alle finalità umane. L’animale che collabora e con cui si instaura una relazione è più produttivo di un animale su cui si esercita una forza fisica. Investire sulla morale è inoltre un programma biopolitico volto a sbarazzarsi della bestialità che segue il processo di civilizzazione moderno e che va al di là del corpo animale non umano. Mettendo in relazione le agende politiche della nascita dello stato francese Piazzesi mette in luce come il programma di domesticazione della bestia è pensato tanto sull’animale che verso il contadino e il povero. Moralizzazione dell’animale e civilizzazione del popolo procedono di pari passo con l'urbanizzazione: l’umano e l’animale devono essere resi civili per entrare in città; questa è a tutti gli effetti una necessità di socializzazione che deve conformarsi con un una forma di organizzazione economico, politica e sociale urbana. È in questa prospettiva che iniziamo a percepire come le analisi foucaultiane siano estremamente fertili per questa proposta. Il corpo animale è considerato come superficie agente e sui cui agire. Non c’è nessuna appropriazione di corpi inermi, ma la volontà di assoggettare dei corpi capaci di sabotare, scappare, rifiutare il loro lavoro e sfruttamento.
Questo non significa che il paradigma cartesiano dell’animale corpo inerme e appropriabile non abbia avuto alcuna influenza sulla riflessione delle pratiche di governo sugli animali. Piazzesi non sembra avere intenzioni critiche, nel senso tecnico del termine, ma è interessata piuttosto a complicare e aggiungere dei piani alla storia dello sfruttamento animale. La nascita della scienza veterinaria, l’etologia e le altre le scienze del vivente non smantellano il paradigma meccanicista ma mettono in luce invece le differenti intenzioni delle strategie di potere di investimento sul corpo degli animali (che si moltiplicano e non si riducono l’un l’altra).
Ogni tentativo segue orientamenti epistemo-politici che vengono adottati da allevatori e/o dalle agende degli stati a seconda delle forme di produzione in cui si vuole investire e/o a seconda della “destinazione d’uso” verso cui si pensano gli animali. Riflettendo sulla categoria del nonumano in senso largo è importante riflettere su come le forme di sapere-potere producano e strutturino le differenze tra i corpi degli oppressi proiettandosi verso una forma di messa a valore piuttosto che un’altra. Piazzesi in questa direzione prosegue le riflessioni femministe sulla differenza biologica del lavoro, mostrando come queste proseguano sul corpo animale anche in una chiave specie-specista.
È altresì importante però sottolineare, come d’altronde l’autrice ripropone con attenzione, che un modo di pensare-praticare il governo non è mai assoluto e compatto, e che ogni specifica nuova forma di sapere-potere non ne spazza via un’altra con un movimento di rimozione.
L’investimento biopolitico del potere sul corpo non esclude la tecnica politica della privazione e dell’appropriazione della forza lavoro o forza vita dell’animale. È interessante in questa direzione fare un parallelo con Exploiter les Vivants di Paul Guillibert. Provando a ridefinire obiettivi, strategie e tecniche di governo di messa a lavoro dei nonumani Guillibert propone la differenza tra appropriazione gratuita del vivente e sfruttamento dell’animale da reddito di cui viene capitalizzato sia il lavoro produttivo che quello riproduttivo. Piazzesi e Guillibert ci invitano a problematizzare e a stratificare lo statuto dello sfruttamento animale e/o dell’appropriazione gratuita del vivente evidenziando come i bordi del lavoro produttivo e riproduttivo implicano strategie e tecniche di controllo specifiche e speciste specializzate e differenziate. Guilbert, ad esempio, ipotizza che la logica dell’appropriazione operata verso corpi ridotti a “non viventi” o oggetti passivi, continui ad essere il fulcro teorico nella pratica violenta dell’estrattivismo. Potremmo dire in questo senso che l’estrattivismo ricade ancora su un’immagine di mondo prettamente cartesiana. Appropriazione e sfruttamento dunque non si sostituiscono nettamente ma vengono utilizzati per praticare forme differenti di violenza..
Dalla malleabilità dei mœurs alla zootecnica
Continuando a complicare una storia non lineare dell’intersezione tra teorie e tecniche sperimentate sui corpi animali, Piazzesi evidenzia come il meccanicismo ritorni centrale ma sotto altre forme nel passaggio dalle pratiche di governo tra la prima metà e la seconda metà del XVII, ovvero con la zootecnica. A differenza della domesticazione, la zootecnica opera una logica di messa a valore talmente massiva che la ricerca della relazionalità con l’animale si perde. Questa nuova disciplina, nata intorno 1854 dalle esigenze della seconda rivoluzione industriale, si allontana dal registro discorsivo delle scienze del vivente come la scienza veterinaria, che infatti manifesta le sue reticenze verso quest’ultima, per avvicinarsi invece al dominio dell’ingegneria. Gli sforzi degli studiosi non si concentrano più sul progetto di civilizzazione massiva dell’animale che si traduce in colonizzazione verso l’esterno (programma dell’acclimatamento degli animali esotici in spazi europei come i giardini di cui l’autrice ripercorre la storia nel testo), e domesticazione verso l’interno con la rimozione della bestialità per l’inserimento dell’animale in città. L’animale nel progetto zootecnico torna ad essere l’animale-macchina. Questa macchina, però, non assume il modello anatomico in cui il corpo animale viene frammentato al fine di un accaparramento di tutti i suoi segreti - per parafrasare una nota frase della teorica ecofemminista Carolyn Merchant (1988) - ma deve essere considerato piuttosto all’interno del paradigma della macchina a vapore. L’animale-macchina diviene lo strumento per accumulare valore, macchina tra le altre, che produce e brucia energia (il pasto) per produrre un certo tipo di prodotto. Anche in questo caso, è necessario tenere a mente che la zootecnica non elimina le altre forme di governo come la domesticazione, ma anzi le complica.
Al di là di una impressionante ricostruzione storica di documenti, di ricerche e di restituzione di dibattiti preziosi, Piazzesi continua a tessere le fila di un’immagine che fa da sfondo a ogni capitolo: se tanti sono stati i dibattiti, se tanto è stato il tempo investito a riflettere sul modo migliore di sottomettere l’animale, non è solo perché il lavoro o la schiavitù di questo sono il sostrato di accumulazione di valore senza cui il capitalismo non può funzionare, ma anche e soprattutto perché gli animali continuano a opporsi a questa violenza sistematica.
Della resistenza animale e di nuove alleanze multispecie per una liberazione dei viventi tuttiMettere in primo piano la resistenza animale non ci è utile solo ricostruire l’investimento delle tecniche biopolitiche di governo sui loro corpi. Mettere in primo piano la resistenza degli animali significa anche ripensare la lotta per la liberazione dei viventi nonumani ponendo come centrale la loro soggettività come espressione singolare. In questa direzione gli umani che si vogliono investire nel processo di emancipazione e liberazione animale devono tenere conto del punto di vista di questi ultimi in quanto oppressi e schiavi imparando a riconoscerli come protagonisti della propria lotta. In questa prospettiva Piazzesi ci offre la possibilità di riflettere e ripensare la postura umana nella lotta animale. Parlare ed agire con gli animali e non per gli animali, ascoltando le esigenze e le resistenze che i soggetti oppressi esprimono e impongono, potrebbe significare imparare ad accogliere quelle che Isabelle Stengers definisce le esigenze e gli obblighi (2005) che il non umano esprime. Imparare a recepire queste richieste ci chiama ad una sperimentazione attiva in cui tutto il corpo è implicato e che ci obbliga a riflettere a come indirizzare al non umano quelle che Vinciane Despret chiama le “giuste domande” (2018), sempre diverse a seconda della singolarità che ci troviamo davanti. Rendersi abili a sentire, imparare a guardare con un paradigma della vista differente da quello anatomico che Piazzesi definisce delle «mani oculari» (p.113) pronte alla dissezione, può significare non solo entrare in relazione con dei corpi che manifestano la propria rabbia di fronte a schiavitù e sfruttamento, ma anche essere pronte a modificare le nostre pratiche a seconda di ciò che gli animali possono chiederci per divenire alleate della loro liberazione. L’analisi storico-genealogica di Piazzesi è di fondamentale importanza perché può divenire uno strumento pratico e concettuale da far dialogare con nuove proposte teoriche. Penso a Léna Balaud e Antoine Chopot, che nel testo Nous ne sommes pas Seule aprono alla prospettiva di alleanze sempre nuove e multispecie per una lotta eco-politica non antropocentricamente centrata. Penso all’analisi e la proposta di Paul Guillibert in Exploiter les vivants, che sottolinea come il sistema economico e neoliberale che ci sta portando al collasso sia fondato sull’estrattivismo e lo sfruttamento dei viventi (che Piazzesi definisce cumulazione dei viventi) prima ancora che dei corpi umani. In questa direzione, per lottare in una prospettiva di ecologia politica e di liberazione, bisogna tenere bene in mente che il vivente, gli ambienti e gli animali sono il sostrato materiale attraverso cui il capitalismo neoliberale accumula gran parte del plusvalore di cui si serve. Un’accumulazione che non è originaria ma che anzi viene riprodotta continuamente attraverso lo sfruttamento del lavoro animale riproduttivo e produttivo, l’appropriazione gratuita della sua forza, e l’estrazione del vivente che sono anche tutti gli ambienti e le relazioni ecologiche che si sviluppano sugli stessi (Moore 2014), producendo un valore che non può più essere messo a valore.
Liberi tutti deve tenere insieme tutte le soggettività oppresse e soggettivate che continuano a resistere. Se ancora esistono le gabbie è perché gli animali continuano ostinatamente a fuggirle.
Valeria Cirillo
Riferimenti bibliografici
Balaud, L. & Chopot, A. (2021), Nous ne sommes pas seuls. Politique des soulèvements terrestres, Parigi : Éditions Seuil.Guillibert, P. (2023), Exploiter les vivants. Une écologie politique du travail, Parigi : Éditions Amsterdam.
Foucault, M. (1993), Sorvegliare e punire, tr.it. di Trachetti, A., Torino : Giulio Einaudi editore.
Despret, V. (2018), Che cosa rispondono gli animali... se facciamo le domande giuste? Milano: Sonda.
Merchant, C. (1988), La Morte della Natura. Donne, Ecologia e Rivoluzione Scientifica, Milano: Garzanti.
Moore, J. (2014). Wasting away: Value, waste, and appropriation in the capitalist world-ecology. World-Ecological Imaginations: Power and Production in the Web of Life, 1.
Piazzesi, B. (2023), Del governo degli animali. Allevamento e biopolitica, Macerata: Quodlibet nel 2023
Piazzesi, B. (2015), Così perfetti e utili. Genealogie dello sfruttamento animale, Milano: Mimesis.
Piazzesi, B., Colombo, R. & Mormorino G. (2017), Predazione al dominio. La guerra contro gli animali, Milano: Raffaello Cortina editore.
Piazzesi, B. & S. Belacchi (2017), Un incontro mancato. Sul fotoreportage animalista, Milano: Mimesis.
Rousseau, J.J. (2010) [1962], Il concetto sociale, Roma-Bari: Laterza.
Stengers, I. (2005). Cosmopolitiche, Roma: Luca Sossella editore.
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Con Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti si fa un salto nell’ossimoro. Il volume, curato da Dario Gentili ed Elettra Stimilli per DeriveApprodi (Roma 2015), è composto per buona parte dagli interventi del convegno internazionale Italian Theory existe-t-elle? tenutosi a Parigi nel gennaio 2014. Esiste una “teoria italiana”, una specificità del pensiero filosofico-politico italiano contemporaneo rispetto ad altre tradizioni e scuole di pensiero? L’Italian Theory può essere considerata una scuola o una tradizione di pensiero? “Italian Theory” e “differenze italiane”: due espressioni che sono anche i titoli degli ultimi due lavori di Gentili. Se il sottotitolo del primo, Dall’operaismo alla biopolitica, rivela il tentativo di tracciare una linea, un continuum, capace di rendere conto di una traiettoria che fa leva sulla peculiarità di una presunta Italian Theory, quello di Differenze italiane rimanda alla dispersione, al tentativo di cartografare un territorio che tende a sfuggire, difficilmente confinabile, capace di inseguire linee di ricerca inedite. Siamo nell’ossimoro appunto: confermato dal fatto che, nel volume, la locuzione “Italian Theory” è chiamata in causa per definire la specificità di un pensiero aspecifico, l’unità presunta di una fucina d’idee che è piuttosto disseminata, disomogenea e disorganica. In altre parole l’espressione “Italian Theory” cerca di definire e contenere un’attività teorica che corrode l’unità dall’interno.
Il volume si divide in tre parti – la prima delle quali racchiude i saggi che cercano di definire la peculiarità dell’Italian Theory, la seconda è dedicata alle categorie preminenti nel dibattito filosofico-politico italiano contemporaneo (immanenza, dispositivo, crisi, improprietà, ecc.) e la terza esplora possibili usi di queste categorie in differenti ambiti (dalla letteratura all’architettura) – e si apre con il saggio di Roberto Esposito, un saggio programmatico che cerca di focalizzare sia la specificità del pensiero italiano rispetto ad altre tradizioni di pensiero, sia le possibili aperture. L’Italian Thought (tale espressione produce già uno scarto significativo rispetto a “Italian Theory”, ponendo l’accento sul farsi del pensiero, sulla sua attività, piuttosto che sulle griglie e gli schemi di una teoria) si costituisce non a partire da una dislocazione geografica, come è stato per la German Philosophy e per la French Theory – sorte, l’una successivamente all’emigrazione verso l’America di molti intellettuali tedeschi ebrei in fuga dalle persecuzioni razziali, l’altra dopo che alcuni filosofi francesi, già celebri in patria, furono invitati negli Stati Uniti dalle università americane – ma dalla specificità del suo fuori: la dimensione del politico. Inoltre il pensiero italiano contemporaneo «non si genera, come per la scuola di Francoforte, dal programma di un Istituto e neanche dalle teorie complesse che, a ridosso della stagione strutturalista, hanno caratterizzato i primi testi degli autori francesi» (p. 12). Il fuori che mobilita il pensiero italiano è piuttosto lo spazio conflittuale della prassi politica. Questa, però, è per Esposito una caratteristica di lunga durata (a differenze di quanto ritiene Gentili, che la fa risalire alla stagione operaista), presente nel pensiero italiano dagli albori del mondo moderno, così come è di lunga durata la centralità di un’altra categoria, che costituisce «l’orizzonte semantico del pensiero italiano» (p. 13): la categoria di vita – la quale è costantemente messa in tensione con quelle di politica e di storia. Ci sembra allora opportuno approfondire Differenze Italiane seguendo tre vettori: il fuori, la vita, il conflitto; tre categorie che troviamo intrecciate, sovrapposte, miscelate e declinate in maniera diversa negli interventi che compongono il volume.
Per Esposito, dunque, la cifra autentica del pensiero italiano sarebbe, da una parte, una forma di estroflessione intesa come tensione fattuale, evenemenziale, uno sporgersi sull’esterno storico-sociale e, dall’altra parte, una relazione più o meno conflittuale tra norme e forme di vita, tra bios e potere. Il fuori del pensiero, in questo senso, è una dimensione conflittuale, dove si trovano in tensione politica e vita. Ma è anche possibile interrogarsi sul fuori del pensiero italiano mostrando, in maniera genealogica, da quale milieu culturale provengano le categorie maggiormente in uso tra i sostenitori dell’Italian Theory. È ciò che fa Sandro Chignola prendendo in esame il decentramento attraverso il quale l’operaismo italiano ha assorbito il patrimonio teorico e concettuale della filosofia francese del dopoguerra e analizzando in che modo questo abbia permesso di «rimettere in movimento un’analisi, a un tempo stesso teorica e politica, discussa e recepita sul piano globale perché programmaticamente situata nel piano di immanenza del farsi-mondo del capitale» (p. 32). Come sottolinea Riccardo Baldissone, più che di innesto, occorrerebbe parlare di chiasmo: «il divenire francese dell’Italian Theory si incrocia, per cosi dire, col divenire italiano della French Theory» (p. 108); emergerebbe, allora, la tendenza alla contaminazione e all’ibridazione con altri paradigmi che per Esposito caratterizza il pensiero italiano fin dal Rinascimento. Questa tendenza è stata ripresa anche dal saggio di Sandro Mezzadra e discussa su un piano geopolitico. Per Mezzadra il pensiero del fuori è la forzatura delle categorie utilizzate attraverso la messa in tensione di queste con esperienze capaci di porle in discussione, magari contestandone lo statuto universale e svelandone la particolarità storica e geografica al fine di reinventarle. La tensione che così si crea è quella tra l’universalismo, che Mezzadra considera imprescindibile per creare piattaforme di comunicazione e contro-saperi, con situazioni particolari e singolari che destabilizzano questa pretesa, costringendo le categorie a ridefinirsi e articolarsi diversamente. Il pensiero italiano deve allora misurarsi con un sistema capitalistico che ha perso il suo centro occidentale cercando di ridefinire una geopolitica della conoscenza in grado di provincializzare l’Europa (p. 60). Si tratterebbe, dunque, di mettere in tensione le categorie italiane calandole in contesti distanti, per valutarne la plasticità e la capacità germinativa, aprendole all’improprio, sottoponendole a una continua contaminazione ed esponendole a una costante alterazione.
L’alterazione è chiamata in causa anche nella costruzione di un’ontologia del vivente che voglia scongiurare il pericolo di reificare, positivizzare e idealizzare la vita: è ciò che, secondo Vittoria Borsò, ha tentato di fare Esposito nella sua trilogia (composta da Communitas, Immunitas e Bios). Borsò mette in luce che per Esposito «la norma degli organismi viventi è la tendenza continua a una decostruzione del proprio» (p. 124). A differenza del diritto politico, infatti, la norma biologica non produce prescrizioni (qui Georges Canguilhem è il riferimento principale): «la sua dinamica è la plasticità del sistema, ossia la capacità di alterarsi per drift, per deviazione» (ibidem). La norma è sempre immanente alla vita ed è a partire da questa immanenza che può essere pensata una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita. Borsò sottolinea la ricaduta che questo discorso ha sul piano antropologico: l’uomo può venire pensato a partire dal vettore deterritorializzante dell’animalizzazione, intesa anch’essa come alterazione dell’essere umano, capace di ridefinire la specie in termini non più umanistici, o antropologici, ma antropotecnici e biotecnologici. In questo senso la riflessione sulla vita s’intreccia con quella sulla tecnica.
Tale intreccio è preso in esame da Marco Assennato da una prospettiva affatto particolare, attraverso cioè la questione sulla tecnica che vede coinvolti Raniero Panzieri e Massimo Cacciari. Per Assennato il rapporto tra bios e potere, tra norme e forme di vita, è sempre tecnologicamente mediato. Se in Sull’uso capitalistico delle macchine e Plusvalore e pianificazione Panzieri invita a pensare la tecnica a partire da una critica della dialettica che mira a contestare le letture metafisico-idealistiche che fanno dell’Aufhebung l’orizzonte trascendentale di ogni determinazione reale, Cacciari, con la sua filosofia della krisis, reintroduce una lettura destinale della stessa, nella quale nessun intervento soggettivo sarebbe capace di rompere il dominio tecnologico e dove il capitale, inteso come successione di crisi, sussumerebbe qualsiasi tentativo di rottura, riconducendo al suo linguaggio ogni antagonismo. Ciò non lascia altra soluzione se non quella di propugnare l’autonomia del politico come luogo capace di contenere e pilotare il processo dall’alto. Secondo Panzieri, per il quale la scienza e la tecnica sono il luogo di una contesa di potere nel sapere, non si tratta di rivelare l’occulta razionalità insita nel moderno processo produttivo, quanto di costruire una razionalità radicalmente nuova e contrapposta a quella prodotta nel capitalismo. La tecnologia è allora un campo di tensione, il luogo di una contesa e non un destino tragico, ineluttabile e implicito nelle premesse del processo. La posta in gioco ruota intorno a un rapporto diverso tra uomo e macchina, che rimanda a un’etica emergente e a composizioni inedite.
Per Panzieri, dunque, la tecnologia, che nel biopotere contemporaneo funziona da collante tra la vita e il potere, è il luogo di un conflitto. È su quest’ultima categoria che fanno leva gli interventi di Antonio Negri e di Judith Revel. Per Negri la novità della pratica e del pensiero che si affaccia in Italia negli anni ’60 si dispone proprio all’interno di un conflitto politico: l’operaismo nasce dalla preminenza della pratica sulla teoria, dove la cassetta degli attrezzi precede tutto il resto. Si trattava, per l’operaismo, di criticare la visione storicista di stampo gramsciano-togliattiana e l’ortodossia del PCI, nelle quali si confondevano continuità dello stato e innovazione socialista. L’operaismo, invece, come afferma Revel, pone l’accento sulla storicizzazione dell’analisi e sulla soggettivazione (p. 51): non esistono soggetti politici, ma processi di soggettivazione legati al conflitto. La classe non è un’entità, non è un soggetto, ma è il prodotto della lotta, è composta dal conflitto stesso.
Sia per Negri sia per Revel l’Italian Theory – e qui gli obiettivi polemici sono principalmente Giorgio Agamben ed Esposito – occulta questa dimensione del conflitto pur riconoscendola: se per Negri l’Italian Theory è «l’ennesimo schema storiografico debole che conduce a pacificazione le determinazioni temporali e locali del processo storico» (p. 27) distogliendo l'attenzione dalla fenomenologia contradditoria del biopotere, eliminando ogni punto di vista storicamente determinato, eticamente situato e politicamente orientato e portando a una pacificazione che esclude ogni emergenza autonoma di nuove potenze che conducono a rottura; per Revel la categoria di vita nasconderebbe un «doppio vuoto» (p. 54) nella riflessione politico-filosofica italiana contemporanea, quello della storicizzazione e della soggettivazione, che non sono solo i capisaldi dell’operaismo ma anche del pensiero di Michel Foucault, per il quale la vita è un indicatore epistemologico, sempre posto in essere da un sapere-potere, dunque inquadrabile in termini biopolitici attraverso un preciso riferimento storico, quello che vede l’emergere dei dispositivi securitari e di precise strategie di governo.
Abbiamo così un quadro che ci permette di cogliere un minimo comun denominatore tra le differenze italiane: come sostiene Baldissone, il tratto condiviso risiederebbe nell’operazione, ereditata dal pensiero francese del dopoguerra, di pensare in termini di processi e non di entità, di produzione e non di rappresentazione (p. 107). Questa operazione, però, si esprimerebbe in due modi diversi nel pensiero politico-filosofico italiano contemporaneo: da una parte il tentativo di costruire un’ontologia del vivente capace di dinamizzare la categoria di vita dall’interno con il fine di aprire alla possibilità di una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita (mutazione, contaminazione, ibridazione ne sarebbero i vettori principali); dall’altra pensare il processo in termini storici, facendo leva sulla concretezza del lavoro vivo, della potenza costituente, del capitale variabile, della cooperazione produttiva contro la cattura del biopotere. Due modi di intendere la biopolitica che convergono nella critica della teologia politica, sia nella versione katechonica dell’autonomia del politico di Mario Tronti e del pensiero della krisis di Cacciari, sia in quella mistica ed escatologica di Agamben.
Per dirla con Federico Luisetti, da una parte troviamo un pensiero selvaggio che ha “somiglianze di famiglia” con i lavori di Gilles Deleuze e Félix Guattari, di Claude Lévi-Strauss e di Pierre Clastres e che si prepone la «ridefinizione dello stato di natura occidentale e del quarto nomos della terra» (p. 79); dall’altra un pensiero barbarico, che fa capo al testo di Foucault Bisogna difendere la società, «in grado di assorbire il naturalismo nella storia e nella critica» e che mira a una «barbarie storica costituente» (p. 73).
Le differenze italiane, allora, possono essere considerate come il prodotto di un’oscillazione tra queste due polarità, disparate ma accumunabili per analogia, che si sovrappongono senza identificarsi nella critica delle categorie politiche della modernità, della sovranità statale, e della governamentalità economicista. Non si tratta di due traiettorie inconciliabili, tant’è vero che convergono verso lo stesso oggetto critico; ci sono, piuttosto, delle ragioni strategiche per mantenerle in tensione, rintracciabili nell’esigenza di non racchiudere questa fucina di proposte nei confini di una teoria, ma facendole giocare tra di loro. Far giocare le differenze italiane contro l’Italian Theory, la quale rischia, se non lo è già, di trasformarsi in un semplice marchio, in un logo che immobilizza un pensiero vivente.
di Luca Fabbris
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Take away #7 – Enhancement
Serial / Giugno 2015“Vedo il riflesso di qualcosa negli occhiali da sole di quel passante. Puoi ingrandire?”
In questa istanza di Take Away, vorremmo attirare la vostra attenzione su un minuscolo quanto eloquente meccanismo narrativo, impiegato generosamente e in modo trasversale dal popolo degli autori televisivi americani. Si tratta di quel momento, che sicuramente avete presente, in cui i protagonisti del telefilm si trovano alle prese con una traccia fondamentale: una fotografia, un filmato o documento apparentemente inutile, fino a che...
Secondo una interpretazione deflativa, si tratta semplicemente di un trucco, un modo per far procedere la trama. Una sorta di Deus ex Machina, al massimo da additare come soluzione non particolarmente elegante, anzi piuttosto banale, che tuttavia tutti finiscono per usare quando un periodo di scarsa creatività interferisce con termini di consegna settimanali per nuovi episodi di questo o quel telefilm.
A nostro parere, tuttavia, proprio come nel caso del Deus ex Machina del teatro greco, il ruolo di questo topos narrativo nella coscienza contemporanea riflette alcune convinzioni profonde, tanto da essere tematizzate solo raramente. In questo caso, quello che chiameremo “il topos dell'enhancement” serve da segnale di qualcosa di importante.
Innanzitutto, per i meno esperti di cose tecnologiche, bisogna ricordare un dato fondamentale: il “miglioramento dell'immagine” è, per come viene usato in gran parte dei frammenti del video, impossibile. Un'immagine, infatti, per quanto suscettibile di ogni genere di manipolazione informatica, ha sempre una definizione, vale a dire contiene una certa quantità di pixel – o di informazione. Tale limitatezza, si può dire, è la caratteristica che più radicalmente distingue la realtà dai modelli che possiamo costruire di essa, come ad esempio la mappa dal territorio. In termini operativi, la differenza è ancor più evidente: indagando più da vicino un fenomeno reale siamo in grado di distinguere sempre più dettagli, mentre indagando più da vicino una rappresentazione di quel fenomeno - un disegno o una mappa o un grafico - potremo scoprire solo dettagli relativi al modo e ai materiali della rappresentazione (come il numero di pixel o la grana della carta), non della realtà descritta.
I personaggi dei nostri telefilm trascurano questa distinzione. Li autorizza a farlo una qualche formuletta: un fantomatico “programma di miglioramento”, oppure l'osservazione che “si può fare, con la giusta apparecchiatura”, o il nome di qualche scienziato il cui “lavoro sulla rifrazione” ha avuto straordinarie conseguenze sui software di manipolazione di immagini. Per spiegare questo fraintendimento fondamentale della natura dei dati forniti dalla tecnologia, dobbiamo ricordarci che in fondo ciò che si interpreta in questi film e telefilm non è tanto lo stato delle cose, della tecnologia, della società, della cultura, quanto le tensioni e soprattutto le esigenze ideologiche che coinvolgono tali spazi.
Nei film e telefilm – soprattutto quelli legati ai corpi di polizia – il topos dell'enhancement sottolinea la necessaria congiunzione di due aspetti della realtà: la crescente esigenza di sicurezza e controllo, all'interno di spazi metropolitani percepiti come porosi, caotici e criminogeni, e il raggiungimento di una onnipotenza tecnologica nel campo dell'informazione. Per far fronte all'insorgere sempre più imprevedibile e capillare della violenza – si pensi all'inesauribile creatività degli autori televisivi nel trovare sempre nuovi ambiti nei quali ambientare il misfatto che muove la trama, alla cura manierista che il colpevole sia sempre in qualche modo l'insospettabile – è necessario che le risorse tecnologiche di registrazione e analisi dei dati siano sviluppate fino a fornire non solo una rappresentazione, ma una replica esatta della realtà.
Il fatto che ad usare tali strumenti orwelliani siano solo e sempre eroi volitivi e morali, mossi da buoni sentimenti ed umanizzati da sottotrame sdolcinate, incornicia la nostra percezione del processo di crescente informatizzazione del controllo e incremento dei dispositivi biopolitici nel frame di una lotta fra l'ordine e la disciplina da un lato, e la devianza imprevedibile e mostruosa dall'altro.
Si occulta così una caratteristica fondamentale del funzionamento dei dispositivi contemporanei di controllo biopolitico: la loro applicazione capillare e generalizzata.
Là dove il processo dell'enhancement si riassume nella formula di un magico zoom in che aumenta la definizione, le trasformazioni reali dell'apparato di controllo si muovono nella direzione opposta: accumulando dati dalle più svariate banche dati e incrociandole per costruire un profilo preventivo – e un gradiente di pericolosità sociale – per ciascun individuo. La divisione fra criminale e non-criminale è sfumata – l'esatto opposto di quanto suggerisce la narrativa poliziesca di prodotti come Criminal minds – e soprattutto è un prodotto, non un presupposto della applicazione di strumenti di controllo. Come si afferma in un recente e fondamentale saggio sulla militarizzazione dello spazio urbano: sta ormai al cittadino dimostrare a ogni checkpoint di non essere un criminale, secondo un modello di sicurezza urbana apertamente ispirato all'apartheid.[1]
Forse, si dirà, abbiamo voluto leggere troppo in un semplice tic narrativo: eppure siamo convinti che, a un livello di consapevolezza più o meno alto, il racconto rassicurante della tecnologia e l'esorcismo delle sue potenzialità distruttive e totalitarie sia una funzione fondamentale della corrente cultura pop.
P.S. Per chi è familiare col già citato Criminal Minds, l'esercizio per casa è riflettere su questo personaggio:
Un hacker che ha accesso a una serie infinita di banche dati, e mettendole a confronto compie sistematiche violazioni della privacy di ognuno, per conto di un'unità esclusiva di profiler dell'FBI. Si trova in una posizione di potere tale – non solo nei confronti dei criminali che indaga, ma potenzialmente di chiunque – che la sua stessa esistenza rappresenta una minaccia alla privacy e alla sicurezza di un qualunque cittadino, americano e non: è praticamente l'incarnazione del Grande Fratello.
Risulta comunque un personaggio positivo. Come? È buona fino allo sdolcinato, leggermente sovrappeso, autoironicamente vanitosa e un po' buffa. Si chiama Penelope Garcia – un cognome latino che la colloca all'intersezione di due minorities – e è praticamente l'unico modo di far sembrare inoffensivo l'individuo al comando del più sofisticato apparato di controllo e repressione della storia.
[1]Stephen Graham, Cities under Siege: The new military urbanism, Verso, New York 2011, p. 47
di Lorenzo Palombini
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Grazie all'analisi foucaultiana sul biopotere e sul soggetto, al focus posto da Butler sul gender e all'ampia proliferazione di analisi che ne sono seguite, la capacità performativa dei discorsi di potere e di sapere dominanti in una data epoca sulla materialità umana è stata ampiamente esplorata. Il testo di Alessandro Baccarin, Il sottile discrimine. I corpi tra dominio e tecnica del sé, si inserisce in questo panorama in maniera intelligente e feconda, analizzando attentamente soggetti e corpi tipici della contemporaneità attraverso una genealogia rapida ma puntuale, capace di cogliere le svolte storiche salienti dal loro emergere, e invitando a riflettere più ponderatamente tanto sulle nuove modalità assunte dalle pratiche di dominio del biopotere sul corpo quanto sulle forme di resistenza possibile. Ciò che vi è di veramente interessante nel testo è la lente di ingrandimento che l'autore pone sul cardine su cui si articola l'assoggettamento – termine di origine foucaultiana, e approfondito da Butler per mezzo della psicoanalisi, che designa contemporaneamente sia la subordinazione sia la soggettivazione psichica e sociale di cui è capace un potere intenso, diffuso, relazionale, produttivo, totalizzante e individualizzante. Ebbene, Baccarin interroga proprio quel “sottile discrimine” caratteristico della dinamica dell'assoggettamento. Se il soggetto occidentale moderno è un effetto di dinamiche di potere, a sua volta dotato di potere proprio perché emerso dall'interazione produttiva e continua tra tecniche di dominio e tecniche del sé, bisogna allora porre al centro dell'analisi e delle controcondotte il corpo e le pratiche che su e attraverso questo vengono agite. In altre parole, è importante far emergere gli attuali processi di normalizzazione nonché le tecniche del sé corporee che costituiscono oggi l'a priori in base al quale i soggetti operano all'interno di nuove relazioni di potere, e rispetto alle quali, spesso troppo ottimisticamente o semplicisticamente, si proclamano, o vengono proclamati, autonomi. Con il suo testo Baccarin dunque chiarisce sia sotto quali vesti si presenti attualmente il biopotere neoliberale nella nostra società, sia quanto quelle pratiche, quei corpi, quei soggetti comunemente oggi assunti come esemplari delle possibilità di resistenza intrinseche ai soggetti e ai rapporti di potere che li hanno prodotti – tra i quali l'autore sceglie di occuparsi di omosessuali, transessuali, tatuati e pornostar – siano solo parzialmente tali, rilanciando la necessità di elaborare, in linea con il messaggio foucaultiano, nuove linee di fuga.
Capita spesso, infatti, di veder assumere, nei dibattiti su questi temi, come soggetti liberi, autodeterminati, resistenti, coloro che sono prevalentemente stigmatizzati e discriminati nella nostra società, i cosiddetti “trasgressori” odierni, in quanto smarcati dalle norme imperanti nella contemporaneità: dell'eterosessualità obbligatoria; del corpo privo di segni – se non quelli dell'abiezione – tipico della tradizione occidentale; di una sessualità familiare, procreativa, privata, stabile. Ora, dalla lettura del testo tale elezione appare semplicistica sia perché, secondo la lezione foucaultiana e butleriana, non esiste un luogo del grande rifiuto al di là della realtà in cui noi tutti viviamo: non possiamo vivere senza un riconoscimento sociale che renda la vita del singolo, intrinsecamente precaria, una vita possibile e vivibile, sia perché il biopotere è in grado di riposizionarsi continuamente. Infatti, sebbene l'azione del potere non sia mai deterministica perché non esiste un potere assoluto e fondante, bensì si danno solo relazioni di potere tra soggetti liberi dotati di agency, e malgrado il fatto che l'assoggettamento richieda sempre una reiterazione della legge, che così per un verso si naturalizza, mentre per l'altro diviene suscettibile di alterazione, ciononostante è incessante il pericolo di una nuova e ulteriore normalizzazione delle prassi trasgressive.
È davvero difficile individuare e percorrere una volta per tutte le strade che conducono verso un nuovo uso dei piaceri e per una denormalizzazione del corpo e del desiderio, denuncia Baccarin citando il caso del BDSM (si tratta di una pratica sessuale nata nei circoli omosessuali californiani come pratica eversiva e oggi divenuta importante genere del mercato del porno mainstream ). Ogni normalizzazione porta con sé sempre delle increspature importanti ed eversive da approfondire e perseguire, ma allo stesso tempo non bisogna mai dimenticare che il potere, proprio in virtù di tale scarto, è sempre capace di riposizionarsi a un nuovo livello. Si pensi, scrive l'autore, ai meccanismi della moda o della pubblicità, capaci di trasformare l'individuo scandaloso – per esempio i primi tatuati – in soggetto desiderante, parte del vasto catalogo di identità offerte dal sistema consumistico odierno, facendo diventare normali i corpi tatuati sui giornali di moda o negli spogliatoi calcistici. Così facendo, il corpo tatuato diviene un corpo intercettato dal biopotere, un corpo che desidera docilmente leggere su di sé la propria identità. I corpi-limite, mette in guardia Baccarin, saranno anche corpi che si mettono di traverso rispetto a una governamentalità che investe l'organicità stessa dei soggetti, ma spesso non disinnescano il meccanismo di potere che criticano, rimanendo in una posizione liminare tra norma e libertà, tra governo delle condotte ed esperienze metamorfiche autonome e resistenziali di uso dei corpi e del piacere. Questi corpi sono realmente punti di resistenza al potere, ma spesso non hanno il coraggio o la lungimiranza per esserlo davvero, riducendosi a essere punti di appoggio per una nuova azione del biopotere stesso.
Entrando più nello specifico, Baccarin mostra come la posta in gioco delle pratiche di libertà attuali stia nello scardinamento dei processi di veridizione (altra espressione tratta dal lessico foucaultiano) imposti dall'ermeneutica del sé propria del biopotere neoliberale, che induce i soggetti a diventare imprenditori di se stessi, creando così l'illusione dell'autodeterminazione. Egli pone prima di tutto nero su bianco quella che è la verità dei soggetti limite da lui scelti, mettendola poi sul banco degli imputati. Per esempio, la verità trans oggi vigente viene riassunta nella frase “la libertà di essere o non essere o di come essere donna/uomo”. Questa, si noti, non è la verità di un singolo particolare trans, ma la verità trans tout court, ovvero di una categoria di soggetti, di una specifica identità sociale che, per quanto considerata scandalosa, malata, trasgressiva, viene così ordinata e posizionata all'interno dell'ordine sociale vigente. Lungi dall'essere questa una pura rivendicazione dell'autonomia transessuale – come vorrebbero spesso tanto i trans quanto i teorici gender – anch'essa è da intendersi come il risultato di quell'ermeneutica del sé propria delle dinamiche del biopotere contemporaneo.
Dunque, rileva Baccarin, l'identità trans, nonché la rivendicazione della propria verità da parte dei transessuali, prodotti di una tecnica del sé congiuntamente a una tecnica del corpo che problematizza e plasma il corpo trans nel contesto di una nuova disponibilità anche plastica del corpo, è il risultato dell'ermeneutica del sé che sta all'origine del soggetto moderno. Infatti il biopotere è una razionalità di governo sorta a partire dal XVII secolo e fondata sul criterio centrifugo del laisser faire, che presuppone la libertà dei processi e dei soggetti che osserva e gestisce. Inoltre, tale governamentalità istituisce un'inedita sintesi fra potere e verità, e tra questi e i temi quali la vita, il corpo, l'individuo, il corpo sociale, che richiede a ognuno di trovare la verità del proprio desiderio: in questo caso la propria identità di genere. Di fatto, attraverso l'interazione tra tecniche di dominio e tecniche del sé, e per mezzo di vari dispositivi quali il sapere medico, psichiatrico, disciplinare, tali identità vengono più che scoperte, prodotte. Allo stesso modo funziona anche la pornografia, la quale è un caso esemplare di tale sollecitazione, estrapolazione, soggettivazione, incorporazione del desiderio sessuale. Essa è indifferente al piacere eventualmente sollecitato allo spettatore o provato dal performer – sempre e comunque solo genitale – e all'atto – meramente strumentale alla produzione di desiderio – mentre è centrale l'enorme proliferazione dei generi pornografici. Il consumo di porno suscita un desiderio che induce all'ulteriore consumo di immagini implicando, al tempo stesso, il soggetto in un processo di veridizione della propria identità sessuale, illudendo il singolo della libertà del proprio desiderio per mezzo dell'ampia scelta di generi che ha a disposizione. Nella pornografia, quindi, si congiungono a un nuovo livello processi di normalizzazione e tecniche corporee del sé secondo i binari del totalitarismo dell'esplicito e della banalizzazione del nudo e della seduzione, analogamente a quanto scriveva Foucault a proposito della moltiplicazione della philia da parte della sessuologia del XIX secolo, che reprime, mentre suscita, la discorsività sul sesso, facendola prolificare e, contemporaneamente, ampliando e specificando in questo modo la presa del potere sulle vite e sui corpi degli individui.
Il meccanismo è sempre lo stesso: si ha l'illusione che parlare di sesso e mostrarlo, ma anche scrivere sui propri corpi, plasmarli e modellarli con diete, attrezzi da ginnastica, chirurgia, sia la via per la liberazione da un potere repressivo e dall'anonimato della società dei consumi, mentre in realtà questi non sono altro che strumenti del biopotere neoliberale, il quale più che reprimere amplia la sua presa su di noi. Il biopotere suscita desideri incorporati in soggetti desideranti sotto forma di condotte che diventano oggi anche autopoiesi corporea. I tatuaggi, il piercing, le scarificazioni, la pornografia, la somatopoiesi trans – ma Baccarin aggiunge all'elenco i prodotti contraccettivi, la fecondazione assistita, i centri abbronzanti, la chirurgia estetica, le pubblicità, le diete, il nuovo valore dato alla nudità, il fitness, la moda, i corsi di strip dance – sono tutti esempi del nuovo livello di incorporazione raggiunto oggi della norma. Un'autonormazione che è anche auto poiesi, che investe il corpo a un livello mai raggiunto prima: quello della poiesi organica basato sul dovere di scoprire la propria verità e di affermare la propria unicità attraverso la cura di sé e del proprio corpo.
Quella raggiunta non è altro che una libertà apparente, anche se autenticamente percepita. Si pensi alla donna che, ancora isterica e priva di piacere nel XIX secolo, oggi per un verso rivendica una propria sessualità attiva e autonoma, per l'altro è target per una nuova produzione pornografica al femminile e cliente di interventi estetici standardizzanti in un'autodisciplina corporea basata ancora una volta su di un desiderio suscitato, controllato, serializzato: quello di piacere, di piacersi, di prendersi cura di sé. Tutte queste pratiche si collocano all'interno delle pratiche di dominio sempre più sofisticate e intrusive attuate sul corpo dal biopotere neoliberale contemporaneo, che possono anche costituire effettive pratiche di resistenza del soggetto, ma mai in termini assoluti, e che comunque sino a oggi non hanno davvero messo in discussione la centralità del desiderio e l'ingiunzione all'ermeneutica del sé che sta alla base di tali processi. Dunque è proprio su questo “sottile discrimine” che intercorre tra gli investimenti corporei intesi come forme di controcondotta alle relazioni di potere biopolitico, e quelli che non sono altro che autonormazione, cura di sé normata, incorporata e psichicamente assimilata, che si colloca intelligentemente l'opera di Baccarin, Con le sue ricostruzioni genealogiche delle verità di corpi e di soggetti che vivono in diagonale in questo mondo, mostra come essi rappresentino delle resistenze rispetto alle norme vigenti, ma meno radicalmente di quanto spesso non si pensi. Per superare tale soglia, rilancia l'autore, è basilare superare la necessità tanto di una verità del sé quanto il mito di una libertà originaria ed essenziale da restaurare; superare la centralità accordata al desiderio, e di conseguenza al tema identitario; spostare l'attenzione sull'atto e sul piacere. Non è più tempo di rivendicare la libertà di amare persone dello stesso sesso, come recita la verità gay, bensì è tempo di rivendicare la libertà di amare tout court. Bisogna cioè concentrarsi sullo scovare nuove pratiche di libertà per inaugurare non nuovi mondi, bensì nuovi giochi di libertà in questo mondo.
di Sophie Brunodet