FORME DELLA LIBERTÀ. LE CORBUSIER E LA PIANIFICAZIONE TOTALE
Tra i grandi architetti dell’epoca moderna, nessuno è più celebrato di Le Corbusier: i suoi testi radicali e controversi sono manifesti scritti e disegnati che hanno modificato il modo di guardare e pensare l’architettura, più ancora che l’architettura costruita. Può sorprendere allora che i suoi studi su La Ferme radieuse et le Centre coopératif, elaborati per il terzo CIAM del 1930 e riuniti nel novembre del 1940, abbiano atteso fino al 2015 una pubblicazione, tanto più che si tratta di testi che consentono di guardare la sua opera sotto una luce diversa e più ambigua. La pubblicazione italiana da parte di Armillaria – La Fattoria Radiosa e il Villaggio Cooperativo, a cura di Sante Simone – ha quindi un valore non comune, anche perché arricchita da un prezioso saggio di Laurent Huron a chiudere la pubblicazione. Sintetizzando, potremmo dire che la Fattoria Radiosa è la sorella minore della ben più celebre Città Radiosa: pur essendone non solo il complemento ideale, ma addirittura la precondizione realizzativa. Se infatti la Ville Radieuse rappresentava la città autenticamente moderna, con la sua geometrizzazione funzionale di grattacieli, gli ampi spazi verdi e la circolazione dedicata ai vari utenti, essa tuttavia non era autosufficiente: non nasceva per vivere in un mondo solitario, ma per essere parte di un più ampio organismo in cui erano centrali i luoghi della produzione, e in particolare quella del cibo e dei beni primari. Cioè quelle campagne che i giovani, invece di coltivare, sempre più abbandonano in quel fenomeno che si chiama urbanesimo.
La soluzione lecorbusiana per rivalutare la vita in campagna è, com’è facile immaginare, completamente votata al nuovo mondo macchinistico. «Risparmiamoci il romanticismo!» (p. 95): i giovani saranno di nuovo felici in campagna solo se questa sarà efficiente, ordinata, finalmente pulita. Cioè quando essa si adatterà alla loro modernità, liberandoli dalla corruzione del denaro, dalla sporcizia del letame, dalle inefficienze della parcellizzazione e dell’individualismo: allora sì, che vorranno vivere in campagna (passando dalla Ville Radieuse a una Vie radieuse). L’ispirazione programmatica è il «programma di ricostruzione agraria» (p. 47) che Norbert Bézard, lavoratore agricolo (o meglio osservatore del mondo contadino), propone a quello stesso CIAM del 1930: un programma teso a trasformare le fattorie in moderni «strumenti di civiltà» (p. 65). La rivoluzione non è solo nelle forme: Bézard fonda su basi corporativiste e antistataliste un nuovo ordine sociale che abolisce la proprietà terriera, unendo gli sforzi dei singoli in un sistema cooperativo il cui simbolo è il silo comune. Nessuna parcellizzazione potrà rompere l’armonia del sistema cooperativo, e nessuna ricchezza ne turberà la serenità: Bézard si spinge a proporre persino la nuova «moneta del Piano» (p. 81) che servirà per tutti gli scambi interni e con l’esterno. La Fattoria Radiosa traduce questi principi in quella peculiare economia di segni e perentorietà dei toni che è propria di Le Corbusier: che disegna villaggi e fattorie distribuiti razionalmente sul territorio e collegati da un sistema di moderne autostrade. Ogni unità è compiuta nelle sue parti, e integra il silo, la cooperativa, la scuola, la piscina, un ufficio postale, le abitazioni con servizi e spazi comuni, l’orto e il club: tutti costruiti sfruttando i sistemi di produzione standardizzata, con sistemi a volte prefabbricate su cui si ritmano architetture modulari. Nel rispetto delle specificità dei luoghi e per ridurre i costi, ai muratori comuni – i murondins (p. 85) – viene affidato il compito di terminare le opere di finitura. Il risultato sarà un centro cooperativo organizzato e perfettamente efficiente, dove tutti avranno accesso alle merci fatte arrivare attraverso le strade. Non rimane nulla del vecchio mondo agrario, sporco, disordinato: domina la nuova immacolata purezza, e si affida «al tempo la responsabilità di fissare poco per volta lo stile di un nuovo folklore rurale» (p. 85).
Ma questa chiarezza espositiva tradisce una profonda incoerenza. Infatti il centro cooperativo è sì moderno e pulito, ma propone un modello di piccola comunità assolutamente tradizionale: aggrappato tenacemente a valori antichi, alla solidarietà perduta dopo la rivoluzione industriale (ma sarà poi vero?), al dare valore ai piccoli piaceri della vita, al mettere radici per la propria «stirpe» (p. 63). Se cioè la visione architettonica proposta è figlia del mondo macchinista, la vita ch’essa ospita vorrebbe essere intrisa di quel romanticismo che tanto viene avversato. Un romanticismo che vede la natura come espressione di «poesia» (p. 67), i figli come naturali prosecutori del lavoro dei padri e le mogli intente a scambiarsi pettegolezzi nella «sala per le signore» (p. 107). Insomma, è sì il futuro, ma visto con gli occhi del presente: un po’ come in quei film di fantascienza in cui astronavi solcano lo spazio e il tempo ma gli schermi sono ancora a tubo catodico, le vere rivoluzioni non possono essere davvero immaginate prima che accadano. Così, come internet non era ipotizzabile da scrittori e sceneggiatori impegnati a immaginare androidi e velocità-luce, allo stesso modo Le Corbusier e Bézard non possono nemmeno concepire il ’68, le rivoluzioni sociali, la globalizzazione. La Fattoria Radiosa potrà allora risolvere solo i problemi di allora – il fango, la fatica, il letame, l’isolamento: ma sarà sempre imbrigliata nei presupposti concettuali che ne costituiscono l’ossatura più profonda, a livello sociale come tecnologico.
Emerge qui la duplice natura dell’architettura su cui Le Corbusier ha costruito il suo mito. Da un lato, «l’architettura è il gioco sapiente, corretto, magnifico dei volumi sotto la luce» (diceva in Verso un’architettura), cioè è la capacità plastica di manipolare la forma, e di definire la bellezza «tramite il gioco della proporzione e dell’invenzione» (p. 95). Dall’altro, questa ipotetica neutralità della forma si inserisce in progetti del tutto programmatici, in cui la forma dell’abitare è strettamente legata all’organizzazione della società. Sapendolo, Le Corbusier si sforza di dimostrare, attraverso i disegni, la bellezza delle nuove fattorie (p. 91): accuratamente evitando di indagare fino in fondo l’incoerenza cui abbiamo accennato. Che si svela, invece, quando si guardi alla Fattoria Radiosa al passare del tempo: ingessata nel suo equilibrio, precario perché perfetto, essa mostra infatti una debolissima resilienza. Non vi potrà essere alcuna flessibilità: che vi vive dovrà rimanervi, chi vi nasce dovrà morirvi, pena la caduta non solo della Fattoria, ma dell’intero mondo con tanta cura pianificato.
Ma l’unico modo per garantire questa rigidezza è un ordine forte, deciso, imperativo: scrive Sante Simone nella sua introduzione «L’ideologia corporativista rivendicata dai redattori di Plans e Prélude, tra i quali compariva Le Corbusier, era molto popolare negli Anni ‘30 e risultava profondamente antiliberale. Riuniva simpatizzanti di estrema destra e socialisti non marxisti che, attraverso la pianificazione, richiedevano l’ordine della società guidata da un potere forte, in cui gli ingegneri illuminati svolgevano un ruolo nodale» (p. 8). E il prezioso saggio di Laurent Huron – Le Corbusier e Norbert Bézard, dal Faisceau al regime di Vichy – indaga proprio nella direzione di capire quanto estrema sia la destra di una simile posizione: rilevando vicinanze e reciproci apprezzamenti tra Le Corbusier e una serie di personaggi vicini, se non appartenenti, al partito francese di ispirazione mussoliniana, da Pierre Winter, a Philippe Lamour, a Hubert Lagardelle. Legami che si concretizzano anche nelle pubblicazioni di Bézard e Le Corbusier sulle riviste di stampo fascistoide Plan e Prélude. Non che questo basti automaticamente a bollare Le Corbusier come fascista: potremmo vedere nella sua ammirazione per le grandi bonifiche italiane (p. 97) l’apprezzamento di una grande opera di ingegneria più che del regime che l’ha resa possibile; allo stesso modo, in quelle riviste dove i piani per la Fattoria Radiosa vengono accolti con entusiasmo, potremmo vedere solo il plauso politico di un progetto che valorizzava l'opportunità (o meglio l’obbligo) per gli individui di contribuire alla grandezza e alla concordia nazionale. Senza voler qui arrivare a dare un giudizio definitivo, varrà la pena allora guardare al rapporto, nella Fattoria Radiosa, tra libertà individuale e dimensione collettiva: dando così coordinate più chiare alle condizioni sociali necessarie per l’utopia moderna.
Usando il discusso, ma efficace, dualismo tra libertà negativa (la libertà da) e positiva (la libertà di) delineato da Isaiah Berlin, nella Fattoria Radiosa le persone vengono liberate da una serie di piccoli e grandi problemi. Spariscono il fango, il letame, l’organizzazione del tempo libero, e soprattutto la preoccupazione della sopravvivenza: gli individui non saranno più soli davanti alle incertezze dell’inverno, isolati dal mondo culturale, perché potranno guardare con fiducia e serenità alla grande famiglia cooperativa – quasi un «convento civile», dice Bézard (p. 75). Così i giovani saranno liberati da tutti i motivi che li spingono ad andarsene, se ne dedurrebbe. Ma in effetti, che cosa le persone saranno libere di fare, di essere, di avere? Come in un alveare, saranno libere di fare, essere e avere tutto ciò che servirà a un bene superiore, quello della comunità e poi dello Stato. Dunque la felicità tratteggiata, con suadente tono paternalistico, è quella di essere come si dovrebbe essere: i lavoratori agricoli, in città, non sono altro che «pesi morti» (p. 109) che appesantiscono inutilmente la radiosità della vita, mentre in campagna, in queste moderne fattorie, davvero potrebbero realizzarsi come individui. Se solo sapessero! Invece quegli individui pare si ostinino a non accettare la loro natura contadina: infatti «rimane un problema psicologico: gli uomini chiamati a vivere là, passando bruscamente da uno statuo individuale al contratto collettivo, saranno in grado di abituarsi senza gravi traumi a questo nuovo stato di gerarche?» (p. 77).
Ecco, nella nonchalance di questa domanda c’è tutta l’essenza anti-democratica del pensiero di Bézard messo in forma di Le Corbusier. La sacralità dell’ordine supera il prezzo necessario a raggiungerlo, cioè la libertà di realizzarsi dei singoli, la libertà di non rispettare quanto pianificato dall’illuminato sapere ingegneristico: una previsione diventata normativa. E se la Città Radiosa, originandosi nell’utopico Plan Voisin per Parigi, aveva una dimensione visionaria e utopica, al contrario la Fattoria Radiosa è (apparentemente) ben più concreta, persino futuribile. Per questo, con gli occhi del contemporaneo, questo progetto è esemplare nel mostrare la vera rottura portata dal postmodernismo in architettura. Una rottura non tanto di stile o di forme, quanto invece della relazione che abbiamo visto tra forma e significato, tra progetto e programma: nel postmodernismo divampa la liberta di attribuire significati personali alle forme, e quindi di realizzarsi e progettare di là da ogni ordine sovraimposto. La rottura del legame forma-significato passa attraverso la dimostrazione della parzialità di qualsiasi ordine, che nulla può davvero avere di assoluto: la regola sarà costruita attingendo a ogni possibile sistema di regole per costruirne altre, sempre nuove.
Certo questo comporta incertezza, disordine, caos: un fardello pesante per l’architettura, che vede crollare le regole su cui si era basata per millenni. Ecco, leggere oggi Le Corbusier, e soprattutto questo Le Corbusier, ci ricorda allora il valore di quel fardello: la libertà di, e le infinite potenzialità che ne derivano. Evitare quel peso significa accettare, anzi promuovere, l’ordine dell’alveare: come quello della Fattoria Radiosa, in cui i contadini «non dovranno mai credere di essere sviliti» (p. 91). Potranno esserlo, cioè, purché sia a loro insaputa, così che vivano con ignorante gioia il loro contribuire a un bene più grande: quello del Piano Totale.
di Carlo Deregibus
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