A distanza di oltre trent’anni dalla prima traduzione italiana per Laterza, Meltemi ripubblica i Diari segreti di Ludwig Wittgenstein, formidabile documento di un’epoca, di una temperie culturale, di una vita. Scritte durante la Prima guerra mondiale, mentre il filosofo era impegnato come volontario al fronte, le annotazioni qui pubblicate costituiscono una parte degli appunti presi da Wittgenstein nel periodo 1914-1916. Ma, come suggerisce il titolo, questi diari hanno la particolarità di essere scritti in codice: «dividendo la sequenza alfabetica a metà, Wittgenstein sostituiva simmetricamente le lettere, vale a dire al posto della “a” (prima lettera) scriveva la “z” (ultima), al posto della “b” la “w” ecc., e viceversa» (p. 160). Appunti criptati, dunque, il cui contenuto si rivela da subito molto personale: sfoghi sulle condizioni di vita in guerra, considerazioni sui commilitoni («le persone con cui sto, più che volgari, sono incredibilmente limitate!», 8.5.’16), resoconti sull’avanzamento della riflessione filosofica (indicata da Wittgenstein semplicemente come «il lavoro»), ma anche preghiere («Oggi dormo sotto il fuoco della fanteria, e probabilmente perirò. Dio sia con me! Per sempre. Amen», 16.5.’16), meditazioni sul senso della vita, unitamente a più prosaiche descrizioni delle pratiche igieniche e delle abitudini sessuali del filosofo. La condizione materiale del linguaggio cifrato e la qualità dei contenuti convinsero Elisabeth Anscombe e George H. von Wright, esecutori letterari di Wittgenstein, a non includere queste annotazioni nell’edizione dei Quaderni 1914-1916, i cui appunti provengono dagli stessi taccuini ma sono scritti in chiaro. Come scrive nella prefazione Luigi Perissinotto, la mancata inclusione di questi materiali nell’edizione dei Quaderni costituisce un importante capitolo della ricezione del pensiero di Wittgenstein e risponde a precise scelte di ordine interpretativo: secondo Anscombe evidentemente la biografia doveva essere tenuta ben distinta dal pensiero filosofico, evitando commistioni mosse da indebiti pruriti voyeuristici.
Quello che Anscombe sembra qui suggerire è che solo una malsana e ben poco filosofia curiosità poteva giustificare la pubblicazione di annotazioni che lo stesso Wittgenstein aveva inteso proteggere con un codice, lasciandoci così intendere che esse non dovessero essere divulgate. Non è facile, tuttavia, condividere questo atteggiamento. Innanzitutto, perché esso si basa sull’assunto, tutt’altro che scontato, che nel lascito di un filosofo il materiale privato (il personale) sia sempre facilmente distinguibile dal pubblico (dal filosofico). Forse questo vale per alcuni filosofi o tipi di filosofi, ma non è affatto certo che valga anche per Wittgenstein o per quel tipo di filosofo che egli era o aspirava a essere (p. 14).
Perissinotto argomenta in maniera convincente a favore della ‘filosoficità’ degli appunti personali di Wittgenstein, nell’ottica di una confluenza tra vita e pensiero che tende all’indiscernibilità dei due poli. Sono due in particolare le circostanze riportate nei Diari segreti che vengono indicate come particolarmente significative sul piano teoretico: la lettura di Nietzsche, e più precisamente dell’ottavo volume dell’opere (quello contenente l’Anticristo), e la ‘svolta’ del luglio 1916, in cui Wittgenstein prospetta una connessione tra le sue ricerche sulla logica e la tematica etica, che diventerà preponderante nelle proposizioni conclusive del Tractatus logico-philosophicus.
Partiamo da quest’ultimo punto. Il 6 luglio 1916 Wittgenstein annota in una pagina di quelli che diventeranno i Diari segreti: «Nell’ultimo mese ho avuto colossali strapazzi. Ho riflettuto a lungo su ogni cosa possibile, però stranamente non riesco a stabilire una connessione con i miei ragionamenti matematici». Il giorno dopo però aggiunge: «Ma la connessione verrà stabilita! Ciò che non può dirsi, non può dirsi”». Senza trascurare l’evidente assonanza tra questa ultima esclamazione e la prop. 7 del Tractatus, è interessante qui accostare la pagina criptata alla pagina in chiaro, quella pubblicata nei Quaderni 1914-1916. Già l’annotazione dell’11 giugno introduceva riflessioni su Dio e sul fine della vita apparentemente estranee all’indagine filosofica fino ad allora condotta da Wittgenstein. Gli appunti del 5 luglio e dei giorni immediatamente successivi testimoniano un approfondimento di questo genere di riflessioni, che potrebbero sembrare osservazioni vibranti ma estemporanee o in ogni caso non connesse in maniera organica al resto delle riflessioni, di ordine logico-matematico. La pagina dei Diari segreti in questo caso chiarisce come lo stesso autore considerasse i due versanti del suo pensiero destinati a connettersi. Difficile negare dunque il valore filosofico di un appunto che, sebbene criptato (e dunque, secondo i curatori dei Quaderni, strettamente personale), risulta della massima importanza sul piano interpretativo.
L’altra circostanza cui si faceva riferimento, la lettura di Nietzsche condotta da Wittgenstein al fronte, risulta ancora più evidente e dimostra non soltanto l’interesse filosofico dei Diari, ma anche la già menzionata indiscernibilità tra vita e pensiero. Durante la sua esperienza come volontario, Wittgenstein legge alcuni autori che si riveleranno particolarmente significativi per il suo lavoro. Nei Diari vengono citati Tolstoj, Emerson e, appunto, Nietzsche:
Nella mattina ho marcato visita a causa del piede: distorsione muscolare. Non ho lavorato molto. Ho comprato l’ottavo tomo di Nietzsche e ne ho letto una parte. Sono rimasto fortemente colpito dalla sua avversità al cristianesimo. Perché anche nei suoi scritti è contenuto qualcosa di vero. Certamente il cristianesimo è l’unica via sicura per la felicità. Ma che succede se si rifiuta quel tipo di felicità?! Non sarebbe meglio andare tristemente alla deriva nella lotta senza speranza contro il mondo esterno? Ma una vita del genere è priva di senso. E perché non condurre una vita senza senso? È indegno? Come si accorda questo con il punto di vista rigorosamente solipsistico? Ma cosa devo fare affinché la mia vita non vada sprecata? Devo sempre essere cosciente dello spirito – esserne sempre cosciente – (8.12.’14).
Un filosofo che legge un altro filosofo è una circostanza evidentemente non solo biografica, così come sostiene Perissinotto. Ma un antifilosofo che legge un altro antifilosofo è un evento in cui teoria e vita tendono a coincidere. È questo il punto di partenza dell’interpretazione di Wittgenstein proposta da Alain Badiou, che inserisce l’autore del Tractatus nell’album di famiglia degli antifilosofi, accostandolo in questo modo proprio a Nietzsche e citando esplicitamente la lettura dell’Anticristo condotta da Wittgenstein al fronte. Scrive Badiou, dopo aver ricordato l’appunto wittgensteiniano citato poc’anzi:
La nostra prima domanda sarà: qual è questa “parte di verità” che Wittgenstein riconosce nelle imprecazioni di Dioniso contro il Crocifisso? E la seconda: che cosa può mai essere il cristianesimo di Wittgenstein se, a dispetto di questa “parte”, egli viene profondamente ferito dalla legislazione anticlericale del pazzo di Torino? Domande decisive, se si considera che Nietzsche e Wittgenstein in questo secolo, l’uno dopo l’altro, hanno dato il la a una certa forma di disprezzo filosofico per la filosofia (Badiou 2018, p. 17).
Il nome di questo disprezzo filosofico per la filosofia è, secondo Badiou, antifilosofia; le tre caratteristiche principali di quest’ultima sono rintracciabili, secondo il filosofo francese, tanto in Nietzsche quanto in Wittgenstein: «Una critica linguistica, logica, genealogica, degli enunciati della filosofia […]. Riconoscimento della non riducibilità della filosofia, in ultima istanza, alla sua apparenza discorsiva, alle sue proposizioni, alla sua fallace esteriorità teorica. […] L’appello fatto, contro l’atto filosofico, a un altro atto radicalmente nuovo che verrà detto sia, in modo equivoco, filosofico […] sia, più onestamente, sopra-filosofico e perfino a-filosofico» (Badiou 2018, pp. 18-19). Nel compimento di questo atto che, secondo Badiou, nel caso di Wittgenstein consiste nell’accesso a una «vita santa», si consuma quella perfetta saldatura tra biografia e teoresi che rende la distinzione tra le due inservibile. Di nuovo, sottolinea Badiou, questa saldatura paradossalmente viene suggerita a Wittgenstein da Nietzsche: «il cristianesimo designa la vita ordinata al suo senso indicibile, la vita “bella”, che è la stessa cosa della vita santa. Esso è sinonimo di felicità. Wittgenstein lo scriveva già nel suo diario, a proposito di Nietzsche. Poiché continuava: “Il cristianesimo è l’unica via sicura per la felicità”» (Badiou 2018, p. 24).
Sulla scorta dell’interpretazione di Badiou, e riprendendo le parole di Perissinotto, appare chiaro come la comprensione di quel tipo di filosofo (un antifilosofo?) che Wittgenstein era, o avrebbe voluto essere, non solo non può prescindere dal materiale biografico a nostra disposizione ma, più radicalmente, deve tenere in conto il proposito del pensatore in questione: quello di superare la dimensione esclusivamente teorica della filosofia, in vista della produzione di un atto che coinvolga l’esistenza e la trasformi in una vita santa, vale a dire felice e compiuta. In quest’ottica, la ripubblicazione dei Diari segreti risponde a un bisogno degli studiosi del pensiero (e della vita) di Wittgenstein, un bisogno che non può essere di certo derubricato a mera curiosità. E forse su questo, possiamo aggiungere, lo stesso filosofo che scriveva «sì, il mio lavoro s’è esteso dal fondamento della logica all’essenza del mondo» (Wittgenstein 1964, p. 181) sarebbe stato d’accordo.
di Stefano Oliva
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Bibliografia
A. Badiou, L’antifilosofia di Wittgenstein, traduzione postfazione di S. Oliva, Mimesis, Milano-Udine 2018.
L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964.
Un commento al seminario "La vita la morte" di Jacques Derrida
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“È importante, per me, nel filosofare, mutar sempre posizione, non stare troppo a lungo su una gamba sola, per non irrigidirmi.”
Wittgenstein (1980, p. 61)
Il titolo di questo seminario di Derrida (2019) del 1975-6 dice perspicuamente più che il suo oggetto, il nodo attorno a cui si avvolge (difficile dire se per scioglierlo o al contrario per annodarlo): la vita la morte.
Non “la vita, la morte” né “la vita e la morte” dunque, dove la virgola o l’et sancirebbero una separazione tra le due, premessa e promessa di una loro prevedibile opposizione. E nemmeno “la vita è la morte” né “la morte è la vita”, che avrebbe il valore di un’eguaglianza, come risultato della soluzione di un’equazione: questa identità tra la vita e la morte non è qualcosa che Derrida trova, come risultato di un processo argomentativo, ma qualcosa che pone sin dall’inizio, sfida e scommessa di tutto questo seminario.
Notiamo però che Derrida scrive sempre “la vita la morte” (o lavitalamorte) mettendo in precedenza la vita. Il precedere cronologico della vita sulla morte appare ovvio, ma per Derrida l’anteriorità empirica non implica assolutamente una precedenza logica. Perché allora questa antecedenza sintagmatica della vita sulla morte?
Per un filosofo tradizionale questa scelta grafica di Derrida non avrebbe alcuna importanza. Ma sappiamo che invece per Derrida le scelte di scrittura – anche mettere una parola prima di un’altra – sono importanti tracce filosofiche, hanno la densità di una concettualità inconscia. È proprio sulla traccia del pensiero di Derrida che quindi poniamo questa questione di traccia: ‘vita morte’ e ‘morte vita’ non sono equivalenti.
Ora, il perno attorno a cui sembra girare il seminario è una sentenza di Nietzsche:
“Evitiamo di dire che la morte sarebbe opposta alla vita. Il vivente è solo un genere di ciò che è morto, un genere molto raro[1].”
Cosa voleva dire Nietzsche?
Da un punto di vista razionale, si tratta di un assurdo. Perché diamo per scontata una gerarchia logica tra vita e morte: non ci sarebbe morte se non ci fosse vita. D’altro canto, sappiamo dalla biologia (anche se qui Derrida contesta questo sapere, come vedremo) che ci sono vite senza morte, quelle che si riproducono agameticamente. Insomma, la morte implica la vita, non viceversa. E invece Nietzsche rovescia la gerarchia, facendo della vita un sotto-genere della morte.
Chiama egli “morto” semplicemente ciò che non è vivente? Ma dare a morto il senso di non-vivente significa proprio far prevaricare la dimensione della vita sull’ente in generale. Nello stesso momento in cui Nietzsche dice che la vita è un sotto-insieme della morte, ipso facto mette la vita, il vitale di cui la morte è fattore, in una posizione direi egemonica: apparendo come morto, il non-vivente viene riportato così alla logica della vita, alle opposizioni vitali. Dire che ciò che non è mai vissuto è morto, è dare in realtà alla nozione di vita una portata che va ben al di là della vita biologica – insomma, Nietzsche enuncerebbe qui il suo vitalismo (quindi, lo sforzo di Derrida, nel corso di questo stesso seminario, di contestare l’etichetta di “vitalista” attribuita solitamente a Nietzsche non è del tutto convincente).
Abbiamo detto prevaricazione: è un punto essenziale su cui torneremo. In effetti, qui Nietzsche, proprio dicendo che la vita è un genere del morto, fa prevaricare la categoria della vita sull’ente in generale.
Eppure, malgrado il rovesciamento di Nietzsche, Derrida dà la precedenza grafica alla vita. Nell’identificazione vita-morte, resta la traccia di una non-identificazione, su cui – derridianamente – dovremmo interrogarci.
Potremmo dire che in questo seminario Derrida si interroga sul “biologico”, nella misura in cui questo è anche interrogarsi sul “tanatologico”.
Derrida slitta da una lettura all’altra. Grosso modo, in questo seminario abbiamo quattro “stasimi” del suo confronto con testi che tematizzano questo bio-tanatologico: un primo in cui si confronta con Ecce Homo di Nietzsche; un secondo in cui articola un confronto serrato con il libro di François Jacob (1970) La logica del vivente, pubblicato cinque anni prima; un terzo sulla lettura heideggeriana del cosiddetto “vitalismo” di Nietzsche; e un quarto in cui si confronta con Al di là del principio di piacere di Freud. Qui mi limiterò a commentare il commento di Derrida al libro di Jacob.
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1.
In questa parte del seminario Derrida si confronta con il testo, in senso lato divulgativo, di Jacob. Con un testo più storico, di storia della biologia, che biologico, come enuncia il suo sottotitolo: Storia dell’ereditarietà. Derrida lo prende però come fosse un testo filosofico, lo analizza come tale, e ovviamente da questa lettura emergono cedimenti metafisici nel testo del biologo o storico della biologia. Wittgenstein, che disprezzava la divulgazione scientifica, disse “Le opere di divulgazione scientifica non sono l’espressione del duro lavoro dei nostri uomini di scienza, bensì del loro riposarsi sugli allori” (Wittgenstein 1980, p. 86). Derrida in Jacob vede insomma gli allori, anche se, tengo a dirlo, il riposarsi di Jacob è a tutt’oggi esemplare.
In certi punti, Derrida sembra promuoversi miglior biologo di Jacob (il quale vinse il premio Nobel in medicina). Ad esempio, quando confuta l’idea (di Jacob? della biologia moderna? del modo che ha la biologia di raccontarsi?) secondo cui la riproduzione dei batteri è asessuata. Jacob fa notare che la sessualità e la morte sono un’”invenzione” (così scrive) che la vita fa a un certo punto della propria storia, sottolineando che la sessualità e la morte si implicano: è veramente mortale solo il vivente sessuato. (Evidentemente questo guasta de facto l’assunto di partenza di tutto il seminario derridiano: il sovrapporsi logico della vita e della morte.) Ora Derrida, rifacendosi ad altri biologi, cerca di mostrare che avvengono inserimenti di materiale genetico da un batterio all’altro, il che può considerarsi una forma di riproduzione sessuata. Inoltre, solleva un’obiezione di buon senso all’idea che un batterio non muoia, dato che alcuni batteri certamente si dissolvono. Se un batterio produce dieci copie di sé e poi ne restano solo sette, come possiamo non dire che quattro batteri sono morti?
La domanda da porsi è perché Derrida ci tenga tanto a contestare l’idea che la sessualità e la morte siano prodotti successivi della vita, fino al punto da usare argomenti biologici contro un biologo nobélier. Perché tiene tanto a fare della morte qualcosa di coestensivo alla vita, e non un’”invenzione” succedanea della vita stessa? Ma prima di rispondere a questa domanda, vorrei mostrare come l’obiezione di Derrida mostra che egli non abbia colto l’essenziale dell’argomento di Jacob.
Derrida non sembra cogliere il fatto che, per la biologia, solo con la sessualità e la morte diventa pertinente il concetto di individuo – di indivisibile, che è la traduzione del greco ατομος. L’individuo o atomo è tale perché il suo genoma è del tutto diverso da quello di ciascun genitore (sessuato), ed è completamente diverso da quello di ogni altro essere vivente della stessa specie (a parte il caso dei gemelli veri). La genetica insomma ha modificato il nostro concetto originario, comune, di individuo: che non è più, prima di tutto, l’indivisibile, ma è il portatore di un assetto genetico unico. La morte quindi equivale alla scomparsa di questo unicum. Mentre la riproduzione non sessuata è produzione di cloni – all’epoca il termine “clone” non era entrato nel linguaggio comune, e difatti Derrida non lo usa mai. I cloni sono individui diversi dal punto di vista del linguaggio comune, ma non dal punto di vista biologico, perché hanno identico genoma.
Questo taglia corto alle obiezioni che Derrida solleva all’idea che un batterio, ad esempio, non muoia. Se per individuo intendiamo chi porta genomi diversi, il batterio non muore nel senso che copie di sé comunque sopravvivono. Un libro non muore se restano alcune copie di esso, anche se il manoscritto originale fosse andato perduto.
(Si dirà che uno dei due gemelli omozigoti umani può morire, mentre l’altro può sopravvivere. Se fossero lo stesso individuo, dovrebbero morire assieme. Ma consideriamo due gemelli due individui distinti perché oltre al senso genetico di “individuo” abbiamo un altro senso che ci deriva dal linguaggio comune: l’avere due cervelli e quindi due coscienze diverse. Le due coscienze diverse individualizzano, per noi, ciascun gemello. Due sensi diversi di “individuo” si sovrappongono nel nostro linguaggio. Si dà però il caso che il batterio non abbia alcun cervello né alcuna coscienza, nel caso suo, quindi, il senso genetico di individuo può prevalere.)
Inoltre, le eccezioni alla riproduzione asessuata nei batteri che Derrida evoca non inficiano la distinzione categoriale di Jacob tra vita asessuata-immortale da una parte, e vita sessuata-mortale dall’altra. Il problema vero non è stabilire quali specie rientrino nella prima categoria e se non ci siano eccezioni, ma stabilire questa distinzione, che resta valida malgrado i distinguo di Derrida.
Derrida non apprezza insomma l’interesse del senso nuovo dato al termine “individuo” (ovvero, sessuato e mortale) come impossibilità di replicarsi integralmente. Eppure questo nuovo senso dato a individuo – e quindi anche alla sua morte – è filosoficamente importante perché rompe con l’idea che Homo sapiens, ad esempio, abbia un’”essenza”, che ci sia un’essenza della specie umana. Siccome non esistono due individui geneticamente eguali, ogni individuo è portatore di una variabilità che potrebbe avere successo storico, cioè riprodursi e quindi mutare, a poco a poco, certe caratteristiche che consideriamo umane. Per la genetica, ogni individuo è un mutante. Non c’è quindi veramente un tratto comune a tutti gli esseri umani, ogni umano è un potenziale punto di fuga da un’umanità “media”. Questo è il senso della rivoluzione darwiniana: il disgregarsi del concetto di specie. Species è versione latina diείδος, la forma essenziale (termine che tradurrei oggi con struttura). Non c’è unastruttura umana. Per la biologia pre-darwiniana le specie animali erano essenze, mentre con Darwin abbiamo solo esistenze animali. Strano quindi che la vocazione anti-metafisica di Derrida non lo porti a valorizzare questo anti-essenzialismo della moderna biologia.
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2.
Certamente Derrida ha spesso ragione nel mettere in rilievo certe ingenuità concettuali di Jacob. Per esempio, Jacob dice che la biologia non si interessa alla vita – non pone il problema dell’essenzadella vita – ma ai viventi. “Oggi nei laboratori non si interroga più la vita … Ci si sforza solo di analizzare i sistemi viventi, la loro struttura, la loro funzione, la loro storia” (p. 116[2]) Qui Derrida ha buon gioco nel dire che sostituire alla vita il vivente non dispensa dalla domanda non solo filosofica, direi, ma anche biologica: che cosa fa di un vivente un vivente?
E in effetti, Jacob si contraddice de facto perché dice spesso e forte l’essenza del vivente: è qualcosa che ha la capacità di riprodursi. La riproducibilità – l’avere eredi - è ciò che fa del vivente un vivente.
La riproducibilità evoca il concetto di disegno, di progetto. Concetti che Jacob non disdegna, ma avvertendo:
“L’essere vivente rappresenta certo l’esecuzione di un disegno, ma che nessuna intelligenza ha concepito.”
Dice Derrida: se c’è un’omogeneità tra le produzioni del vivente umano (testi, calcolatrici, programmatrici, ecc.) e il funzionamento della riproduzione genetica, l’opposizione tra scienze della natura e le altre scienze perde pertinenza e rigore. È quello che lui nel fondo desidera? Questo sarà il punto essenziale – ma non detto - del commento di Derrida.
Intanto però Derrida si dedica a criticare i filosofemi, direi, del biologo. Ad esempio, scova dell’hegelismo in Jacob, e per lui Hegel “è il più metafisico di tutti i metafisici”. Jacob, facendo del vivente un impulso a riprodursi, nella vita “ritrova l’essenzialità dell’essenza, l’origine e la fine dell’essenza come dinamica ed energia d’essere” (p. 121) “La vita è l’essenza… la vita è più essenziale del non-vivente che essa integra in sé”.
“Mi applico a render chiaro il rapporto che il discorso del genetista, dello scienziato biologo moderno mantiene con la tradizione filosofica: debito e dipendenza sconosciute, diniego, semplificazione, caricatura, sottomissione ai vincoli di un codice, di un programma, appunto, di macchine calcolatrici da cui egli si crede liberato mentre invece ne riproduce i funzionamenti, ecc.” (p. 123)
Insomma, per Derrida non c’è rottura (e non è chiaro se se ne rammarichi o se ne compiaccia) tra filosofia metafisica e scienza, il che è in continuità con un certo atteggiamento del filosofo detto “continentale”, quello di una sorta di rivalsa professionale contro l’egemonia politica della scienza: “credete di esservi liberati della filosofia, e invece fate voi stessi un sacco di filosofemi!”
È vero che Jacob talvolta arrischia enunciati che è facile qualificare di rodomontate, come: “La biologia non cerca la verità. Essa costruisce la propria”. Anche qui Derrida ha buon gioco nel mostrare come in realtà la biologia, proprio nella misura in cui cerca la propria verità, presuppone una nozione generale di verità, senza la quale non sarebbe nemmeno possibile dire che cerca una propria verità. Ma qui Derrida non usa il “principio di carità” che la filosofia stessa ha promosso[3]: che occorre sforzarsi di trovare una logica ad affermazioni che a prima vista appaiono illogiche o paradossali.
L’enunciato di Jacob che Derrida deride può essere interpretato caritatevolmente come un modo di dire: “il biologo non ha bisogno, come i filosofi, di interrogarsi prima su cosa significhi verità in biologia: ne ha una nozione intuitiva che gli basta per operare”. E questo è vero per ogni scienza. Non è il mestiere dello scienziato interrogarsi sul concetto di verità, il suo lavoro consiste nell’usare questo concetto per poter dire il vero sul vivente.
L’enunciato di Jacob può essere anche inteso in senso feyerabendiano[4]: la biologia, come ogni scienza, cambia il proprio metodo scientifico a seconda delle opportunità e dei problemi che le si pongono. La biologia è opportunista, come ogni scienza. Nella sua storia essa ha cambiato spesso metodo, dandosi cioè fini e funzioni diverse. Così con Linneo e Buffon la biologia si auto-interpretava come descrizione accurata delle diverse specie animali, sulla base di una teoria preformista. Con Lamarck e Darwin, invece, si è posta il problema dell’origine delle specie, ovvero sulle ragioni della storia del prodursi e del distruggersi delle forme animali. Cambiamento che si può ravvisare nella storia di ogni scienza. È il senso stesso di “fare biologia” che è cambiato. Ma talvolta nemmeno Derrida se ne rende conto.
Per esempio, Derrida critica il concetto di “riproduzione” in Jacob:
“Il discorso di Jacob – come quello di una certa modernità – maneggia il concetto di produzione o ri-produzione come se fosse trasparente, univoco, che vada da sé, come se ci fosse anche una distinzione o un’opposizione chiara tra produrre e riprodurre, riprodurre e riprodursi. In nessun momento Jacob si chiede quel che ciò vuol dire, mai sottopone questo concetto o parole di produzione/riproduzione (di sé) alla pur minima domanda critica” (p. 135).
Anche qui, la critica di Derrida ripercorre la critica che da molto tempo – da quando la filosofia speculativa ha divorziato dalla concettualizzazione scientifica, diciamo da Kant in poi – la filosofia rivolge alla scienza: che quest’ultima è incapace di pensare i concetti che essa usa, che non si interroga sull’’essenza’ dei propri concetti. (È il rimprovero che già Socrate rivolgeva sistematicamente a qualunque “esperto” ateniese che non si ponesse interrogativi filosofici sul proprio campo di sapere.) Si rimprovera insomma alla scienza di non essere filosofica, il che implica un assunto metafisico forte, nel senso che la riflessione filosofica in qualche modo fonderebbe il discorso della scienza e delle scienze particolari. (E questo a dispetto del fatto che Derrida si sia posto sempre come filosofo non-fondazionalista.) Se la filosofia è in grado di criticare la concettualizzazione scientifica, questo vuol dire in effetti che questa concettualizzazione manca di qualcosa per essere valida, per reggersi da sé, e che questo reggersi è fornito da un altrove dalla scienza, dalla riflessione filosofica appunto. E in effetti, per molti secoli si è pensato che per fare scienza si dovesse prima capire filosoficamente quale fosse il suo oggetto e il modo corretto di procedere per renderne conto. Così Descartes, per esempio, pensava che non potesse essere un buon fisico se prima non avesse stabilito un criterio di certezza. Ma da secoli sappiamo che questo non è vero: possiamo dire che anzi il filosofo di solito arriva dopo lo scienziato, dopo che questi ha scoperto qualcosa che tutti accettiamo. Il filosofo, si dice, giunge sempre al tramonto.
È un peccato che Derrida non tenga in alcun conto l’”altra filosofia”, che poi è anch’essa per lo più continentale, nel senso che è sorta in Austria e in Germania: la filosofia della scienza moderna, il filone cha va da Mach al Circolo di Vienna, a Popper, a Kuhn, a Lakatos, a Feyerabend… Il confronto con questo filone avrebbe aiutato certamente Derrida a distinguere più perspicuamente il discorso dello scienziato da ciò che la scienza di fatto fa. Una distinzione ripresa da Feyerabend, il quale diceva: “Spesso si crede che la scienza fatta da uno scienziato non sia quella pubblicata nelle riviste specialistiche, ma quello che lo scienziato dice quando pontifica”.
Ora, per limitarci al tanto bistrattato (dalla filosofia “continentale”) Popper, bisogna convenire che due o tre cose importanti sulla scienza le ha dette. Una è che la grande scienza – quella che fornisce le visioni del mondo che poi diventano le nostre, anche di Derrida – non nasce dall’osservazione dei fatti, ma da teorie. E che queste teorie sono all’inizio delle metafisiche o dei miti. La separazione netta tra fisica (scienza) e metafisica su cui si basa il positivismo logico è storicamente fallace: le teorie scientifiche sorgono sempre da qualche metafisica. Ciò che separa man mano – col tempo, in un processo mai del tutto concluso, secondo una separazione che chiamerei asintotica – la scienza dalla metafisica è il modo in cui la scienza seleziona via via i suoi asserti (secondo Popper, attraverso tentativi ripetuti di falsificazione, ma questa è un’idea sua, confutata dai post-popperiani). Ora, quando giustamente Derrida vede il discorso di Jacob – ma di qualsiasi biologo, in fondo – intriso di presupposti metafisici (fino a vedervi un hegelismo di fondo) non fa che ri-scoprire l’ombrello: che tutti i concetti della scienza hanno un’origine metafisica, e ne portano le tracce, anche se sono stati rimodellati dal procedere corroborativo (è questo il termine di Popper, che non significa verificativo) della scienza. E questo anche in fisica. Tanti concetti fondamentali della fisica tradiscono la loro origine filosofica o metafisica: per esempio energia, che viene dall’energheia aristotelica. O i concetti di materia, potenza, atomo, forza, vuoto, continuo e discontinuo…
La moderna filosofia della scienza ha detto un’altra cosa importante: che qualche secolo fa il pensiero scientifico si separa da quello filosofico quando cessa di pensare che esso debba partire da una definizione delle cose che esso studia. La scienza non è matematica, non nasce da definizioni precise e rigorose dei propri oggetti, insomma, la scienza non si interroga sulle essenze di ciò che vuole studiare. È in questo senso, credo, che Jacob può dire “la biologia costruisce la propria verità”. La scienza nasce sempre dal linguaggio comune, che essa non interroga come invece è opportuno che faccia la filosofia. La chimica non ha scoperto la composizione dell’acqua (cosa che qualcuno potrebbe chiamare l’“essenza dell’acqua”), l’essere una certa combinazione di idrogeno e ossigeno, partendo da una definizione esaustiva e non-ambigua di acqua. I chimici si sono occupati di quello che la gente comune chiamava acqua. Perciò tutti i fondamentali concetti scientifici fanno risuonare l’eco di concetti ed esperienze comuni: la gravitazione evoca subito la mela di Newton, la forza e l’energia evocano le attività umane, la causa efficiente il tirare e spingere, azione e reazione sono atti animali, gli astri sono quelli che gli umani hanno chiamato tali guardandoli a occhio nudo, ecc.
Questo confuta o limita ciò che avevamo prima detto, che le teorie nascono sempre da ipotesi metafisiche o mitiche? No, perché gli oggetti di cui la scienza si occupa all’inizio (poi essa scopre oggetti non comuni, nuovi, come i buchi neri o i quark) sono oggetti comuni, ma il modo di spiegarne il comportamento è preso da metafisiche. La scienza coniuga linguaggio comune e concetti metafisici, e quindi bypassa l’onere di riflettere filosoficamente sul senso dei concetti.
Certamente poi il sapere scientifico rimbalza sul linguaggio comune e lo modifica. La chimica ha studiato l’acqua senza definirla prima, ma quando ha scoperto la sua struttura chimica, allora essa ha avuto un effetto di rinculo sul linguaggio comune stesso: sappiamo che possiamo chiamare legittimamente acqua solo ciò che è H2O. L’astronomia ha descritto la luna come pianeta perché così la considerava il sapere comune, poi, con la rivoluzione copernicana, ci ha detto che la luna è invece un satellite, e come tale oggi il linguaggio comune la considera. Ciò che chiamiamo sapere della nostra epoca è effetto di una lunga storia di doppio scambio a zig zag tra linguaggio comune e linguaggio scientifico.
Quindi, non so se Derrida, quando critica Jacob perché – come ogni biologo – non si interroga sull’essenza del vivente (pur fornendo a sua volta una definizione dell’essenza del vivente come ereditarietà), si renda conto di criticare in generale la scienza in quanto scienza. Tutto il ragionare di Jacob sul vivente parte dal concetto comune di vivente. Ancor prima che la biologia si sviluppasse come scienza, i nostri antenati, i greci, i romani…, hanno sempre considerato un albero o una mosca come esseri viventi, pur senza disporre di una definizione precisa (filosofi a parte). Ne avevano una definizione implicita, e il compito dei filosofi è stato di esplicitarla. Il biologo non si interroga sull’essenza del vivente se non après coup, quando scopre certe caratteristiche non evidenti (che il linguaggio comune non riconosce) del vivente (ad esempio, il suo essere espressione di un genoma). La scienza fa bene insomma a non interrogarsi sul concetto di vivente, perché è il suo operare in un certo modo sul vivente che gli fornirà poi un concetto di vivente, che sarà comunque sempre provvisorio, rivedibile.
Scrive ancora Derrida:
“[Criticare] i discorsi degli scienziati – per esempio dei biologi – i quali, quando assumono una portata filosofica o epistemologica generale, non sono abbastanza vigilanti quanto alla filosofia o all’ideologia implicita in quel che dicono, non interrogano abbastanza il sistema e la storia dei concetti operativi di cui si servono…” (p. 139)
È una critica agli scienziati solo quando fanno discorsi con “una portata filosofica o epistemologica generale” (quando “pontificano”)? O una critica agli scienziati in generale, in quanto sono scienziati? In questo secondo caso, direi che è impossibile, per chiunque faccia scienza, non usare concetti filosofici, come abbiamo visto, dato che impregnano le loro teorie sin dall’inizio. Derrida vorrebbe allora che gli scienziati facessero solo il loro lavoro?… ma dove comincia e finisce questo loro lavoro? Consiste nel descrivere dei semplici meccanismi? Ma anche quando diciamo che lo scienziato di oggi ricostruisce i meccanismi che operano nella natura, già nel dire “meccanismo” implichiamo tutta una filosofia che è fusa nel concetto stesso. È la metafisica su cui si basa tutta la scienza moderna: che gli enti si relazionano gli uni con gli altri come gli ingranaggi in un meccanismo, in una macchina. Di questa metafisica non possiamo dire che sia vera o falsa, possiamo dire solo che finora ha funzionato, perché la scienza in questi secoli ha avuto un grande sviluppo. Una macchina non funziona perché è vera, funziona perché funziona.
In effetti, la mechané di cui parlavano i greci erano solo le macchine costruite dagli umani per svolgere una certa funzione. Ai greci non sarebbe mai passato per la mente di pensare che la physis – la natura – fosse mechané! Solo in seguito, con la rivoluzione galileiana, si è sviluppata una “meccanica”, la natura viene studiata come se fosse una macchina. Ma una macchina che non serve a nulla, e che nessuno ha creato (l’ipotesi creazionista non è mai scientifica perché segna lo scacco della spiegazione scientifica). È l’atto istitutivo della scienza moderna: la natura è una immensa macchina, ma che non serve a nulla. La biologia moderna è meccanicista – su questo ha ragione il tanto spregiato (dai filosofi) Jacques Monod (1970). Ma già quando il biologo afferma di essere meccanicista emana del filosofico, perché gli si può ricordare che il modello della macchina per pensare la natura è di per sé una scelta metafisica. O meglio, una scommessa: la scienza moderna si impegna a spiegare tutto (non il Tutto) come meccanismo. Abbiamo anche qui una prevaricazione che in sostanza caratterizza ogni metafisica: la macchina, inizialmente solo una parte dell’ente, diventa l’essenziale di tutti gli enti.
Tutta la scienza moderna si basa anche su un altro assioma: la conservazione dell’energia. Non si tratta di una scoperta empirica, ma di una scommessa che identifica la ricerca in quanto scientifica. La scienza esclude a priori che ci possa essere creazione o annullamento di energia, perché sarebbero “miracoli”. Conservazione di energia perché, dopo Einstein, l’energia è equivalente della materia. La forma tradizionale di questo assioma è: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questo all’interno di un tutto (universo) che viene ipso facto concepito come chiuso. Fin quando un tutto è aperto, non è mai “tutto”. Può darsi che il nostro universo sia uno di altri innumerevoli universi di cui nulla sappiamo, ma anche senza saperne nulla la scienza già sa che questo tutti-gli-universi non diminuisce né si accresce. Potremmo anche dire che la materia-energia non muore mai. Si tratta evidentemente di una visione metafisica, ma sarebbe assurdo criticare le moderne teorie scientifiche – che tutte tengono conto di questo assioma – perché esse si basano su una metafisica sbagliata! Che sia sbagliata o meno nessuna filosofia ce lo può dire, ce lo potrebbe dire solo il fallimento della scienza. Se la moderna scienza fallisse, se dovesse ammettere che certe cose emergono dal nulla, allora dovremmo considerare fallace anche la metafisica su cui si regge.
Proprio perché la scienza riusa il linguaggio filosofico, può dispensarsi dal pensarlo filosoficamente.
Qualcuno potrà dire che qui Derrida non critica i filosofemi di Jacob in quanto disapprova la contaminazione di filosofia e scienza, ma li critica perché ritiene che Jacob non si renda conto di essere anche filosofo. Ma, come abbiamo visto, è inevitabile che lo scienziato debba essere anche “filosofo”, perché ogni scienza ha basi metafisiche. È essenziale allora che lo scienziato se ne renda conto, che ammetta di essere filosofo senza saperlo? Non credo che questo sia il punto.
Il filosofo ha un compito che allo scienziato viene risparmiato: quello di mettere filosoficamente in discussione i filosofemi che sono alla base di ogni paradigma scientifico, ma direi anche della maggior parte delle nostre credenze, politiche religiose artistiche, ecc. Quella che chiamiamo filosofia è la riflessione, non sempre critica, su ciò che chiamerei filosofie popolari, le visioni del mondo che ispirano le nostre vite e le nostre credenze. E la scienza ha alla base una sua “filosofia popolare”. Ma mettere in discussione questi filosofemi popolari – qui è il punto – non deve portarci (è questa la tentazione a cui molti filosofi cedono) a criticare la concettualizzazione scientifica in quanto tale! Non si critica una teoria scientifica criticandone i presupposti filosofici. Sarebbe come voler criticare un ottimo cuoco cinese perché ispira la sua arte all’opposizione taoista tra yin e yang…
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3.
Derrida critica insomma i “filosofemi” di Jacob perché non si rende conto che quel che il secondo dice ha una semplice funzione euristica (termine che Derrida usa due volte in questo seminario). Ovvero, la scienza non si fa solo con delle equazioni, o con delle previsioni calcolabili, ma elaborando anche modelli che chiamerei immaginari, una certa immagine di che cosa accada in un oggetto che serve a guidare l’immaginazione scientifica. Per esempio, il darwinismo non è in grado di prevedere assolutamente nulla sul futuro della vita (che sempre più dipende da decisioni politiche umane, ormai), ma ci offre un modello preciso grazie a cui pensare la storia della vita. È falso credere che le scienze siano sempre predittive: spesso prevedono poco o nulla, ma ci offrono una descrizione virtuale della macchina supposta.
Così, per esempio, la fisica parla di informazione. In cosmologia si dice comunemente che la luce delle stelle che giunge fino a noi “ci informa” del loro esserci. Ovviamente qui informazione ha un valore metaforico, se consideriamo essenziale in ogni informazione la volontà consapevole, animale o umana, di informare un altro animale o essere umano. Eppure usare la metafora informativa può essere euristicamente utile nella misura in cui essa piega la ricerca scientifica in un senso piuttosto che in un altro. Comunque, l’uso di figure antropomorfiche – come segnale, informazione, messaggio, codice, programma, ecc. – è la spia di qualcosa di più profondo nella scienza. Ovvero, l’uso di queste metafore è una traccia della scienza come elaborazione soggettiva. La scienza non è lo specchio della natura: è prodotto di un dialogo continuo con la natura. Una teoria scientifica è regolare un certo giococon la natura (la natura può essere considerata il partner dello scienziato nel gioco della scienza; un partner coatto, ma un partner[5]).
Si pensi ad esempio a concetti come ordine e disordine, fondamentali nella termodinamica. È evidente che ordine e disordine sono valutazioni soggettive, non oggettive. Se guardiamo una stanza, possiamo percepirla come ordinata o disordinata, ma che c’è di “oggettivo” in questo? Chiamiamo un sistema di cose più disordinato di un altro quando il primo esige una descrizione più complessa (e più lunga) del secondo. Una stanza molto disordinata ha un suo ordine, anche se molto complesso. Ma la complessità è pur sempre una valutazione soggettiva: è una reazione umana a qualcosa che deve essere capito. “Disordine” dice semplicemente il supplemento di sforzo che dobbiamo impiegare per trovarvi un suo ordine, che comunque esiste (a qualsiasi cosa possiamo trovare un ordine, una “legge” che la regoli[6]). L’entropia è la tendenza del mondo ad assumere degli ordini sempre più complessi, fino al punto che qualunque essere umano rinuncerà a trovarne uno. Quando la termodinamica dice che in un sistema chiuso ogni energia tende irreversibilmente al calore, ovvero all’energia più disordinata (ovvero più porobabile), dice che il calore è un’energia la cui descrizione è troppo complicata. Il mondo è una corsa verso la complessità, verso il caos – il quale non sarebbe all’origine del mondo, ma punto di arrivo del mondo. Come si vede, una valutazione soggettiva è incastrata nei concetti stessi, oggettivi, di “calore” e di “energia” in generale. Anche la scienza più sofisticata tradisce le proprie umili origini, il suo derivare da valutazioni umane, molto terra terra: se qualcosa è disordinata o meno, se è complicato capirla o meno, quanto tempo e quanta energia dobbiamo impiegare per descriverla, ecc.
Si prenda il concetto, tuttora controverso, di probabilità. A lungo si è discusso che cosa essa sia, se abbia una base oggettiva (è più probabile ciò che è più frequente) o sia squisitamente soggettiva (ovvero, si basa sulle nostre attese). Oggi, dopo Ramsey e de Finetti, è la teoria soggettivista della probabilità a prevalere in matematica e in logica. Eppure la probabilità è nel cuore delle cose stesse, dato che per la fisica quantistica fenomeni che consideriamo oggettivi sono di fatto uno spettro di probabilità[7]. Sono quei punti critici della scienza in cui oggettivo e soggettivo si intersecano, dove la scienza deve convenire che certi fenomeni oggettivi possono essere descritti solo in relazione al nostro sapere e alle nostre attese. Da qui i paradossi ben noti, come l’indeterminazione di Heisenberg o il gatto di Schrödinger. Probabilmente questi paradossi sono una nemesi, il venir fuori di qualcosa di rimosso, il fatto cioè che la scienza inizia come un modo di valutare soggettivamente il mondo, e che tale, anche al culmine della maturità, essa resta. Che le cose sono, fondamentalmente, indistricabili dalle nostre reazioni soggettive a esse. È come se la scienza, divenuta principessa del reame del sapere, dovesse sempre re-incontrare la Cenerentola che essa era.
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4.
Ora, l’importante è che la critica, anche dura, al testo di Jacob da parte di Derrida si rovesci poi in un’accoglienza piena del modello proposto da Jacob – la riproduzione biologica come un processo testuale. Lungi dal vedere i riferimenti linguistici e testuali di Jacob come metafore pedagogiche, Derrida li prende alla lettera e conclude che il vivente ci dà l’esempio di una testualità senza messaggio e senza comprensione.
Jacob si pone il problema di fino a che punto la moderna scienza del vivente possa fare a meno di concetti “teleologici”, ovvero di concetti appartenenti all’ordine del linguaggio e della scrittura, e quindi all’ordine dei fini, dei programmi… Abbiamo detto dell’ampio uso che le scienze di oggi fanno di concetti come “informazione”, “messaggio”, “codice (genetico)”, “istruzioni”, che sembrano tutti implicare una soggettività, un Io, uno “spirito”… Jacob afferma che la descrizione dell’eredità come un programma cifrato in una sequenza di radicali chimici fa scomparire la contraddizione tra teleologia e meccanismo (diremmo: tra soggettività e oggettività). La riproduzione – per Jacob, la struttura essenziale del vivente – funziona come un testo. Come scrive in modo pungente:
“A lungo il biologo si è ritrovato davanti alla teleologia come essere accanto a una donna di cui non può fare a meno, ma con cui non vuole farsi vedere in compagnia in pubblico. Il concetto di programma dà ora uno statuto legale a questa relazione segreta.” (p. 17)
Ora, mi pare che Derrida accolga completamente questa “legalizzazione”. Assistiamo a una doppia strategia di Derrida nel suo confronto col pensiero biologico via Jacob: da una parte, abbiamo visto, critica le concettualizzazioni di Jacob, dall’altra invece ne fa uso per insinuare ciò che la sua filosofia insinua (direi anzi che la filosofia di Derrida è tutta un’insinuazione), come se cercasse nel modo in cui il biologo dice il proprio sapere dei supporti al proprio discorso. Da una parte certi concetti sono criticati, come abbiamo visto, dall’altra però essi sono utilizzati per giustificare il suo ”la vita la morte”. Può fare questo però solo forzando il senso di certi concetti biologici, piegandoli al proprio uso per così dire.
Per esempio, Derrida pensa di leggere in Jacob l’idea che la sessualità e la morte, queste “invenzioni”, siano supplementi. Che si tratti di qualcosa che si aggiunge alla vita, che la supplisce. Ma si ha allora il sospetto che Derrida non abbia capito quello che Jacob e la biologia dicono della sessualità e della morte. La sessualità non è qualcosa che supplisce o si aggiunge alla vita, non più di quanto l’”invenzione” dei mammiferi sia un supplemento dei vertebrati… La sessualità è semplicemente un modo di replicazione (modo nuovo in una certa fase di evoluzione della vita), di cui la morte dell’individuo è una conseguenza intrinseca. È un’innovazione nel modo di riproduzione, non un supplemento. Ma l’idea che la sessualità e la morte siano supplementi faceva gioco a Derrida, che ha sempre insistito sulla posizione del supplemento nei vari campi. Direi che si tratta qui di un’appropriazione indebita.
Derrida insiste d’altro canto sull’ambiguità del concetto di produzione e ri-produzione in biologia perché quel che gli interessa nel fondo è mostrare come ogni riproduzione di sé sia riproduzione di una riproduzione. Che non c’è un prodotto primo che dia inizio a un processo di riproduzione. Ogni prodotto è riprodotto. Questo è uno dei temi fondamentali del pensiero derridiano: le copie, le tracce, le rappresentazioni, non hanno un originale, un’origine da cui derivano. Derrida si gioca tutto nel rinvio all’infinito, come nella mise en abyme.
È difficile capire non il pensiero così enunciato di Derrida – lo si può leggere nei manuali di filosofia, ormai – ma la sua enunciazione, cioè, che cosa Derrida voglia in fondo dire (o meglio, cosa voglia mostrarci) con questa insistenza. Dato che non si tratta nemmeno di una teoria, quanto di una critica di ogni teoria che voglia dire l’origine di qualcosa. Dopo tutto, non ci è ancora possibile capire Derrida, perché non siamo ancora riusciti a decostruirlo. (Questo per dire che, malgrado le mie critiche qui a Derrida, in fondo sono derridiano).
Derrida riprende il paradosso ben noto “è nato prima l’uovo o la gallina?” (a cui fa riferimento anche Jacob). Questa domanda è già derridiana, in quanto si dà per scontato che a questa domanda non ci sia risposta, che gireremo in tondo sempre tra un’origine e l’altra… Ora, si dà il caso che la teoria genetica moderna ci dia invece la risposta: all’origine c’è l’uovo. L’uovo in effetti è il contenitore del genoma del pollo, e il pollo ne è il fenotipo. Il pollo di oggi esiste perché l’uovo del pre-pollo o proto-pollo ha subito una mutazione, che ha dato nascita al pollo; l’origine del mutamento può essere solo nel genoma, cioè nell’uovo, non nel fenotipo del pre-pollo o proto-pollo. Da qui il noto apoftegma: “la gallina è un taxi usato da un uovo per produrre un altro uovo”. Certo si potrebbe sempre dire: ma ci voleva comunque un proto-pollo con un proprio uovo, l’uovo del pollo non nasce spontaneamente. Certo, e così si potrebbe retrocedere, man mano, fino all’origine del vivente sulla terra. Ammesso che ogni forma vivente venga da un unico ceppo. Allora, c’è un’origine della vita, anche se non c’è un’origine delle specie, come ci ha detto Darwin?[8]
Per le scienze dell’evoluzione la vita certamente è un evento, appare a un certo punto della storia del pianeta. La geologia ci dice che la vita lascia tracce solo a partire da un certo momento della storia della terra. Ma la biologia non è in grado di dire cosa abbia prodotto questo evento, e come si è prodotto. La biologia esclude che ci sia stata creazione ex nihilo, perché questo è escluso dal gioco stesso della scienza. Perciò per la biologia ci deve essere un’origine, dobbiamo supporre un primo prodotto che non fu a sua volta un ri-prodotto. L’assunto filosofico di Derrida non può quindi essere accettato dal biologo. Per cui ci si chiede: perché comunque per Derrida è così importante affermare che comunque, della produzione e riproduzione, non c’è origine?
La verità, secondo me, è che nel fondo Derrida diffida delle scienze perché queste sono sempre ricerca di un’origine, insomma di una causa prima in senso aristotelico. Certamente la scienza rimanda sempre più all’indietro la causa prima, sia nel più antico, sia nel più elementare. Sia verso un evento da cui verrebbe fuori anche il tempo (oggi, teoria del Big Bang), sia verso qualcosa di irriducibile, di non riducibile ad altro, verso un semplice che non sia a sua volta composto (le particelle non a caso dette elementari, i quark, ecc.). Ma il filosofo sa che questo rinvio – al più arcaico e al più elementare – è un processo infinito, ovvero, sa che ogni spiegazione scientifica, ogni Erklärung, sarà sempre provvisoria e regionale. Mentre la filosofia tende (anche quando non lo sa) all’assoluto, ovvero al non-regionale, alla totalità dell’ente, a un tutto non relativo, ovvero non in relazione con altre parti… Ma dell’assoluto non si può dire nulla, perché ogni predicazione lo relativizza, ne differisce, per così dire, l’assolutezza.
Allora, la manovra di Derrida per salvare “l’assoluto” è consistita nel fare di questo differimento, di questa différance, dell’assoluto… l’assoluto stesso. Nella figura della “traccia” si inscrive, si incide, questo scacco della filosofia nel dire l’assoluto, ma facendo di questo scacco l’assoluto stesso, facendo prevaricare lo scacco dell’assoluto sull’assoluto. Altrimenti il filosofo – teme Derrida – dovrebbe rassegnarsi a dipendere dalle spiegazioni (sempre regionali e provvisorie, sempre storiche) delle scienze, insomma a costruire una metafisica realista che faccia da sgabello al confort filosofico degli scienziati (questa è la funzione di molto epistemologi oggi, e del “nuovo realismo”). La filosofia come ancilla scientiarum. Che non sia mai! Da qui la sfida “barocca” di Derrida (che citava appunto i quadri barocchi, di differimento, di David Teniers il Giovane): tutto è ri-produzione, non c’è produzione originaria.
E perché non può (o non deve?) esserci produzione originaria? Perché la produzione originaria – del cosmo ad esempio, o della vita su questo pianeta – stabilisce un inizio del gioco, ma Derrida vuole che il gioco non abbia mai inizio. In ogni caso, ci sarà sempre e comunque già gioco. La catena degli effetti lascerà béant l’ultimo o il primo degli effetti, insomma, la causa prima è sempre differita. Ma allora questo differimento della causa prima verrà eletto a “causa prima”, ad archi-traccia, a traccia che viene prima di ogni traccia e che comanda la produzione di tutte le tracce. In questo modo Derrida pensa di salvare la capra e il cavolo: salvare la sempre recidiva vocazione della filosofia all’assoluto, e allo stesso tempo denunciare l’eterna relatività di questo assoluto, rinunciare all’assoluto come a qualcosa di sempre effimero, dato che rimanda sempre… a qualche altro assoluto.
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5.
Quindi, Derrida mette tanto impegno nel criticare la filosofia implicita, “ingenua”, di Jacob, perché ci tiene a impossessarsi del concetto essenziale che, secondo lui, Jacob avanza: che la vita è una forma di scrittura. In effetti nozioni come codice, produzione e riproduzione, trascrizione, programma, ecc., sono tutte nozioni legate al concetto di scrittura. Ma, come è noto, Derrida non pensa alla scrittura come a un succedaneo della parola orale, ma come a qualcosa che precede (filosoficamente, non cronologicamente) il linguaggio orale propriamente detto. Egli vuole proporre una nozione di scrittura che non la riduca a trascrizione successiva di un pensiero, che non la faccia provenire da un’intenzione soggettiva cosciente. In questo senso, gli sembra che la genetica moderna conforti, avalli direi, la sua proposta filosofica.
Derrida vorrebbe insomma estendere il concetto di testualità fino a renderlo co-estensivo al vivente.
“Questa situazione – un testo senza riferimento esterno, tutto al di fuori perché senz’altro riferimento che un testo rimarcante [remarquant[10]] un testo -, questa situazione non è in fondo quella del testo della biogenetica che si scrive su un testo di cui essa fa parte o di cui essa è il prodotto, che si scrive su un oggetto o un referente che non solo è a sua volta già un testo, ma un testo senza il quale il testo scientifico – esso stesso prodotto del vivente – non potrebbe scriversi?” (p. 159)
Ciò gli permette di avanzare una metafisica che escluda ogni forma di realismo: non solo la vita è testualità, ma possiamo rigettare ogni riferimento all’autorità, direi, di un reale, di cui la scrittura sarebbe semplice riproduzione o rappresentazione.
“Riferendo il vivente alla struttura di un testo, si compie visibilmente un progresso concettuale nella bio-genetica, un progresso nella conoscenza, se volete, del vivente, se intendiamo questo progresso della conoscenza come allo stesso tempo una trasformazione dello statuto della conoscenza che non ha più nulla a che fare […] con un reale meta-testuale, ma con del testo, e che consiste quindi a scrivere testo su testo.” (p. 160)
Non siamo in pieno idealismo, ma in qualcosa che gli rassomiglia: in pieno testualismo. Le sue obiezioni a una visione realista possono essere nel fondo alquanto simili a quelle che già a suo tempo furono articolate dall’idealismo tedesco a partire da Fichte – ovvero, che anche quando diciamo che c’è una realtà fuori del testo, possiamo dire questa realtà solo grazie a un testo, per cui “la realtà” è pur sempre un testo a cui rimanda un altro testo. Così, il suo rigetto di un originario, di un evento che sia origine di tutti gli altri, è il corollario filosofico dell’idea che non c’è un reale all’origine dei testi, che non c’è un reale prima del testo che questo testo inizialmente rappresenterebbe. Il mondo diventa una fenomenologia della testualità così come per l’idealismo il mondo era fenomenologia dello Spirito.
Hegel (“il più metafisico dei metafisici”, come dice Derrida) disse che ogni vera filosofia è idealista anche se non lo sa o lo nega. “Accusare” anche Derrida di idealismo, quindi, potrebbe essere un modo di confermare l’enunciato di Hegel. E in effetti possiamo dire che Hegel ha ragione, a suo modo. Il punto – ed è qui la divaricazione – è se il filosofo di questo proprio idealismo se ne rammarichi o meno. In questo senso ogni vera filosofia (con buona pace di Badiou) è anti-filosofica: denunciando il proprio incorreggibile idealismo, cerca di andare oltre… la filosofia.
Ma anche qui, dietro l’enunciato testualista di Derrida, quale enunciazione dobbiamo leggervi? Ovvero, in quale contesto, in quale con-testo – in che cosa intorno al testo – dobbiamo leggere il testo di Derrida? Certamente il suo testualismo, preso alla lettera, è un avatar dell’idealismo, e quindi un approccio metafisico a dispetto del fatto che Derrida voglia chiudere con la metafisica. Ma è questo ciò che egli ci mostra? L’enunciato è ciò che si dice, l’enunciazione è ciò che si mostra.
La differenza tra enunciato ed enunciazione è colta da una famosa barzelletta ebraica. Due ebrei si incontrano in treno e uno chiede all’altro dove vada, e l’altro risponde “vado a Cracovia”. Risposta che irrita il primo, il quale protesta: “Ma perché dici di andare a Cracovia per farmi credere che vai a Varsavia, mentre in realtà vai proprio a Cracovia?”
Possiamo dire che Derrida dice di andare filosoficamente a Cracovia – andare contro la metafisica della tradizione filosofica - per farci credere che vada a Varsavia, ovvero verso una metafisica testualista. Questo ci fa pensare, come pensa l’ebreo della barzelletta, che lui vada davveroa Cracovia, cioè che intenda veramente disfarsi della metafisica, compresa della propria, quella testualista. Mi pare che questa sia la lettura che fanno di lui molti derridiani. Ma se prendere Derrida au pied de la lettre fosse a sua volta un malinteso, un modo di cadere nel suo tranello? Se invece Derrida andasse davvero dove non dice di andare, ovvero verso una nuova metafisica? Perché il secondo ebreo pensa di essere ancor più acuto e scafato del primo nella misura in cui prende il primo alla lettera – e se invece questo suo essere non-dupe, il suo non lasciarsi ingannare, come dice Lacan, fosse il suo errore? Les non-dupes errent. Perché in effetti la barzelletta dei due ebrei resta aperta, non conosciamo la verità, per cui possiamo rovesciare l’enunciazione potenzialmente all’infinito. Più si cerca di essere non-dupe, più si rischia di errare.
Questa nuova (non detta) metafisica verso cui di fatto Derrida va è certamente legata a qualcosa di personale, di idiosincratico. E mi chiedo se in ogni filosofia, anche in quelle che si vogliono le più razionali, le più puramente argomentative, le più anonime, non si esprima questa opacità soggettiva del filosofo. È il tema che Derrida stesso affronterà in questo seminario parlando della biografia del filosofo, a proposito dell’uomo Nietzsche. Ovvero, al centro di ogni filosofia, per quanto rigorosamente impersonale, si annida un ombelico biografico, direi un’ossessione privata, qualcosa che gli altri non condividono originariamente, ma che finiscono con l’assumere quando entrano nel gioco di quella filosofia. Non ereditiamo solo le argomentazioni dei grandi filosofi, anche le loro ossessioni. Ora, sappiamo che Derrida era ossessionato dalla scrittura, varie testimonianze ce ne parlano. Scrivere per lui era molto più che esprimersi, era, direi, un tracciare delle forme indelebili nel marmo, o forse nella carne.
Ma questa sua ossessione personale ha avuto molto successo, soprattutto nel campo della critica e della storia letterarie, ovvero in professioni di scrittura. Un po’ come i massoni –masons, muratori – hanno creato una visione metafisica e cosmologica fondata sulla costruzione architettonica, analogamente la metafisica derridiana della traccia e della scrittura fornisce una sorta di esaltazione filosofica di quegli artigiani della scrittura che sono gli accademici nelle Humanities. Derrida è diventato l’interprete più prestigioso della confraternita di coloro che scrivono. Come nella massoneria, gli strumenti del lavoro diventano l’essenza del lavoro stesso.
Ma, al di là di questa confraternita mondiale, gran parte del pensiero moderno ha pensato di trovare nel concetto derridiano di testo la soluzione che questo pensiero da tempo cerca: qualcosa che metta finalmente fine alla divisione di vecchia data tra mondo dei segni e mondo delle cose. È la stessa ragione per cui a un certo punto, nella seconda metà del XX° secolo, il pensiero è sembrato coagularsi attorno al significante linguaggio: il linguaggio andava a pennello nel superare la divisione che da secoli tormenta il pensiero occidentale, quello appunto tra segni e cose, o tra res cogitans e res extensa, quindi tra spirito e materia, mente e mondo, ecc. Perché il linguaggio sembra una moneta che ha una faccia materiale, sensibile (i suoni, le lettere, la struttura fonologica) e una faccia mentale, intelligibile (il versante semantico, l’espressione di idee). Ma il linguaggio, il logos, dirà Derrida, è ancora troppo poco materiale, troppo poco ‘cosa’, dato che solo gli esseri umani posseggono un linguaggio. Derrida vuole andare oltre, e pensa di trovare nella nozione di traccia – in qualcosa di non sempre intenzionale, in una semplice differenza inferta a qualcosa di omogeneo – il significante giusto per dire questo superamento. Il superamento della micidiale divisione all’origine delle metafisiche, che originariamente era tra un intellegibile e un sensibile, tra είδος ed ειδωλων, di cui sarà sempre problematico l’intreccio e la reciproca congruenza.
In sostanza, Derrida partecipa a un grande sogno della cultura, non solo parigina, dell’epoca: superare la divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica, non accettare più la barriera diltheyana tra scienze dello spirito e scienze della natura. Abbiamo visto che la nozione di testo secondo Derrida poteva permettere questa congiunzione.
Poco dopo il seminario di Derrida, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers pubblicheranno La nuova alleanza[11], che proseguirà lo stesso progetto, lo stesso sogno: la nuova auspicata alleanza sarà esplicitamente quella tra scienze umane e scienze della natura (solo che qui il riferimento filosofico sarà Bergson).
Molta acqua da allora è passata sotto i ponti, e possiamo dire oggi che questo sogno non è mai divenuto realtà. In seguito, le Humanities e le Natural sciences si sono sempre più separate, e da entrambi i lati. La cultura filosofica continentale è slittata da allora sempre più verso forme di spiritualismo, verso l’ermeneutica, verso una ripresa del bergsonismo o della fenomenologia; mentre le scienze hanno riaffermato spavaldamente il loro riduzionismo e hanno investito lo stesso “spirituale” attraverso le neuroscienze, di cui all’epoca del seminario di Derrida non si parlava. Le neuroscienze tematizzeranno la vita mentale degli esseri umani a partire dalla struttura del cervello, a partire da un organo materiale.
Tengo a dire che anche io lavoro da tempo a un superamento delle metafisiche che oppongono spirito e mondo, scienza dello spirito e scienze della natura, nature e nurture, ecc.[12] In questo senso lo sforzo di Derrida è anche il mio. Il punto, secondo me, è il modo in cui Derrida rigetta questa opposizione. Egli fa prevalere - direi prevaricare - un concetto profondamente antropologico come quello di scrittura facendone il modello di processi naturali. Anche il concetto di traccia, se non antropocentrico, è zoocentrico: una traccia è tale solo per qualcuno che la consideri tale. La forma di un piede sulla sabbia è traccia solo per qualcuno che cerchi chi vi è passato.
Come per Nietzsche, abbiamo visto, la nozione di vita prevarica su quella di ente in generale – anche se nella forma negativa della morte - analogamente in Derrida la nozione di scrittura o di traccia prevarica sull’ente in generale.
È come se Derrida dicesse: "Non c'è divisione tra pensieri e cose, perché tutte le cose sono forme di pensieri..." Non si supera veramente un'opposizione facendo prevaricare uno dei termini di un'opposizione sull'altro. È un superamento illusorio.
La testualità è una prevaricazione metafisica nel senso che tutte le metafisiche sono sempre l’atto di una prevaricazione categoriale: una parte dell’ente prevarica la totalità dell’ente, ponendosi come essenza dell’ente in generale. E così la scrittura – o meglio la traccia – questo ente in particolare, differenziale e in differita, diventa qualcosa di essenziale della totalità dell’ente.
Malgrado tutte le sue critiche a Jacob, qui Derrida esprime la speranza che la biologia moderna possa abbandonare i presupposti meccanicisti da cui essa è partita, e da cui è partita ogni scienza moderna. Ma così non si rende conto che tutte le nozioni illustrate da Jacob, e che richiamano l’ordine dei segni e della scrittura, sono concetti, appunto, euristici - la biologia era allora, e lo sarà sempre più, meccanicista. Quando il biologo dice “codice genetico” sta usando una metafora: sa che si tratta in fin dei conti solo di processi chimici. Derrida prende metafore didattiche per la struttura stessa della cosa biologica.
Questo non significa che il mondo dello spirito e quello delle cose naturali siano necessariamente separati. Ma un punto di vista che vada oltre questa divaricazione non può essere quello della prevaricazione dei concetti di un mondo su quelli dell’altro.
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6.
Storicamente, direi che la concettualizzazione della filosofia della scienza è andata in una direzione per certi versi opposta alla proposta di Derrida, di prendere la scrittura (quindi anche la scrittura dei biologi, i testi che essi scrivono) come modello per rappresentare il vivente. Si è affermata invece sempre più – e non dico che me ne rallegri, ma è un fatto - una visione delle teorie scientifiche, dei modelli scientifici – inclusa quindi la teoria biologica – come essi stessi organismi il cui modello è l’organismo biologico secondo il darwinismo. Ovvero, una teoria non è solo né essenzialmente un’immagine del mondo, dell’oggetto che essa vuole descrivere e spiegare, è essa stessa una sorta di organismo simil-vivente, soggetta a processi fondamentali molto simili a quelli della vita biologica.
Il darwinismo afferma che la vita ha una storia per mutazione e selezione: la mutazione è casuale, stocastica, e poi ogni mutazione è messa al vaglio dell’ambiente dell’organismo, che la premia o la elimina. Ogni organismo ha un doppio ambiente: da una parte i congeneri (per esempio, vincere contro altri maschi la competizione per accaparrarmi le femmine, ecc.), dall’altra l’ambiente extra-specifico (assicurarmi le prede, sfuggire ai predatori, far fronte a cambiamenti climatici, ecc.). L’equivalente della selezione delle teorie è anch’essa duplice: una teoria deve competere con le altre teorie rivali, e allo stesso tempo fornire spiegazioni migliori del proprio oggetto di ricerca. Conta la capacità che ha una teoria di prevedere certe cose del mondo, e anche di offrire un modello migliore, che appaia verosimile, di ciò che accade nel mondo che descrive, rispetto ad altri modelli. Ma le teorie scientifiche sono a loro volta frutto del caso, del fatto cioè che a un certo punto compaiono degli esseri umani – Galileo, Newton, Darwin, Mendel, Einstein, ecc. – che concepiscono, non importa come e non importa perché, delle idee nuove. Dawkins (1976) chiama queste idee memi, da mimesis, e i memi sono il corrispettivo culturale dei geni. Questi memi nuovi sono mutanti intellettuali – i quali vengono poi sottoposti all’esame dei fatti, ovvero della porzione di realtà che intendono descrivere, e alle critiche dei memi (teorie) rivali. Nessuna teoria spiega tutto, ma può spiegare più di un’altra, per cui finisce col prevalere nella lotta per l’esistenza memetica. Una teoria scientifica è vista sempre meno come una riproduzione fotografica del mondo, sempre più come un organismo composito che sopravvive nel mare del reale. Una teoria ci appare più vera di un’altra perché sopravvive meglio dell’altra.
Una critica puramente filosofica delle teorie nuove lascia quindi il tempo che trova: quel che conta è la capacità di ogni teoria di sopravvivere e trasmettersi (riprodursi) nelle comunità scientifiche. Per una teoria scientifica accettata le critiche filosofiche sono per lo più come le punture di zanzare per un elefante. Una teoria biologica, quindi, prodotto del vivente, tende spontaneamente a comportarsi essa stessa come una sorta di organismo vivente in relazione a quel mondo vivente che vuole descrivere.
Possiamo dire quindi che l’idea peregrina di Charles Darwin – che le specie mutano non perché trasmettono caratteri acquisiti dal fenotipo, ma per una mutazione puramente casuale del genotipo – fu essa stessa una mutazione memetica che è stata positivamente selezionata dalla ricerca successiva, nel senso che essa si è dimostrata adatta a sopravvivere nella massa di dati che le scienze dell’evoluzione hanno prodotto da allora in poi. Certo anche il darwinismo ha i suoi contro-fatti, molti tratti della vita non possono essere spiegati darwinianamente[13], eppure il darwinismo sopravvive come idea dominante perché si adatta abbastanza bene (non perfettamente) ai fatti biologici.
In questa ottica, non è più la testualità il modello della biologia moderna, ma i testi che gli umani producono trovano il loro modello nel vivente stesso.
[5] Riprendo qui la brillante descrizione di Hintikka della scienza come un gioco, assimilabile quindi a una teoria generale dei giochi. Hintikka, 1975, capp. II-III-V.
[6] È questo un presupposto fondamentale della matematica moderna: a qualsiasi insieme, per quanto in apparenza caotico, possiamo trovare un ordine, una “legge” che ne descriva la composizione.
[7] La meccanica quantistica considera il flusso o corrente di probabilità come un fluido eterogeneo (la corrente di probabilità è il tasso di flusso di questo fluido). È un vettore reale, come in una corrente elettrica. Un fluido (ente oggettivo) può essere descritto in termini probabilistici (di attese soggettive), e un calcolo probabilistico può essere descritto come un ente oggettivo.
[8] Più volte è stato notato che il titolo di “L’origine delle specie” è fuorviante, perché di fatto non dice nulla delle origini delle specie, e di fatto dissolve anche il concetto di specie.
[9] Se fosse per Derrida, fra i quadri dell’arciduca ci dovrebbe essere anche il quadro di Teniers “L’arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria a Bruxelles”… Avremmo quella che i francesi chiamano myse an abyme.
[10]Remarquer quindi nel doppio senso: come un testo che marca un altro testo una seconda volta, che lo ri-marca, ma anche che lo nota, lo rende rimarchevole, lo fa essere testo mentre prima, non notato, non lo era.
[12] Rimando qui a: S. Benvenuto, "Natura/ Cultura. Critica ad un paradigma culturale" in Giorgio de Finis & Riccardo Scartezzini, a cura di, Universalità & Differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 116-142.
[13] Del resto, nemmeno Darwin era “darwiniano” fino in fondo, per fortuna. Cfr. Pievani (2013, 2015).
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Bibliografia
R. Dawkins (1976) The Selfish Gene, Oxford Univ. Press, Oxford. Tr.it. Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano 1992.
J. Derrida (2019) La vie la mort, Seuil, Paris.
P. Feyerabend (1975) Against Method. Tr.it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 2013.
F. Jacob (1970) La logique du vivant : Une histoire de l’hérédité, Gallimard, Paris. Tr.it. La logica del vivente. Storia dell’ereditarietà, Einaudi, Torino 1971.
J. Monod (1970) Le hasard et la nécessité. Tr.it. Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 2001.
F. Nietzsche, La gaia scienza (1882)
T. Pievani (2013) Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin, Mimesis, Milano.
T. Pievani (2015) Leggere l’Origine delle specie di Darwin, IBIS Edizioni, Como-Pavia.
I. Prigogine & I. Stengers (1979) La nouvelle alliance, Gallimard, Paris.
Quine, WVO (1975) ‘On Empirically Equivalent Systems of the World’, Erkenntnis, vol. 9, no. 3, pp. 313–328.
L. Wittgenstein (1980) Pensieri diversi, Adelphi, Milano.
N. L. Wilson (June 1959). "Substances without Substrata", The Review of Metaphysics, 12 (4): 521–539.
Après Bergson. Portrait de groupe avec philosophe di Giuseppe Bianco (PUF, 2016) si presenta come un’appassionante narrazione “fantasmatica”: il protagonista del libro, infatti, non appare mai sulla scena, ma si manifesta attraverso i suoi effetti, come un’immagine – o, per meglio dire, un insieme di immagini ‒ che non ha mai smesso di inquietare il novecento filosofico francese. Se l’obiettivo esplicito dell’analisi di Bianco concerne la ricostruzione della stratificata e tortuosa ricezione della filosofia bergsoniana in Francia, il libro non risulta ipso facto etichettabile come un erudito volume di storia della filosofia, per almeno due ragioni, strettamente collegate: 1) lo stile narrativo che pervade il libro e che alleggerisce notevolmente il carico di informazioni, contribuendo a costruire una vera e propria narrazione corale, potremmo dire à la Altman, nella quale, a contare, più che le azioni dei singoli personaggi, è innanzitutto e perlopiù il contesto che li muove; 2) l’affascinante impronta sociologica dell’analisi, che considera la disciplina filosofica, nel suo concreto svolgersi, prima di tutto come una pratica relazionale, che vede impegnati uomini e donne, con il loro bagaglio di mitologie, convinzioni, simpatie e antipatie.
Bianco, prima di far partire la narrazione, pone una serie di indicazioni metodologiche (pp. 1-23) che incrociano parametri, variabili e paradigmi, con l’obiettivo esplicito di rendere intellegibili i percorsi che, unendosi, andranno a costituire un’autentica eredità culturale. Saranno proprio le variabili sintetizzate nelle due tabelle presenti nell’introduzione a essere concretamente mobilitate nel corso dello studio. Fare una vera e propria sociologia della filosofia significa allora evitare di dare la precedenza a una pretesa purezza nella circolazione delle idee, ma calare le posizioni teoriche degli attori all’interno di un contesto, come quello del primo novecento francese, in piena evoluzione. Non si comprenderebbe per esempio nulla della fama di Bergson, per lo meno nei primi trent’anni del novecento, se non si confrontasse la sua traiettoria intellettuale con la progressiva professionalizzazione del “mestiere di pensare” che modificherà in modo radicale il rapporto tra filosofi e grande pubblico o con l’irriducibile dialettica includente/escludente tra centro (Parigi) e periferia che ha da sempre orientato i destini della filosofia d’oltralpe.
Comprendiamo così che occuparsi dell’eredità di Bergson significa innanzitutto confrontarsi con una serie di immagini elaborate da contemporanei e successori, e in seguito assorbite o filtrate dalle operazioni degli allievi. I ritratti di Bergson occupano così uno spettro vastissimo, apparentemente auto-contraddittorio: da filosofo della scienza a anti-positivista, da umanista cattolico a filosofo dell’impersonale, da ideologo della borghesia a emancipatore. Bianco, attraverso un’imponente mole di dati, impreziosita da una ricca (e in parte divertente) aneddotica, ricostruisce le altalenanti ondate della ricezione bergsoniana, incrociandole con l’affermarsi progressivo delle tonalità dominanti del discorso filosofico francese (“spirito”, “esistenza” e “struttura”). Sempre presente nel dibattito, ma mai al suo centro, il bergsonismo scorre così sottotraccia per tutto il novecento, modificando progressivamente la propria identità. Molto schematicamente, si potrebbero isolarne tre immagini:
1) L’immagine, in fondo condivisa da entusiasti e detrattori, di una filosofia dell’interiorità, impegnata a sondare la temporalità della coscienza in opposizione a qualsiasi forma di positivismo o intellettualismo. Da un lato, infatti, la vulgata bergsoniana, vera e propria moda di inizio secolo, penetrerà nell’arte, nella letteratura, nella psicologia, sino a diventare vero e proprio sentire comune; dall’altro, come reazione a questo successo indiscriminato, emergeranno fin da subito una serie di posizioni critiche da parte dei principali concorrenti di Bergson, in primis Alain (al secolo Émile-Auguste Chartier) e Brunschvicg, che, a diverso titolo, faranno valere le ragioni di una tradizione filosofica francese e tedesca sostanzialmente alternativa ai sofismi bergsoniani (p. 61) e alle sue “pillole rosa” (p. 78). Non è difficile vedere come una tale immagine, unita alla progressiva canonizzazione del pensiero bergsoniano, sia in fondo quella ancora dominante, perlomeno nelle ricostruzioni manualistiche, che spesso inseriscono la riflessione bergsoniana nell’alveo dello spiritualismo francese.
2) L’immagine, emersa in particolare a partire dal primo dopoguerra, di un filosofo dell’inazione, compromesso e incapace di cogliere le contraddizioni della contemporaneità. La partecipazione di Bergson alla propaganda nazionalista in favore del conflitto mondiale segnerà una vera e propria condanna da parte della nuova generazione filosofica, attiva dagli anni ’20 del novecento e profondamente influenzata dall’ideologia marxista: Bergson diventerà il pensatore borghese per eccellenza. Prolungando l’onda delle critiche di Alain e Brunschvicg, pensatori come Bachelard e Canguilhem si impegneranno nello smantellamento delle nozioni di durata, slancio e intuizione. Sarà però soprattutto Georges Politzer, nel velenoso La fin d’une parade philosophique: le bergsonisme (1929), a tenere insieme tutte le critiche pre e postbelliche, liquidando Bergson ormai come un pensatore non soltanto astratto, “senza storia” e sorpassato, ma persino pericoloso da un punto di vista etico-politico.
3) L’immagine di un pensiero “anticipatore”, capace di porsi in relazione con la fenomenologia, l’esistenzialismo, ma anche con la scienza e, in particolare, con la biologia. Dalle seminali operazioni di Wahl (Verso il concreto) e Jankélévitch (Henri Bergson) al bergsonismo inconsapevole di Sartre, passando per la riscoperta di molte intuizioni bergsoniane da parte di Ruyer, Canguilhem e Merleau-Ponty e per le più recenti operazioni di Stengers e Prigogine, il pensiero di Bergson, nonostante i numerosi tentativi di sbarramento, non è mai uscito completamente di scena, ma ha continuato a inserirsi nei più disparati dibattiti filosofici.
È proprio a partire da questo complesso e stratificato orizzonte, caratterizzante i decenni centrali del novecento, che Gilles Deleuze, protagonista della parte finale del testo, “riceve” il pensiero bergsoniano. Come Bianco sottolinea più volte, il bergsonismo di Deleuze sarebbe impensabile senza tutta quella serie di operazioni che, tra gli anni ’30 e ’60 del novecento, ha impresso un’immagine ben precisa al pensiero bergsoniano: si tratta in particolare della questione del campo trascendentale impersonale che, a partire dal primo capitolo di Materia e memoria, percorre la filosofia di Sartre, Merleau-Ponty, Hyppolite e Simondon, prima di giungere, in una forma inedita nella riflessione deleuziana sul piano di immanenza. Nella ricostruzione dei debiti bergsoniani di Deleuze, si nota nel testo una certa verve teorica: l’influsso di Bergson su Deleuze non risulta infatti riconducibile, secondo Bianco, a una presunta comunità di intenti tra i due filosofi, ma è tutto interno all’esigenza deleuziana di indagare “una condizione genetica del reale che non gli rassomigli, sebbene gli sia immanente” (p. 340). È questa esigenza, prima ancora dell’evidente presenza, in Deleuze, di ulteriori influenze (Nietzsche, Spinoza, Leibniz, gli Stoici, etc.), a impedire uno spericolato appiattimento delle due figure in nome di un unico pensiero del divenire. Certo, Deleuze si richiamerà a Bergson nel corso di tutta la sua opera e, certo, l’idea di una logica immanente del senso manifesta un evidente debito nei confronti del bergsonismo: ciò non toglie, tuttavia, che i problemi a cui le due filosofie rispondono risultano eterogenei (p. 355). Deleuze, in particolare, rileva gli aspetti più ontologici della riflessione bergsoniana (il passato in sé, la virtualità, il concetto di differenza pura), trasformando di fatto Bergson in un filosofo postkantiano e impostando così, sulla scia dell’opera di Hyppolite, un implicito confronto con la dialettica hegeliana (pp. 281-305).
Al di là della presunta fedeltà al dettato bergsoniano, la traiettoria di Gilles Deleuze, unico della sua generazione a utilizzare in modo così sistematico il pensiero di Bergson, ha avuto il merito di riattivare l’interesse verso un pensatore che, ormai glorificato e insieme decomposto, sembrava avviarsi verso una tranquillizzante neutralizzazione storiografica. Deleuze ha così riaperto un varco nella ricezione bergsoniana, contribuendo inoltre, inconsapevolmente, al consolidamento di una narrazione di cui Bianco ricostruisce la filiazione, ovvero la percezione di una filosofia francese divisa in due metà, da un lato “cartesiana” e impegnata nella fondazione del sapere attraverso la razionalità del concetto, dall’altro mistico-vitalista e legata all’esperienza, alla sensibilità e al soggetto (p. 325-333). Se questo “grande racconto” interno alla filosofia francese ha proliferato, con differenti sfumature, nelle riflessioni di Hyppolite, Foucault, Derrida e Badiou, l’indagine di Bianco ci ricorda quanto questa bipartizione risulti schematica e non renda in fondo ragione dei sostanziali e costitutivi sfondamenti di campo (l’impossibilità di sistemare l’opera di Canguilhem all’interno di questa dicotomia risulterebbe qui emblematica).
Après Bergson ci fa insomma penetrare in un secolo di interpretazioni del pensiero di Bergson, mostrandoci l’eredità della sua opera attraverso un’invidiabile cura per i dettagli (tra i vari strumenti di lavoro, è presente un utile grafico delle relazioni tra i filosofi citati, nonché la lista degli anni in cui Bergson era presente nel programma dell’agrégation). Più defilato rispetto ad altre tradizioni pensiero, quali la fenomenologia, l’esistenzialismo o lo strutturalismo, il bergsonismo emerge dal testo come filosofia “carsica”, tanto plastica da fornire intuizioni in campi di riflessioni tra loro anche molto distanti. Come le infinite biforcazioni dello slancio vitale, l’influenza di Bergson si è ripartita su un intero secolo: ecco perché, allora, il prisma bergsoniano analizzato da Bianco riflette indirettamente l’atmosfera di un’epoca.
Alla ricerca del reale perduto (Mimesis, 2016) è l’ultimo libro di Alain Badiou; titolo ostentatamente evocativo, e chiaro proprio in forza del riferimento all’evocazione. Se non fosse che, anche solo per un vago e sterile (o probabilmente no) principio d’associazione, ancor prima di addentrarsi nella lettura del testo, si è come costretti a pensare contemporaneamente a ciò che di altro l’evocazione porta con sé, alla sua necessaria e conseguente implicazione, e così il pensiero scorrendo tra i ricordi sostituisce quel perduto in un forse più appropriato ritrovato. Semplici associazioni mentali, s’è detto, sino a quando, a fine lettura, si scopre in effetti una certa corrispondenza tra queste e il contenuto effettivo del testo. L’eterno equivoco che un simile titolo corre il rischio di perpetuare è quello di confondere il risultato della ricerca con la ricerca stessa, ovvero di produrre un discorso su ciò che si è perso quando in realtà lo si è già trovato, elidendo in tal modo i confini della classica distinzione agostiniana tra quo eundum est e qua eundum est.
Ma in cosa consiste questo sempre sottratto, che sembrerebbe tuttavia un già da sempre ritrovato, di cui parla Badiou? Il filosofo lo spiega nell’introduzione con una lapidaria constatazione: «Dobbiamo preoccuparci costantemente del reale, obbedirgli, dobbiamo comprendere che non si può fare nulla contro il reale» (p. 7). Il reale dunque, principio d’inemendabilità che per Badiou si presenta subito come «fonte di imposizione, figura di una legge ferrea» (p. 7) da cui non si può prescindere, presieduta dalle regole auree dell’economia, che del reale stesso si fa garante. Questa la base dalla quale può scaturire la domanda filosofica sul reale, che si presenta però sotto una forma particolare, tale da contenere già in sé la propria risposta; il gioco delle circolarità inaugurato dal titolo prosegue qui a livello teoretico nel momento in cui non ci si interroga preliminarmente sulla esistenza o su una possibile definizione fondativa di ciò che chiamiamo reale, ma ci si chiede solo se esso, assunto implicitamente come condizione preliminare necessaria, possa darsi «se non in quanto base di un’imposizione» che esiga solo in ogni circostanza una «sottomissione piuttosto che un’invenzione» (p. 7). Si può comprendere già da qui perché in fondo questo reale di cui si invoca la scomparsa non è mai stato veramente perso: fare della questione del reale non un problema che investe la sua legittimità o la sua possibilità, ma solo la sua origine. Il nostro avere a che fare con una realtà, del mondo e delle cose, non è messo in discussione nella prospettiva dell’autore; il nodo teorico risiede invece nella possibilità di pensare, platonicamente, un vero reale, al di là del volto mistificatore e fallace rappresentato dalla presunta realtà del contesto economico-politico attuale. Si tratta, prosegue Badiou, di «sapere se, dato un discorso secondo il quale il reale genera una costrizione, si possa, o non si possa, modificare il mondo in maniera tale che si presenti un’apertura, prima invisibile, attraverso la quale si possa sfuggire a questa costrizione pur senza negare che esistano sia il reale sia la costrizione» (p. 10). L’affermazione mette ora in mostra, nel punto più denso della teorizzazione, l’artificio concettuale che prima appariva solo dal meccanismo a effetto messo in moto dal titolo; in queste parole, in effetti, si può rintracciare quel fondamento necessario di cui si promuove la ricerca, che, se posto attraverso l’impossibilità di negarne la realtà e la costrittività, si presenta già da sempre come un originariamente già dato, una base per un reale già da sempre a disposizione, che occupa una posizione per cui si può già da sempre trovarlo: un reale che probabilmente non può dunque dirsi realmente perduto. La questione si risolverebbe, in un certo modo, solo in un problema di posizionamento: dopo aver detto che il punto non sta nell’interrogarsi sulle condizioni di possibilità della realtà, ma solo sulla necessità di trovare quella vera rispetto a quella apparente nella quale ci troveremmo, la mossa successiva è quella di rintracciare dove e come questo nuovo, autentico accesso al reale può darsi. Qui Badiou ripropone la sua prospettiva filosofica di fondo, caratterizzata dalla centralità data al concetto di evento, quella modalità inedita «che ci costringe a decidere una nuova maniera d’essere» (1994, p. 40) che assume la forma particolare di un incontro. Come già riguardo alla formulazione di una nuova base di legittimità per un pensiero etico e per una ridefinizione del fenomeno amoroso, anche l’incontro con la realtà si instaura essenzialmente grazie a un processo di ricollocazione, di un radicamento al livello della situazione, dove si può «approcciare il reale in un processo ogni volta singolare» (p. 15).
Prende così l’avvio, con questo percorso diagonale, un viaggio sul sentiero, presuntivamente interrotto, che conduce a quella sorta di disvelamento ultimo, a quell’incontro in cui il reale si mostrerebbe per ciò che è, rivelandosi attraverso tre momenti costitutivi che dell’incontro ne definiscono la natura. Il primo, rifacendosi all’episodio della morte in scena di Molière, delinea la forma preliminare dell’incontro come processo di smascheramento e divisione. La morte, reale, di Molière mentre recita il Malato immaginario crea «una sorta di attrito del tutto particolare tra il reale e la finzione» (p. 19) capace di ristabilire, dialetticamente, il primato del primo nei confronti del secondo; l’effetto di finzione della recitazione viene squarciato per mezzo della violenza del reale, che fa, paradossalmente, di un malato immaginario un morto reale. Il reale, ancora molto platonicamente, è pensato come «crollo di una finzione» (p. 20), come disinfestante per l’apparenza, che fornisce la maschera al reale e lo divide, creandone il suo sembiante polimorfo e illusorio.
Il secondo momento permette un avvicinamento al reale per mezzo di un incontro teoretico. Utilizzando la definizione, in verità solo una delle varie possibili, che Lacan fornisce del concetto di reale come impasse della formalizzazione, Badiou spiega che l’accesso a esso avviene nel momento in cui si pone la sua condizione di possibilità proprio dove questa andrebbe a costituire la sua negazione, vale a dire nell’impossibilità: «il numero infinito come impossibile è il reale dell’aritmetica» (p. 28), afferma con un esempio matematico. La formalizzazione della realtà, la sua condizione di realizzabilità, è sempre frutto di un suo punto di informalizzabilità; ecco perché se l’affermazione del reale come formalizzazione risiede nel momento dell’impasse questa sarà sempre anche in parte la distruzione di questa formalizzazione. In termini lacaniani l’idea potrebbe tradursi così: eliminare quel tanto di immaginario e di simbolico ‒ la «formalizzazione sostanziale della nostra esistenza» (p. 31) ‒ che impedisce di conquistare quel punto di impossibile che è il reale; gesto teorico interessante, ma che alleggerisce non di poco l’essenziale distinzione, prevista dallo stesso Lacan, tra reale e realtà, distinzione che in certo modo ripropone un altro celebre parallelismo, quello tra significante e significato; ma come il significante ‒ il senso ‒ non si risolve integralmente nel significato, anzi lo eccede, in quanto non solo sua semplice manifestazione ma anche sua fonte di produzione, così il reale, trovandosi allo stesso tempo dentro e fuori la simbolizzazione, dentro ma costitutivamente fuori dalla parola e dal soggetto, non pone le basi per la costruzione della realtà di quest’ultimo, «giacché il reale non attende, e non attende il soggetto, […] Ma è lì, identico alla sua esistenza, rumore in cui si può tutto intendere, e pronto a sommergere dei suoi bagliori quel che “il principio di realtà” vi costruisce sotto il nome di mondo esterno» (2002, p. 380).
Il terzo e ultimo momento dà accesso al reale attraverso la poesia, quel luogo linguistico che «estorce alla lingua un punto reale impossibile da dire» (p. 37). Le ceneri di Gramsci di Pasolini fornirebbe l’esempio artistico per eccellenza sull’interrogarsi del reale della storia. Inevitabilmente, trattandosi di Gramsci, il reale è quello del comunismo come possibilità irrealizzata, divenuta cenere appunto, le cui forme, storico-politiche e sociali, assumono la maschera grottesca del divertissement. Essa rappresenterebbe quella disperata passione d’essere nel mondo, senza realizzarlo, senza comprenderlo come prodotto d’una Storia che, nonostante se stessa, può lavorare ancora per noi, nella prospettiva di una nuova «dialettica affermativa» (p. 50), per cui la rinuncia «alla fede in un lavoro della storia che sarebbe di per sé stesso strutturalmente orientato verso l’emancipazione» consente anche di «continuare ad affermare che è certamente nel punto di impossibile di tutto ciò che si situa la possibilità dell’emancipazione» (p. 48)
La chiusura di questa tripartizione porta Badiou a concludere, dialetticamente, che il viaggio non è però concluso. Si tratta di puntare più in alto, iperuranicamente alla «ricerca di ciò che di reale vi è nel reale» (p. 52).
di Enrico Zimara
Bibliografia
Badiou, A. (1994). L’etica. Saggio sulla coscienza del male (1993). Parma: Nuova Pratiche Editrice.
Lacan J. (2002) Risposta al commento di Jean Hyppolite sulla «Verneinung» di Freud, in Scritti, vol. I (1966). Torino: Giulio Einaudi editore.