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Philosophy Kitchen

Scrivere è follia, sorta di veglia
fuori coscienza, tensione al limite
del non sopportabile di cui si parla
con terrore e non senza un sentimento
di gloria. Il fatto è che la gloria è il
disastro.

Maurice Blanchot

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Non potrei scrivere senza decompormi, la domanda, quindi, non è: “Perché scrivere?”  o “Perché la decomposizione?” , Bensì”Perché decomporsi per scrivere?”/o “Perché scriversi decomponendo?” (29/7/23)

Il nuovo libro di Massimo Filippi, Diario di un anno. Biopoesie 2022-2023 edito da Meltemi, è un'indicibile promessa di libertà che non troverebbe spazio sufficiente nei meandri confinati dei saggi a cui l'autore ci ha abituati, pur nelle forme a lui congeniali della scrittura aforistica, frammentata e peraltro sublime dei lavori precedenti, il cui tema portante era lo sfruttamento animale e la decostruzione del mito della specie umana. I suoi versi sono bio poiché, partendo dagli affanni e dagli incontri – anche inaspettati -  che quotidianamente scandiscono i ritmi e le assonanze del mondo e che oggi verrebbero classificati come potenza della creatività situata, rappresentano un ponte tra una realtà  che non riusciamo più a comprendere, un mondo che scivola via dai nostri corpi e una fervente immaginazione che ci trascina nelle spire più profonde del simbolo e della metafora.  Il suo diario non parla ma si fa parlare, non recita ma si fa recitare. Il suo linguaggio poetico non è interpretabile secondo le consuetudini metodologiche e riduttive di quella che Bourdieu chiamerebbe la ragione scolastica.La sua scrittura semmai, adottando uno degli stilemi congeniali al modo Blanchot, è un continuo dileguarsi nelle aride secche di una realtà che ci aliena giorno per giorno. Il diario è la forma del desiderio che tracima dal presente materiale e simbolico - «Ovunque s'azzarda poesia: speriamo di vedervi again/A bordo dei nostri train. Allora, forse non è la rima/A fare il verso, ma qualcosa che, perverso, viene o dopo o prima» (26/3/23). Rime e assonanze destituiscono le regole poetiche date per scontate a favore di continue interrogazioni sul mondo e su come abitarlo. Domande frustrate da un vissuto esausto e un mondo sempre più oscuro e privo di prospettive che non siano dettate dalle ragioni di Stato. Uno Stato  che si alimenta sempre più di eccezioni perdendo la “fede” nel prossimo suo. Rime e assonanze che, ancora Blanchot, fanno a pugni con la lingua ufficiale della letteratura. Quella di Filippi è scrittura del disastro perché il disastro si prende cura di tutto (Blanchot, La scrittura del disastro, il Saggiatore).  Il mondo è sempre più impenetrabile perché nessuno evoca il suo significato recondito di esenzione dalla colpa più grande, quella di aver reciso per sempre il cordone ombelicale che ci lega all'animalità. E' questo a costituire l'animalismo sui generis di Filippi. diario poetico           

Quelle che Massimo Filippi chiama biopoesie sono la eco implacabile del rimestio di un anno – il 2022/23 come sorta di apparente palingenesi dal lungo lockdown imposto a seguito dell'epidemia di Covid-19- in cui la vita, nuovamente sottoposta ai dettami del ciclo virtuoso del capitale, si è scandalosamente esibita come morte possibile. Il remix vita-morte sembra essere infatti uno dei temi ricorrenti dei versi dell'autore.

Quando Filippi ci fa entrare all'interno di un mattatoio abbiamo la sensazione di trovarci davanti a un enorme parco merci, una spettacolare wunderkammer dove sono esposti  pezzi di esseri viventi smembrati e sanguinanti che rendono lo scarto pura metonimia, ovvero plus valore prodotto dalla sussunzione degli animali da reddito in capitale. La “carne” rappresenta dunque e paradossalmente sia il profitto sia il rendering, ovvero, per citare Nicole Shukin (Capitale animale. Biopolitica e rendering, Tamu), la “colla”che permette al capitale di riattaccare, simbolicamente e materialmente i corpi degli animali smembrati: «...Valore d'uso, scambio ed esposizione/Son cose andate, reliquie del passato. Ora riproduttività è la produzione, i corpi partoriti ciò che si sconta» (21/5/23).

La prosa poetica è dunque la cifra stilistica attraverso cui i frammenti del suo discorso amoroso vanno a comporre lo struggente mosaico del disastro in atto. Edifici che crollano, paesaggi desolati,  percorsi che si ripetono incessantemente su strade dissestate, quartieri fatiscenti osservati dal finestrino di un auto o di un treno sono la scenografia di una messinscena in cui si rappresenta l'impotenza di una specie ormai incurante di tutto e senza cura: «Le case, i centri commerciali e i parlamenti, che si stagliano su carceri, banlieus e allevamenti» (10/11/22). Vicino a  Whuan, la megalopoli cinese da cui è partita l'epidemia di Covid 19, si trova l'allevamento intensivo dove vengono macellati 600.000 maiali all'anno. Il mattatoio, un grattacielo di 26 piani predisposto per ottenere il massimo risultato attraverso un organizzazione capillare della messa a morte, risulta essere anche la messa in scena dell'economia industriale del neo capitalismo che oggi si manifesta più attraverso la propaganda dell'efficienza piuttosto che con la visione patologica delle catene di smontaggio dei mattatoi di Chicago del primo Novecento -  «Sudore, sangue e  disperazione non sono più ormai/Esclusi e catturati nelle cantine degli edifici alti: pochi oggi hanno cattedrali e cieli stellati sulla cima, ma 26 piani o più di carne urlante e sterco e urina» (22/11/22). diario poetico

Lo stile paratattico attraverso cui le poesie di Filippi prendono vita visualizzano tutto ciò che non vediamo o non vogliamo vedere, distratti dalla supponenza, del tutto umana, del vivere sociale. E' invece il vivere animale che, sfruttando tutte quelle occasioni che l'umano trascura, non cura e oscura, a ispirare il diario dell'autore. La poesia, in questo senso, è una tana in cui nascondersi agli occhi del mondo della volontà e della rappresentazione, un rifugio dove  parole impronunciabili perché scandalose disfano il linguaggio per farsi carne e corpo, lettering pulsante quanto un arteria, pagina in bianco «... foglio, ricovero a questi sensi sparsi, che cerca rifugio nelle pieghe e le volute, nei buchi che, passando l'hanno solcato» ; oppure «...il ronzare vibrante degli insetti»  e «...i voli accennati, precoci e poi sempre più sicuri» (16/7/23); o come il rapporto trans-specista che lega e allega la vespa all'orchidea. Filippi concepisce il vivente animale a prescindere dalle proprietà che dovrebbero denotarne la razza e le peculiarità di specie. Quello che sta a cuore a Filippi è evidenziare come siano le relazioni interspecifiche e intraspecifiche a definire  esistenze che agiscono e sono agite in quel flusso inesauribile del divenire-animale. La relazione animale con un animale infatti esula il cos'è e concerne il cosa fa. In altre parole è il concetto deleuziano di deterritorializzazione a materializzare la relazione tra una vespa e un'orchidea in quanto la vespa diviene un pezzo dell'apparato riproduttivo dell'orchidea e l'orchidea, a sua volta, diviene l'oggetto di affezione erotica della vespa al di fuori della sua tassonomia riproduttiva: «Dalla sporta capiente si liberano le spore, il fiore secco con la sua vitalità, il lampo, la folgore, la vespa e l'orchidea, il cammino capovolto, incavato, pas a pas, le folli particelle, la materia non formata, l'idea/Nella sua corposa, intensa varietà» (5/11/22).   

Quindi la specie è «...linea /che altre linee taglia»; è lama affilata che recide ciò che conta da ciò che non conta;è sguardo inquisitorio su corpi che non possono assurgere a mera metafisica, a ciò che connota la trascendentale centralità dell'uomo; è «...bieca invenzione (che) esonda tutta via, e sfuggedalla teca/in altra direzione» (7/11/22). Pertanto classificazioni, categorie e tassonomie sono pene inflitte dall'umano uomo all'inumano animale; specialità speciali di specie (Pollice opponibile/Abile cervello) e presunzione fisica della malinconia ,l'incoscienza della perdita di animalità che si trasforma in coscienza tecnocratica - «Bipedi dotti, implumi e senza pelo» (8/11/22), ecco quello che rimane.

Anche lo sguardo suffraga anthropos. Il guardare per Filippi è un processo che determina plasticamente un rapporto di forza. Guardare gli animali presuppone già lo scarto tra il soggetto che guarda e l'oggetto guardato. Per cui tutto ciò che rimane fuori dal campo di visibilità non ci riguarda, non ha spiegazione, anche se accade. Il principio per cui solo ciò che è visibile all'occhio umano sia da prendere in considerazione serve solo a ribadire la centralità del soggetto guardante come diretta emanazione della prospettiva umanocentrica-rinascimentale. Lo sguardo antropocentrato determina così il privilegio illusorio dell'occidente sul resto del mondo, umano e extraumano. Filippi con i suoi versi rimette in discussione questa infallibilità ottica precipitandola in una dimensione sì disastrosa ma sempre disposta a farsi eccezione. E' per questo che la sua scrittura del disastro non ha mai i connotati dell'apocalisse e della sopravvivenza, cara a certe derive millenariste dell'ecologia e del socialismo - «...Come vivere la vita e non salvarla, come trovare un'arma o un tifone collettivo e, più oltre, un'ecologia bizzarra?» (25/2/23) – quanto piuttosto i tratti che trovano nel conflitto una possibile via di fuga dalla prospettiva panottica e entropica degli imperialismi politici, simbolici e economici. «Non è questione di chi osserva/e di chi è osservato, o cosa, piuttosto di cangianti rapporti, in cui mai ci si riposa» (31/10/22). diario poetico

Forse il tema principale che aleggia come una mosca ronzante su tutto il libro sembra essere l'essere privo di essenza rappresentato dall'ossimoro vita-morte. Essere non vivente tra la vita e la morte, fallito e fallibile come uno zombie, figura che performa quella moltitudine di viventi che non contano.  Esseri che pur in  in vita sono già morti dalla nascita – animali da reddito, migranti, donne, negri e transex -, identità moribonde eppure affamate di vita, erranti e vaganti senza tomba né lapide. Esseri a cui non è concessa neanche la morte civile che elabora il lutto né tanto meno la morte sociale del nome, del luogo e del giorno. Solo la notte sceneggia la sorte del morto vivente «Via dal continente sanguinario dell'Umano/ Verso l'isola delle viventi sanguinanti» (13/4/23). Solo una orso recita il ruolo che gli/le è stat*  assegnat* non sapendo cosa sia morire per la vita.  Solo la vitale finitudine delle cose «...ti gonfia le membrane in anfibia sacca natante, ...in organi virali, in viscere di merda e abiette secrezioni, in urina, tanfo, bile, in cibi masticati e digeriti male, collegando vivente con morente con vivente» (13/4/23). Un morto che non vive o un vivo che non muore non sarà mai cadavere bensì creatura non addomesticata dalle spire mirabili della delirante cultura patriarcale che oggi sperimenta perverse relazioni social tra l'epidermico contatto e il semiotico sembiante.

I corpi che non contano sono tutti quei soggetti non funzionali all'accumulazione di capitale. Da qui si percepisce che l'antispecismo di Filippi non è solo decostruzione del mito specista e  legittima denuncia dello sfruttamento animalema anche e soprattutto razionale costruzione di un immaginario che fa del margine tra profitto e nocumento, valore e nullità, lo strumento per agire il conflitto, perenne quanto può essere perenne il ciclo virtuoso del capitale. In questo viatico del desiderio sono proprio i bisogni – il bisogno di carne, il bisogno di cura, il bisogno di affetto, il bisogno di cose – a essere rimessi in discussione. Filippi oltrepassa sia i confini angusti e morali dell'antispecismo classico sia quelli antropocentrici dell'antispecismo politico, enfatizzando semmai la qualità metaformica dell'animalità, la sua indisponibilità a finire nelle gabbie della dialettica tra umano e non umano e, soprattutto, tra struttura economica e sovrastruttura simbolica. Pertanto gli animali non vengono più consumati come rappresentanti apicali dello sfruttamento, la parte debole e sacrificabile del tutto del libero mercato ma come esistenze mitiche e sacre, corpi che brillano di quell'aura divina perché “sostanzialmente” simili a noi. Simili in vita, uguali in morte.  Per quanto disperata sia la non vita di esseri destinati al mero sfruttamento nei macelli, negli allevamenti, nelle gabbie e negli spazi della tortura sperimentale istituzionalizzata ci sono, incontenibili, creature sempre ai margini della contenzione schiavo-padrone e inclassificabili nella dicotomia vittima-carnefice, «Aragoste avanzano in moltitudine...Topi che scrivono col guizzo della coda...  Fischi acuti d'uccelli che si fan note...Tiepidi felini che s'agitano nel sonno...Insetti che scivolano renitenti in superficie...Vespe che sanno amare le orchidee...Zecche che tra le foglie, attendono pazienti l'inebriante ritornello di acido e di pelle...Cani che, nell'ululo notturno, si ricordano del tempo alieno quando ancora erano lupi» (13/6/23). Tra il pessimismo del sentire animalista e la ragione dell'ottimismo animale esiste ancora un infinito oltre il buio della scrittura e oltre la cripticità del linguaggio che denota, annota, lima e performa...fatica che si somma giorno per giorno... e le parole nitide di Massimo Filippi trasformano la percezione della fine che incombe in zone temporaneamente libere dove branchi, stormi, mandrie e greggi diventano bande, marmaglia e turba grande per sfuggire altrove in altri sensi, in altra legge. E' così che la puntuale descrizione di un massacro, di una guerra o di un macello dove vengono sacrificati enormi quantità di animali assomiglia molto alle sismografie, alle onde, ai passaggi con cui Luigia Marturano disegna i versi del poeta. Immagini come graffi incisi dalle grinfie più che da matite abituate a duplicare il reale. Perché, parafasandro Beckett, non c'è nulla di più finto del reale. E' qui che l'immagine vita-morte esplica tutta la potenza di forza rigeneratrice – lo smembrato si ricompone, la carne diventa corpo e le viscere rientrano nei ventri degli animali macellati come nel Cine-Occhio di Dziga Vertov, film-movimento e simbolo della rivoluzione proletaria: «Alcuni direbbero: “Per capire, riavvolgi la pellicola”, peccato tuttavia che anche la pellicola  è gelatina/Munta dalla carne di un misero animale» (10/1/23).

Filippi è il poeta della propria vita. E' qui il significato recondito della poesia, vita che tocca vivere, biografia che scandisce il sempre uguale per ripensare la gerarchia del vivente -  «Erba gialla sfinita e lieve pioggia, la sfocata nebbia e lo sguardo laterale, tra due autostrade l'impavida aiuola, sventato spartitraffico arrugginito, nel cui nulla, forse, qualcuno vive, incastrato per caso o per ordito» (23/12/22). Sono gli sconvolgimenti del tempo presente a ispirare il diario di un anno vissuto pericolosamente. Al delirio smisurato con cui il transumano insinua la sua verità tecnocratica delegando l'esercizio governamentale agli eserciti e agli apparati repressivi polizieschi il poeta contrappone la disapprovazione come pratica di vita e il conflitto come strumento razionale per creare nuovi immaginari e nuovi stili e modi di esistere. L'astensione dal cibarsi di animali - «...La bocca è invece interessante perché anfibia...Bellezza che intona i simulacri e orifizio osceno...Putrefazione della carne e spurgo della faccia... Canale ove transitano i carri del senso e del nutrimento...Ano solare in cui orale e incorporeo sinonimi si fanno, e voce alimentare del rimosso assassinato...» (20/12/22) -  e la dimissione dal ruolo di semplici spettatori allora diventa processo di soggettivazione “mostruosa” e consumata nell'ardente desiderio di potercela fare : «Social e sociale sono difformi, postare la cacca dopo colazione/O marcare le lotte collettive/Coi liquidi di un ego smisurato/Non è saggiare la trasformazione. Sociale non è la propria faccia condivisa/Ma terrore e rabbia di fronte a una divisa» (17/1/23). E sempre a proposito di spettatori Massimo Filippi ha il coraggio di rappresentare l'irrappresentabile nel segno di quella resistenza e di quella ribellione che Judith Butler assegna a Antigone, protagonista della tragedia sofoclea. Le tappe che scandiscono un anno di vita infatti non possono prescindere dalla tragica memoria delle sanguinose repressioni che costellano la storia italiana e i genocidi in atto.   «Tempo stabile, cielo sereno, non previste precipitazioni. Centoquarantasei morti in mare. Donne ucraine cucinano il borsch, altre muoiono di fame o di bombe. I mattatoi lavorano a pieno regime. La banalità violenta del normale» (16/2/23). Ancora stragi, morti sul lavoro, femminicidi, epidemie. «Erompe ancora la rabbia italiana, a Est i missili spengono la luce, giura in Italia il nostalgico governo/(Rima facile, quindi da evitare)/Con tre morti al giorno per lavoro/E i suoi femminicidi inalterati, inizia la ridda dei sottosegretari, sangue in Ciad ricopre la rivolta, avanza in Siria il colerico vibrione. Anche se festa, l'oscena violenza/Non si ferma, prosegue, non s'arresta» (23/10/22).

Il diario «...che aveva come scopo...quello di rendere differente la ripetizione o, se preferite, di ripetere la differenza» , come confessa l'autore nella prefazione, resta un mistero, un luogo utopico dove far cortocircuitare realtà e fantasia oltre ogni logica e oltre ogni morale, perché per non rassegnarsi alla dittatura del reale bisogna seguire il verso della confusione, forse l'unica risorsa ancora a disposizione del poeta.

E forse l'immagine che meglio sintetizza questo libro è quella, diventata virale sul web, che ritrae un maiale caduto o fuggito da un camion della morte e diretto probabilmente in uno dei tanti macelli  che costeggiano le nostre autostrade. Il povero animale è chino tra la vita e la morte con le zampe fratturate mentre intorno a lui continuano a sfrecciare indifferentemente le auto. Altri morti sul lavoro.

Oggi niente da dire: prosegue inalterata/La furia del presente, e il reale, tra le sue spire, non cessa di non scrivere/Lo strazio del vivente (26/10/22)

Emilio Maggio

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