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“Comme toute époque d’expérimentation et d’innovation, la période actuelle de réflexion sur le langage a été marquée par des luttes serrées et des controverses tumultueuses” (Jakobson 1973, t. 2 pp. 10-11)

La citazione che abbiamo scelto di porre in esergo a questa recensione proviene da un saggio scritto da Jakobson nel 1970 (poi edito nel secondo volume di Essais de linguistique générale). Benché le lotte a cui lui faceva riferimento fossero diverse da quelle trattate nel recente lavoro della linguista Julie Abbou, le sue parole ci paiono pertinenti per presentare Tenir sa langue che tratta per l’appunto di controversie socio-linguistiche. Questo studio nasce infatti alla convergenza di due fenomeni: da una parte prende posizione rispetto alle polemiche istituzionali e a mezzo stampa sulla cosiddetta écriture inclusive sviluppatesi nel corso degli ultimi dieci anni in Francia (e non solo); d’altra parte, si situa in quel campo di studi su lingua, discorso e genere che aggiorna e sviluppa lavori pionieristici emersi già negli anni Ottanta-Novanta sul genere come fenomeno allo stesso tempo sociale e linguistico-discorsivo per opera di autrici con approcci talora anche molto divergenti tra loro come Luce Irigaray, Anne-Marie Houdebine-Gravaud, Claire Michard, Patrizia Violi, Marina Yaguello espressesi in monografie o in riviste tra cui vale la pena citare Questions Féministes e Nouvelles Questions Féministes che nel tempo ha edito almeno tre diversi dossier tematici: “Langage et oppression des femmes” (1998), “Langue et Sexisme” (1999), “Parité linguistique” (2007). 

Ultimamente, l’emergere di una linguistica che, intersecando l’ottica anti-naturalista del materialismo storico o degli studi queer, interroga le radici ideologiche della semantica e osserva la nominazione di soggetti e fenomeni sociali come atto situato e non neutro ha favorito l’analisi delle forme di espressione verbale di sessismo e di altre discriminazioni connesse. Tenir sa langue è dunque un saggio femminista sulla vita sociale dei segni verbali che delinea un orizzonte ampio, nello spazio e nel tempo, di riflessioni sull’agentività linguistica dei soggetti. Scritto con una disinvoltura non accademica che consente incursioni in territori vari (letteratura, filosofia, cinema) senza cedere sul piano del rigore, il saggio ha per titolo un’amphibologie che fa collidere l’una contro l’altra le due interpretazioni possibili della stessa locuzione. Tenir sa langue può infatti indicare lo stare in silenzio, il mantenere un segreto, ma anche il trattenersi dal dire qualcosa che potrebbe risultare scomodo, un po’ come tenir sa place rinvia allo stare al proprio posto senza sconfinare in lidi imprevisti. Abbou si serve dell’espressione in modo antifrastico scegliendo del verbo tenir non tanto il rinvio alla stasi o al rispetto di un vincolo quanto piuttosto l’idea di resistenza (come nell’espressione tenir debout), di autonomia («tenir sa langue bien en main», p. 79) e di presa di potere su qualcosa, all’occorrenza, sulla lingua che parliamo: 

Tenir sa langue, ce n’est pas se taire. Tenir sa langue, ce n’est pas non plus la garder intacte. Tenir sa langue c’est rester accroché·e quand le travail des catégories fait ruer le langage. Tenir sa langue, c’est tenir le choc du vacarme. C’est tenir debout quand les catégories vacillent. Tenir sa langue, c’est aussi tenir bon quand les conservateur·trices tonitruent devant l’irrégularité, quand l’institution se met à gronder et nous rappelle à l’ordre (p. 152).

La legittimità a prendere la parola è una questione con cui i femminismi nelle loro diverse declinazioni e inclinazioni si sono confrontati a più riprese al fine di espandere i margini di esistenza e di azione sulla lingua e sul mondo di quello che Beauvoir chiamò il “secondo sesso” e che oggi può indicare non solo le donne ma tutti quei soggetti che sono politici perché dissidenti rispetto a un ordine sociale e simbolico iniquo radicato nella confisca dell’universale da parte del genere maschile. Il nodo fondamentale e trasversale a più lingue da cui parte la riflessione di Abbou sta infatti nel progressivo consolidamento del maschile come metonimia dell’umano, fenomeno a cui oggi le nostre orecchie sono sempre più sensibili e che si tende, almeno in taluni contesti, a evitare quando si parla di collettività miste o quando il genere non è pertinente, con strategie di neutralizzazione della marcatura di genere (l’umanità invece che l’uomo) o di sdoppiamento (buongiorno a tutte e a tutti invece che buongiorno a tutti). Nella prima parte del testo, dedicata ai rapporti tra lingua e genere, Abbou riprende le analisi di Claire Michard sulla fondamentale dissimmetria che, nelle lingue a due generi, coinvolge il femminile e la sua messa in opera nel discorso dove diversi esempi illustri (in primis Levi-Strauss) mostrano come al genere marcato sia consentito unicamente di significare il sesso e non l’umano.

Nella seconda parte e nella terza, intitolate rispettivamente Pratiques féministes du langage e Écrire féministe, si mostra come nel corso del tempo si sia tentato di porre rimedio a tale dissimmetria attraverso pratiche volte a demaschilizzare la lingua e a renderla più equa. L’attivismo ha così proposto soluzioni per rendere visibile il femminile o rovesciarne la connotazione subalterna: l’arcigrafema (éluEs, étudiantEs…), tutte le strategie per includere i due generi in una stessa forma tramite punti, barre o trattini (agriculteur·trices, élu·es, savant/es) o indifferenziare pronomi e aggettivi attraverso diverse crasi (iel, celleux, ceuses…). Altre proposte si sono concentrate su un reale démarquage fondato su una simbolica non sessuale, non binaria e dunque radicalmente altra: Abbou cita le riflessioni sul sistema pronominale di Monique Wittig, che nel romanzo L’Opoponax sprimentò l’uso della terza persona senza genere on, nonché la critica delle opposizioni classificatrici binarie della filosofa cinese He-Yin Zhen. A ciò si potrebbero aggiungere le ipotesi della filosofa e scrittrice svizzera Michèle Causse il cui alphalecte è all’origine della grammatica neutra di Alpheraz che Abbou non cita ma che potrebbero essere ricondotte a quella che lei chiama “politique du cailloux dans la chaussure” difendendo con Elsa Dorlin più il tumulte che l’ordre, più la perturbation e la prolifération che l’hygiène o la pureté delle politiche linguistiche e della standardizzazione.

Il saggio spiega infatti che la posta in gioco del “langage comme lieu de lutte féministe” non è semplicemente la femminilizzazione dei nomi di professione cara alle commissioni governative come quella istituita da Yvette Roudy nel 1984, atto comunque non trascurabile se consideriamo le resistenze opposte nel tempo a sostanziare verbalmente la presenza delle donne in posizioni apicali e di potere. La questione che un approccio femminista materialista permette di sollevare è piuttosto il ruolo del genere nell’organizzazione semiotica: se, quando e come il genere è un’informazione pertinente. Conviene qui cogliere l’occasione per mettere in luce un’ambivalenza di fondo del femminismo contenuta nella radice stessa della parola e all’origine di due tendenze diverse e contrapposte che ingenerano quella confusione ben sintetizzata da Monique Wittig in un saggio fondamentale del 1980 intitolato On ne naît pas femme:

Que veut dire «féministe»? Féministe est formé avec le mot «femme» et veut dire «quelqu'un qui lutte pour les femmes». Pour beaucoup d'entre nous, cela veut dire «quelqu'un qui lutte pour les femmes en tant que classe et pour la disparition de cette classe». Pour de nombreuses autres, cela veut dire «quelqu'un qui lutte pour la femme et pour sa défense» pour le mythe, donc, et son renforcement.

Pourquoi a-t-on choisi le mot «féministe», s'il recèle la moindre ambigüité? Nous avons choisi de nous appeler «féministes», il y a dix ans, non pas pour défendre le mythe de la femme ou le renforcer ni pour nous identifier avec la définition que l'oppresseur fait de nous, mais pour affirmer que notre mouvement a une histoire et pour souligner le lien politique avec le premier mouvement féministe.

Wittig sottolinea che il femminismo è una lotta di classe volta dunque alla sparizione di tale classe e non già alla sua feticizzazione. Le pratiche linguistiche con cui la stessa teorica e scrittrice ha agito nei suoi romanzi si fondano su una filosofia del linguaggio, della soggettività e dei rapporti di potere risalente a Bachtin e a Volosinov, secondo cui la lotta di classe è anche una lotta per il senso delle parole e delle categorie. Di conseguenza anche la lotta di sesso è una lotta di senso per combattere la quale è necessario ripensare la visione della “natura” (ovvero della cultura e dei rapporti sociali) iscritta nel genere stesso come tecnologia sociale e semiotica. Abbou cita Volosinov per convocare il concetto di dialogismo ma è nel solco della sua visione dei rapporti tra linguaggio e potere che si è sviluppato anche il pensiero linguistico delle femministe materialiste. Guillaumin, Wittig o Michard hanno mostrato come le lingue a due generi classifichino gli esseri umani tendenzialmente in base alla forma del loro sesso in virtù di una concezione riproduttiva e normativa dell’anatomia umana che offre un supporto “naturale” alla discriminazione trasformando la cultura in natura. Ne consegue che la divisione è già gerarchia poiché, come nota Abbou citando Christine Delphy, non si dividono mai due entità uguali e «classer, c’est dominer» (p. 35). Inoltre, l’essenzialismo gerarchico che discende da tale categorizzazione presenta analogie con l’ideologia razzista: ragione per cui lo sguardo intersezionale di Abbou pone in luce il quadrante sesso-sessualità-classa-razza e dunque quello che chiama l’“attelage genre-langue-nation”.

Irrompere nel discorso e nella lingua stessa scompaginando l’ordine costituito significa pertanto ripensare il mondo e le strutture inique che lo reggono, nel tentativo di immaginare e dare forma a modi diversi di fare senso e relazione con tutta la spinta creativa che ciò comporta e che spesso viene mortificata dai richiami all’ordine verso cui Abbou esprime creativamente la sua rabbia:

Pour faire irruption dans la grammaire [il faut] certainement autant de joie que de rage, mais aussi une compréhension du langage bien particulière. Une amitié profonde pour la langue, une confiance en elle et en sa capacité transformatrice. Il faut quitter de manière définitive cette vision d’une langue qui ne serait qu’un film transparent à déployer sur le monde pour l’étiqueter comme un morceau de viande au congélateur. Il faut l’intime conviction que la langue n’est pas du cellophane, et que la réalité n’est pas un morceau de viande. Mais que la langue est une proposition de monde. Prendre la parole c’est toujours proposer un monde (p. 10)

Nella quarta e ultima parte del libro, però, Abbou riflette sulla confisca di pratiche linguistiche dissidenti e sullo svuotamento della loro potenza politica trasformatrice. In un primo momento si concentra sul concetto di “inclusione” e lo rimette in causa (chi ha il potere di includere chi? A quale scopo?). La sua ricostruzione della genesi dell’écriture inclusive rivela come l’espressione circoli in diversi ambiti linguistico-discorsivi e spazio-temporali. Alla fine degli anni Settanta è la teologia progressista statunitense a impiegare l’unità lessicale inclusive language per riferirsi alla necessità di rendere i vangeli meno androcentrici e più accoglienti nei confronti di donne e minoranze. Il cattolicesimo, al contrario, resiste con tutta una serie di politiche, anche linguistiche, ostili alla revisione dei rapporti gerarchici tra i generi e le sessualità. Negli anni di Papa Ratzinger, tale resistenza si legittima mediante una retorica della valorizzazione della “differenza femminile”, come dimostrano i lavori di Garbagnoli e Prearo citati da Abbou sul discorso vaticano in materia di “teoria-del-genere”. Nel campo politico francese, la nozione di inclusion appare innanzitutto in relazione all’handicap e alle politiche educative per poi giungere al genere sostituendo progressivamente lemmi più connotati come antiracisme, lutte contre l’oppression/l’exclusion. Inclusion viene dunque a connettersi con égalité des chances e promotion de la diversité, meglio percepiti nella congiuntura attuale che smorza il conflitto e l’esplicitazione delle sue ragioni: «les débats autour de l’écriture inclusive reflètent […] un moment paradoxal libéral-républicain, qui voit tout à la fois un raidissement du républicainisme et une libéralisation des questions de genre, expliquant la polémique tout comme la soudaine et très grande acceptation de ces pratiques» (p. 195). 

L’esempio con cui si conclude la disamina è quello delle campagne pubblicitarie dell’Organisation internationale de la francophonie il cui “humanitarisme néolibéral” utilizza il ruolo sociale delle donne nei diversi paesi dell’OIF come strumento di valutazione e ingerenza della Francia nelle politiche interne dei paesi membri in nome di valori “repubblicani”. Abbou sottolinea tuttavia che République sta diventando quella che Krieg-Planque chiama una formule ovvero «une expression que tout le monde utilise alors qu’aucun consensus n’existe sur ce qu’elle nomme, car c’est innommable» (p. 206) con la conseguenza che «Il faudrait inclure les femmes au nom de la République, mais s’assurer que l’écriture inclusive ne soit pas trop excluante, il faudrait porter une vision libérale du genre au nom du progressisme mais ne pas céder au particularisme identitaire» (p. 206). Di fronte a un momento ideologico paradossale in cui la scrittura inclusiva è tanto avversata quanto capitalizzata in nome degli stessi valori qualificati come “repubblicani”, Abbou conclude auspicando che la critica femminista aggiri la nozione di inclusione tanto quanto quella di scrittura inclusiva preferendole l’emancipazione e l’“illeggibilità” del genere:

Face à un conservatisme républicain hostile à la modification de l’ordre de la langue comme de l’ordre du monde, et face à une libéralisation du genre qui investit les signes linguistiques du féminisme pour les vider de leur force émancipatrice, reste alors au féminisme, comme souvent, à défaire la vérité du genre et à en revenir à la perturbation, au désordre, au tumulte et à l’excentrique pour produire de l’illisible comme pratique politique de la grammaire (p. 212).

Silvia Nugara

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