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Philosophy Kitchen

9788891173065gDifferenti ripetizioni. Pensare con Deleuze (Kaiak Edizioni, 2015), titolo dal sapore ossimorico con cui Fabio Treppedi ci inizia al suo atletismo filosofico, è – letteralmente – quel pre-testo avant coup con cui l'autore anticipa il movimento, a suo dire dialettico, del filosofo nell'immagine del pensiero e, qui più nello specifico, nell'immagine del pensiero di Gilles Deleuze. Da una parte, in qualità di studioso di Deleuze, Treppiedi, insieme ai suoi colleghi “nativi deleuziani” – come li definisce in prefazione Paolo Vignola[1] - si trova specchiato in un'immagine di Deleuze che non può che essere infarcita di cliché, significata e pregiudicata dalle molteplici interpretazioni che, a partire dall'attività in vita del filosofo francese sino agli studi contemporanei sulla sua proposta filosofica, sono andate (pre)confezionandola; dall'altra parte, lo sforzo filosofico di Treppiedi, consapevole del potere di attrazione-aderenza esercitato dall'immagine – non meno da quella di un Deleuze-feticcio acriticamente idolatrabile – , consiste nel considerare l'“immagine-Deleuze” par Spinoza, ossia come una potenza o, in altri termini, come un modo di fare filosofia che, lungi dal sacrificare la storia della filosofia, la fa deragliare nel suo fuori (quello che nell'inquadratura cinematografica è il fuori campo come impensato nel pensiero, secondo il Deleuze studioso di cinema). Si tratterebbe, dunque, di esaminare cosa può l'“immagine-Deleuze” all'interno della filosofia contemporanea (anche verso e versus Deleuze), partendo dall'analisi di cosa può l'immagine del pensiero tout court – operazione, quest'ultima, che Treppiedi compie nel primo capitolo del libro (L'immagine del pensiero, pp. 35-46).

Seguendo Treppiedi, secondo il quale l'immagine del pensiero è per Deleuze il problema della filosofia, quell'istanza paradossale su cui essa si (fa) sistema (cfr. pp. 36-37), forse si potrebbe  inquadrare Differenti ripetizioni mettendo a fuoco il suo fuori campo; in altre parole, si potrebbe problematizzare il testo di Treppiedi (peraltro composto “per piani”, e non piuttosto “ad albero” genealogico, nella misura in cui vi confluiscono interventi preparati per occasioni a se stanti) facendolo deragliare nel suo fuori: vale a dire, la prefazione di Vignola (Lo specchio di Deleuze, pp. 9-25), e l'appendice, posta solo apparentemente in chiusura, che contiene Una conversazione con Silverio Zanobetti (pp. 89-99).

Concatenando gli interventi dei “nativi”, Zanobetti incluso, si ottiene una panoramica del Deleuze “di nuova generazione”, che rientra pienamente nella terza delle tre fasi descritte da Treppiedi in cui si suddivide la ricezione italiana del filosofo di Logica del senso. Tale fase, che Vignola ritiene operante secondo tre tendenze – trasduttiva, disparativa e adottiva – sembrano coesistere nel pensiero di Treppiedi, di cui Zanobetti mette in evidenza una formazione da storico della filosofia in ragione della quale egli interpreta lo stesso Deleuze come un vero e proprio “classico”.

fAw0KrwlUBM4BUlCcgE3ijl72eJkfbmt4t8yenImKBVvK0kTmF0xjctABnaLJIm9Se Differenti ripetizioni può essere sentito come «un sintomo dello stato dell'arte relativo agli studi deleuziani» (p. 13), è proprio perché sulla base dei suoi studi storico-filosofici, il suo autore ha comunque saputo abbandonare la tentazione dell’interpretazione “purista”, aprendosi alle altre tre attività: a quella trasduttiva, per la quale l'armamentario concettuale deleuziano viene deterritorializzato dall'ambito della filosofia in senso stretto e riterritorializzato altrove (si colloca qui il secondo capitolo del libro, Il gesto del filosofo [pp. 45-54], che gioca sul divenire Deleuze-Bene, contaminando filosofia e teatro); a quella disparativa, tale per cui la filosofia di Deleuze viene approfondita alla luce delle discipline e degli autori a lui contemporanei (nel quarto capitolo, Desiderio e potere [pp. 63-74], Treppiedi allea Deleuze, Guattari e Foucault in una strategica biopolitica dell'inconscio, mostrando la possibilità di un inconscio immanente che, in momenti di estrema tensione, sfugge al controllo della società che lo ri-teneva impossibile); a quella adottiva, in cui l'autore presenta un Deleuze inaudito, avanzando ipotesi interpretative perlopiù stranianti, volte a dinamizzare e ri-discutere il suo stesso pensiero. E' forse questa la disposizione dell'autore più incisiva, che innerva l'intero testo; essa si individua più precisamente nel primo capitolo, in cui viene sostenuta la tesi della vocazione dialettica di Deleuze, avente i suoi germi teorici nel terzo capitolo di Differenza e ripetizione, espressa da quell'eterno ritornare dal problema al concetto e dal concetto al problema: una vocazione in ultima analisi pura, perché si inscrive nella metafisica deleuziana, che nel terzo capitolo (Empirismo trascendentale, pp. 55-62) viene «intesa come un iper-razionalismo, radicato nei problemi dell'esperienza, della materia e dell'immanenza» (p. 55).

Si fluisce, così, nel quinto capitolo, Un puro metafisico (pp. 75-85), dove viene riportata l'affermazione di Deleuze “je me sens pur métaphysicien” (schizoanaliticamente: “Sento che divengo metafisico puro”), sviluppata, attraverso l'empirismo superiore di Bergson, come una metafisica critica, capace di operare metodicamente con un bisturi di precisione intuitiva sulle cose stesse, sui dati in cui il soggetto si costruisce, e capace di cucire ad hoc, di volta in volta, un concetto che faccia da vera e propria cassa di risonanza dell'intensità del sentiendum che ci fa segno nell'incontro immediato con l'esperienza reale.

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L'eredità deleuziana, il suo lascito anorganico che può fare da preindividuale alle nuove generazioni, è, sembra dirci Treppiedi, l'idea di una “filosofia del gesto”, nell'approccio sia alla filosofia stessa, sia a quella dei filosofi classici. Il gesto del filosofo, che Treppiedi via Carmelo Bene declina come “gesto Lorenzaccio”, è al contempo rispettoso e spergiuro (rispettoso nella misura in cui è spergiuro): è, quindi, il gesto dell'apprendista, figura che ricorre nel terzo capitolo di Differenza e ripetizione. Proprio come il Lorenzaccio del racconto omonimo, o come il (non)attore protagonista di Nostra Signora dei Turchi, sono consapevoli che per venir meno alla rappresentazione (ripetizione) del personaggio è necessario sottoporsi a una “ginnastica ritmica della deficienza”[2], analogamente il filosofo, eterno apprendista, per evitare di ripetere a pappagallo il personaggio (il “grande” filosofo di turno) sa che può prenderlo a maggior ragione sul serio de-pensandolo, facendogli sperimentare un divenire-minoritario contro l'immagine maggioritaria che lo fotografa nei manuali (a “gesto Lorenzaccio” come pars destruens segue pertanto un “gesto Mercuzio” come pars costruens)[3]. Come a dire: dall'immagine del pensiero non si esce se non problematizzandola al suo interno, se non in una certa misura falsificandone la buona volontà che, da cliché platonico, “da sempre” la indirizza al Vero come dogma indiscutibile.

Se, quindi, la filosofia fa coppia con Thanatos, essendo inseparabile da una tendenza criticamente distruttrice, lo fa positivamente, al fine di affermare la ripetizione, che è la ripetizione del cominciamento del pensiero. Ben venga, allora, la coazione a ripetere, a patto di concepirla come il frutto involontario di un incontro intempestivo, “spiacevole” e “negativo” solo in quanto disturba la piroette armoniosa delle facoltà – sulla quale, del resto, ben si ricalca l'immagine nella filosofia come circolo – orchestrate dal quadruplice senso comune kantiano.

Contro una certa aderenza accademica dello storico della filosofia che, nello spiegare i filosofi, intende porre l'accento sul vero della loro filosofia nel rispettivo contesto storico di ognuno, le Differenti ripetizioni di Treppiedi possono fungere da pharmakon per una nuova generazione de-genere (ripetendo Carmelo Bene), di cui sono il sintomo.

 

 

[1]Il riferimento è all'idea di Vignola di «tentare di proseguire, nei confronti di Deleuze, quello che lo stesso filosofo si era proposto, ossia far dire a un autore quello che non aveva detto. Perché, allora, non poter immaginare un Deleuze calvo (Foucault)? Oppure franco-algerino (Derrida)?» (cit. p. 12), sulla scia di Deleuze che in Differenza e ripetizione proponeva «un Hegel filosoficamente barbuto, un Marx filosoficamente glabro così come si pensa a una Gioconda baffuta» (cfr. Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 4. Citazione dell'autore). Risponde, del resto, ai medesimi intenti il rimando di Treppiedi alle “mostruosità” fatte partorire dai filosofi dietro la “spinta” di Deleuze, che nella Lettera a un critico severo ammette: «il mio modo di cavarmela, a quell'epoca, consisteva soprattutto, almeno credo, nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e di fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso» (cfr. G. Deleuze, Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 14).

[2]C. Bene, Nostra Signora dei Turchi, in Opere, Bompiani, Milano 2008, p. 54.

[3]Rimandiamo all'analisi condotta da Deleuze sul Romeo e Giulietta di Carmelo Bene in Un manifesto di meno (trad. it. di J-P. Manganaro), in C. Bene - G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002, pp. 85-86.

 

di Giulia Gottardo

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