Basterebbe un colpo d’occhio al panorama filosofico più recente per ammettere che la critica dell’antropocentrismo sia diventato un tema comune a molteplici orientamenti di pensiero, anche divergenti fra di loro: dal posthuman al realismo speculativo, dal new materialism all’ecopessimismo fino ai pensieri queer e decoloniali, la protesta contro le pretese di centralità ed eccezionalità umana sembrano proliferare alla stessa velocità con cui la minaccia d’estinzione – per lo più rappresentata dal global warming, benché la guerra atomica sembri aver conquistato una nuova giovinezza – si abbatte sulla specie homo sapiens. La sincronia non è casuale e non è soltanto il prodotto di un qualche senso di colpa collettivo per la distruttività dell’azione antropica. È piuttosto il pianeta stesso inteso come tessuto di forze e agentività aliene a fare irruzione s’una scena per millenni ritagliata a misura umana. Va da sé che non ogni critica all’antropocentrismo è anche una critica antiumanista nel senso in cui l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, cioè di quell’Uomo prodotto da sapere-poteri recenti o da una lunga tradizione metafisica e per tagli sacrificali (l’Uomo è sempre maschio, bianco, occidentale, adulto, eterosessuale e cisgender, abile); né, tanto meno, un antispecismo. Ma anche dove manca un’esplicita convergenza, affinità, limitrofie e promiscuità restano innegabili e l’innesto sempre possibile. In qualche modo tutte queste tensioni, vecchie e nuove, sembrano spingersi a vicenda. Sarebbe per esempio difficile negare che la riflessione di Derrida sull’animale non abbia avuto, pur con picchi discontinui, un ruolo da detonatore generale: se nell’opera del filosofo franco-algerino l’avvio di una decostruzione esplicita dell’umanismo risale almeno alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, la pubblicazione postuma della conferenza sull’animale autobiografico sotto il titolo L’animale che dunque sono (Derrida, 2006), ha scoperto, per così dire, tutte le carte del gioco critico e insieme rovesciato sul tavolo il rimosso della tradizione antiumanista. Già il concetto (ma qui ne va della concettualità del concetto stesso) di traccia, come delineato fin da Della grammatologia(Derrida, 1998), precedendo e eccedendo le opposizioni tradizionali della metafisica trasmesse alla linguistica, sollecita dalle fondamenta la centralità assegnata al linguaggio umano: la traccia infatti non esiste né come linguaggio né come sistema di segni generale, né come significato né come significante, né come fonema né come grafema, non esistendo in generale secondo i principi dell’ontologia tradizionale che informa anche quei saperi che se ne vorrebbero immuni. Precedendo tutto il sistema delle opposizioni classiche, la traccia, cancellandosi, ne permette l’emersione e al tempo stesso le eccede come un tutt’altro intrinseco e necessario che decostruisce la fondazione della presenza a sé della coscienza attraverso l’autoaffezione della phoné, senza con questo fare a sua volta origine: un sistema di tracce si configura infatti come un gioco di derivazione alla deriva e senza inizio, priva di significante trascendentale; gioco d’iterazione differenziale di simulacri e supplementi. Perciò con scrittura non si deve intendere qualcosa di semplicemente opposto al linguaggio orale: Derrida utilizza questo lessema perché nella tradizione fonologocentrica la scrittura è sempre considerata derivata rispetto alla vocalità costituente del soggetto umano, e, in questo senso, impura e minacciosa; ma è quello stesso predicato della scrittura ad essere generalizzato in maniera da incrinare la presunzione d’origine in generale: scrittura in Derrida non è la parola scritta (che resta pensata sul calco di quella parlata), ma l’essere-derivato di ogni origine. È chiaro dunque che traccia e scrittura precedono ogni soggettività umana, aprendone costantemente la crisi. Ma tale crisi è complessa: nella conferenza intitolata ai Fini dell’uomo (Derrida, 1997, 153-185), la parola fine, nella sua equivocità, indica al tempo stesso la fine e il fine che intrecciano, nella tradizione, critica e rilancio del concetto di Uomo, provocando periodicamente una rottura dialettica della tradizione stessa: non una morte dunque, ma un rilevamento (Aufhebung) dell’Uomo. Molti testi (Derrida 2004; 2009-2010; 2010; 2011) disegneranno da qui in poi una traiettoria dall’andamento carsico, fino ad una sorta di resa dei conti con quello stesso antiumanismo che nell’annuncio ripetuto della morte dell’Uomo occulta ciò che, posto in opposizione ad esso, ne permette l’autocostituzione e il ciclo dialettico delle resurrezioni: l’Animale come singolare generale e indifferenziato, separato dall’Uomo da un confine unico e non suddivisibile, iscritto ancor prima che nel linguaggio, nella capacità di rispondere piuttosto che di reagire secondo il catalogo programmato di un etogramma inderogabile; nel pudore e dunque nella nudità e nella capacità di simulare e dissimulare (il lacaniano fingere di fingere: l’Animale non cancellerebbe le proprie tracce); e perciò di rapportarsi all’ente, a sé, alla morte, secondo la modalità dell’in quanto tale. Proprietà esclusivamente umane che, concatenate in una stessa serie, aprirebbero selettivamente l’accesso alla verità, al mondo, alla presenza a sé della coscienza, all’intenzionalità e alla libertà. Se la strategia di Derrida è quella di una redistribuzione di tale esclusività in violazione all’interdetto a suddividere il confine, permettendo così di riconoscere, nell’identità forzata dell’Animale, una molteplicità di forme di organizzazione della vita e singolarità irriducibili, è lo stesso proprio dell’Uomo (anche quando il proprio designa una carenza o una mancanza) ad venirne così colpito in maniera irreversibile, disseminandosi in un’improprietà comune e non dialettizzabile che piega il potere (nel suo valore sostantivale e verbale) verso una certa passività e dunque vulnerabilità condivise fra i viventi. A venirne scossa non è soltanto l’ontologia, ma insieme l’etica, il diritto, le scienze, la politica: e perciò la legittimazione implicita di ciò che, in riferimento alla zootecnica, Derrida chiama sterminio per moltiplicazione. filosofie per fughe animali
Janko Ferlic, Fotografia in primo piano dell'orso (Pexels)
Ma la rottura evenemenziale prodotta dalla gatta (una gatta reale, insiste Derrida) che, esistenza singolare irriducibile a specie, genere e persino regno, attraversa il testo del filosofo in uno scambio e inseguimento di sguardi tanto asimmetrici quanto reciproci, fa da attrattore per il baccano infernale di animali demoniaci e antiedipici che vengono a infestare il proscenio umano, producendo ibridazioni di corpi e affetti in blocchi di divenire, macchine celibi e orfane e alleanze mostruose. Non si tratta di semplici fantasie umane, né di metafore filosofiche: perché il divenire-animale di Deleuze e Gattari non è un processo linguistico di significazione o produzione simbolica, ma un’operazione reale di ibridazione deterritorrializzante. Nel celebre esempio della vespa-orchidea, l’orchidea si deterritorializza formando un’immagine della vespa, che si riterritorializza sulla prima, ma così dererritorializzandosi: diviene parte dell’apparato riproduttore dell’orchidea; la vespa riterritorializza l’orchidea portandone il polline. Non è un fenomeno di mimetismo o somiglianza, ma l’esplosione di due serie eterogenee in una linea di fuga. Questo è ciò che Deleuze e Gattari chiamano rizoma. La vespa-orchidea non si riproduce, non ha genealogia, discendenza è, come blocco, al tempo stesso sterile e proliferante. Il piano di consistenza che accoglie vespa e orchidea non imita a sua volta nulla e non tende verso nulla, ma non è definito nemmeno dalle loro posizioni, come in una struttura: piuttosto da modificazioni di velocità e intensità di affetti. Il piano non cresce e non diminuisce se non all’aumento e alla riduzione delle intersezioni dei blocchi di divenire che gli sono immanenti (Deleuze & Guattari 2017). Movimento contronatura della natura stessa, contromovimento trasversale e non arborescente dell’evoluzione: involuzione reciproca senza regressione. Frammento di DNA catturato da un virus e trasportato nella doppia elica di un altro corpo. Divenire-animale dell’uomo, come per tutti i divenire minoritari (divenire-donna del maschio, divenire-bambino dell’adulto) non significa che l’uomo imiti l’animale, che vi s’identifichi, che lo diventi: ciò arresterebbe il divenire stesso in un divenuto come filiazione; ma il divenire non si arresta, piuttosto entra in un altro divenire, intersecandosi s’uno stesso piano di consistenza a n dimensioni. In gioco non c’è rassomiglianza o differenza, né corrispondenza, di caratteri, forme o funzioni: tutto questo serve semmai allo Stato per le sue classificazioni. L’uomo può sempre immaginare di essere un animale, ma ciò che è reale del divenire è il divenire stesso come divenire tra eterogeneità. Ha a che fare con una muta, una banda, una popolazione e un popolamento, una molteplicità; espansione, propagazione e contagio, in cui le nozioni classificatorie arborescenti e seriali (dall’inferiore al superiore, dall’indifferenziato al sempre più differenziato) non hanno pertinenza. Si è presi in un divenire-animale come Achab e la balena, patto con un demone. Come il piccolo Hans e il cavallo nel caso di Freud, ma senza che il cavallo diventi un simbolo e gli affetti di Hans sintomi. Le linee di fuga di questo concatenamento (Hans, cavallo, omnibus, letto, strada, ecc…) non sono rappresentazioni in un triangolo edipico, ma affetti in un divenire che non nasconde niente, tanto meno un significante trascendentale, dispotico. E se ci sono animali tendenzialmente edipici e familiari (il mio gatto, il mio cane) e altri demoniaci (la zecca, la muta di lupi, il topo, la balena), a certe condizioni tutti gli animali possono divenire demoniaci, stringere un patto innaturale con l’umano, entrare in divenire con esso e con altro, indipendentemente dal regno in cui sono classificati. Di nuovo: in ragione di differenziali d’intensità e accelerazione di affetti.
Nonostante l’amicizia e le affinità con Deleuze e Guattari (benché a volte esagerate ex post da chi ha tentato di incasellare e binarizzare la tradizione recente, opponendo, per esempio, decostruzione e pensiero biopolitico, impoverendo la ricchezza e il dinamismo di quadri concettuali ben più complessi e fecondi), sembrerebbe difficile trovare qualcosa di altrettanto “animale” nelle genealogie dell’invenzione dell’Uomo in Foucault. Eppure è proprio nella costellazione di quel nuovo potere che si configura nell’eclissi della sovranità classica, massimizzando su scala di popolazione gli effetti dei poteri disciplinari e normalizzanti (Foucault 1978; 2005a; 2005b), che un certo pensiero ha trovato il punto d’accesso per una riflessione biopolitica sulle pratiche di domesticazione e potenziamento della vita in cui le vicende delle specie s’intrecciano in maniera differenziale ma insolubile. In particolare è la stessa scoperta del campo di ciò che Foucault chiama ontologia selvaggia, ossia una concezione della vita che ne travolge le forme in direzione di trasformabilità infinita, in cui la teoria darwiniana e le pratiche zootecniche di ibridazione e selezione s’inseguono a vicenda, a rendere non più delimitabile lo stesso campo di azione biopolitico. È uno zoopotere a venire così allo scoperta in maniera irrimediabile per ogni genealogia del vivente: non si potrà più parlare di pratiche di disciplinamento senza rendere conto di ciò che avviene nello spazio dell’allevamento e dello stabulario con i loro recinti, il governo dei corpi, l’intensificazione della produttività attraverso le pratiche empiriche e i saperi scientifici (questi ultimi mai immuni dai primi). Il lavoro di Benedetta Piazzesiha, da questo punto di vista, aperto prospettive immense: la rottura imposta dal capitalismo al giardino come wunderkammer degli exempla di specie, microcosmo che rispecchia il macrocosmo di una natura stabile e invariante, e dell’utopia della Villa in cui ogni animale è utile per natura, in direzione di una manipolabilità della vita che solo successivamente le scienze giustificheranno de iure con la teoria dell’evoluzione e i suoi flussi morfogenetici, è un evento onto-storico che non si può spiegare solo in termini economici. A annunciarsi qui è infatti una nuova economia del vivente e della vita in cui la funzione dei corpi degli animali non umani non muta in relazione a un solo vettore del potere, ossia quello, estrattivo, del capitalismo marxista. Benché l’opposizione netta fra Uomo e Animale non tramonti mai né nei saperi né nei discorsi diffusi, a sovrapporvisi è una griglia continua e differenziata attraverso la quale l’Uomo è sì riassorbito nell’alveo del vivente – dal quale l’alleanza fra platonismo e cristianesimo l’aveva sottratto, facendone uno straniero nel mondo dei corpi e della carne – ma in posizione di eccezionalità (Piazzesi 2015). Parallelamente la stessa vicenda si ripete in ambito infraumano, dove il sapere biologico differenzia gerarchicamente il continuum della specie secondo le magnitudo dei popoli e degli individui, aprendo la strada alle scienze razziali (Foucault 2009a). Anche in psichiatria (fattore attivo nello stesso processo), all’epoca del grande internamento dei folli succederà il controllo capillare della gamma infinita delle anomalie, proiettando la psichiatria stessa fuori dai manicomi ad allagare ogni sfera dell’esistenza sociale e producendo ampie zone di indistinzione con altri poteri, a cominciare da quello giuridico (Foucault 2009b). I fasci di sapere-potere eccedono insomma i confini di specie, provocando continue retroazioni da una parte all’altra della frontiera.
Agamben ha fissato questa paradossale continuità discontinua nel dispositivo onto-politico della macchina antropologica, che nel tentativo di fissare il proprio dell’Uomo permette il transito di interi gruppi umani nell’animalità, esponendoli così alla sacertà come uccidibilità senza crimine (Agamben 2002). Tale dispositivo antropo-zoo-genico, che corrisponde alla tradizione stessa del pensiero occidentale, tenta infatti, nel suo moto incessante, di risolvere il mysterium conjuntionis fra zoé e bíos, vita animale e vita umana, ossia dell’emersione stessa della seconda dalla prima. Producendo però inevitabilmente una zona di indistinzione ed eccezione, nel modo dell’inclusione di un fuori (il barbaro e lo schiavo, l’enfant sauvage, insomma l’animale dalle fattezze umane, nella macchina antica), o dell’esclusione di un dentro (l’uomo animale, ossia l’ebreo e i suoi sostituiti, ma anche l’oltrecomatoso, nella macchina moderna). In entrambi i casi, il centro della macchina è perfettamente vuoto come lo è ogni spazio di eccezione, e il missing link della conjunctio che essa dovrebbe elaborare rilancia all’infinito un’operazione di cesure e riarticolazioni il cui risultato non è mai né una vita animale né umana, ma una nuda vita, ossia un vita separata da sé stessa. Ogni tentativo di far funzionare la macchina altrimenti produrrebbe allora lo stesso risultato: la proposta messianica di Agamben è allora di applicare la dialettica in arresto di Benjamin; non tentare più di risolvere il mistero della congiunzione, ma indagare le procedure della disgiunzione biopolitica, così da arrestare la macchina e impedire una nuova operazione dialettica tra Natura e Uomo. Ciò che allora più conterà in tale coppia sarà proprio il tra che la separa impendendone la congiunzione, e, sospendendo reciprocamente i due termini, apre a qualcosa che, insediandosi nell’intervallo, non è più né Uomo né Animale, Umanità o Natura. Secondo un altro topos benjminiano, vita insalvabile nella notte salva, abbandonata e inoperosa, consegnata al gioco e alla voluttà.
M49 cancella le sue tracce, finge e finge di fingere: traccia percorsi depistanti, doppi del suo stesso sviamento, della sua deriva gioiosa. Perché ancora più che sulle fughe e sui depistaggi, sull’agency soggettiva e attiva che l’Uomo non gli riconosce, è sull’agentività passiva, sul fare blocco con le forre e le stagioni, le pendenze della luce nella selva o nelle radure, i muschi, mille altre tracce non umane, che insiste Massimo Filippi nel volume omonimo di recente pubblicazione: M49. Un orso in fuga dall’umanità. Certo, questa fuga è un’evasione, un intreccio di diversivi e diversioni; ma è anche qualcosa come uno svago, una vacanza e un abbandono. Abbandonando l’Uomo e le prigioni che tagliano e organizzano lo spazio della sorveglianza e della cattura, egli si abbandona al possibile rischioso e improgrammabile di una vita insalvabile e perciò esposta a connessioni, contatti, contagi. Fuga, ma insieme linee di fuga lungo le quali egli diviene muschio, diviene forra, picco, bosco, cielo, pendenza di luce, calore, pietra, decodificando in flussi il codice che lo cattura come elemento tassonomico fisso, elemento di Stato e di codice di procedura: unorso non come specimen, ma in quanto molteplicità, e in quanto tale animaux, molteplicità degli animali catturati nel dispositivo di esclusione includente dell’antropogenesi prima ancora di ogni prigionia, eppure in rivolta.
Una myse en abîme interseca qui più blocchi di divenire: unorso parla, un* uman*, parlandogli, ne parla, quando unorso è di nuovo catturato; l’autore ne scrive: l’uman* fa blocco con unorso, entrambi con l’autore; ma tutti cessano così di essere semplici soggetti narranti e/o narrati, diventano qualcos’altro secondo un divenire molecolare della scrittura: zone di attrazione e vicinanza, attraversamento, zone d’intensità variabile, pullulazione e contagio che non hanno bisogno di virgolette e note al testo. Filippi tira i fili di un’immensa tradizione, ma anche questi sono altrettante linee di fuga che estraggono rizomi da strutture ramificate, gerarchiche. Fino all’eclissi dei soggetti dell’annunciazione: linguaggio come sciami di particelle, vita di un cosmo in espansione, fuga di costellazioni e galassie. Lingua straniera, lingua aliena, divenire-impercettibile. Non sappiamo chi sogni, qui – Filippi, unorso imprigionato, un alt* uman*, un altro animale. Ma il sogno è reale, e immenso. E può sognare il passato o il futuro. Non che si dissolvano la compassione, la simpatia, l’evento del venire di un altro irriducibile, in nome del quale si scrive, e – così, anche – si lotta: ma queste passioni, azioni, avvenimenti si dislocano per riposizionarsi o avventurarsi ad un grado più profondo e più intenso della partecipazione; di quella com-parizione che per Jean-Luc Nancy era apparizione reciproca, perché non si appare al mondo senza comparire a qualcun*, con qualcun*, l’un* all’altr*; di quel partage in cui si è già da sempre gettat*, essere-insieme che non forma alcun insieme, che sia di specie, di genere, di vicinato, gruppo o collezione, o quello generale dell’ente nella sua totalità. Ondate di vibrazioni fanno risuonare le passioni, i desideri e gli incontri di un’intensità nuova e inaudita. M49, unorso, è ormai irrimediabilmente Tra.
Antonio Volpe
BIBLIOGRAFIA
Agamben, G. (2002). L’aperto. L’uomo e l’animale. Torino: Bollati Boringhieri.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2017). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. Trad. It. di G. Passerone. Napoli-Salerno: Orthotes.
Derrida, J. (1997). Margini della filosofia. Trad. It. di M. Iofrida. Torino: Einaudi
Id. (1998). Della grammatologia. A cura di G. Dalmasso. Trad. It. di R. Balzarotti et al. Milano: Jaca Book.
Id. (2004). Aporie. Morire – Attendersi ai limiti della verità. Trad. It. di G.Berto, Bompiani, Milano.
Id. (2006). L’animale che dunque sono. Trad. It. di M. Zannini. Milano: Jaca Book.
Id. (2009-2010). La bestia e il sovrano (I-II). Trad. It. di G. Carbonelli. Milano: Jaca Book.
Id. (2010). Dello spirito. Heidegger e la questione. Trad. It. di G. Zaccaria. Milano: SE.
Id. (2011). «Il faut bien manger». O il calcolo del soggetto. Trad. It. di S. Maruzzella & F. Viri, Milano-Udine: Mimesis.
Filippi, M. (2022). M49. Un orso in fuga dall’umanità. Roma: Ortica.
Foucault, M. (1978). La volontà di sapere. Trad. It. di P. Pasquino & G. Procacci, Milano: Feltrinelli.
Id. (2005a). Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979). Trad. It. di M. Bertani & V. Zini. Milano: Feltrinelli.
Id. (2005b). Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978). Trad. It. di P. Napoli. Milano: Feltrinelli.
Id. (2009a). Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976). Trad. It. di M. Bertani & A. Fontana. Milano: Feltrinelli.
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Piazzesi, B. (2015). Così perfetti e utili. Genealogia dello sfruttamento animale. Milano-Udine: Mimesis.
Nel presente contributo cercheremo di analizzare lo strano caso del Random Darknet Shopper, opera d’arte che, avendo come perno un meccanismo aleatorio, mette in discussione il concetto di soggetto, inteso questo nella sua accezione filosofica, a partire dalle sue risonanze giuridiche. Software programmato ad acquistare casualmente merce sul darknet, ha avuto in sorte lo scontro con alcune antinomie giuridiche. Vedremo infatti come (§1) il principio di colpevolezza alla base del regime di discorso giuridico in cui l’opera si innesta si ritrova innanzitutto sul problema dell’individuazione: cos’è (oppure – forse meglio: quale parte è) il soggetto in causa? Il software? La mostra, intesa come luogo fisico? Oppure la mostra intesa come organizzazione di eventi? Già in quest’ambiguità iniziale possiamo rinvenire il fine primo e ultimo dell’“opera” in questione, quella di perturbare. In secondo luogo, il problema filosofico sollevato è se e come è possibile ritenere l’alea (come se fosse) un soggetto. Questa necessità giuridica non può non confliggere con il carattere meramente finzionale dell’attribuzione di una volontà a qualcosa di assolutamente caotico. Così facendo, il regime giuridico non può che ritrovare il suo ‘oggetto’ al di là o al di qua dell’evento stesso, ovvero nelle istanze enuncianti o enunciate individuabili del dispositivo stesso. Ad onor del vero, questo processo è sotteso a qualsiasi giudizio e l’interruzione discorsiva, l’individuazione di un’istanza, è proprio l’effetto che il discorso giuridico produce, non ciò su cuisi articola. In modo eclatante, l’opera che andremo ad analizzare non fa altro che rendere manifesto questa dinamica. Attraversandone la storia, dalle sue esibizioni (§2) alla ricezione sui rotocalchi (§3), andremo ad esaurire la bibliografia filosofico-giuridica che vi si è interessata, mostrando i tentativi e le proposte risolutive di richiudere in un discorso morale lo scandalo aperto da questo paradossale “soggetto caotico”(§4).
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1. L’opera
Random Darknet Shopper (abbr. RDS) è un progetto di computer art del duo svizzero !Mediengruppe Bitnik (al secolo Carmen Weisskopf e Domagoj Smoljo) svoltosi tra il settembre 2014 e il 2016. Come anticipato, l’“opera” è costituita da un software finalizzato a selezionare sul darknet in modo casuale, quindi ad comperare, merce del valore massimo di 100$ in bitcoin. Durante le mostre, il software procede a un acquisto a settimana. Gli articoli vengono così spediti direttamente sul luogo d’esposizione e collocati in apposite teche, che si riempiono progressivamente fino al termine della mostra. Come spiegato dagli autori sul loro sito, «Once the items arrive they are unpacked and displayed, each new object adding to a landscape of traded goods from the Darknet» (https://wwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww.bitnik.org/r/).
Evidenziamo fin da subito un’ambiguità relativa all’identità del progetto. Con ‘RDS’ si intende, infatti, a seconda dell’aspettualizzazione: (1) l’oggetto, ovvero il software (secondo l’attorializzazione), (2) il luogo dell’esposizione e la collezione dei vari oggetti progressivamente acquistati (per spazializzazione e temporalizzazione terminativa) e (3) le sue performance, le varie acquisizioni avvenute nelle cosiddette editions (qui temporalizzazione incoativa). Poiché ogni edition è indipendente dalle altre, la raccolta del materiale inizia di volta in volta daccapo, l’acquisto degli oggetti è, come detto, casuale e il riempimento delle teche è durativo nel tempo. In breve RDS si presenta, proprio per la sua «capacità di assumere diverse impreviste strutture fisicamente inattuate», come un’opera in movimento (Eco 1980: 44).
In secondo luogo, notiamo che, se da un lato RDS è un dispositivo situato, occupando specifici punti dello spazio (il PC che gli fa da hardware e la merce esposta), dall’altro la relazione tra il suo discorso e l’ambiente rende il dispositivo sia pervasivo che – coniando un termine da aggiungere a quelli di Eugeni (2010: §3.2) – esclusivo. Infatti l’articolazione del senso di RDS gioca sul fatto che il suo automatismo non permette in alcun modo di essere partecipi dei criteri d’acquisto. Non si sa quale prossima chincaglieria troverà sul web, se non quando questa verrà direttamente portata sul luogo via posta. Si comprende allora come i !Mediengruppe Bitnik abbiamo potuto concepire RDS come «a landscape of traded goods» provenienti dal darknet cui si aggiungono nuovi elementi una volta «unpacked and displayed».
Una pervasione, dunque, dovuta a una collezione che riempie gradualmente l’intera sala dedicata. Wunderkammer contemporanea, RDS ostenta il privato e il proibito nel pubblico, funzionando così da dispositivo di sacrificio(Agamben 2005: 84).
Inoltre, l’aspettualizzazione temporale presenta RDS come una performarce artistica, confermando in questo modo l’«ipotesi» di lettura secondo la quale le avanguardie siano la «lucida e spesso consapevole ripresa di un paradigma essenzialmente liturgico», da leitourgia: «‘opera, prestazione pubblica’» (Id. 2017: 24 e 21). Si spiega dunque il motivo per il quale il duo svizzero possano definire RDS «a live Mail Art piece».
Ma “live piece” tematizza chiaramente l’Unheimlichkeit di Freud (1919), condizione – banalizziamo – in cui si ha terrore che prenda vita un oggetto inanimato, che gli oggetti rimossi possano (ri)attivarsi e (ri)entrare nella nostra vita cosciente. Era questo un meccanismo già presente nelle Wunderkammern: qui «lo statuto dell’esperienza museale attuale» vacilla, avendo davanti un «processo di accumulo quasi automatico di cui si fa fatica a comprendere la logica» cui deriva quell’«effetto di senso particolare, quello della meraviglia» da cui il nome (Donatiello 2016: 64). In breve, RDS è una macchina enunciativa automatica di un contenuto oscuro come il darknet, dispositivo hauntologico (Derrida 1994) grazie al quale il fantasma di una parte remota della rete si manifesta nella “casa” infestandola di simulacri, a mostrare il caos che alberga ogni cosmos, come suo rovescio e suo fuori.
Considerando che non permette di anticipare nulla sui suoi acquisti, RDS presenta un «regime» di interazione «dell’incidente», nel quale l’alea si costituisce come soggetto. Da un lato !Mediengruppe Bitnik programmano RDS per fargli ottenere una «motivazione in qualche modo concessiva», poiché l’esecutore, il Destinatario, obbedisce ciecamente alla volontà del Destinante che l’ha programmato; dall’altro, però, la programmazione è assolutamente autoneutralizzante, poiché, come già detto, l’oggetto di valore cui deve tendere il bot è, al di là dei limiti materiali imposti, un oggetto qualunque (Landowski 2005: 43).
Il ‘soggetto’-RDS emerge come se marchiato da una perversione della massima agostiniana «Dilige et quod vis fac», “ama e fa' che vuoi” (In Io. Ep. tr. 7, 8), dimostrandosi vera e propria forma-di-vita (Agamben 2011 : 17). In altre parole, esso è un’attorializzazione dell’alea. La macchina randomica apre quindi alla «minaccia del rischio puro al di sopra di tutti i sistemi di sicurezza», installando serenamente l’«attesa dell’inatteso» (Landowski 2005: 74). Come «se all’origine tutto fosse [...] discontinuità», RDS «non consent[e] alcuna forma di comprensione, ci pon[e] davanti all’insensato; escludendo ogni possibilità di anticipazione, non ci offr[e] moralmente alcuna sicurezza» (Greimas 1987: 89 e 74-5). Questo regime è ciò cui tende la ricerca dei !Mediengruppe Bitnik: «Randomness implies a loss of control. Loss of control is something we intentionally seek in our works: we create situations and let them play out». In RDS, infatti, «loss of control is part of the concept by delegating the buying decision to a software bot» (2015: 41).
RDS, “soggettivando l’alea”,incarnandola come attore e riproponendone le dinamiche costitutive, apre a una serie di paradossi. Innanzitutto «è solo nella sua manifestazione, realizzandosi[,] che il caso si auto-istituisce, in atto [...] in quanto legge di se stesso», andando così a coinvolgere la responsabilità indiretta dei suoi Destinanti solo ad azione compiuta (Landowski 2005: 80). Allo stesso modo, è solo tramite l’ostensione dei suoi acquisti che RDS si autocostituisce, retroattivamente, come un tipo particolare di soggetto. O – meglio – ha avuto modo di autocostituirsi.
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2. Il caso
Tre sono state le editions di RDS: alla galleria non profit Kunst Halle di San Gallo in Svizzera nella mostra “The Darknet – From Memes to Onionland. An Exploration” (14/10/2014-15/01/2015), alla Horatio Junior Gallery di Londra (11/12/2015-05/02/2016) e, infine, all’Aksioma Institute for Contemporary Art di Lubiana (24/02/2016-25/03/2016).
Ripercorrendo la prima edition attraverso l’ironico commento di Jon Lackman (2016), scopriamo che a san Gallo, «città svizzera dalle forti radici religiose» (ivi: 3), RDS si è collegato all’Agora shop, il più grande negozio illegale al mondo, dove ha acquistato ed esibito, nell’ordine: una chiave universale dei vigili del fuoco, 40$ di stecche di Chesterfield Blue provenienti dalla Romania, una borsa falsa di Louis Vuitton, la trilogia completa de Il Signore degli Anelli in ebook, altre 200 sigarette, una carta di credito VISA dorata, 120 mg di ecstasy in pillole dalla Germania prese a soli 48$, delle sneakers (false) della Nike firmate da Kanye West comprate a 75$ (le originali andavano sui 245$), un cappello da baseball con telecamera nascosta, una lettera di richiamo, un contenitore per farmaci a forma di lattina di Sprite, dei jeans, e infine la scannerizzazione di un passaporto.
La pietra dello scandalo è stata certo la partita di droga. I !Mediengruppe Bitnik constatano con sorpresa, sul loro sito, come «The parcel was sent from Germany and crossed the border and customs to Switzerland without any problems», problemi giunti solo il 12 gennaio 2015, a mostra appena conclusa, quando la polizia svizzera sequestra il bot e tutta la merce esposta.
Soltanto il 15 aprile, dopo aver testato che le pillole contengono MDMA (90 mg, non i 120 promessi), la polizia le distruggerà – così ha dichiarato –, restituendo invece tutto il resto. I !Mediengruppe Bitnik hanno così esultato sul loro sito:
At the same time we also received the order for withdrawal of prosecution. [In it] the public prosecutor states that the possession of Ecstasy was indeed a reasonable means for the purpose of sparking public debate about questions related to the exhibition. The public prosecution also asserts that the overweighing interest in the questions raised by the art work [RDS] justify the exhibition of the drugs as artefacts, even if the exhibition does hold a small risk of endangerment of third parties through the drugs exhibited. We as well as the [RDS] have been cleared of all charges. This is a great day for the bot, for us and for freedom of art!
Sebbene ci sia stato un acquisto di droga, questo non è stato voluto. Sebbene ci sia stata detenzione di droga, ciò è avvenuto a fini artistici: RDS ha creato dunque un vuoto giuridico dove, generando un illecito come evento, non è stato possibile attribuirgli un autore come responsabile. Solo la cornice artistica ha potuto rendere impunibile l’ostensione di questo gesto. In questa sede ci soffermeremo analiticamente solo sulla prima mostra. Della seconda, i curiosi sappiano che RDS, connesso questa volta ad Alpha Bay, ha acquistato: una t-shirt Lacoste falsa, due devices per l’estrazione di Bitcoin comprati con 25$, una copia elettronica di un libro di cucina francese in inglese del 1961, un cellulare con distorsore vocale, 1.825.380 indirizzi email a 100$, la scannerizzazione di una bolletta del gas inglese, concludendo con un PDF su come Hacking a Coca Cola machine.
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3. La ricezione
La notizia è salita subito agli onori della cronaca, dove si è scherzato sul fatto che il computer abbia una personalità umana e sia soggetto giuridico di diritti e doveri. Su TheGuardian Kasperkevicbalbetta che la polizia svizzera abbia «arrested – er, confiscated» un computer (2015); Kharpal le fa eco su CBSN (2015). Per Grey del Daily Mail RDS è addirittura un «cyber criminal!» che è stato «ARRESTED» (2015), mentre Grant dell’Indipendent sente l’imbarazzo di dover spiegare come «the consumer behind these purchases is not actually a human, though – it is an internet “bot”» (2015). RDS sembra quindi essere un soggetto pieno. Come «example of a nearly autonomous thing that bought things», esso desidera, acquista e commette crimini come tutti noi: questa è la novità su cui apre in modo clamoroso (Noto La Diega & Walden 2016: 4 nota 15).
Tant’è che a RDS si attribuisce un nome proprio, se non addirittura un genere. Come ha infatti raccontato Smoljo degli stessi !Mediengruppe Bitnik, «People also call him Randy. Normally, we try to give it a female name but this is what came out in this case» (https://exposingtheinvisible.org). Lackman invece, cercando inutilmente di non risultare sessista, attribuisce al bot il genere maschile: «For me [RDS] is not an /it /but a /he/.//Why not a /she/? I'm not sure. Only a sexist would assume an obsessive shopper is a she, right? Plus: men quail in stores, they choose stuff at random just to be done» (2016: 3). Ciò che vorremmo in ogni caso evidenziare è come la questione del soggetto giuridico comporti quella del genere e il binarismo sottesi, altrimenti non pertinenti.
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4. L’anomia
Galati ha commentato l’episodio delle pasticche evidenziando come, al di là «del risvolto potenzialmente ironico, [RDS] genera evidentemente delle domande che segnalano dei buchi giuridici sulla responsabilità degli algoritmi» (2018). La questione etico-morale è stata da subito sollevata, a partire da Power (2014), fonte di tutta la bibliografia successiva su questo «provocative example of such a shopping bot» (Gal & Elkin-Koren 2017: 315).
Una risposta viene tentata da Alves de Lima Salge e Berente (2017). Rifacendosi al kantismo di Rawls, per valutare il valore morale di un algoritmo come RDS, essi propongono un algoritmo di livello logico superiore, ovvero un meta-algoritmo. È già chiaro il pericolo della regressione all’infinito (critica avanzata da subito da Shaw 2018). Rischio, quello della regressio, contro il quale la giuscibernetica, fin dalle sue prime teorizzazioni, ha sempre invocato la necessità di un limite (Losano 1969: 169 ss).
Alves de Lima Salge e Berente, in ogni caso, si chiedono: sebbene sia stata violata una legge di Stato (il bot ha acquistato della droga vietata sul mercato regolare e un passaporto falso), si può ritenere il suo comportamento «unethical»? Per questo motivo, gli autori ritengono necessario un giudizio sulla sua attività. Il meta-algoritmo che propongono si articola di tre domande: (1) l’azione del social bot ha infranto la legge?, (2) la sua azione è ingiustificabile? (3) è coinvolto qualche inganno? Un bot, ma più in generale qualsiasi soggetto morale, non si comporta eticamente se la sua azione risponde affermativamente in progressione alle tre domande. La conclusione e il fine cui vogliono tendere gli autori – vero e proprio imperativo categorico – è che i «Social bots should always act truthfully» (ivi: 30).
Poiché il fine era artistico e l’ecstasy «in this presentation was safe», come indicato dalla polizia, gli autori dell’articolo possono ritenere il comportamento del bot «not unethical» poiché giustificabile con la moralità diffusa della comunità. Qui, però, l’impasse: per i due studiosi, che si rifanno all’Etica Nicomachea (III, 1111a), un soggetto-bot etico emerge come tale se e solo se la sua azione è allo stesso tempo saputa e voluta. Come già evidenziato, RDS si comporta come l’alea, alla quale è assolutamente finzionale attribuire una qualunque consapevolezza della propria volontà. Il bot sembra quindi muoversi a latere del meta-algoritmo, nello spazio di un vuoto giuridico.
Sorge inoltre un ennesimo problema, sollevato da Turner, per il quale RDS sarebbe un “Case Study” sulla domanda: «Could a Robot Commit a Crime?» (2019: §4.5). Per il principio del habeas corpus, anche se si individuasse la volontà del bot, questa resterebbe un carattere di una mera ψυχή (RDS è un software), cui non sarebbe relato alcun corpo punibile di reato. È il motivo di clamore del Washington Times (2015) per il quale è sorprendente che sia stato arrestato un «moving conglomeration of bits and bolts, conceived and fashioned by flesh and blood men».
Non resta dunque che dare la colpa agli sviluppatori: «Therefore, culpability rests on the knowledge of the developers» (ivi: 31), ovvero i Destinanti. Ma, anche in questo caso, si tratta di una soluzione particolare, che solo a volte può essere attuata. Si attribuisce la sostanza di soggetto al firmatario, in quanto primo riferimento fisso della catena di enunciazioni che si è venuta a creare. Ma in questo caso non si tratta di una colpa, al massimo un dolo. Si mostra così un conflitto tra due regimi discorsivi, quello del Diritto che cerca un elemento primo cui ricondurre la catena di enunciazioni (Latour 1998: 92 ss), come ad esempio un firmatario che emerge retroattivamente dalla sua firma (Derrida 1997: 393-424), e il regime discorsivo della tecnica che si articola in débrayages attanziali dove ogni attore così proiettato vive di una sua autonomia (Latour 1998: 82). Allo stesso tempo, però sono proprio i diritti d’autore, correlati della responsabilità autoriale (Franceschelli 2019), a permettere al duo svizzero di rivendicare per sé la genesi dell’opera. In breve, la funzione-autore è un «oggetto di appropriazione» la cui forma è storicamente seconda, in rapporto a ciò che di potrebbe chiamare l’appropriazione penale. I testi , i libri, i discorsi hanno cominciato ad avere realmente degli autori […] nella misura in cui l'autore poteva essere punito, vale a dire nella misura in cui i discorsi potevano essere trasgressivi. Il discorso, nella nostra cultura (e in altre probabilmente) non era, all’origine, un prodotto, una cosa, un bene; era essenzialmente un atto – un atto posto nel campo bipolare del sacro e del profano, del lecito e dell’illecito, del religioso e del blasfemo (Foucault 1971: 9).
Abbandonando così l’ipotesi d’“accusare delle cose di un crimine”, la colpa è dei programmatori, in quanto si prendono la responsabilità delle azioni del loro bot che hanno previsto. Si darebbe colpa a un bot se e solo se si potesse dimostrare che questo abbia deviato volutamente dal proprio programma, ovvero dal volere dei propri destinanti: «In such absence of deviation, it is easier to prove human involvement in the AIS’ illegal conduct. In other words, the programmer of [RDS] may also be held liable because it creates an AI to shop in the illegal market» (Andrini 2018: 79). Per lo stesso motivo, «si tratta di un reato punibile a titolo di dolo» poiché il «bot non è stato progettato o impiegato con l’intenzione di commettere il reato, ma il programmatore e/o l’utente hanno irragionevolmente accettato una serie di rischi che hanno portato al verificarsi della condotta criminosa», motivo per il quale «l’utilizzatore e/o il programmatore saranno ritenuti penalmente responsabili per il reato commesso dal bot» (Lagioia 2016: 126 e 129).
Ribadiamo: che siano colpevoli, gli artisti ne sono ben consci: «We are the legal owner of the drugs – we are responsible for everything the bot does, as we executed the code», ammette Smoljo. «But our lawyer and the Swiss constitution – continua – says art in the public interest is allowed to be free» (Power 2014).
È proprio il mondo dell’arte (Danto 1964) che infine si instaura come terzo discorso che permette di neutralizzare qualsiasi tipo di colpa da parte di RDS o dei suoi autori. I !Mediengruppe Bitnik infatti rivendicano di appartenervi.
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Conclusione
Perniola (2015) aveva individuato nell’arte più recente una certa svolta fringe, secondo la quale «Nulla è di per se stesso arte» ma «lo diventa attraverso molti fattori» in un processo detto di «artistizzazione». Evidenziamo come RDS si muova nella direzione opposta, poiché esso è da sempre costituito come opera d’arte. È il vuoto giuridico che crea a far scoppiare un conflitto discorsivo tra il mondo dell’arte e quello legale. RDS non è un’opera fringe verso altri domini: sono gli altri domini ad implodere su di esso.
Coglie bene l’essenza di RDS Volkart Schmidt nell’inserire il progetto nella cosiddetta Ästhetik der Störung, «disturbo» dato nello specifico dalla «Kollision der Systeme». Abbiamo visto come questo progetto artistico utilizzi il proprio dominio per generare cortocircuiti in quelli altrui, innanzitutto giuridico e, conseguentemente, sociale. Ciò è stato possibile grazie alle possibilità offerte dalla rete, non intesa qui ingenuamente solo come «spazio libero dal diritto», a richiamare «vagamente le origini euforiche di Internet» (2015: 4). Come spiega Boris, «Aquella emancipación del ciberespacio [...] nos parece hoy un poco ridícula». La rete non è più – o, meglio, non è mai stata – quel grande spazio orizzontale di chissà quale regno dei cieli sulla terra. Si necessita dunque di «entender el horizonte digital como un campo fundamental de esta hipergeografía que estamos habitando», per stabilire così «Términos y Condiciones de una ontología digital libertaria» (2017).
In conclusione RDS si presenta come emblematico «example of hacktivist guerrilla communication» (Delmas 2018: 75), la cui sola ragione d’esistenza, «l'esecuzione dell’atto di semplice consumo» (Volkart Schmidt 2015: 4), è una «reflection on the shadowy parts of the Internet without calling for any specific legal change, or articulating any specific political claim» (Delmas 2018: 75). RDS non vuole portare al cambiamento in nessuna legge corrente, ma sollevare una riflessione sui limiti delle legislatura stessa. Considerando che «c’è arte solo se e quando (resiste)» (Carmagnola 2019: 156), RDS è arte proprio nella sua rivendicazione.
Derrida (1996: 14 nota 1) era convinto che «la democratizzazione effettiva si misura sempre con questo criterio essenziale: la partecipazione e l’accesso all’archivio, alla sua costituzione e alla interpretazione». Se ormai la rete è la sostanza esterna del nostro inconscio tecnologico, grande produzione archiviale costantemente riattualizzata (Galati 2017: §3), RDS ne è macchina da guerrilla semiotica (Eco 1967) che, a partire dal territorio specifico dell’arte, può portare a rimetterne in discussione confini e geografia.
di Francesco Di Maio
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Bibliografia
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Il corpo umano ha una storia, oltre che una natura, una storia che risponde all’insieme, mutevole e indefinito, delle sue protesi e dunque delle sue potenze. Ecco perché definire le potenze del corpo umano ha sempre rappresentato un’impresa pressoché disperata. Nel momento in cui si comincia a enumerarle, non sono già più le stesse. Per questo il sapere tragico greco preferiva caratterizzare il nostro modo d’esistenza ricorrendo al titolo, a un tempo onorifico e problematico, di «il più inquietante» (todeinoteron: SophAnt. vv. 333; Sofocle 1982, 83): il corpo umano può sempre di più di quello che sembra, si proietta sempre in un processo di ampliamento «postorganico» (Macrì 2006) delle sue potenze che ne incrementa il novero almeno quanto ne altera sistematicamente il tipo. È sempre insomma un corpo intrinsecamente allargato e allargabile. La tecnica, in effetti, funziona innanzitutto come uno ‘sviluppatore’ (in estensione e in intensione) delle possibilità relative alle interazioni che il corpo può intrattenere con l’ambiente esterno e con gli altri corpi che lo abitano. Le determina nella stessa misura in cui le modifica in (quasi) tutta la loro profondità.
Ora, questa storia, la cui vicenda si sovrappone in larga parte alla storia delle sue riuscite evolutive, è anche la storia di come abbiamo imparato, per così dire, a non preoccuparci e ad amare il nostro destino di animali incompleti. Sappiamo infatti che, nonostante le innumerevoli difficoltà a cui andiamo sistematicamente incontro, esiste la possibilità ventura di risolverle, facendo leva su quella naturale propensione all’alterazione tecnica, e cioè all’artificializzazione al contempo del nostro corpo e dell’ambiente circostante, che contraddistingue dasempre l’operato, individuale o collettivo, della specie a cui apparteniamo. È in questo quadro che si inserisce allora il portato di quanto attualmente si definisce “medicina digitale” e le cui implicazioni sono ancora soltanto sul punto di manifestarsi in tutta la loro sconvolgente ampiezza. Oggi, infatti, al tempo della medicina digitale, il corpo parla sempre di più direttamente dei suoi stati, descrive con precisione inaudita la vicenda una volta segreta dei suoi umori, si squaderna sul fuori di un’automazione sempre più capillare e pervasiva, rivelandosi così allo sguardo indagatore del mondo e rendendosi disponibile per i nuovi attori (e, soprattutto, per i nuovi attanti automatizzati) di questo mondo. Sembrerebbe quasi che non ci sia quasi più nulla di inquietante, più nulla di ignoto o di impregiudicabile, in esso; che l’ignoranza del corpo in cui veniamo da sempre al mondo sia insomma, finalmente, un ricordo ormai lontano.
L’introduzione di metodi, pratiche e dispositivi clinici che fanno appello a una qualche forma di supporto digitale è perciò il segno di una rivoluzione epistemologica e performativa senza precedenti. Una rivoluzione che si delinea innanzitutto sul piano di quanto potremmo battezzare il nuovo regime di immediazione – ovvero, di paradossale convergenza di mediazione e immediatezza – che qualifica l’esperienza ricalcolata dalla sua massiva conversione digitale. Se c’è infatti un tratto definitorio dell’infosfera digitale esso risiede nell’implementazione sistematica e capillare di tecnologie di «terzo ordine» (Floridi 2017, 28 sgg.), ovvero di tecnologie che non mediano più semplicemente tra l’umano e la natura, o tra l’umano e altre tecnologie, ma tra tecnologie e tecnologie, in una catena di passaggi indefinitamente estensibile. Questa situazione incide infatti in maniera straordinaria sulla percezione che abbiamo del nostro rapporto con il reale e soprattutto con la nostra corporeità. Il corpo coinvolto nella digitalizzazione appare sempre di più come un corpo tanto cognitivamente trasparente quanto pragmaticamente indisponibile, perché sequestrato dalla sua stessa capacità di estendersi oltre il proprio perimetro organico. Il corpo che si guarda attraverso le interfacce di un apparato tecnologico in cui non c’è limite, in via di principio, al numero di immediazioni possibili mediante le quali supplementarlo, appare insomma come un prodotto che si sottrae al controllo individuale, presentandosi piuttosto come il dato di fatto insindacabile di un operare che nessuno ha deciso in piena scienza e coscienza.
Partiamo quindi da un esempio, senz’altro tra i più impressionanti. Esistono già farmaci «con integrato un sensore assimilabile dal corpo umano che, dopo l’ingestione, viene attivato nello stomaco al contatto con i succhi gastrici» (Collecchia, De Gobbi 2020, 148). «L’attivazione determina il rilascio di un segnale elettrico che, trasmesso a un apposito cerotto applicato sul corpo del paziente, viene trasmesso via bluetooth alla app del suo smartphone, che segnala al medico o al caregiver l’effettiva assunzione del farmaco» (Collecchia, De Gobbi 2020, 148). Il medico, o chi per lui, non è più costretto allora a chiedere conto al paziente della sua condotta, per verificare se sia compliante o se invece resista alla somministrazione della cura: ci pensa l’azione combinata della chimica farmaceutica e delle intelligenze artificiali associate. Il corpo comunica automaticamente con dispositivi che ‘parlano’ a loro volta con l’operatore sanitario di turno. L’interno del corpo ‘discetta’ insomma dei suoi stati, acquisendo così una trasparenza senza precedenti, a detrimento della stessa capacità del diretto interessato di riferire, o meno, sul loro corso, come del destinatario di interrogare in maniera direzionata e non casuale quel corpo. Mai come oggi la domanda sulle potenze del corpo sembra dunque sul punto di poter ricevere una risposta risolutiva. Il monito deleuziano-spinoziano «noi non sappiamo che cosa può un corpo» (Deleuze 1999, 169) non sembra avere appunto più la cogenza di un tempo. È la stessa postura metafisica dell’essere umano a conoscere in tal modo un fondamentale punto di non ritorno: una volta preso atto del nuovo sapere in merito alle potenze del nostro involucro terreno, non c’è più speranza di tornare all’innocenza edenica di chi ignora il proprio stesso ignorare, al non-sapere di non-sapere che qualifica inizialmente la condizione vitale. Si badi, infatti, quel che davvero costituisce una novità, in questo scenario, è non soltanto l’immediatezza, almeno apparente, della comunicazione con cui i dati organici diventano disponibili, cosa non certo inedita (l’uso di uno stetoscopio su di sé lo rendeva già possibile, banalmente), ma l’impossibilità di intervenire in modo volontario e puntuale, insomma: individuale, sulla loro acquisizione e sulla loro modulazione. La suddetta immediazione non implica altro che questo: siamo in presa diretta su noi stessi, abbiamo piena aderenza sulle variabili fisiologiche dalle quali dipende il buon funzionamento del nostro corpo e persino, in taluni casi, la sua stessa sopravvivenza, ma siamo completamente estromessi dal controllo su come questo avvenga.
Una prima considerazione di senso comune conduce però a sostenere che un corpo non è mai un sistema in cui il sapere e il potere possano andare completamente di pari passo. C’è come uno scarto costitutivo tra il sapere qualcosa e il poterlo essere, uno scarto per il quale vale il motto lacaniano «penso dove non sono, dunque sono dove non penso» (Lacan 2002, 512), ammettendo che ogni sapere risposi necessariamente su un pensiero di qualche tipo. In fin dei conti, la nota definizione della salute quale «vita nel silenzio degli organi»[1] esprime esattamente questo fatto primordiale. Il corpo sano è un corpo che non si sente (che non si sa o che non si pensa), al cui uso non corrisponde necessariamente e anzi necessariamente non corrisponde un sapere riguardo quest’uso: la cui presenza a sé, in altri termini, coincide con una paradossale assenza da sé. In materia di corporeità, l’opacità cognitiva fa tutt’uno insomma con la disponibilità pragmatica: il non-sapere che cosa può un corpo è parte integrante dell’essere un corpo sano, performante ed efficiente. Un corpo non potrebbe sapere allora di essere sano, continuando indisturbatamente a esserlo. Tra l’essere in salute e il sapersi in salute vi sarebbe come una discrasia archetipale, la cui forma potrebbe benissimo essere identificata con una sorta di basilare e impregiudicata incoscienza. Un certo grado di incoscienza risulterebbe indispensabile alla salute e direttamente proporzionale, in ultima istanza, al suo pieno dispiegamento. Questa, d’altronde, è una buona definizione di quella condizione di ‘ingenuità biologica’ in cui consiste la salute pre-patologica, ancora non incrinata dall’avvento della malattia. Il vivente come tale sarebbe incosciente di sé (del proprio corpo in azione) e per questo risulterebbe sano.
In tal senso, l’arte medica – e assumiamo qui che la medicina sia soprattutto «una tecnica o un’arte situata su un crocevia tra diverse scienze, piuttosto che una scienza in senso proprio» (Canguilhem 1998, 9-10) – si è configurata storicamente come una pratica di restaurazione dell’ignoranza perduta circa la propria corporeità. In altre parole, la medicina si è presentata per lo più come un insieme di procedimenti atti a far sì che dalla condizione dell’avere un corpo (dell’averlo come oggetto di un sapere), ingenerata dalla malattia, si potesse tornare semplicemente ad esserlo, come avviene tipicamente quando si è in salute (in cui si è il proprio corpo, e basta). La differenza tra stato fisiologico e stato patologico, sul piano del vissuto più immediato (sul piano in senso lato fenomenologico), risiede infatti in questa minima ma fondamentale discrepanza tra due relazioni verbali eterogenee con la propria corporeità: il corpo oggettivato, e quindi posseduto, è sempre l’esito di una qualche forma di distanza patologica, mentre il corpo vissuto, come una realtà immediatamente presente a se stessa, è il segno inequivocabile della salute. In altre parole, la medicina ha funzionato prevalentemente come l’arte che induce una restituzione alla propria genuina ignoranza, separandoci così da quel sapere (ciò che si è) in cui ci insedia invariabilmente la malattia. La medicina è un vettore di non-sapere, innanzitutto.
Tuttavia, la salute non si identifica sic et simpliciter con la normalità. Come è stato fatto notare magistralmente dal medico e filosofo Georges Canguilhem, la salute eccede la normalità, in forza di una differenza di natura che implica necessariamente un qualche rapporto con il non-sapere sul proprio corpo (con il suo possedere potenze ancora ignote). L’organismo sano non si limita infatti a essere normale. Piuttosto, è in grado di istituire nuove norme in relazioni alle «infedeltà dell’ambiente» (Canguilhem 1998, 162), ovvero, in termini meno antropomorfici, in relazione alle sue fluttuazioni (cfr. Canguilhem 1998, 162). In tal senso, essere sani non equivale a incarnare un qualche modello nomologico precostituito, ma a innovare il proprio comportamento psicofisiologico in funzione dei cambiamenti, anche drammatici, imposti dal mondo circostante. Un organismo sano è capace insomma di darsi la regola da solo, di essere, in una parola, auto-nomo. L’autonomia, d’altro canto, è la prova provata che per un essere vivente non basta adattarsi all’ambiente, interno o esterno, ma occorre anche saper adattare quell’adattamento specifico alle proprie esigenze individuali, per fare sì che tra norma data e norma preferibile (cfr. Cesaroni 2020, 136) vi sia una qualche coincidenza possibile. E questo è un compito sempre da ricominciare, se si considera che nulla nell’organismo è dato una volta per tutte, che “essere in salute”, in altre parole, vuol dire realizzare una sorta di convergenza tra stabilità e modificazione (cfr. Canguilhem 2007, 58). La medicina digitale, da questo punto di vista, non fa quindi che scoperchiare una situazione preesistente, la cui consapevolizzazione diventa ogni giorno più improrogabile e che reimmette brutalmente l’umanità nella continuità con il resto del mondo vivente. Non c’è mai stata un’innocenza biologica virginale per l’animale che supplementa il proprio agire protesicamente, come non c’è per un qualsiasi animale incapace di accedere alla possibilità di prolungare tecnicamente la propria corporeità (e di sapere quindi che non era normale). L’animale umano è sempre in cammino verso la propria digitalizzazione, non foss’altro perché la malattia, separandolo dal suo essere un corpo, e conferendogli quindi un sapere in merito da implementare in quella pratica che si chiama “medicina”, lo separa altresì dalla propria normalità, incitandolo a cercare una salute «più che normale» (Canguilhgem 1976, 235): normativa. Il digitale rivela[2] perciò una proto-digitalizzazione inclusa nella stessa natura normativa della salute, ovvero nel suo instaurarsi sempre sul limite di una frattura incoativa (cfr. Canguilhem 1998, 249), nel suo funzionare come un modo autonomo di avere il proprio corpo. Cosa altro può voler dire, d’altronde, che il senso proprio dell’essere sani contempla «l’abuso della salute» (Canguilhem 1998, 162), come sostiene sempre Canguilhem? Il digitale deve aver già fatto irruzione nel nostro sentire e nel nostro essere, rispetto al quale spetta sempre a noi di provare di nuovo a de-coincidere, come si potrebbe pure qualificare l’essere normativi, ossia la capacità di cambiare a proprio modo la normalità specie-specifica illustrata dal sapere bio-medico. È per questo motivo che il sapere di non-sapere svolge un ruolo capitale nella salute: senza di esso non c’è lo spazio, letteralmente, per fare qualcosa di quel che solamente si è. Al di là infatti dell’azione della vis medicatrix naturae, il cui portato risponde alla logica del puro non-sapere-come che informa in generale il vivere, la guarigione è sempre un processo dialettico, in cui non si ha mai una totale restitutio ad integrumdella situazione pregressa, quanto piuttosto l’acquisizione di una nuova norma di vita, talvolta persino superiore alla precedente, fondata necessariamente sulla consapevolezza della rottura biologica intercorsa nel frattempo.
Non è un caso allora che la relazione medico-paziente si sia strutturata in forma duale e che da questa dualità dipenda anche in larga parte la sua portata terapeutica: il sapere concernente la propria corporeità deve essere esternalizzato a sua volta presso un altro corpo (vivente e parlante), in cui, in breve, si possa essere a distanza da sé senza saperlo, riguadagnando quell’ignoranza senza cui la salute diventa letteralmente impossibile. Si può sperare di superare la distanza prodotta della malattia soltanto mediante la produzione di una distanza ulteriore, allineata e sovrapposta alla prima, che permetta così all’organismo di riconquistare la sua incoscienza rispetto a se stesso (fatto particolarmente evidente, d’altro canto, nella relazione psicoterapeutica). Soltanto una distanza al quadrato ricongiunge con il senza distanza della salute. Persino il monito evangelico “medice, cura te ipsum” ha un senso dunque assai relativo. Anche un medico può (ri)conoscere la propria corporeità, di cui peraltro è stato edotto dai suoi studi, soltanto nello sguardo dell’altro medico e può intervenire adeguatamente, al fine di ristabilire la propria salute, solo diventando altro da sé, reintroducendo così nel rapporto col proprio corpo la dualità che caratterizza per il resto, e in via di principio, la relazione medico-paziente. Che cosa succede, nondimeno, quando questa dualità supplementare e salvifica tende a decadere, in favore di una relazione immediata tra la tecnica e il corpo, e quindi tra tecnologie e tecnologie, come avviene esemplarmente nella medicina cosiddetta “digitale”? Che cosa non può (non può più o non può ancora) questo corpo, una volta che è stato dapprima separato dalla propria ignoranza e rimesso poi nella condizione di aderire sempre più compiutamente a se stesso, nello specchio dei suoi dati? L’analisi dell’intervallo tra questi due tempi – quello del distacco e quello della ricongiunzione digitale con la propria corporeità – è dunque essenziale per capire cosa stiamo diventando e, soprattutto, per capire come esserne all’altezza.
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Una normalità senza salute
L’ambito della medicina digitale si ritaglia all’incrocio di un vasto insieme di tecnologie – legate, essenzialmente, alla fase più recente di sviluppo delle intelligenze artificiali (dunque, dell’infosfera) – e prende la forma di sistemi di supporto decisionale (basati sul machine learning), di un monitoraggio continuo, remoto o meno, di variabili fisiologiche (per esempio attraverso l’utilizzo di wereable devices e/o di app specifiche) o, infine, mediante pratiche di telemedicina (che permettono di fare a meno, almeno in teoria, delle limitazioni e delle incertezze in cui incorre la relazione fisica medico-paziente). Quello che succede davvero, allora, è che la medicina comincia a poter fare a meno dei medici, dopo aver imparato a fare a meno, nel corso del secondo Novecento, del vissuto del paziente. Alla medicina ‘senza malati’ della tarda modernità (quella fondata sulle tecnologie diagnostiche di imaging e sull’uso sempre più diffuso di protocolli) si sta sostituendo infatti una medicina senza medici, il cui effetto può essere tanto un nuovo centramento sul malato e sul suo vissuto, improntato a una «democratizzazione della medicina e [a una] personalizzazione delle cure» (Moretti 2020, 84), quanto una sua definitiva esautorazione. Su questo crinale si apre insomma un campo di battaglia, definibile in termini di medicina postorganica. L’ambito del vissuto soggettivo, che si esprime anche fattivamente in una negoziazione possibile tra le richieste del medico e le esigenze di vita del paziente, è infatti l’occasione in cui prende piede e si articola la stessa normatività del corpo vivente e sofferente, nella forma di un adattamento individuale della cura che può comprendere anche, al limite, il suo rifiuto informato (o perlomeno un suo accomodamento imprevisto). Un ambito che oggi è in questione, proprio perché attaccato, per così dire, su entrambi i suoi due fronti.
Il superamento della dualità medico-paziente in favore di una immediazione della medicina che rende virtualmente possibile una medicina senza operatori consapevoli è dunque sì un punto di non ritorno, come abbiamo detto, ma, allo stesso tempo, lo è soprattutto perché illumina, ancora retrospettivamente, una situazione per nulla nuova. Quando il corpo vivente, ossia un corpo capace di ammalarsi, diventa il prodotto di risulta di una panoplia di pratiche e dispositivi sempre più pervasivi, succede insomma qualcosa di veramente rivelatore: la medicina, da tecnica di restaurazione dell’essere, diventa principalmente una tecnica di produzione dell’avere, scardinando così l’illusione che ci faceva credere di essere dei corpi esclusivamente organici, costretti ancora una volta a cercare fallimentarmente la salute in un’ignoranza vitale originaria (in un non-sapere di non-sapere come tale inattingibile). La digitalizzazione della medicina ci rivela insomma che il nostro corpo è un problema e non una soluzione data da sempre, in attesa soltanto di essere riattivata, un problema che si identifica con il modo umano di essere un vivente. La stessa possibilità di trasferire su supporti digitali le informazioni relative ai nostri processi corporei deriva d’altronde anch’essa dalla sottostante normatività che contraddistingue l’operare tecnico della specie umana: anche la medicina, con tutte le sue tecniche più o meno sofisticate, è insomma un metodo intersoggettivo per cercare la salute o un’espressione collettiva della nostra capacità di adattarci a nostra volta l’adattamento impostoci dall’ambiente (interno ed esterno). E tuttavia, nell’atto di rendere visibile questa situazione, la medicina digitale la rende altresì individualmente inagibile.
Negli ultimi tempi, insomma, la nascita e la diffusione della Digital Health ha inaugurato appunto un nuovo frangente di complicazione nella percezione e nell’attuazione della nostra corporeità, che rende indiscernibili componenti sociali e componenti organiche, componenti tecniche e componenti biologiche, in una maniera che si fatica a non bollare come definitiva (per quanto sia tutt’altro che irenica). Il paziente è messo infatti in contatto direttamente con un sapere medico sempre più anonimizzato, ridotto a un insieme di procedure codificate socialmente come procedure valide, ma che non si fondano in ultimo sul confronto sistematico né con il suo vissuto, né con il procedere incerto e indiziario del singolo medico. La medicina digitale, con il suo incessante self-tracking, grazie all’idea di una quantificazione completa e sistematica del vivente umano, sembra autorizzare insomma una sempre più pervasiva disseminazione di quell’unità super partes (emergente) che è un organismo, in favore di un’epistemologia centrata sull’assenza di qualsivoglia referente altrimenti che (già sempre) datificato. In breve, sull’assenza di un qualsiasi supporto non digitale del digitale stesso, secondo una logica che annulla le premesse del suo stesso funzionamento. Il digitale è infatti possibile sempre in forza di una discontinuità strutturale con il suo altro: l’analogico, il complesso, l’emergente: l’organico, appunto. La tecnologia di terzo ordine è un effetto immanente, e quindi non-indipendente, dalle tecnologie di secondo e soprattutto di primo ordine. È perché abbiamo il bisogno di mediare tra noi e la natura, anche interna, che ci siamo attrezzati di strumenti che ‘parlano’ direttamente tra di loro, non il contrario. Il processo che porta il corpo a essere relegato in se stesso dalla propria tecnologia nega in altre parole la stessa incompletezza problematica che lo rende possibile.
È insomma lontano ormai il tempo in cui si poteva dire, con Canguilhem, che la regola di esistenza (l’ideale) di un organismo è data dalla sua stessa esistenza, a differenza dell’organizzazione sociale, che non possiede alcuna finalità intrinseca, interna o immanente. Oggigiorno, ormai, il fine della medicina non è più «la restaurazione dell’organismo nel suo stato di organismo sano» (Canguilhem 2007, 56) e quindi come organismo ignorante della propria condizione di salute. La medicina contemporanea mira a instaurare un corpo che si sa in permanenza normale, senza al limite poter essere sano, e che si ausculta incessantemente attraverso la mediazione del novero crescente di dispositivi che lo circondano, senza con ciò potere più non-sapere che cosa è e quindi senza potere più di quel che è. Non potere (più) il proprio non-sapere circa la propria corporeità è insomma una condizione che si situa al di qua della stessa distinzione tra salute e malattia e instaura piuttosto una condizione di insana normalità, nella quale tra uno stato attualmente patologico e uno solo potenzialmente tale non c’è più una alcuna differenza di natura: il corpo che si è si allontana ormai in una inappellabile coincidenza con se stesso. La figura del «malato asintomatico»[3], divenuta arcinota dopo l’esplosione della Pandemia di Coronavirus del 2020, è in questo senso doppiamente significativa: rivela l’essenza della medicina attuale e del suo andare in direzione di un’esautorazione dei professionisti della medicina (in favore, in sostanza, di quelli dell’intelligenza artificiale): porta alla luce una situazione nella quale il trattamento medico precipita verso la creazione di una crisi permanente analoga a quella che caratterizza l’organizzazione sociale (nella sua differenza da quella organica). Insomma, la medicina digitale produce una situazione nella quale la norma dell’organismo non è più immanente, ma nemmeno in senso stretto trascendente: essa diventa piuttosto in via di principio intrascendibile, risultato dell’iniziativa di attori sociali che non hanno più come interesse primitivo la sua salute, ma, in tutta evidenza, altro: la conformità comportamentale di quelli che sono ormai da capo a piedi dei semplici consumatori[4]. Questo significa che non si ha più un corpo (come nella malattia), né tantomeno lo si è più a pieno titolo (come nella salute pre-patologica): è il corpo stesso, con il suo mutare imprevedibile, che sparisce come tale, o diventa una corporeità interamente indisponibile, se è vero che la cifra dell’organismo malato è di non coincidere più senza scarti con il proprio ideale e di avere dunque da reinventare la propria coincidenza di secondo livello con la sua corporeità. Una corporeità che si estende al contesto tecnico che la supplementa in permanenza e in cui si coglie non tanto il riflesso del proprio non-sapere, ma la necessità di non-essere altro da quel che si è attualmente, è insomma una corporeità che si limita a essere normale, e basta. Ma, facile rendersene conto, una normalità sempre normale non è normale, e anzi coincide con una dimensione patologica ormai interamente situata sotto la soglia del riconoscimento fenomenologico, al di qua della sua cogenza vissuta; coincide con il massimo possibile della deinotes, nella misura in cui l’umano è estraniato anche da ciò che gli è più vicino e che gli è restituito surrettiziamente come tale: il proprio corpo, presentato come un essere rispetto al quale non è più possibile alcuna de-coincidenza.
La salute è infatti sempre il predicato di un soggetto individuale – anche nel caso in cui l’individualità si predichi a più livelli (a livello cellulare, a livello tissutale, a livello dell’organo, ecc.). Non c’è una salute (una saggezza) dell’organizzazione sociale, se non per effetto di un’analogia tanto diffusa quanto discutibile. La stessa dualità in forza della quale la relazione medico-paziente è possibile e proficua – nella misura in cui in essa prende piede la differenza specifica tra salute e normalità, o tra normatività e normalità – non è più applicabile al corpo integralmente socializzato – al corpo postorganico – del paziente digitale, poiché esso non è più un corpo, ma una fascio di variabili misurabili in rapporto solamente con se stesse, di cui non si può più ignorare la presenza e in forza delle quali la trasparenza cognitiva della propria corporeità fa tutt’uno, appunto, con la sua indisponibilità pragmatica.
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Due modi di non essere malati
Nessuno si sogna di negare (non ancora, perlomeno) l’imprescindibilità del professionista della salute nella gestione delle malattie (nella formulazione della diagnosi, nella escogitazione e nella somministrazione della terapia, ecc.). Siamo ancora tutti pressoché convinti che l’incontro clinico sia un momento che, con la sua antica ritualità, riveste un ruolo fondamentale nell’esercizio della medicina. A discapito infatti delle critiche che la tarda modernità ha elaborato a indirizzo della corporazione medica e del suo operato espropriante (cfr. Illich 2004), la situazione in cui un medico incontra un paziente ha ancora una funzione indiscutibile nella pratica della cura e lo ha per un motivo ben preciso: che entrambi i poli di questa relazione si rapportano consapevolmente, al suo interno, con il proprio non-sapere. In essa accade infatti qualcosa di unico: il paziente scopre la ‘verità’ sulla propria malattia nella stessa misura in cui il medico scopre la ‘verità’ sul malato, nella sua irriducibile singolarità.
Si prenda nondimeno il caso del cosiddetto “pancreas artificiale ibrido”, diffusosi negli ultimi anni tra i malati di diabete di tipo 1. Si tratta di un dispositivo composito che collega un sensore di glucosio e un microinfusore di insulina, facendo sì che il loro funzionamento reciproco possa essere sorvegliato e modulato dall’utente solo in occasione di alcune situazioni specifiche (i pasti e l’attività fisica), mentre per il resto se ne occupa l’algoritmo, senza preoccuparsi di informare il paziente sul modo in cui lo fa. Il malato che se ne serve può infatti affidare una larga parte di quei processi di cui un tempo aveva bisogno di concertare passo passo con lo specialista, e di cui doveva farsi carico in proprio, al sistema automatico in questione. È insomma nella condizione di sapere come funziona il suo corpo (nello specifico, di conoscere i valori della sua glicemia) e, allo stesso tempo, non può più decidere a pieno titolo come modificarne il funzionamento (modulando la somministrazione di insulina in relazione alle fluttuazioni quotidiane della glicemia), poiché non sa nécome questa modificazione avviene effettivamente, né che non ha più modo di rendersi conto che non lo sa (ha infatti l’impressione precisa di avere tutto sotto controllo). Non solo quindi il suo ambiente esterno racchiude ora una serie di indicazioni circa il suo ambiente interno, che si ritrova in tal modo estroflesso e raffigurato, per così dire, fuori di sé, ma assume anche lo statuto di qualcosa di assolutamente immodificabile e imperscrutabile, al contempo. Egli saprà allora che sa qualcosa, in quanto non si limita più a ricevere le informazioni sulla propria malattia da un medico, rispetto al quale continuerebbe a essere in una posizione di domanda, ma non può più non agire il suo sapere, ormai completamente incorporato nel dispositivo di cui si serve e nel suo funzionamento automatizzato. Al contrario infatti di quel che si crede generalmente, l’effetto principale del digitale, in ogni campo al quale si estende, è di distruggere lo spazio elettivo dell’ignoranza consaputa (del sapere di non-sapere), ovvero le condizioni di scarsità epistemica indispensabili all’insorgenza e alla crescita del sapere, che dalla consapevolezza del non-sapere dipendono entrambi invariabilmente. Digitalizzare equivale insomma in molti casi, se non in tutti, a instillare negli utenti del digitale stesso una convinzione, inevitabilmente illusoria, di sapere (ovvero, un sapere di sapere) senza precedenti.
A differenza infatti di un sapere semplice, di un sapere questo o quello di determinato, un sapere di secondo livello – un sapere di non-sapere o un sapere di sapere – è sempre legato, e per certi versi perfettamente adeso, a una qualche forma d’agentività concreta. Se è vero infatti che, di contro al detto baconiano secondo il quale «la sapienza e la potenza umana coincidono» (Bacon 1992, 49), c’è sempre, nelle nostre condotte, un’eccedenza strutturale del potere rispetto al sapere – tale per cui possiamo sempre più di quel che sappiamo, e viceversa: sappiamo meno di quel che possiamo – è anche vero che, una volta riflesso in se stesso, il sapere finisce per coincidere con una forma esplicita di potere. La medicina digitale allestisce allora una specola di auto-riflessività corporea in cui l’innocenza perduta dell’animale duetta con le delizie, e le torture, di una nuova performatività, di cui diventa impellente chiarire la natura, non foss’altro perché da essa dipende la nostra stessa salute (e, latamente, anche il nostro sentirci dei corpi). Ecco allora che ci si rende conto subito di un fatto: che esistono in verità due modi, essenzialmente diversi, di non essere malati, entrambi implicati dalla necessità per il corpo di essere a distanza da se stesso – di potersi estrinsecare nello spazio vuoto, per così dire, di un iato aggiuntivo rispetto al proprio stesso essere – e che, inoltre, l’innocenza biologica, per l’animale umano, non è mai esistita da nessuna parte. Nello specifico, “sapere di non sapere” significherà, in un contesto digitalizzato, poter agire ciò che non si è e che pure non si conosce ancora, ovvero poter trascendere il dato che la medicina ci restituisce come la nostra sola verità, mentre “sapere di sapere” implicherà l’attuazione immediata di quel che si è, unicamente di quello, e di cui abbiamo continua attestazione nei dispositivi di cui ci siamo dotati. Nel secondo caso, in altre parole, quello in cui si sa di sapere che non si è malati, l’organismo si identifica senza resti con le proprie norme organiche e, in ultima istanza, con la normalità riconosciuta dal sapere bio-medico (codificato nelle procedure che informano i nuovi dispositivi digitali). Nel primo, al contrario, l’organismo si mostra come più che solamente normale e si instrada sistematicamente verso un superamento delle sue condizioni date, scoprendosi già da sempre supplementato dalle proprie protesi tecniche e per questo in grado di gestirle consapevolmente e autonomamente. Il che equivale a dire, in parole povere, che un corpo potrà così, eventualmente, innanzitutto la propria fondamentale ignoranza sul proprio funzionamento, mai esclusivamente biologico, mentre non potrà non il sapere quel che lo concerne qui e ora, al quale è messo al cospetto dalla panoplia di dati che ormai lo riguardano e quasi lo cercano a ogni momento. In breve, potrà scegliere se restare normale o provare a essere sano, se essere il proprio avere, senza scarti, o avere il proprio essere, scegliendo come farlo. La performatività in questione è allora relativa a una condizione di normalità indotta, e per certi versi coatta, che la possibilità di un’altrasalute – di una salute allargata – deve provare a rimettere in questione e, possibilmente, a rilanciare di nuovo in direzione impreviste.
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Una salute allargata
Quel che scopriamo ora con un’evidenza irresistibile è dunque che la risposta alla domanda che cosa può un corpo non è mai di carattere puramente biologico: concerne perlomeno anche componenti sociali e politiche, oltre che, evidentemente, tecnologiche. Un corpo vivente, insomma, non può mai limitarsi solamente a essere, deve poter eccedere l’essere che è, ovvero, deve potersi trovare nella condizione di mutare autonomamente le condizioni alle quali il suo essere è concretamente possibile. Il novero delle potenze che ci attraversano, come organismi umani, è quindi da sempre la risultante di un gioco complesso e non lineare di fattori naturali e artificiali, fattori che fanno di noi degli ibridi almeno altrettanto difficili da collocare quanto lo sono alcuni prodotti delle nostre pratiche tecno-scientifiche più all’avanguardia [si pensi all’esistenza «fatticcia» (Latour 2005) del neutrino e al suo situarsi in una zona mediana tra costrutto e dato: non si può dire a priori quanto pesi la componente artificiale e quanto quella naturale].
La depositaria di tutto questo sapere riguardo la natura allargata del corpo umano è allora da sempre la medicina, in tutte le sue forme. Determinare che cosa può un corpo, al di là della sua esistenza data, è infatti sempre il risultato cangiante e derivato della definizione delle sue impossibilità correnti, il sottoinsieme mutevole dei suoi impedimenti dati. È l’effetto immanente alla circoscrizione di una sua qualche défaillance, e cioè di eventi (malattie, infermità, disturbi, errori) che ne intralciano il dispiegamento, chiamando così a una qualche forma di intervento e rivelandone il funzionamento pregresso. È la risultante di una dialettica mai risolta una volta per tutte tra istinto e intelligenza, tra esecuzione e deviazione, tra programma e improvvisazione. Per questo «non sappiamo [mai esattamente] che cosa può un corpo»: perché, per saperlo, si deve intervenire su di esso, sottoporlo a operazioni che ne cambiano la configurazione, trasformandolo in direzione di nuove possibilità e perciò di nuove inconseguenze. L’ignoranza circa le potenze corporee è tutt’uno con l’incompletezza della loro determinazione e dunque con la normatività in cui consiste davvero la salute. La vera salute si definisce insomma in forza di una condizione verbalmente ibrida: dal nostro avere liberamente il corpo che siamo, di contro all’essere senza rimedio il corpo che abbiamo. È questa la vera differenza tra la salute, da un lato, e una normalità che si sovrappone senza resti con la patologia, dall’altro, perché incapace, infine, di trascendersi.
Quando infatti la funzione rivelatrice della medicina incrocia la tendenza attuale verso la digitalizzazione integrale dell’esperienza questa situazione si svela nello stesso momento in cui tende a diventare impraticabile. L’infosfera contemporanea impatta insomma sull’incompletezza propulsiva dei corpi spogliandoli della loro capacità di eccedersi individualmente, proprio grazie ai frutti della loro eccedenza tecnologica pregressa, ma collettiva, oltre il perimetro del mero corpo organico. Questa condizione, ascrivibile come dicevamo al registro di quanto si potrebbe chiamare immediazione, forclude infatti la possibilità di essere veramente sani, e cioè non solo normali ma normativi. L’implementazione di tecnologie di terzo ordine si ripercuote sul corpo suturandolo alla sua natura biologica, senza scampo. Siamo costretti ormai a essere senza mediazioni il nostro avere un corpo, senza riferimento altro dal suo essere quel che è qui e ora, piuttosto che ad avere autonomamente il nostro essere un corpo, in maniera ogni volta creativa, imprevedibile e singolare.
In altre parole, scopriamo che un corpo è un complesso problematico di tecniche, situazioni e contesti in cui queste tecniche possono realizzarsi, un misto in corso d’opera di ritenzioni e di protensioni che ne delineano la conformazione transeunte e mai del tutto stabile; ma in quel momento, la gestione autonoma di questa consapevolezza ci è sottratta una volta per tutte. È allora su questa esigenza di dare una nuova forma alla nostra nuova normalità imposta che va data battaglia, in un modo che non può tassativamente essere prescritto a priori, ma deve essere inventato in itinere, prodotto nel vivo delle nuove relazioni paziente-dispositivi e dispositivi-medico, affinché il paziente stesso, con la sua ricerca di salute, e cioè di normatività (con il suo vissuto problematico), non scompaia del tutto. È qui che si colloca la scommessa di una salute allargata, fondata su un sentire esteso al di là del corpo individuale a com-prendere la sensibilità protesica del nostro ibrido essere al mondo[5], che permetta insomma di riscoprire la presenza di un sapere di non-sapere costitutivo, concernente l’insieme sempre incompleto delle potenze del corpo umano. È qui, inoltre, che si collocano le sfide lanciate per esempio da esperimenti come We are not waiting. Per i sostenitori di questo progetto, l’uso del pancreas artificiale ibrido nel diabete di tipo 1 deve essere infatti informato dai principi dell’etica open source, secondo una strategia da dispiegare in anticipo sulle stesse soluzioni fornite dalle multinazionali che producono dispositivi medici (cfr. Kesavadev et al. 2020). È necessario insomma portare un’offensiva frontale contro l’idea di una normalità senza scampo instaurata dalla medicina digitale, in funzione ancora delle possibilità di individualizzazione concreta della cura.
D’altronde, anche in questo quadro così profondamente mutato «non vi è nulla nella scienza che non sia apparso dapprima nella coscienza: il punto di vista vero è in definitiva [sempre] quello del malato» (Canguilhem 1998, 65). Per quanto infatti i procedimenti implementati dagli algoritmi possano risultarci opachi, e le tecnologie di terzo ordine diventare onnipresenti, è sempre grazie al lavoro precedente dei medici, istruiti a loro volta dal sentire dei pazienti, che la progettazione, la realizzazione e l’addestramento dei sistemi automatici in uso nella medicina digitale sono stati possibili. Anche nel caso della medicina digitale deve essere insomma l’esperienza centrata soggettivamente a dirimere in ultima istanza la salute dalla normalità pura e semplice, per quanto risultante ormai da una corporeità riconosciuta come postorganica. Una medicina all’altezza della digitalizzazione dovrebbe mirare perciò a incrementare la consapevolezza dei suoi pazienti al di là del perimetro del loro corpo organico, al fine di metterli nella condizione di scegliere sempre più autonomamente come gestire questa situazione. Non siamo più infatti solamente il nostro corpo organico, come non lo siamo mai stati di fatto (anche se non ne abbiamo mai sinora certificato appieno il diritto), ma non possiamo limitarci a non averne più uno, senza intravedere più nemmeno la possibilità di discutere in che modo. Da questa espropriazione, sebbene ancora embrionale, occorre poter guarire. L’ipotesi di una salute allargata al complesso di fattori esosomatici che ci travalicano incessantemente, nel mentre che rilanciano le nostre potenze autoctone, può essere allora il nome di questa sfida, la cui importanza, non solo clinica, spetta con ogni probabilità ai malati, prima di tutto, provare a rivendicare, cominciando col sottolineare il loro ruolo nella costituzione del sapere sul corpo di cui il digitale applicato alla medicina è ormai il veicolo e persino il volano, ma non mai il creatore esclusivo.
di Daniele Poccia
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[1] La definizione, come è risaputo, è di René Leriche, anche se è stata resa celebre da Georges Canguilhem, che la cita nel suo Il normale e il patologico (1998, 74).
[2] Sulla funzione rivelatrice della tecnica, e della tecnica moderna in particolare, cfr. Ferraris 2021, 98 sgg.
[3] «Tutti gli uomini sono, in questo senso, virtualmente dei malati asintomatici» (Agamben 2021).
[4] Come è stato notato, l’unico ruolo non surrogabile dalle intelligenze artificiali è quello del consumatore (cfr. Ferraris 2021, X).
[5] In merito alla problematizzazione della concezione organica della corporeità, e a una eventuale valorizzazione, è indispensabile richiamare il lavoro pioneristico di Donna Haraway (cfr. 2018).
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BIBLIOGRAFIA
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A lungo trascurato in patria, grazie al grande successo internazionale Giorgio Agamben è oggi oggetto anche in Italia di una serie di recenti studi e pubblicazioni. L’ultimo esempio ne è il libro di Ermanno Castanò Agamben e l’animale (Novalogos, 2018), che segue di pochi mesi quelli di Riccardo Panattoni (Giorgio Agamben,Feltrinelli, 2018) e Flavio Luzi (Quodlibet. Il problema della presupposizione nell’ontologia politica di Giorgio Agamben,Stamen, 2017), e di un paio d’anni il volume collettaneo curato da Antonio Lucci e Luca Viglialoro (La vita delle forme,Il nuovo melangolo, 2016). Tutti questi studi scelgono un angolo particolare da cui leggere e analizzare la produzione agambeniana, e quello scelto da Castanò è la questione dell’animale, o, meglio, dell’essere umano come “animale politico”. E tuttavia questa non è semplicemente una delle tante possibili prospettive di analisi, perché Castanò mostra bene come la questione dell’animalità (umana) non sia solo un “problema di fondo della nostra cultura” (pag. 7), ma anche uno dei cardini – se non quello principale – attorno a cui ruota l’intera opera di Agamben, da L’uomo senza contenuto del 1970 fino alla conclusione della serie “Homo sacer” nel 2014 e agli ultimi libri. Quindi leggere Agamben alla luce della questione dell’animale significa ripercorrere tutta la sua vasta produzione svelandone e illuminandone l’intenzione unitaria che ne tiene insieme le varie fasi, che è quella di pensare l’essere umano al di là della frattura metafisica che lo separa dalla (propria) animalità.
Il metodo adottato da Castanò è semplicemente quello di analizzare, prima cronologicamente e poi strutturalmente (nel caso della serie “Homo sacer”) tutte le varie opere del filosofo romano per mostrare come questa questione ne strutturi sempre, ancorché in modi diversi e assai spesso in tono minore, l’interrogazione filosofica. Il risultato è un corposo studio che, per quanto esplicitamente non si voglia come “un’ennesima introduzione” (pag. 10), in pratica è senza dubbio a oggi la più completa e dettagliata introduzione in italiano alla filosofia di Agamben, in quanto ne analizza a fondo e in dettaglio tutte le opere principali (e molte di quelle meno lette e analizzate), le intenzioni e le influenze filosofiche, e le problematiche fondamentali. L’intenzione primaria di ricondurre il pensiero di Agamben alla questione dell’animale non risulta affatto una forzatura, perché è innegabile che fin dai suoi primi scritti alla fine degli anni Sessanta – senza dubbio sulla scorta di Heidegger – la domanda che guida Agamben è quella sulla relazione, nelle definizioni aristoteliche dell’umano, tra zoon e logos, tra animalità e razionalità/linguaggio, che è inscindibile da quella tra l’animaleumano e la sua politicità. Inoltre, l’animalità che interessa ad Agamben è (per lo più) quella umana, e la questione stessa in fondo rimane, anche nello studio di Castanò, assai spesso in secondo piano e quasi in filigrana: è una sorta di corrente sotterranea che sostiene le varie analisi dell’estetica, della storia, e della politica, tutte comunque riconducibili alla grande questione della metafisica e del suo superamento.
Castanò mette bene in evidenza come la struttura portante della metafisica sia per Agamben quella di una cesura, di una separazione tra un sostrato inconoscibile e innominabile che va a fondo (di volta in volta la voce animale, la physis, la natura, la vita naturale, l’animalità, ecc.), per sostenere in questo modo l’emergere di una “sostanza” conoscibile e nominabile (il logos, il nomos,la cultura, la vita “politica”, l’umanità…). E questa struttura presupponente sostiene, più o meno chiaramente, tutte le analisi svolte già fin da L’uomo senza contenuto. Quindi anche quando, come in tutta la prima fase del suo pensiero (almeno fino a La comunità che viene, 1990), Agamben si concentra principalmente sulla questione del “linguaggio”, lo fa analizzandolo nella sua contrapposizione al sostrato materiale e innominabile della vita e della “voce” animale. È innegabile che Agamben appartenga a una tradizione fortemente antropocentrica, ed è facile isolare l’eccezionalismo umano nelle sue tante (e tradizionali) contrapposizioni tra l’animale e l’umano (“a differenza degli altri animali, l’uomo è l’unico che…”). Ma è anche indubbio che nel suo pensiero – e questo fin dall’inizio – la questione del logocentrismo (e sul linguaggio Agamben metterà sempre una grande enfasi) non è tanto un presupposto quanto precisamente il problema da analizzare e affrontare, e che il superamento della metafisica da lui sempre auspicato comporta il superamento di questa frattura e di questa contrapposizione.
La questione dell’animale acquista ovviamente più centralità con il progetto “Homo sacer”, la cui protagonista è proprio la vita nella sua contrapposizione alla sovranità o al potere. La scissione metafisica strutturale qui si incarna nello sdoppiamento semantico originario tra zoè e bios, che ricalca in ultima istanza la frattura tra animalità e umanità. Uno dei grandi meriti di Castanò è di mostrare che la famigerata “nuda vita” è proprio il prodotto di questa frattura in tutte le sue varie manifestazioni (mentre molte interpretazioni la confondono ancora con la zoè), e che l’eccezione che caratterizza la sovranità e il potere non è che l’esplicitazione della struttura metafisica che informa ogni aspetto della tradizione occidentale. Dopo una lunga analisi di tutte le opere che lo precedono (cronologicamente e poi logicamente), Castanò arriva allo snodo fondamentale del suo libro, che è anche il suo contributo più originale e incisivo: l’analisi e la rivalutazione di Quel che resta di Auschwitz (1998), il volume III del progetto “Homo sacer” e il libro più criticato e frainteso di tutta la serie – e dell’intera produzione di Agamben. Probabilmente questa lettura è divenuta possibile solo dopo la conclusione dell’intero progetto, ma dalla nostra prospettiva ex post la rilettura dell’opera diventa necessaria e centrale: la funzione di questo libro, che fa da “soglia” tra la pars destruens dei volumi I e II e quella construens del volume IV, è quella di mostrare il funzionamento della “macchina antropologica” in tutta la sua mortifera purezza, e cioè nel tentativo di separare e purificare, nel campo nazista, l’uno dall’altro i due termini della frattura metafisica originaria, l’umano e il non-umano. Auschwitz è il culmine della metafisica, e qui la sua struttura emerge in modo paradigmatico – da qui la centralità di questo libro.
Nel 2002 Agamben pubblica poi un pendant al libro su Auschwitz, che insieme a esso dev’essere letto: L’aperto. L’uomo e l’animale, l’unico esplicitamente dedicato alla questione dell’animale. Castanò mostra bene come questo libro, che non fa ufficialmente parte della serie “Homo sacer” e, a differenza di altre opere di Agamben, non ha suscitato grande interesse o grandi dibattiti (con eccezione degli animal studies), non è una “trascurabile divagazione da un percorso che si muove altrove” (pag. 197), ma fornisce anzi un’importante chiave di lettura per interpretare tutta la filosofia agambeniana: se la frattura fra l’umano e l’animale costituisce la chiave di volta dell’intera metafisica occidentale, allora interrogarsi su questa questione – questa è la tesi portante de L’aperto, e quindi anche del libro di Castanò – è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni della politica, dell’etica, della storia. L’aperto fornisce anche un ponte per passare alla pars construens del volume IV, ribadendo (giacché questo è da sempre uno dei cardini della filosofia di Agamben) che il superamento della metafisica con la sua frattura presupponente consiste in un “arresto” della macchina, in una deposizione o dèsoeuvrement dei suoi dispositivi, che li aprirà a un nuovo “uso”.
Tutta la teorizzazione della “forma-di-vita” nel volume IV di “Homo sacer” è quindi un ripensamento della frattura metafisica originaria e della questione dell’animalità. Una precisazione importante emerge, a questo proposito, dalla lettura di Castanò: la caratteristica portante della “forma-di-vita” per Agamben è la potenzialità, essa è cioè un “essere di potenza”, che sfugge a qualsiasi destino storico o biologico; questa struttura sembrerebbe ricalcare la tradizionale frattura tra l’animale e l’umano, dove quest’ultimo, a differenza del primo, è “senza rango” (nelle parole di Pico della Mirandola), è cioè libero dalle costrizioni meccanicistiche che imprigionano invece l’animalità. Potrebbe sembrare, così, che alla fine la proposta soteriologica di Agamben non riesca a sfuggire al tradizionale eccezionalismo umano della metafisica occidentale; e tuttavia la potenzialità della forma-di-vita consiste proprio nella disattivazione di questa struttura e di questa frattura, che imprigiona sia l’umanità che l’animalità in un perenne e mortifero “stato di eccezione”. Il pensiero della forma-di-vita è quindi volto non solo a una ridefinizione dell’umanità, ma anche dell’animalità, o meglio della relazione (e non separazione) tra le due.
Agamben ha, non tanto concluso quanto piuttosto (nelle sue parole) “abbandonato” il progetto “Homo sacer”, affinché questo possa essere forse continuato da altri e in altri modi. Il volume di Castanò è un primo passo, sistematico e introduttivo, che pone le basi per questa possibile continuazione; esso mostra, a partire da Agamben, che la filosofia che viene dovrà essere una filosofia dell’animalità.
Il problema della colpa è il problema dell’azione, e di colui che la compie. La colpa, lungi dall’appartenere intrinsecamente alla sfera giuridica, ne costituirebbe piuttosto la soglia d’accesso. La colpa è un concetto che traccia i limiti di una seria questione filosofica, prima ancor che giurisprudenziale: come si costituiscono i confini del diritto? Come si traccia la frontiera tra la struttura del diritto e l’immanenza in sé del vivente? Come si può, altresì, definire la colpevolezza del soggetto a partire dall’imputabilità dell’azione e dalla pena comminata? E soprattutto, una volta posto in questi termini il problema, è possibile superare la concezione dell’azione in quanto imputabile? È possibile, per il soggetto, fuoriuscire dalla struttura del diritto - e quindi dalla triangolazione azione-colpa-pena - per “consacrarsi” a quell’innocenza radicale che attraversa originariamente tutto ciò che vive? Sono questi alcuni degli interrogativi che trapelano, talvolta tra le righe, spesso più manifestamente, dalle pagine dell’ultimo libro di Giorgio Agamben, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa, il gesto (Bollati Boringhieri, 2017). Read More »