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Philosophy Kitchen

Un libro per passanti – il nomade di Deleuze e Guattari, il vagabondo di Delfini, il viandante di Nietzsche – Disattivare di Ubaldo Fadini (U. Fadini, Disattivare. Un’idea di filosofia, Ombre Corte, Verona, 2024) è un viaggio frammentario, solcato da scorci, sguardi fugaci, lacerti di possibilità, soggetti da venire. Un viaggio in cui il frammento è quello dell’idioma allegorico benjaminiano (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto, Einaudi, Milano, 1999, p.190) e dell’aforisma nietzschiano (G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia. E altri testi, tr. it. di F. Polidori e D. Tarizzo, Einaudi, Milano, 2017, p. 47), marchiato dalla profonda necessità del vuoto che divide le tessere del mosaico. 

La sfida di Fadini, la sua proposta, “un’idea di filosofia” (come recita il sottotitolo dell’opera), si gioca tutta sulla spaccatura che incrina la massa compatta dell’esperienza, della sua quotidianità e apparente ovvietà, e la polverizza in stralci incommensurabili di pura esteriorità. Giocare coi pezzi, coi cocci dello specchio come Dioniso Zagreo, è la possibilità sulla quale scommettere, la critica contro ogni cristallizzazione, lo “smontaggio” di Celan, “a favore di nuove possibilità di composizione” (U. Fadini, 2024, p. 12), contro i metri stantii cui le società occidentali contemporanee e i loro complessi meccanismi di funzionamento interno obbligano. Lo spazio di questa scommessa è quindi la soggettività, il suo irrigidimento e la costruzione di prassi a venire per un suo allentamento (termine ricorrente nel testo, di origine benjaminiana): “molto nell’oggi concorre a una determinazione della nostra soggettività risolta su piani di sempre maggiore dipendenza” (p. 40).  La portata di questa scommessa ha invece la sua misura nel “motivo del disattivare” (p. 12). Ed è all’antropologia filosofica moderna – su cui Fadini ha tanto lavorato – che si deve la prima messa a fuoco di questo tema, della sua latenza.

Anzitutto, l’Entlastung (esonero) di Gehlen, che rappresenta la “tecnica” capace di spezzare l’immediatezza entro il poliforme processo di metamorfosi evolutivo dell’uomo (p. 13), portando per certi versi alle estreme conseguenze la coincidenza che già Hegel reclamava tra Negatività e Autocoscienza (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, tr. it. di V. Cicero, Giunti-Bompiani, Firenza-Milano, 2019, pp. 261-273), come impossibilità dell’immediatezza pura e semplice per l’esistenza umana: l’uomo è “un essere naturalmente artificiale (p .59). Ma, il richiamo è ancora prima ad Alsberg e alla fondamentale istanza, che dà la cifra di tutta la sua riflessione sulla “disattivazione”, inerente la “corrispondenza – nella storia dell’umanità – tra lo stato del corpo e quello della tecnica” (p.  16). Si assiste infatti, nel corso del Novecento, ad un “processo di traduzione dell’antropologia filosofica in vera e propria antropologia della tecnica” (p. 60), che si fa prisma di diffrazione, e che spezza il fascio antropico nella trasparente pluralità delle sue frange; plasticità, carenza organica, contrazione della contingenza, agglutinazione delle prospettive, messa in forma dei bisogni. È il movimento costante tra pennellata e dipinto che detta il ritmo e imprime lo stimolo a molte delle pagine di Disattivare, oscillando costantemente tra il piano individuale e quello collettivo, e nella fattispecie istituzionale – altro tema caro a Fadini – in un rimbalzo senza partenze o arrivi, in perfetto isocronismo. Corpo e tecnica, infatti, incrociano in composizioni a più livelli individuo e società, naturalità e artificialità, finanche istinti e istituzioni. Tanto Deleuze, quanto Luhmann e Gehlen (cui è dedicato un confronto vivace e ampio, Fadini, 2024, pp. 115-135), le città di Lefebvre e Debord, le eterotopie di Harvey, sono i vettori in tralice che pongono in risonanza le molteplici componenti che, nell’interazione tra il macroscopico e il microscopico, costituiscono una società – o, meglio sistema, volendo rimanere vicini al lessico dell’antropologia filosofica –, le sue pluriformi articolazioni, nonché le interazioni tra le parti, e le fondamentali pratiche di disattivazione che s’innestano tra di esse.

È la stessa capacità di disattivazione, che Deleuze rivede nell’opera di Carmelo Bene, che irresolubile nell’avvenire o nel passato, si colloca precisamente nel mezzo, nel milieu, “né lo storico, né l’eterno, ma l’intempestivo” (p. 28): inattuale. L’attore diviene “un operatore” (p. 26), che introducendo una variazione continua, primariamente nella lingua, istituisce un “uso minore della lingua che consente di «ritirare» (disattivare…) «gli elementi di Potere o di maggioranza» (p. 29). Un tipo di critica che viene performata, portata letteralmente in scena, mostrando per contrasto, secondo Bene e Deleuze, la totale parzialità di operazioni artistiche speculari come quella di Brecht, l’altro grande sperimentatore della critica sociale nella stanza con tre pareti. Eppure, attraverso il commento di Muzzioli, è a partire da quest’ultimo punto di confronto che Fadini ricama una trama differente, uno spettro d’azione dell’opera brechtiana, non tanto incentrata sulla mera critica “agita” attraverso il testo (e quindi viziata da un intellettualismo insanabile), ma piuttosto sul sottile gioco di disancoramento del dispositivo di immedesimazione, in quanto motore della produzione letteraria di massa, a favore di una dinamica extra-morale di straniamento, – di nuovo – disattivazione, al contempo capace di portare tanto lo spettatore lontano dalle maglie della normalizzazione capillare di ogni aspetto del reale, quanto di portarlo così al di fuori del teatro stesso: “una pratica di distanziamento e disattivazione che non resta confinato alla scena teatrale e va invece a estendersi all’intera esistenza” (p. 35).

Ed è proprio questa pratica di distanziamento, questo gesto di allentamento, capace di ingaggiare le stratificazioni più profonde dell’Io precorporato post-fordista, l’occasione per isolare l’intenzione, teorica e pratica a un tempo, del testo di Fadini: l’idea che la soggettività, “sia possibile restituirla a quella sua inesorabile parzialità che ne segna infine la provvisorietà, la temporaneità (perlomeno per le forme che sono date, presenti)” (p. 40). Riaffermare con vigore rinnovato il valore di un modo di fare esperienza mai pienamente catturabile dagli attuali dispositivi integrazione, dagli orpelli della “nuova ragione del mondo”, per dirla con Dardot e Laval (P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, a cura di I. Bussoni, Derive Approdi, Roma, 2013). “Se si prende atto come ancora oggi il principio di individuazione, sempre più mobile e performativo, sia rivolto a penetrare/assorbire la dimensione/dinamica del vivente” secondo logiche di valorizzazione capitalista, occorre istituire “pratiche innanzitutto di radicale dis/individuazione o comunque di «allentamento»/disattivazione relativa all’attuale configurazione dell’io” (p. 76). Lo stesso richiamo al Frammento teologico-politico di Benjamin, all’alchimia tra il Regno messianico e il Profano che lo struttura, agisce come funzione di reminiscenza della transitorietà insita nelle cose del mondo, nella natura, ma solo come fulcro di una leva capace di rovesciare la pavidità d’innanzi al caduco in gaia potenza di metamorfosi: la “ritmica naturale è già – nel continuo trapassare – felicità” (p. 72). La natura, messianica “in quanto la sua totalità spazio-temporale è eternamente e pienamente transitoria” (ibid.), è la stessa impossibilità di una solidificazione permanente, di un attecchimento duraturo di qualsivoglia dispositivo di controllo.  “Insomma, la posta in gioco è quella di una ricerca dell’allentamento che permetta di scoprire la finalità di tale controllo e quindi i nuovi modi dell’asservimento, rapidi, veloci, mobili, mutevoli e però, proprio in ciò, continui e incessanti” (p. 43). Meccanismi e dinamiche la cui traccia, che oggi si riverbera nel torpore e nella deflazione della psicosfera, è il viatico verso occasioni di sperimentazione pratica, come già Handke vedeva. “L’«Io» si disattiva progressivamente nel sentirsi stanco“, rischiarando le zone d’ombra, le anomalie che sempre accompagnano l’ovvietà come una sottotrama, di modo che “il soggetto si trova sdoppiato, moltiplicato virtualmente” (p. 49).  Di questa sperimentazione, ci fornisce l’effigie la stessa letteratura contemporanea – la novella, una certa novella, nello specifico – che rimbalzante tra le voci degli autori e dei critici, tra Fitzgerald, Deleuze, James, Celati, Delfini, Guattari, diviene essa stessa il campo in cui il frastuono del rigoglio inesausto della vita che incrocia le righe d’inchiostro sul foglio, fregiato dall’arcana preziosità dell’incertezza, si batte col razionalismo del romanzo – di un certo romanzo – contemporaneo, della sua celebrazione dell’ovvio, la sua esclusione dell’eccentrico, in coppia, si potrebbe aggiungere, all’incorniciatura di modelli di soggettività cerei, come quelli dei grandi romanzieri americani à la Roth o Updike; quelli che Foster Wallace appellava Gn, Grandi narcisisti (D. Foster Wallace, Considera l’aragosta, tr. it. di A. Cioini e M. Colombo, Einaudi, Torino, 2006, 55-63).

È affatto significativo che le battute conclusive del testo (se si escludono i due capitoli in appendice, Supplementi e Mostro e stupidità), si adagino sulla voce solida e morbida della pedagogia, che forse più di altre è in grado di squadernare le dinamiche intense di divincolamento costante da forme definitive, che rappresentano la vera posta in gioco della soggettività oggigiorno. Un campo dove, come ricorda Biesta, il fattore di in-formazione è strutturato secondo una procedura di riduzione della libertà a “libertà neoliberale”, libertà di acquistare e consumare, presumibilmente in attesa di essere consumati (p. 110). Si chiude così, Disattivare, richiamando il ricordo di un’apertura diversa, forse un fantasma per l’epoca attuale; una libertà puramente espansiva ma incapace in ciò di avvocare un potenziamento egoico, con gli occhi strabuzzati innanzi all’infinita distanza – nei termini di Lévinas – rispetto all’Altro, che è il vestibolo, in verità mai oltrepassato, di quello che una soggettività può essere tra disattivazioni e trasformazioni, smontaggi e segmentazioni.

Andrea Lucchini

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