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Che si tratti di un incidente di percorso, o di un esito coerente con la nostra direzione di marcia, la crisi finisce sempre per rivelare qualcosa: quella che stiamo vivendo, se non altro, ci ricorda quanto siamo fragili, quanto precaria ed esposta alla fortuna sia la condizione umana. E invita anche tutti noi a meditare sulla necessità dell’altruismo, tanto su scala individuale quanto internazionale, al fine di tamponarne le conseguenze più funeste. Se quella che serve è allora una coscienza globale, indispensabile per fronteggiare questa come altre emergenze, non sarà forse inopportuno riflettere attentamente sul significato e le implicazioni di un simile allargamento di prospettiva. È quello che prova a fare Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, La tradizione cosmopolita. Un ideale nobile ma imperfetto, recentemente tradotto in italiano per le edizioni Bocconi, un saggio in cui alla complessità dei temi affrontati fa da contraltare il migliore stile anglosassone.

Copertina, Martha Nussbaum. La tradizione cosmopolita. Un ideale nobile ma imperfetto

Partendo dai Greci, e nello specifico da quella straordinaria figura che fu Diogene il Cinico, il quale dichiarava di sentirsi cittadino del mondo intero, la filosofa ricostruisce una tradizione di pensiero che dall’antichità giunge fino a noi, e che nelle parole dei suoi protagonisti ha costantemente difeso il principio dell’eguale valore di ogni essere umano. Non si tratta però di ripercorrere passo dopo passo la storia di un concetto, con precisione filologica: a Nussbaum interessa piuttosto soffermarsi su alcuni autori particolarmente significativi per i problemi al centro della sua indagine, accogliendone gli spunti o prendendone invece congedo come si farebbe con dei contemporanei.

Si comincia con lo stoicismo, che eredita dai cinici l’idea secondo cui l’essere umano, indipendentemente dal rango sociale e dalle appartenenze politiche, sia in quanto tale meritevole di rispetto: la dignità, secondo questa tradizione, trascende ogni differenza e deriva dalla capacità di pensare e agire moralmente. Il possesso di beni esteriori non rappresenta affatto un discrimine rilevante, un motivo per giustificare un trattamento iniquo. Ecco l’egualitarismo stoico, che si traduce – l’autrice ha qui in mente soprattutto Cicerone – nel riconoscimento dei doveri di giustizia a cui ognuno di noi è chiamato, e che consistono fondamentalmente nell’astenersi da comportamenti lesivi dell’altrui libertà. Fin qui, spiega Nussbaum, il discorso stoico suona condivisibile, ma a ben vedere non ancora sufficiente: sconta infatti un antico pregiudizio, una visione dell’essere umano monolitica, che non gli consente di comprendere appieno la nostra sfera di responsabilità. Si tratta del convincimento secondo cui la dignità umana, inalienabile in ogni individuo, sarebbe al riparo dalle condizioni esterne, e quindi anche dalle privazioni materiali, giudicate del tutto indifferenti per una vita buona. Convincimento che a sua volta deriva dalla rigida separazione tra foro interno e mondo esterno, respinta dalla filosofa con ottimi argomenti: «La mente e lo spirito, infatti, sono parte di un organismo vivente che ha bisogno di cibo, di cure mediche e di altri beni materiali» (p. 16). Una rettifica quanto mai opportuna e tuttavia gravida di conseguenze, perché lo scarso valore tributato ai beni esteriori è proprio ciò che consente agli stoici di affermare l’universale dignità umana. Non esiste il rischio che, riabilitandoli, si finisca anche per negare dignità a coloro che di quei beni non dispongono? No, spiega Nussbaum, il riconoscimento che la vita umana necessiti di beni esteriori per fiorire davvero, invece di favorire sperequazioni e degradazioni, presuppone al contrario un impegno maggiore nei confronti degli altri, affinché ciascun essere umano abbia la possibilità di condurre un’esistenza ricca di significato. Per un verso la dignità è allora inalienabile, e come affermano gli stoici appartiene all’individuo in quanto tale, ma per un altro verso è responsabilità nostra e della comunità alla quale apparteniamo contribuire a farla risplendere, dando a ciascuno i mezzi per esprimerla appieno. Questo comporta che i doveri di aiuto materiale siano importanti tanto quanto quelli di giustizia, e che agire moralmente non significhi semplicemente astenersi dal commettere azioni malvagie, ma anche attivarsi in modo concreto per il benessere altrui. Con le sue parole: «Esiste un livello minimo di beni esteriori di cui è giusto preoccuparsi, sia pure strumentalmente, poiché la sua mancanza impedisce a un essere umano di vivere una vita decorosa, all’altezza della dignità umana, così come glielo impedisce la mancanza di libertà politica, di istruzione, di legami associativi e di reciproco rispetto con i propri concittadini» (p. 69). Gli stoici, che pur furono anche riformatori sociali, secondo Nussbaum non si sarebbero mai spinti a tanto: con l’eccezione forse di Cicerone, indiscutibile protagonista della prima parte del libro, che ammorbidisce il rigorismo morale affermando l’importanza dei rapporti umani e in generale dei beni di fortuna per la conduzione di una vita felice.

A questo punto, bisogna però sottolineare come le implicazioni del discorso non chiamino in causa la sola dimensione individuale, bensì anche quella internazionale, come non deve sorprendere vista la prospettiva cosmopolitica della tradizione, secondo la quale tutti gli esseri umani farebbero già parte di un ordine morale universale. Dovremmo sentirci obbligati nei confronti dei popoli diversi dal nostro, e fino a che punto? Una delle domande centrali del saggio, alla quale l’autrice risponde con un energico sì. Cicerone, per altri versi un modello da seguire, da questo punto di vista non sembra più un interlocutore affidabile, dal momento che ripropone a livello internazionale la distinzione tra doveri di giustizia e di aiuto materiale, sostenendo che nelle relazioni tra stati non si dovrebbe pretendere altro che il rispetto dei primi. Occorre allora richiamarsi ad altri autori, per elaborare una teoria della giustizia globale più comprensiva, ed è proprio quello che l’autrice intende fare rivolgendosi a pensatori come Ugo Grozio e Adam Smith.

Martha Nussbaum
Mona Hatoum - Hot Spot (2013)

Il giurista olandese ha il grande merito di traghettare la tradizione stoica nel mondo moderno, calando la prospettiva cosmopolitica nell’orizzonte della statualità. Ecco allora che la concezione groziana del diritto internazionale, incentrata sul riconoscimento di una legge naturale a fondamento della politica, può rivelarsi di grande ispirazione per Nussbaum, insieme alla sua difesa del principio di sovranità. Il tentativo di conciliare i due aspetti, bisogna ammetterlo, finisce inevitabilmente per alimentare tensioni. Se è vero infatti che la ragione impone al potere politico di rispettare l’umanità, secondo Grozio questo non deve neanche diventare un pretesto per ingerirsi in modo sistematico nelle vicende degli altri stati. Difficile però stabilire un criterio univoco, una regola generale per disciplinare l’intervento umanitario, che viene giustificato solo come extrema ratio. Come viene spiegato, «il mondo delineato da Grozio è quindi tutt’altro che semplice. Pur prevedendo un’evoluzione del diritto internazionale, egli prefigura un mondo in cui continuano a esistere anche norme morali vincolanti ma non sancite dal diritto positivo, a meno che questa o quella nazione non le trasformi in leggi» (p. 98). La speranza è allora che le sovranità esistenti traducano sul piano legislativo i comandi della ragione, e che nel frattempo la comunità internazionale si impegni a intervenire nelle vicende degli altri stati solo di fronte a intollerabili crimini contro l’umanità. Oltre a questo, un altro fondamentale contributo del giurista, che in questo innova rispetto alla posizione di Cicerone, va ricercato nella concezione groziana dei beni comuni, ovvero dei doveri di aiuto materiale su scala internazionale, una dimensione del suo pensiero spesso trascurata. Pur senza prefigurare meccanismi o istituti precisi, Grozio avrebbe infatti sostenuto l’imperativo dei paesi ricchi di venire in aiuto dei popoli in difficoltà, spingendosi ad affermare qualcosa di rivoluzionario, ovvero che la condizione d’indigenza, lo stato di necessità che attanaglia i poveri, darebbe loro pieno diritto alle risorse di cui non dispongono, e che anzi ne sarebbero loro i legittimi proprietari.

Sull’importanza dei beni materiali, questa volta nell’ambito di una riflessione più generale sullo sviluppo della personalità umana, Nussbaum analizza poi la posizione di Adam Smith. Nelle pagine del saggio, il filosofo scozzese smette i panni del liberista appassionato e si scopre teorico della giustizia redistributiva. Il riferimento non va alla Teoria dei sentimenti morali, come ci si potrebbe attendere, giudicata dalla filosofa ancora troppo debitrice del rigorismo stoico, ma proprio alla Ricchezza delle nazioni, il classico dell’economia politica, dove Smith riabilita la dimensione pratica dell’esistenza, emancipandola dal disprezzo che una lunga tradizione le aveva riservato. Sensibile alle rivendicazioni dei lavoratori contro le iniquità, egli auspica che lo stato garantisca a tutti un’istruzione minima, affinché le capacità innate presenti in ogni essere umano non deperiscano. Pur senza auspicare stravolgimenti, ecco forse perché l’autrice lo preferisce a un pensatore come Marx, il filosofo scozzese ci ricorda che «la dignità umana non è simile a una roccia, ma è semmai una tenera pianta che in condizioni inclementi appassirà» (p. 136), e che la collettività ha il dovere d’intervenire a favore degli svantaggiati.

Nussbaum prosegue l’itinerario giungendo all’epoca dell’interconnessione globale, dove il cosmopolitismo diviene per ragioni strutturali una prospettiva non solo attraente ma anche necessaria. Bisogna recuperare la tradizione mettendola a confronto con le sfide del presente, nella direzione di un «liberalismo politico globale materialista, basato sulle nozioni di capacità e di funzionamento dell’uomo» (p. 195). Le proposte avanzate dalla filosofa sono molteplici, e appaiono in linea con la sua produzione teorica precedente, come quando – emancipandosi dall’antropocentrismo stoico – afferma l’esigenza di estendere il riconoscimento della dignità a tutti i senzienti. O come quando, arricchendo la lista delle capacità umane che a suo giudizio dovrebbero essere garantite universalmente, confida che sia possibile trovare un consenso per intersezione con qualsiasi cultura. A ogni modo, le pagine più interessanti dell’ultimo lavoro concernono la società internazionale. Considerati i deficit delle organizzazioni sorte in seguito al secondo conflitto mondiale, lungi dall’autrice prospettare soluzioni radicali come la costituzione di un governo planetario, del tutto irrealistico, o auspicare nel breve periodo che i diritti umani vengano riconosciuti e garantiti ovunque allo stesso modo. «La società internazionale rimane soprattutto un ambito di persuasione morale, e solo in rari casi diventa una vera e propria sfera politica. Ma ciò non significa che il processo di creazione e ratifica dei documenti sia inutile: esso genera un senso di solidarietà e di finalità comune, creando le premesse per l’emergere di potenti movimenti transnazionali capaci di influenzare le politiche nazionali» (p. 195). Senza impegnarsi in progetti irrealistici dal punto di vista istituzionale, Nussbaum intende riattualizzare il cosmopolitismo stoico, provando a conciliarlo con il principio della sovranità nazionale. Una prospettiva equilibrata, si direbbe, che ricorda quella di Grozio. Leggendo tra le righe, si viene però a scoprire che è solo la sovranità democratica a meritare considerazione morale, sebbene l’autrice eviti di esplicitarne le conseguenze. Ove si verifichino violazioni dei diritti umani, si deve quindi ritenere legittimo l’intervento umanitario? Nei casi estremi, sembrerebbe di sì. Ma non è affatto chiaro quali soggetti istituzionali dovrebbero farsene carico, se le sole organizzazioni internazionali, che però non sembrano godere dell’autonomia necessaria, o addirittura ogni stato moralmente ispirato. Fatta eccezione per il primo interrogativo, l’autrice non fornisce le doverose spiegazioni, preferendo rimanere sul piano dei principi: inutile rilevare che si tratta però di questioni ineludibili, impossibili da accantonare, e che rappresentano il banco di prova di ogni cosmopolitismo davvero conseguente.

Martha Nussbaum. La tradizione cosmopolita. Un ideale nobile ma imperfetto
Martha Nussbaum - fotografia di Jeff Brown per The New Yorker

Sulla scorta di Grozio e Smith, Nussbaum insiste poi sulla necessità dell’aiuto materiale alle nazioni sottosviluppate. Ma anche in questo caso, sebbene le dichiarazioni di principio siano più che condivisibili, a colpire è soprattutto l’afflato normativo. Da notare per inciso come l’autrice rifugga da ogni analisi vagamente strutturale del sistema economico mondiale: la prospettiva rimane individualista, incentrata sulla distinzione manichea tra paesi ricchi, i quali avrebbero il dovere morale di condividere parte delle loro risorse, e paesi poveri, bisognosi del soccorso internazionale. Per quanto animato dalle migliori intenzioni, il suo monito presenta almeno due problemi. Da un punto di vista geopolitico, è chiaro che dietro agli aiuti economici si celano molto spesso i disegni imperiali delle grandi potenze, le uniche peraltro a poter elargire risorse significative in mancanza di istituzioni internazionali indipendenti a livello finanziario: la generosità ha valore in quanto tale, certo, ma rappresenta anche una forma particolarmente subdola di esercizio del potere. Nussbaum questo lo sa bene, ma tale consapevolezza non mette capo a una seria problematizzazione degli aiuti all’estero, di cui la filosofa si limita a sostenere l’assoluta necessità morale.[1] Inoltre, per venire al secondo punto, non sembra che la proposta di Nussbaum riesca davvero a emanciparsi dall’accusa di paternalismo, nonostante i molteplici tentativi profusi in tal senso. Ammesso infatti che i paesi ricchi abbiano il dovere d’intervenire a favore di una maggiore eguaglianza planetaria, e che riescano a farlo in modo equamente distribuito, che cosa dovrebbero fare nel frattempo quelli poveri? L’interrogativo è di quelli cruciali, considerando che il saggio ha rivendicato a chiare lettere il diritto universale a un’esistenza dignitosa. Al quietismo, obiettivamente inaccettabile, sembrano profilarsi tre alternative fondamentali. La prima alternativa è rappresentata dalla migrazione economica verso le aree del pianeta più sviluppate, una possibilità che Nussbaum ritiene vada garantita, ed entro certi limiti anche implementata, ma pur sempre nel rispetto delle sovranità nazionali dei paesi ospitanti, che legittimamente pretendono di governare i flussi: il bilanciamento tra accoglienza e protezione, maggiore o minore inclusività delle politiche migratorie, viene quindi rimesso ai singoli governi. Un altro scenario è rappresentato dalla ripresa del conflitto – variamente inteso, anche in senso bellico – contro i paesi ricchi sfruttatori di risorse, uno scenario che però l’autrice neanche prende in considerazione, non fosse altro che per le evidenti difficoltà a ricomprenderlo in una visione morale della politica. Infine, rimane pur sempre aperta la via tracciata dagli stoici, i quali raccomandavano il distacco e l’indifferenza nei confronti dei beni materiali come viatico per la serenità dell’animo: una possibilità che Nussbaum come abbiamo visto rifiuta a livello individuale, e tanto più a livello collettivo. Alle nazioni povere non resta dunque che continuare a fare quello che hanno sempre fatto, tentare cioè di sopravvivere alle dure regole del mercato mondiale varando riforme in grado di stimolare la crescita economica, nella speranza che la comunità internazionale, a cui nello specifico Nussbaum indirizza il suo messaggio, intervenga con politiche di solidarietà.

Che cosa dire, in conclusione? Stimolante per i temi affrontati, indubbiamente di grande attualità, oltre che per l’originale rilettura di Cicerone, Grozio e Smith, il saggio di Nussbaum apre forse più questioni di quante non riesca a risolverne. Se alcune tesi di fondo risultano convincenti, come l’equiparazione tra doveri di giustizia e doveri di aiuto materiale, o il superamento dell’orizzonte antropocentrico nella direzione di un riconoscimento trasversale della dignità, la sua proposta normativa sconta però tutti i limiti della teoria morale, in un certo senso inevitabili. Senza prospettare una futura Cosmopolis, Nussbaum non auspica neanche un ritorno unilaterale alle sovranità nazionali: in quella terra di nessuno, in effetti la sola terra a nostra disposizione, esitiamo tuttavia ad affidarci alla sua bussola.


Note

[1] «Chi sostiene queste tesi è sicuramente ispirato dalle migliori intenzioni, ma rischia di limitarsi a una esibizione di scrupoli morali. Ciò che questi autori sembrano ignorare è che le società moderne sono caratterizzate da una netta differenziazione funzionale fra il codice politico e il codice delle interazioni personali» Zolo D., (1995). Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale. Milano: Feltrinelli, p. 92.

di Michele Gimondo

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