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Il progetto Homo Sacer, conclusosi con la pubblicazione di L’uso dei corpi, ha al suo centro una casella vuota: manca, infatti, del volume II.4, quello situato tra II.3. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento e II.5 Opus dei. Archeologia dell’ufficio. Una casella vuota che è al contempo, per dirla con il Deleuze di Logica del senso, un oggetto soprannumerario che percorre serie eterogenee introducendo convergenze o disgiunzioni. Quest’assenza al cuore del progetto archeologico di Agamben, questo posto senza occupante e occupante senza posto, fa di Homo Sacer un’opera eccessiva e difettosa, compiuta (dai toni, per molti versi, definitivi) ma al contempo incompiuta, o meglio abbandonata, deposta, dunque ancora attraversata da tensioni che vanno interrogate. Ne sono consapevoli Antonio Lucci e Luca Viglialoro, curatori del volume G. Agamben. La vita delle forme, edito da Il Melangolo, i quali nel tentativo di tracciare «una morfologia del pensiero di Agamben, indagandone alcune diramazioni» (p. 9), devono fare i conti con un’opera «compiuta-incompiuta» che costringe «a tracciare un movimento non concluso del suo oggetto di indagine esibendone così, per l’appunto, la vita» (ibidem).
Il volume contiene quindici contributi suddivisi in tre parti. La prima, Dopo Homo Sacer. Archeologia di un progetto filosofico, può essere definita, nelle sue linee principali, un’«archeologia dell’archeologia» (per riprendere il titolo dell’introduzione, scritta da Agamben, a La linea e il circolo di Enzo Melandri), nella quale vengono ricercati, nelle prime opere agambeniane, quei momenti paradigmatici che si ritroveranno in tutto Homo Sacer. La seconda, Il corpo glorioso e i suoi usi, nell’intrecciare questioni epistemologiche, teologiche e politiche, risulta nella sua brevità la parte più eterogenea del volume, nella quale emerge più chiaramente la «struttura reticolare […], l’intreccio multilineare di forme» (ibidem) che caratterizzano gli scritti dell’autore. La terza, Agamben (nel) contemporaneo, misura l’«inattualità» (p. 11) del filosofo romano: è la parte in cui si trovano i due testi più frontalmente critici, quello di Judith Revel e Federico Luisetti, i quali mirano a esibire gli effetti destoricizzanti del suo discorso.
Lucci e Viglialoro dispongono i contributi in modo da dare al volume una struttura reticolare capace di rendere conto dell’«intreccio di forme», pocanzi accennato, di cui si compone il «dispositivo scritturale agambeniano», un dispositivo «all’interno del quale insistono delle urgenze» (p. 9). Se il dispositivo rimanda, per dirla con Foucault, a un’operazione strategica che fa fronte a un’urgenza, l’urgenza del volume di Lucci e Viglialoro sembra proprio quella di far fronte a un dispositivo. Quando si parla di Agamben, infatti, la posta in gioco è senz’altro teorica e politica, ma lo è solo perché primariamente meccanologica. Tutta l’opera di Agamben è popolata da una moltitudine di macchine: macchina teologica, macchina giuridica, macchina ontologico-politica (con la sua variante ontologico-biopolitica), macchina antropogenetica, ecc. Capire la funzione di queste macchine o, anche, come abbiano preso consistenza intorno alla loro funzione, non è un semplice esercizio d’ingegneria filosofica: ne va, infatti, della possibilità di ripensare il politico. Queste macchine sono riconducibili a una macchina astratta che possiamo chiamare macchina bipolare. La macchina bipolare svolge essenzialmente un’operazione, quella di separare (il sacro dal profano, la norma dal fatto, bíos da zoé, l’umano dall’animale). Ma questa operazione non è sufficiente per rendere conto del dispositivo agambeniano: la macchina bipolare implementa un’altra funzione, quella del disporre. I termini separati sono disposti in modo tale che uno finirà per subordinare l’altro. Ci sembra opportuno, allora, attraversare il volume mantenendo ferma una prospettiva meccanologica, capace di mostrare il corpo a corpo con il quale la maggior parte dei contributi si confronta con questo dispositivo/macchina bipolare.
Se nell’intervento di Dario Gentili la macchina bipolare diventa il «dispositivo della crisi» che, in tutto il progetto Homo Sacer, «'separa' e 'dispone' in una relazione di potere gli elementi che cattura nella sua rete» (p. 51), Timothy Campbell ne mette in risalto la valenza tanatopolitica, che emerge in tutta la sua chiarezza se confrontata con la funzione del dispositif deleuziano. In Deleuze «il dispositivo condiziona la produzione di soggettività, ma evidenzia anche le linee lungo le quali la soggettivazione prodotta crea linee di fuga che confluiscono a propria volta in altri dispositivi» (p. 205). In Agamben, invece, nella società contemporanea, la proliferazione di dispositivi produce essenzialmente de-soggettivazioni (dividui, potremmo dire): a tal proposito sarebbe interessante leggere il contributo di Campbell affianco a quanto, sul dispositivo agambeniano, scrive Stiegler in Prendersi cura. Agamben non riconoscerebbe, secondo Stiegler, la natura farmacologica dei dispositivi, che di volta in volta possono produrre soggettivazione o de-soggettivazione, processi di individuazione o di dividuazione. Ciò si risolve, in Agamben, nell’elezione dell’inoperosità a unica modalità di disinnesco della macchina bipolare.
La prestazione originaria della macchina bipolare è, infatti, ontoteologica: se, sul versante teologico, funziona separando e disponendo il sacro e il profano, subordinando quest’ultimo al primo, sul versante ontologico separa e dispone l’atto dalla potenza, facendo del passaggio all’atto il momento preminente. Elettra Stimilli, nel suo contributo, si concentra proprio sul concetto di potenza, «nucleo incandescente» (p. 17) della riflessione agambeniana. Lo sforzo principale di Agamben sarebbe quello di pensare l’esistenza della potenza al di là di una sua relazione con l’atto. Ciò si traduce nel disattivare la volontà e il dovere che, come operatori metafisici, sono alla base dell’ontologia dell’effettualità per la quale «l’essere è qualcosa che deve essere realizzato e messo-in-opera» (cit., p. 27). All’operazione della macchina bipolare deve subentrare l’inoperosità, che rimanda a un differente uso del mondo «intimamente connesso a una vita che, come la potenza dell’atto, non sia separata dalla sua forma, 'una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso e, nel suo vivere, ne va innanzitutto del suo modo di vivere'» (p. 29). Questa vita è forma-di-vita: Antonio Lucci ne ricostruisce la storia sostenendo che «tutta la filosofia agambeniana che è racchiusa nel concetto di forma-di-vita rappresenta il tentativo di porre in costante relazione e tensione il concetto di soggetto [inteso come processo di soggettivazione], a quello di opera [intesa come opus]» (pp. 69-70). La forma-di-vita, infatti, si dà nella coincidenza tra lavoro all’opera e lavoro su di sé. Lucci sembra consapevole di muovere da una prospettiva mediologica più fedele a Sloterdijk che ad Agamben, nella quale il lavoro su di sé fa leva sul medium dell’opera: il concetto di tensione, da lui utilizzato in maniera strategica, è già un modo di pensare oltre Agamben, in quanto rimanda a una declinazione diversa del concetto di relazione che, come vedremo, verrà messa in luce dal contributo di Vittoria Borsò. In Agamben la forma-di-vita abita una soglia di indiscernibilità nella quale i termini di un’opposizione (forma e vita, potenza e atto, essere e prassi) cadono assieme, vengono deposti: Agamben spezza la relazione, risultato dell’operazione della macchina bipolare, con l’obiettivo di portare alla luce un puro irrelato. L’inoperosità è il contro-dispositivo che rende ciò possibile. Scrive Gentili: «il contatto di bíos e zoé è una soglia in cui la loro indiscernibilità si tiene in sospeso rendendo inoperosa la macchina ontologico-biopolitica che opera il loro discernimento e la loro discriminazione» (p. 62). In questo senso, però, come sostiene Stimilli: «Agamben finisce […] per non allontanarsi da un’univoca definizione metafisica del dispositivo dell’operatività che […] rischia di apparire non del tutto sufficiente per una critica del presente, se privata di un confronto con i meccanismi di potere storicamente determinati e di volta in volta funzionanti» (p. 31). In altre parole, potremmo dire che se i meccanismi di potere storicamente determinati si risolvono di volta in volta in una specifica gestione delle condotte contro le quali possono essere mobilitate specifiche contro-condotte (Foucault); a un meccanismo di potere metafisicamente determinato (la macchina bipolare) non si può che opporre, una volta per tutte, un contro-dispositivo che fa leva sull’inoperosità (Agamben).
L’univoca definizione metafisica di cui parla Stimilli è il risultato della de-storicizzazione connessa al metodo archeologico agambeniano che va di pari passo con la negazione di un’ontologia relazionale e operativa. Sulla de-storicizzazione si concentrano i contributi di Judith Revel e Federico Luisetti. Per Revel il campo come paradigma della modernità presuppone un arci-campo, un campo-matrice, che rivelerebbe il meccanismo e la funzione ultima di ogni campo che storicamente ha visto la luce. La novità che emerge storicamente sarebbe così neutralizzata nella ripetizione dell’identico, dal riproporsi di un anacronismo. Il campo, per Agamben, è il luogo in cui biopolitica e tanatopolitica, produzione di vita e produzione di morte, si confondono. Ma per Revel «produrre la morte» è un’espressione senza alcun senso e la biopolitica, che secondo l’autrice è legata storicamente a un potenziamento, alla produzione di un surplus di valore, non può essere confusa con la tanatopolitica: «è tempo di chiamare le cose con il loro nome: le filosofie del negativo non sono filosofie della potenza, la bio-politica non è tanato-politica, l’uomo non è un animale, tutti i campi non sono gli stessi, tutti gli eventi non sono permessi. È tempo di riapprendere a pensare nella storia» (p. 264). Luisetti, dal canto suo, ritiene che il metodo archeologico agambeniano non solo dissolverebbe ogni empiricità ma, soprattutto, occulterebbe lo stato di natura della modernità, il quale sta alla base della distinzione tra civilizzato e selvaggio, cultura e natura, politica ed economia. Lo stato di natura moderno è in Agamben «costantemente smembrato e duplicato in una serie arcaica e in una escatologica […], l’archeologia filosofica […] ha questa funzione di accecamento, opera al servizio della forclusione della modernità occidentale e del suo stato di natura coloniale, trascendentale e naturalistico» (p. 235). L’archeologia, anziché «provincializzare l’Occidente», liberando quelle esteriorità selvagge capaci di resistere alle sue pretese egemoniche, ne «rafforza la fantasmagoria ontoteologica» (p. 242).
Vittoria Borsò, oltre a insistere sul carattere destoricizzante del progetto Homo Sacer, che coincide con la «sostituzione della storia con la matrice storicamente invariabile del campo di concentramento inteso come paradigma della modernità» (pp. 115-116), riconduce la riflessione agambeniana a un pensiero della catastrofe opposto a un pensiero del disastro. Se in quest’ultimo la povertà dell’ente si apre a un’ontologia generativa di cui sarebbero espressione non solo la scrittura di Blanchot e i lavori di Jean-Luc Nancy e Roberto Esposito, ma anche l’ontologia operativa di Gilbert Simondon e Bruno Latour; con il pensiero della catastrofe, da una parte, si rimane legati alla promessa di una redenzione messianica che interrompa il corso catastrofico del tempo, e, dall’altra, si presuppone l’azione «di un soggetto agente poietico, che porti al collasso della politica tramite un estetica della distruzione e dell’inoperosità, capace di destituire ogni matrice (bio-)politica (Bartleby)» (p. 115).
In altre parole, se per Revel e Luisetti occorre ridimensionare la portata universalizzante e archetipica della macchina bipolare, distanziandosi dalle vocazione metafisica dell’archeologia agambeniana e rimettendo al centro della riflessione la storia; per Borsò occorre pensare la relazione non come l’effetto della macchina bipolare che divide e dispone ciò che in partenza è irrelato, ma a partire da un’ontologia operativa per la quale l’essere, utilizzando la terminologia di Simondon chiamato in causa dalla stessa Borsò, è sempre più-che-unità e più-che-identità, sempre sfasatura e processo. Il potere destituente (macchina destituente o contro-dispositivo), nel tentativo di neutralizzare i processi di dividuazione (de-soggettivazione), neutralizza anche i processi di individuazione (soggettivazione): e se permane l’ombra di un’individuazione soggettiva nelle forme della contemplazione e dell’inoperosità, scompare radicalmente la possibilità di un’individuazione collettiva, di un trans-individuale. Lucci, nel suo contributo, rileva proprio questo problema: Agamben, ne L’uso dei corpi, rinuncia a pensare una forma-di-vita comunitaria. Il concetto di tensione, da Lucci utilizzato, vuole salvaguardare la possibilità di pensare una forma-di-vita trans-individuale: «se non applichiamo tra opera e inoperosità il concetto di 'tensione', quello di inoperosità rischia di chiudersi nel solipsismo, nell’immobilismo, in una certa qual forma di ieratica contemplazione da saggio orientale […], la politica, l’arte e la felicità possono essere pensate solo come una tensione continua tra un pensiero e fare, tra opera e inoperosità, se non si vuole che l’inoperosità si traduca immediatamente in immobilità» (p. 88).
Il saggio di Lucci condensa bene quello che mi sembra lo spirito dell’intero volume: pensare con Agamben ma anche oltre Agamben. Lo stesso Agamben, nel lasciare al centro della sua imponente opera una casella vuota, nel considerare abbandonato e non concluso il suo progetto, sembra indicare la possibilità non solo di un suo proseguimento da parte di altri, ma anche di un suo radicale ripensamento.
di Luca Fabbris
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Jean-Luc Nancy – Dov’è successo?
Recensioni / Febbraio 2015Il tema dell'archivio, oggetto dell'intervista di Nathalie Léger a Jean-Luc Nancy qui proposta in traduzione italiana a cura di Igor Pelgreffi, acquista nel corso del Novecento una sempre maggiore autonomia dalle discipline che se ne sono occupate tradizionalmente, in primo luogo la storia e la filologia. Dal punto di vista filosofico, emerge così progressivamente la domanda sul senso dell'archivio e sugli effetti che esso può determinare sulle opere e sull'immagine stessa di un autore. In altre parole, come ricorda il curatore in apertura del saggio introduttivo, «come esaminare il passato del proprio lavoro? Qual è la sua materia, quali sono i suoi oggetti? Qual è la parte della cancellazione e della distruzione? Come iniziare con ciò che resta?» Innanzitutto, ogni archivio è un luogo. Non solo nel senso dello spazio fisico in cui sono raccolte le opere di uno o più autori, ma uno spazio entro cui sono possibili certe operazioni intellettuali: infatti, se da un lato l'archivio rappresenta una risorsa insostituibile nel processo di analisi del pensiero di un filosofo, nella conservazione delle sue opere e nella costruzione della sua immagine futura, dall'altro lato esso apre una serie di interrogativi filosofici inediti, relativi al funzionamento dell'archiviazione, al suo duplice carattere di mantenimento e perdita, al momento a partire dal quale si può dire di aver davvero archiviato qualcosa. In sintesi, dove e a chi (o a cosa) accade l'archiviazione? È questo l'interrogativo di fondo attorno a cui si snoda tutto il discorso di Nancy, d'ispirazione decostruttiva, qui presentato. Come osserva acutamente Pelgreffi, «non possiamo comprendere l'archivio se non immaginiamo un intreccio fra spazio dell'archivio e tempo dell'archivio così come fra spazio dell'archiviazione e tempo dell'archiviazione, cioè quello che, in termini derridiani, potremmo pensare come una différance spazio-temporale, nel senso di una spazializzazione del tempo e di una temporalizzazione dello spazio.» Ed è senza dubbio in consonanza col pensiero di Derrida che Nancy costruisce il proprio discorso sull'arché e sull'istituzione dell'archivio, col risultato - paradossale, come quasi sempre accade seguendo un approccio derridiano o,
come in questo caso, post-derridiano - che proprio l'“oggetto archivio”, la cui istituzione è segnata da un luogo e una data, finisce per essere l'elemento meno stabile per determinare la nostra relazione col passato. Piena continuità, dunque, col testo di Derrida Mal d'archive, di cui questo discorso di Nancy rappresenta idealmente la prosecuzione. Infatti, Nancy condivide la preoccupazione derridiana di una possibile riduzione dell'archivio al mito del “ritorno all'origine”, in altre parole l'istituzione di un luogo a cui consegnare il passato dell'autore, il suo tempo perduto. Al contrario, osservano Derrida e Nancy, non esiste alcuna origine piena da poter rendere presente e disponibile, ma soltanto l'archiviazione che permette di rinvenire la traccia dell'origine. Come osserva Pelgreffi, da tale confronto con Derrida emerge che il soggetto non è diviso tra due mondi, quello interno e quello sociale, ma è preso nel processo di riassorbimento e rigenerazione delle forme soggettive che dà luogo all'archivio, precedendo dunque ogni dualismo tra interiorità ed esteriorità. Ne consegue che il datum documentale non è un atomo, ma un'unità differenziata, ibrida, divisa originariamente nei suoi elementi giuridici, etici, politici ed esistenziali. Ma se Nancy richiama esplicitamente Derrida, intreccia altresì un dialogo “silenzioso” con Foucault, per il cui pensiero, com'è noto, la nozione di archeologia è di primaria importanza. Dal suo punto di vista, l'archivio permette di chiarire il nesso tra sapere e potere che si manifesta in ogni discorso: in questo senso, l'archivio non è soltanto il luogo fisico dove rinvenire tutte le informazioni su uno o più autori, ma «il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati.» In altre parole, secondo Foucault l'archivio si pone a metà strada tra il trascendentale e l'empirico, dà luogo a un ordine terzo rispetto al puramente ideale - la ragione come archetipo perfetto dell'archivio - e all'assolutamente empirico, sciolto da ogni regola discorsiva.
Questo duplice dialogo con Derrida e Foucault induce a evidenziare anche un altro fil rouge del testo di Nancy: la questione dell'alterità. Infatti, nell'istituzione dell'archivio è già sempre coinvolto l'altro, in modo tale che la domanda sull'archivio implica anche sempre la questione del rapporto tra archiviazione, estraneità e istituzione. Come ha osservato molte volte Derrida, qualunque processo di istituzione conserva una traccia di ciò che esclude, cioè di quell'estraneità che sceglie originariamente di estromettere dall'istituzione o dall'archiviazione. In sintesi, per dotarsi di una qualche identità, l'archivio, nell'atto della sua istituzione, è costretto a relazionarsi con ciò che sceglie di non archiviare. Deve nominarlo, assumerne le sembianze, in modo tale che può accadere che sia proprio l'escluso dall'archiviazione ad assumersi il compito di conservarne la memoria. Ora, tale intreccio irrisolto tra identità e alterità è continuamente rilanciato da Nancy in questo testo, ad esempio attraverso la questione “che cos'è un'opera?” - come nota il curatore, vero e proprio contrappunto alla domanda di Foucault “che cos'è un autore?”, oggetto di una conferenza al Collège de France del 1969.
Volendo individuare la tesi portante del discorso di Nancy, attorno a cui si annodano tutti i vari temi che egli affronta in questo breve testo, si potrebbe azzardare la seguente affermazione: l'archivio sottrae l'autore stesso a qualunque forma di sapere oggettivo. Il che significa che non si potrà mai raggiungere una qualche conoscenza definitiva e cogente di «chi è diventato questa firma che offre il suo nome, i suoi tratti, il suo carattere»all'archiviazione: quest'ultima resterà sempre un processo che non consente di afferrare concettualmente la natura del proprio rapporto con un certo autore, benché lo riguardi direttamente. In altre parole, chi è diventato l’autore, una volta che transita dal proprio archivio? Nancy risponde: «Nessuno che noi possiamo nominare o circoscrivere in alcun modo. “Gli archivi di X” sono un modo di far indietreggiare X più lontano, più in profondità nei suoi archivi. Noi vediamo i suoi tentativi, le sue note, le sue esitazioni, le sue vergogne forse, le sue dissimulazioni, i suoi oblii: ma lui, “lui”, dov’è?».
di Claudio Tarditi
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È con il titolo Mal fare, dir vero, lo stesso delle conferenze che lo hanno generato, che viene edito in Italia il volume contenente il corso tenuto nel 1981 da Michel Foucault all’Università Cattolica di Lovanio. Oltre al testo delle lezioni del corso – tenutesi dal 2 aprile al 20 maggio di quell’anno – il volume ospita anche due interviste a Foucault (la prima a firma di A. Berten, la seconda condotta da J. François e J. De Wit) e una lunga e interessante Situazione del corso a opera dei curatori dell’edizione francese, F. Brion e B. E. Harcourt. Il testo del corso vero e proprio è stato ricostruito grazie a tre diversi tipi di fonte: 1) cassette U-Matic contenenti la registrazione audio-visiva di gran parte del corso (esclusa la conferenza inaugurale); 2) un manoscritto foucaultiano originale della conferenza e della prima lezione; 3) un dattiloscritto, stabilito da audiocassette mai ritrovate, depositato all’Institut Mémoires de l’édition contemporaine (Imec) contenente la trascrizione delle prime cinque lezioni e della conferenza. Il volume è inoltre corredato di un ricco apparato critico, particolarmente utile allo studioso e al ricercatore.
Le lezioni vere e proprie seguono l’ordine cronologico: 1/ una conferenza inaugurale (2 aprile); 2/ due lezioni (22 e 28 aprile) sulla confessione nell’età antica (mondo omerico – Iliade – e tragico – Edipo re); 3/ due lezioni (29 aprile e 6 maggio) sulla confessione nel cristianesimo dei primi secoli e nel monachesimo cristiano; 4/ due lezioni finali (13 e 20 maggio) sulla modernità, concluse con una breccia finale nel sistema penale contemporaneo.
Questa edizione va ad aggiungere un nuovo tassello al mosaico dei corsi foucaultiani, e lo fa collocandosi proprio in un punto delicatissimo della pensée Foucault. Il problema della confessione, infatti, emerge all’incrocio di alcune coppie problematiche che caratterizzano il percorso foucaultiano e, proprio in virtù di questa collocazione privilegiata, si presenta come punto di osservazione particolarmente interessante dell’intero orizzonte di lavoro di Foucault.
Innanzitutto la coppia follia/prigione. Dopo la storia della follia e dopo le ricerche sulla storia dell’incarcerazione punitiva, la produzione foucaultiana sembra imboccare una terza via, una pista di ricerca interessata al problema della sessualità. È proprio nel delineare i contorni di una storia della sessualità che Foucault incappa nel problema della confessione, che rappresenta la chiave d’accesso a un’operazione di livello superiore: il progetto di una storia della verità. Su di un piano metodologico più generale il corso del 1981 ha una posizione particolare anche rispetto alla coppia sapere/potere, rapporto che appare specificarsi soprattutto a partire dall’introduzione della nozione di aleturgia: pratica che, se da un lato fa apparire «ciò che è vero», dall’altro compie tale apparizione a sua volta all’interno di una pratica, quella della giustizia. In tal modo la storia della verità si concretizza, come da programma, come storia delle pratiche del far-vero.
Mal fare, dir vero entra perciò di diritto in quella fase di definitivo chiarimento della dialettica che intercorre tra archeologia/genealogia come rapporto tra analisi delle forme e analisi della formazione delle forme stesse. Il corso in questione infatti, pur mantenendo il proprio valore in quanto studio tematico, risulta particolarmente interessante dal punto di vista metodologico: da un lato la ricostruzione precisa del procedere in fieri di Foucault, ormai pienamente maturo, mette a disposizione dello studioso foucaultiano un nuovo terreno di analisi; d’altro lato in questo corso forse più che in altri Foucault dedica spazio – per esempio nella conferenza inaugurale, ma non solo – a riflessioni di carattere metodologico generale. All’interno di queste riflessioni un posto privilegiato sembra essere occupato dal rapporto storia/filosofia, come se Foucault volesse in qualche modo rispondere alla domanda che tutti gli rivolgevano: «è questa impresa un lavoro di storia o di filosofia?». Ecco che Foucault, quasi sottovoce, in un corso quasi dimenticato, traccia la linea di una risposta: il suo lavoro è un lavoro storico-filosofico, anche se in un’accezione del tutto nuova; non è una storia della filosofia, né una filosofia della storia, bensì qualcosa come una pratica storico-filosofica.
Il volume non rappresenta un punto di approdo definitivo nell’elaborazione delle problematiche che si delineano intorno a questi diversi assi di articolazione anzi, come spesso si rivela esser vero per i corsi di Foucault, esso contribuisce ad aprire il ventaglio dei problemi e ad ampliare il terreno di gioco. Il corso foucaultiano assume davvero la struttura dell’«anello di Möbius» che gli riconoscono i curatori dell’edizione francese nel saggio introduttivo (p. VIII). Su di un unico lato o, meglio, su di un unico bordo collassano il problema politico e quello filosofico: da un lato la questione di come l’individuo accetti di legarsi al potere che si esercita su di esso e dall’altro la questione circa il modo in cui i soggetti si leghino alle forme di veridizione in cui sono implicati. Il pensiero di Foucault sembra subire una curvatura che, attraverso la pratica della confessione, fa svoltare l’interesse foucaultiano dalla politica all’etica.
Alcuni interpreti hanno voluto vedere in questo movimento una cesura; in realtà il corso, lungi dal confermare l’ipotesi di una frattura, evidenzia definitivamente il punto di saldatura del decorso filosofico foucaultiano: la confessione, infatti, rappresenta uno di quei ethoi che costituiscono il contorno del soggetto morale e attraverso i quali si esercita il governo della vita e della condotta dei corpi. La pratica della confessione e la sua analisi contribuiscono, secondo i curatori, a smentire l’idea di una cesura tra etica e politica, evidenziando invece come il passaggio assuma l’aspetto di una torsione quasi necessaria al discorso di Foucault, come se essa si prefigurasse – inattesa – sin dalla Storia della follia. È infatti in questo punto di curvatura che, secondo i curatori, il soggetto si inserisce tra potere e sapere «come un cuneo: se il governo passa attraverso la formazione degli ethoi nei quali gli individui si costituiscono come soggetti della loro condotta, allora il distacco da sé – rendersi in permanenza capaci di distaccarsi da se stessi – è la condizione di possibilità etica delle forme di resistenza politica a cui la sua filosofia invita».
di Gabriele Vissio