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A lungo trascurato in patria, grazie al grande successo internazionale Giorgio Agamben è oggi oggetto anche in Italia di una serie di recenti studi e pubblicazioni. L’ultimo esempio ne è il libro di Ermanno Castanò Agamben e l’animale (Novalogos, 2018), che segue di pochi mesi quelli di Riccardo Panattoni (Giorgio Agamben, Feltrinelli, 2018) e Flavio Luzi (Quodlibet. Il problema della presupposizione nell’ontologia politica di Giorgio Agamben, Stamen, 2017), e di un paio d’anni il volume collettaneo curato da Antonio Lucci e Luca Viglialoro (La vita delle forme, Il nuovo melangolo, 2016). Tutti questi studi scelgono un angolo particolare da cui leggere e analizzare la produzione agambeniana, e quello scelto da Castanò è la questione dell’animale, o, meglio, dell’essere umano come “animale politico”. E tuttavia questa non è semplicemente una delle tante possibili prospettive di analisi, perché Castanò mostra bene come la questione dell’animalità (umana) non sia solo un “problema di fondo della nostra cultura” (pag. 7), ma anche uno dei cardini – se non quello principale – attorno a cui ruota l’intera opera di Agamben, da L’uomo senza contenuto del 1970 fino alla conclusione della serie “Homo sacer” nel 2014 e agli ultimi libri. Quindi leggere Agamben alla luce della questione dell’animale significa ripercorrere tutta la sua vasta produzione svelandone e illuminandone l’intenzione unitaria che ne tiene insieme le varie fasi, che è quella di pensare l’essere umano al di là della frattura metafisica che lo separa dalla (propria) animalità.

Il metodo adottato da Castanò è semplicemente quello di analizzare, prima cronologicamente e poi strutturalmente (nel caso della serie “Homo sacer”) tutte le varie opere del filosofo romano per mostrare come questa questione ne strutturi sempre, ancorché in modi diversi e assai spesso in tono minore, l’interrogazione filosofica. Il risultato è un corposo studio che, per quanto esplicitamente non si voglia come “un’ennesima introduzione” (pag. 10), in pratica è senza dubbio a oggi la più completa e dettagliata introduzione in italiano alla filosofia di Agamben, in quanto ne analizza a fondo e in dettaglio tutte le opere principali (e molte di quelle meno lette e analizzate), le intenzioni e le influenze filosofiche, e le problematiche fondamentali. L’intenzione primaria di ricondurre il pensiero di Agamben alla questione dell’animale non risulta affatto una forzatura, perché è innegabile che fin dai suoi primi scritti alla fine degli anni Sessanta – senza dubbio sulla scorta di Heidegger – la domanda che guida Agamben è quella sulla relazione, nelle definizioni aristoteliche dell’umano, tra zoon e logos, tra animalità e razionalità/linguaggio, che è inscindibile da quella tra l’animale umano e la sua politicità. Inoltre, l’animalità che interessa ad Agamben è (per lo più) quella umana, e la questione stessa in fondo rimane, anche nello studio di Castanò, assai spesso in secondo piano e quasi in filigrana: è una sorta di corrente sotterranea che sostiene le varie analisi dell’estetica, della storia, e della politica, tutte comunque riconducibili alla grande questione della metafisica e del suo superamento.

Castanò mette bene in evidenza come la struttura portante della metafisica sia per Agamben quella di una cesura, di una separazione tra un sostrato inconoscibile e innominabile che va a fondo (di volta in volta la voce animale, la physis, la natura, la vita naturale, l’animalità, ecc.), per sostenere in questo modo l’emergere di una “sostanza” conoscibile e nominabile (il logos, il nomos, la cultura, la vita “politica”, l’umanità…). E questa struttura presupponente sostiene, più o meno chiaramente, tutte le analisi svolte già fin da L’uomo senza contenuto. Quindi anche quando, come in tutta la prima fase del suo pensiero (almeno fino a La comunità che viene, 1990), Agamben si concentra principalmente sulla questione del “linguaggio”, lo fa analizzandolo nella sua contrapposizione al sostrato materiale e innominabile della vita e della “voce” animale. È innegabile che Agamben appartenga a una tradizione fortemente antropocentrica, ed è facile isolare l’eccezionalismo umano nelle sue tante (e tradizionali) contrapposizioni tra l’animale e l’umano (“a differenza degli altri animali, l’uomo è l’unico che…”). Ma è anche indubbio che nel suo pensiero – e questo fin dall’inizio – la questione del logocentrismo (e sul linguaggio Agamben metterà sempre una grande enfasi) non è tanto un presupposto quanto precisamente il problema da analizzare e affrontare, e che il superamento della metafisica da lui sempre auspicato comporta il superamento di questa frattura e di questa contrapposizione.

La questione dell’animale acquista ovviamente più centralità con il progetto “Homo sacer”, la cui protagonista è proprio la vita nella sua contrapposizione alla sovranità o al potere. La scissione metafisica strutturale qui si incarna nello sdoppiamento semantico originario tra zoè e bios, che ricalca in ultima istanza la frattura tra animalità e umanità. Uno dei grandi meriti di Castanò è di mostrare che la famigerata “nuda vita” è proprio il prodotto di questa frattura in tutte le sue varie manifestazioni (mentre molte interpretazioni la confondono ancora con la zoè), e che l’eccezione che caratterizza la sovranità e il potere non è che l’esplicitazione della struttura metafisica che informa ogni aspetto della tradizione occidentale. Dopo una lunga analisi di tutte le opere che lo precedono (cronologicamente e poi logicamente), Castanò arriva allo snodo fondamentale del suo libro, che è anche il suo contributo più originale e incisivo: l’analisi e la rivalutazione di Quel che resta di Auschwitz (1998), il volume III del progetto “Homo sacer” e il libro più criticato e frainteso di tutta la serie – e dell’intera produzione di Agamben. Probabilmente questa lettura è divenuta possibile solo dopo la conclusione dell’intero progetto, ma dalla nostra prospettiva ex post la rilettura dell’opera diventa necessaria e centrale: la funzione di questo libro, che fa da “soglia” tra la pars destruens dei volumi I e II e quella construens del volume IV, è quella di mostrare il funzionamento della “macchina antropologica” in tutta la sua mortifera purezza, e cioè nel tentativo di separare e purificare, nel campo nazista, l’uno dall’altro i due termini della frattura metafisica originaria, l’umano e il non-umano. Auschwitz è il culmine della metafisica, e qui la sua struttura emerge in modo paradigmatico – da qui la centralità di questo libro.

Nel 2002 Agamben pubblica poi un pendant al libro su Auschwitz, che insieme a esso dev’essere letto: L’aperto. L’uomo e l’animale, l’unico esplicitamente dedicato alla questione dell’animale. Castanò mostra bene come questo libro, che non fa ufficialmente parte della serie “Homo sacer” e, a differenza di altre opere di Agamben, non ha suscitato grande interesse o grandi dibattiti (con eccezione degli animal studies), non è una “trascurabile divagazione da un percorso che si muove altrove” (pag. 197), ma fornisce anzi un’importante chiave di lettura per interpretare tutta la filosofia agambeniana: se la frattura fra l’umano e l’animale costituisce la chiave di volta dell’intera metafisica occidentale, allora interrogarsi su questa questione – questa è la tesi portante de L’aperto, e quindi anche del libro di Castanò – è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni della politica, dell’etica, della storia. L’aperto fornisce anche un ponte per passare alla pars construens del volume IV, ribadendo (giacché questo è da sempre uno dei cardini della filosofia di Agamben) che il superamento della metafisica con la sua frattura presupponente consiste in un “arresto” della macchina, in una deposizione o dèsoeuvrement dei suoi dispositivi, che li aprirà a un nuovo “uso”.

Tutta la teorizzazione della “forma-di-vita” nel volume IV di “Homo sacer” è quindi un ripensamento della frattura metafisica originaria e della questione dell’animalità. Una precisazione importante emerge, a questo proposito, dalla lettura di Castanò: la caratteristica portante della “forma-di-vita” per Agamben è la potenzialità, essa è cioè un “essere di potenza”, che sfugge a qualsiasi destino storico o biologico; questa struttura sembrerebbe ricalcare la tradizionale frattura tra l’animale e l’umano, dove quest’ultimo, a differenza del primo, è “senza rango” (nelle parole di Pico della Mirandola), è cioè libero dalle costrizioni meccanicistiche che imprigionano invece l’animalità. Potrebbe sembrare, così, che alla fine la proposta soteriologica di Agamben non riesca a sfuggire al tradizionale eccezionalismo umano della metafisica occidentale; e tuttavia la potenzialità della forma-di-vita consiste proprio nella disattivazione di questa struttura e di questa frattura, che imprigiona sia l’umanità che l’animalità in un perenne e mortifero “stato di eccezione”. Il pensiero della forma-di-vita è quindi volto non solo a una ridefinizione dell’umanità, ma anche dell’animalità, o meglio della relazione (e non separazione) tra le due.

Agamben ha, non tanto concluso quanto piuttosto (nelle sue parole) “abbandonato” il progetto “Homo sacer”, affinché questo possa essere forse continuato da altri e in altri modi. Il volume di Castanò è un primo passo, sistematico e introduttivo, che pone le basi per questa possibile continuazione; esso mostra, a partire da Agamben, che la filosofia che viene dovrà essere una filosofia dell’animalità.

di Carlo Salzani

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