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Philosophy Kitchen

Il costruito è, nell’esperienza di ognuno, qualcosa di costoso, su cui spendiamo un quarto, o magari un terzo dei nostri guadagni. Comprare una casa è quasi sempre il più grande investimento di una intera vita, ed il più incerto: abitiamo tutti in uno spazio che è, in effetti, un grande debito, “un ‘interno’ di cui è difficile riconoscere i contorni”, come lo hanno brillantemente definito Antonio di Campli e Cecilia Cempini (Debito e spazio. La produzione popolare dell’habitat in Ecuador, LetteraVentidue, Siracusa 2024, 17). Presumibilmente, dunque, la potenza economica che si annida nel grande e vario mondo delle costruzioni dovrebbe esserci, se non familiare, almeno noto. Non è così. città

Il valore complessivo degli immobili nel mondo si aggira verso i 400 trilioni (400.000.000.000.000.000.000) di dollari. Al confronto, il debito pubblico mondiale, che ammonta a circa 300.000 miliardi, sembra un numero ben più basso, e lo è infatti: non solo, quel debito pubblico esiste, in fondo, proprio perché c’è un valore incommensurabile – del tutto teorico, sia chiaro – che la casa di ognuno di noi concorre a creare, di cui ogni nostra stanza è come un atomo. E, naturalmente, è un valore che non può che crescere: la tendenza all’urbanizzazione, con la sempre più prossima soglia del 60% di popolazione mondiale che vive in città, è inarrestabile, e porta con sé una sempre maggior quantità di metri cubi costruiti. Ora, si potrebbe pensare che tra la modesta infelicità di una rata mensile di un mutuo o di un affitto e cifre tanto vertiginosamente ricche di zeri non vi siano esservi correlazioni troppo dirette, un po’ come in un sistema statistico in cui i grandi numeri non hanno rapporti con l’individuo. Di nuovo, non è così.

Questo legame emerge in vario modo, e sorprendente. Un primo punto di vista potrebbe essere direttamente il tema della finanziarizzazione dell’immobiliare, come quello offerto da Antoine Guironnet e Ludovic Halbert ne L'empire urbain de la finance. Pouvoir et inégalités à l'ère du capitalisme de gestion d'actifs (Editions Amsterdam/Multitudes, Paris 2023, d’ora innanzi EU), che guarda a come l’evoluzione del capitalismo in finanziarizzazione dagli anni ’90 impatti le città in particolare europee (EU 17). Un secondo punto di vista, in qualche modo diametralmente opposto, è quello offerto ad esempio da Filippo Barbera in Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica (Laterza, Roma-Bari 2023, d’ora innanzi PV), che considera gli effetti ultimi sullo spazio fisico: benché il testo ne consideri globalizzazione e svolta digitale come le principali cause (PV 4), il tema economico emerge infatti continuamente, più o meno sottotraccia.

Per finanziarizzazione si intende come il valore immobiliare non sia più solo, o maggiormente, legato alle effettive compravendite, bensì alla dimensione degli investimenti che li usano come sottostanti, trasformando a tutti gli effetti i titoli fondiari in merce (EU 41). Esistono ormai grandi gestori professionali, fondi di investimento che possiedono migliaia di miliardi di valore immobiliare il cui effettivo valore dipende esclusivamente dal mercato finanziario. Centri commerciali, edifici residenziali, uffici, terziario: tutto rientra nel portafoglio, dematerializzandosi. Un meccanismo che i fratelli Pereire misero mirabilmente a punto per la Parigi del Secondo Impero, con la creazione del Crédit Mobilier, e che oggi ha portato ai maxi-fondi come Columbus o Blackstone, che da solo gestisce 300miliardi di patrimonio (EU 67). L’accelerazione avviene negli anni ’80 del Novecento, e per una serie di fattori. Ormai dimenticate le politiche keynesiane di intervento diretto attraverso soldi pubblici, partono infatti politiche di incentivazione di quei fondi che investono e distribuiscono gli utili (EU 54), secondo un pensiero – lo vedremo, rivelatorio – teso a rendere attrattiva la partecipazione di tutti. È la nascita del neoliberalismo, in cui la priorità al mercato è legittimata dal suo (apparente) autoregolarsi e, soprattutto, dalla sua (apparente) accessibilità ed equanimità (PV 31). Chiunque, avendo qualche risparmio, può investire una piccola quota in un fondo, vedendo crescere i propri risparmi. E per questo, anche e soprattutto i partiti politici riformisti e di sinistra furono attratti da questa modalità di coinvolgimento dei privati, che sembrava meno spregiudicata del bieco specularismo capitalista (EU 47). Un’impressione decisamente errata. Le politiche neoliberali si basano infatti su una precisa, programmatica distorsione della relazione tra motivazioni – moralmente buone – ed effetti – speculativi. Una distorsione che riflette la differenza tra neoliberalismo dottrinale, in cui la competizione dà la libertà e garantisce vantaggi a tutti, e quello reale, dove in effetti le politiche hanno come effetto quello di creare continuamente nuove sacche di mercato di cui sono pochi ad avvantaggiarsi (PV 57). Vale in questo caso per l’immobiliare, ma vale lo stesso per i servizi, dalla sanità all’università, dai trasporti all’energia.

Oggi, gli effetti di quelle politiche sono evidenti. Tutti i centri delle grandi città – i centri storici generalmente detti – sono ormai conquistati da holding che affittano ai medesimi grandi gruppi perlopiù del lusso (EU 67). Centri sempre più spopolati, o abitati solo virtualmente, con abitazioni che in Italia possono costare anche 20.000 €/mq. Una cifra nemmeno troppo alta, in qualche modo calmierata dall’alta percentuale di case di proprietà, mentre altrove, da Montecarlo a Vancouver, da Tokyo a Londra, si arriva anche a 10 volte tanto – cioè 20 milioni di euro per 100 mq…). Altro che abitare, 15 minutes cities e welfare: la città è diventata un prodotto finanziario globalizzato, come la definisce Anne Kockelkorn nella sua analisi di Berlino (“Financialized Berlin. the monetary transformation of housing, architecture and polity”. Architectural Theory Review, 26(1), 76-104, 2022) Ne consegue che sempre meno persone potranno viverci, e che si ridurranno tutti gli spazi condivisi quotidiani, quegli spazi condivisi spesso informali in cui le persone si incontrano, interagiscono, condividono (PV 39): cose per le quali serve una qualche forma di comunità, esclusa da luoghi del tutto commercializzati e in cui il fatto pubblico è ridotto a una pura scenografia turistica.

È un tema su cui realtà e narrazione si sovrappongono, e per diversi motivi. In parte perché le narrazioni, o le “credenze condivise” (EU 138) sono i veri driver del mercato. Si creano tendenze locali e globali spesso più dovute alla preferenza di un key investor (EU 76): certo il caso Elon Musk con le monete virtuali è un estremo, ma con le città avviene lo stesso. Milano o Ginza hanno vissuto trend di crescita (di valore finanziario) originati magari da condizioni favorevoli dal punto di vista normativo o fiscale, ma poi determinati dal fatto che l’investimento in quei luoghi è diventato “virale” (termine squisitamente contemporaneo), cioè attrattivo per una gran parte di investitori. È la narrazione, quindi, che determina il valore: tanto che potremmo definire la narrazione un requisito necessario della finanziarizzazione (benché non mi risulti che questo sia stato studiato come tema ontologico). Dall’altro lato, anche la politica ha bisogno di narrazioni: anzi, ad esse è ormai limitata. Nei luoghi politici contemporanei, i talk-show e i social (PV 49), i temi di visione non convincono quanto narrazioni semplici e semplicizzate, continuamente corrette secondo le reazioni dei follower e del pubblico. Narrazioni che ad esempio esaltano, nel non a caso detto “Belpaese”, i centri storici e i borghi plastificati in presepi viventi – la cosiddetta “bellitalia” già di Dario Franceschini prima di Daniela Santanché – a danno di tutti quelle aree poco attrattive turisticamente (PV 102). Durante e subito dopo la pandemia, molti (architetti, oltre che politici, ahimè) hanno declamato le virtù di borghi dove vivere in smart working e respirare aria pura, con immagini stucchevoli quanto false, figlie di un immaginario limitato e radicalmente opposto alla realtà di moltissime aree interne, prive di accesso ai servizi essenziali e private dello spazio pubblico in senso lato. Aree in cui l’economia fondamentale (come la definisce il Collettivo per l'economia fondamentale in Economia fondamentale. L'infrastruttura della vita quotidiana, Einaudi, Torino 2019) è fatta di piccoli negozi, di un bar, di un alimentare, di luoghi dove si concentrano servizi in base a prossimità e comunità, secondo principi insediativi e logiche collaborative poco affini alle logiche insediative, speculative e, men che meno, finanziarie: aree estremamente fragili, perché se cade un elemento dell’economia fondamentale il territorio si spopola.

È interessante che, pur guardando al caso francese, Guironnet e Halbert identifichino come una delle prime cause della finanziarizzazione – anche se forse io la definirei un innesco – la decentralizzazione del potere urbanistico (EU 57). Una decentralizzazione variamente avvenuta in tutto il primo mondo – in Italia, nell’ultimo decennio c’è stata più di una grande discussione sul titolo V della Costituzione – secondo principi ovviamente buoni e giusti, cioè garantire possibilità di sviluppo e specificità normativa alle diverse zone. Ma ciò che altrettanto ovviamente poi avviene è che le regioni sono molto diverse tra loro, e lo sviluppo non dipende solo dalle norme che lo sottendono – per questo le definisco un potenziale innesco. Accade cioè che certe zone si sviluppino progressivamente e grandemente, o su settori innovativi, o al contrario perché hanno competitività di costi, mentre altre rimangano bloccate in quello che Gianfranco Viesti ha definito uno sviluppo intermedio (Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, Roma-Bari 2021). Comunque, in nessuna delle tre aree il decentramento garantisce un buon sviluppo: nelle regioni sviluppate, la spirale della finanziarizzazione è letale (e basta citare Milano per capirlo); in quelle sottosviluppate, l’economia si regge sullo sfruttamento e sull’assenza di diritti (il tema degli stagionali in agricoltura è emblematico); in quelle nel mezzo, una lenta agonia rende lo spopolamento ancora più rapido (ed è ciò che accade in generale nelle aree interne europee). L’esito è una estremizzazione delle diseguaglianze che rende sempre più fragile quella reciproca dipendenza tra forti e deboli che potrebbe garantire una maggior equità (PV36) – anzi, aggiungerei, la possibilità di senso dell’equità. Non a caso viene spesso richiamata l’importanza del senso di comunità, ripartendo dai Comuni per governare i territori (come fanno Alessandro Coppola, Matteo Del Fabbro, Arturo Lanzani, Gloria Pessina e Federico Zanfi, i curatori di Ricomporre i divari. Politiche e progetti territoriali contro le disuguaglianze e per la transizione ecologica, Il Mulino, Bologna 2021): perché anche se si potrebbe pensare alle comunità come a circoli chiusi, la cooperazione sui progetti rinnova e costruisce circolarmente la comunità stessa. L’inclusione non avviene cioè per scelta morale del singolo o secondo uno status assegnato dall’alto, ma per mera collaborazione a necessità comuni, secondo una intenzionalità condivisa (PV 28). Ma queste pratiche richiedono spazi e rituali (PV22). Nelle piccole comunità, il lavoro portato avanti dal collettivo “Riabitare l’Italia” (https://riabitarelitalia.net/), formato da un nutrito e variegato gruppo di studiosi, professori e intellettuali, dimostra che moltissime cose sono fattibili, e che c’è un enorme impatto sulle economie locali e non solo, con progetti che hanno attratto decine di milioni di finanziamenti europei. Nelle grandi, è il possibile lavoro di collettivi e soprattutto degli urban center (EU 228) che mostrano i risultati migliori nel controllare le derive estreme, sebbene spesso finiscano per patinare gli esiti di una parvenza partecipatoria, più che proporre efficacemente alternative.

Il problema è che le soluzioni locali non intaccano la dimensione istituzionale della finanziarizzazione. Sono gli Stati che hanno portato avanti le politiche di defiscalizzazione che hanno reso le città dei nuovi “eldorado” (EU 58): politiche magari ben intenzionate o perlomeno sensate, ma che hanno polarizzato sempre di più i Paperoni e i Paperini – basti pensare alle tasse ridotte sugli immobili affittati, la cedolare fissa, istituita per fare emergere l’economia sommersa e che però va inevitabilmente a vantaggio dei grandi proprietari. E ormai la trasformazione attuata è così profonda che la percezione di cosa sia giusto o no è sfumata se non torbida. Tanto che nell’immaginario, lo Stato non deve più imporre qualcosa al mercato, pena l’essere antidemocratico: deve solo impostare le regole (EU 241), lasciando il corso degli eventi a chi, “rispettandole”, vinca. La domanda collettiva per un futuro più giusto è completamente soppiantata da una visione per la quale è inevitabile che il mercato fornisca la risposta “migliore”, quella che permette di sprecare meno risorse pubbliche: così, limitata alla vidimazione burocratica e all’obiettivo immediato, muore la capacità di visione della politica contemporanea (PV 31). Da decenni infatti gli Stati, non avendo capacità economica sufficiente – o non volendola creare attraverso ulteriore indebitamento – hanno affidato ai privati l’attuazione delle politiche pubbliche, a loro subordinandole. E così si è generato il principio cardine della contemporaneità neoliberale: che le politiche devono generare profitto (EU 18).

Naturalmente, dovendo agevolare questo profitto, gli Stati hanno poi promosso varie azioni, oltre a quelle fiscali e normative (EU 100-119-146; aggiungo mie esemplificazioni). Ad esempio (s)vendendo dei propri beni – e chiaramente, se i costi per rinnovare un edificio antico sono eccessivi, automaticamente la vendita avverrà a prezzi bassissimi, con enorme vantaggio del compratore, in genere un grande fondo. Oppure promuovendo politiche ambientali che obbligano a ingenti investimenti, non alla portata delle persone – il green deal europeo al centro di vari scandali in questi giorni è precisamente questo. O ancora, attraverso il tema sacro dell'austerity, con il pareggio di bilancio persino entrato in costituzione – con l’inevitabile conseguenza che qualsiasi iniziativa richieda un business plan, cioè che ogni azione sia diventata ontologicamente finanziaria. O, in ultimo, intervenendo direttamente per favorire e innescare gli investimenti – in Italia, Cassa Depositi e Prestiti è l’istituzione statale a questo deputata, e all’estero tutti i piani urbanistici sono piani di investimento pubblici su infrastrutture che rendono possibile il successivo (e quindi a rischio ridotto) investimento privato. Chiaramente, queste politiche vengono da tutti gli schieramenti, sebbene variamente vestite, e vengono presentate secondo il cosiddetto modello TINA (There is No Alternative) (PV 55). Sono i fondi di investimento, o i nuovi Paperoni – come Elon Musk sta dimostrando – a costituire la nuova élite che detiene la condizione effettiva di esercizio del potere contemporaneo: la capacità economica (EU 33-221).

Eppure, queste letture evidenziano anche diversi problemi culturali, che fanno il gioco di queste nuove élite. Ad esempio, attuatori e promotori del neoliberalismo vengono sempre descritti come “altri”, senza mai metterli in connessione con un popolo di Paperini che parrebbe sempre schiacciato, incapace di reagire. Mi pare una lettura miope: in parte perché trascura proprio quei temi di finanziarizzazione dal basso che già in passato l’avevano resa attrattiva, oggi più evidente ad esempio nella facilità di accesso per un microinvestitore alle criptovalute o a strumenti di investimento anche immobiliare; in parte perché dà per scontato che tutte le persone cerchino una dimensione fisica e valoriale diversa da quella che oggi le città finanziarizzate offrono, mentre sospetto invece che il fascino della possibilità di farcela sia superiore, per molti, alla perduta convivialità; in ultimo, perché non considerano un elemento fondamentale del neoliberalismo, e cioè che ha portato gran parte delle persone a un livello di ricchezza mai prima esperito, ad essere cioè Paperini che magari hanno tre nipoti cui badare ma che possono comunque pisolare in una casa piuttosto confortevole. Mi pare cioè che il capolavoro neoliberista sia stato quello di concentrare la vera ricchezza su pochi Paperoni, mentre però alimentava con abbastanza benessere gli infiniti Paperini, rendendoli inoffensivi e mutandone speranze, aspettative e preferenze. Mi pare inoltre che le critiche a questa dimensione siano inefficaci nell’utilizzare un lessico ancora ancorato al marxismo e post-marxismo, basato ad esempio sulla coppia produzione/plusvalore, o l’affitto come anticipazione di un plusvalore: termini e concetti tratti da Henri Lèfebvre (in particolare al suo La révolution urbaine, Gallimard, Paris 1970) o David Harvey (Social Justice and the City, University of Georgia Press, 1973), che mal si adattano ai fenomeni contemporanei e anzi ne deviano colpevolmente la comprensione. Ad esempio non comprendono quanto l’accumulo influisca sulla disponibilità per nuovi investimenti, determinando un valore finanziario aggiuntivo dato dal mero possesso usabile come garanzia – e questo è uno dei motori della crescita indefinita, purché, sottolineo, basata sempre sull’effettiva inesigibilità dei beni fondiari ultimi. Né quei termini possono davvero spiegare il tipo di potere che i cosiddetti stakeholder hanno oggi sulla politica. Proponendo la formula valore = valore fondiario + potere attuativo (EU 180) danno infatti per scontato un valore ultimo fondiario, un “valore della terra” che invece la finanziarizzazione nega completamente, legandolo esclusivamente al mercato; e quel potere non è quindi di realizzare le politiche, ma di realizzare qualcosa, qualsiasi cosa: così che la politica possa appropriarsene successivamente come narrazione. Incomprensioni che sono alla base dell’identificazione delle destre con i ricchi, associazione vera solo in parte, se è vero che gran parte delle politiche neoliberali sono venute da compagini di centro-sinistra, e che andrebbe inquadrata in uno spettro politico da reinventare, come le preferenze elettorali spesso dimostrano. E sempre da qui discendono proposte di contrasto a queste dinamiche – dalla promozione della lentezza (PV 117) alle dimensioni associative (EU 223) alle operazioni di costruzione di comunità (PV 94) – efficaci singolarmente, ma la cui scala è su un piano economico e di immaginari completamente diverso rispetto ai mega-trend della finanziarizzazione. Qui forse avviene lo scarto massimo tra gli eventi e gli studi. Mentre gli intellettuali si affannavano a stigmatizzare i non-luoghi e la perdita di spazio di relazione, veniva sottostimata l’attrazione per una nuova concezione di spazio, basata su principi abitativi diversi: insegnando a classi universitarie molto internazionali, il tratto più diffuso e universale è la difficoltà nel distinguere tra pubblico e aperto-al-pubblico (cioè, in effetti, commerciale). Una differenza ovvia per chi sia nato prima dell’avvento dei mega-centri commerciali e dei social, ma letteralmente priva di senso (ed è questo che conta) per le generazioni più recenti. Ne consegue che ciò che nella letteratura è la distinzione tra spazio e luogo – cioè uno spazio che ha un senso collettivo, inteso come condizione necessaria per “politicizzare la Terra” (PV 9) – è in effetti esito di un impianto interpretativo ormai inattuale.

Tanto che, almeno provocatoriamente, dovremmo chiederci se un ritorno a un fantomatico mondo di luoghi sia non solo possibile, ma persino opportuno. Forse politicizzare la terra non è cioè quello che la gran parte delle persone vuole. Forse l’architettura dei luoghi deve finalmente recedere dal pensiero modernista di rivoluzionare il mondo. Forse il ritorno a dimensioni comunitarie e collettive è un pensiero nostalgico e reazionario. Forse le centinaia di milioni, e cumulativamente i miliardi, di follower dei super-ricchi testimoniamo un entusiasmo autentico per la via neoliberale. Forse sarebbe possibile inquadrare la contemporaneità dal punto di vista di ciò che si ha e non di ciò che manca. Il fascino morale della resistenza è naturalmente accecante, ma viene da chiedersi se non sia diverso lo sguardo che potrebbe modificare gli eventi. Come le trasformazioni di comunità locali funzionano se diventano attrattivi di investimenti, cioè, la domanda mai posta è se la soluzione ai mali rilevati del neoliberalismo non sia all’interno dello sfruttamento dei meccanismi che il neoliberalismo mette a disposizione, o se ci si debba limitare a una resistenza ai Paperoni. Attiva, come quella di diversi gruppi attivisti, o magari passiva, come la placida amaca di Paperino.

Carlo Deregibus

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